dall' inviato Mauro Suttora
Pechino, (Cina), 6 agosto 2008
Ci siamo. È arrivato il 08.08.08, data simbolica che i cinesi hanno scelto per l’inizio della 29esima Olimpiade moderna. L’otto qui è considerato un numero fortunato, quindi anche la cerimonia d’inaugurazione comincia alle otto di sera. Per sedici giorni Pechino è sotto gli occhi del mondo, e come tutti i regimi autoritari la Cina ha trasformato questo avvenimento in una grande occasione di orgoglio patriottico.
I cinesi possono in effetti essere fieri dei successi economici ottenuti negli ultimi decenni, che hanno trasformato il vecchio Paese comunista in una superpotenza industriale. Ma il boom è avvenuto a spese dell’ambiente: oggi Pechino è avvelenata dall’inquinamento. E la liberalizzazione economica non ha portato democrazia: le libertà elementari (di parola, stampa, riunione, manifestazione, voto) sono ancora sconosciute in Cina.
Detto questo, che la festa dello sport cominci. E aspettiamoci due settimane di spettacoli avvincenti, con i migliori campioni del pianeta che si sfidano allo spasimo. Non c’è record del mondo, infatti, che valga quanto una medaglia d’oro olimpica.
Quali atleti passeranno alla storia grazie a questi giochi? Chi saranno i Mennea e i Mark Spitz di Pechino? Negli ultimi due mesi vi abbiamo presentato i nostri campioni, probabili candidati italiani al podio olimpico: dalle ragazze della ginnastica ritmica alla pingponghista italocinese Wen-ling, dalla canoista Josefa Idem ai nuotatori Magnini e Pellegrini, da Valentina Vezzali e Aldo Montano (scherma) ai ginnasti Igor Cassina e Vanessa Ferrari, fino ai judoisti Ylenia Scapin e Roberto Meloni. Oltre, naturalmente, alle celebrità Antonio Rossi (il canoista portabandiera), il ciclista Paolo Bettini, Tania Cagnotto (tuffi), le veliste Conti e Micol, il saltatore in lungo Andrew Howe, Matteo Tagliariol (spada), lo sciabolatore Luigi Tarantino, il pugile Roberto Cammarelle. E le squadre femminili di pallanuoto e pallavolo.
Queste sono le superstelle italiane. E quelle internazionali? L’atletica leggera resta la regina delle Olimpiadi. Le sue gare iniziano solo nella seconda settimana, a Ferragosto. Nei 100 metri maschili ci sarà un duello a tre: i giamaicani Usain Bolt, 22 anni (che due mesi fa ha stabilito il nuovo record mondiale con 9”72) e Asafa Powell, 25 (record precedente, ottenuto a Rieti lo scorso settembre), contro lo statunitense Tyson Gay, 25. Tre impressionanti macchine da corsa, fasci di muscoli allo stato puro, che però dovranno stare attenti anche al lato psicologico. Alle Olimpiadi di Atene nel 2004, infatti, Powell arrivò solo quinto nonostante fosse superfavorito.
Una beniamina del pubblico italiano è diventata la saltatrice con l’asta russa Elena Isinbaeva, 26 anni. Prima donna nella storia a volare oltre i cinque metri, lo scorso 11 luglio ha incantato gli spettatori dello stadio Olimpico a Roma superando se stessa. Ha infatti portato il nuovo record mondiale a 5,03. È la ventesima volta che migliora il suo primato: nel 2003 era ancora a 4,82. Prima di ogni salto compie strani riti per concentrarsi: si sdraia, si copre il viso con una salvietta. Poi, quando ha già in mano l’asta, mormora parecchie parole che nessuno è finora riuscito a decifrare. «Non ve le dirò mai, è il mio segreto», dice.
Un’altra leggenda del salto (in alto) è la dalmata Blanka Vlasic, nata a Spalato 24 anni fa. Praticamente un mostro: ha vinto tutte le ultime trenta gare cui ha partecipato. Alta 1 e 93, è allenata dal padre. Purtroppo se l’è trovata sulla sua strada la nostra Antonietta Di Martino, che nonostante sia alta 1 e 69, cioè ben 24 centimetri meno della gigantesca croata, l’anno scorso ai mondiali di Osaka è finita seconda dietro di lei saltando due metri e tre. La Di Martino è nata nel ‘78: esattamente quando Sara Simeoni stabilì il record italiano di 2,01 che ha resistito fino all’anno scorso, per quasi trent’anni, fino ad Antonietta. La quale però negli ultimi tempi è apparsa un po’ appannata rispetto alla scorsa fantastica stagione.
I record del salto in alto femminile sono tutti assai duraturi. Forse siamo arrivati quasi al massimo delle capacità umane. Chissà se a Pechino Blanka riuscirà a battere quello mondiale di 2,09, che resiste da ben ventun anni: lo stabilì la bulgara Stefka Kostadinova a Roma nei mondiali dell’87.
Sempre in tema di record, sarà interessante seguire le imprese del cavaliere giapponese Hiroshi Hoketsu. Non a Pechino, perché tutte le gare di equitazione si svolgono a Hong Kong. Hoketsu è il «nonno» delle Olimpiadi: ha 67 anni, non c’è atleta più vecchio di lui. Partecipò ai giochi di Tokio del ‘64, senza per la verità brillare: finì quarantesimo nel salto a ostacoli. Ora è passato al più tranquillo dressage.
Non è comunque il concorrente più anziano nella storia delle Olimpiadi: il tiratore svedese Oscar Swahn aveva ben 72 anni quando vinse l’argento ad Anversa nel 1920.
Tom Daley è invece la superstar più giovane di questi Giochi. Ha compiuto 14 anni a maggio, e ciononostante potrebbe salire sul podio nei tuffi dalla piattaforma. Nel 2006 fu escluso dai Giochi del Commonwealth perché era troppo piccolo. Ancora cinque anni fa scoppiava a piangere dalla paura quando doveva tuffarsi all’indietro dai dieci metri. Ora invece gareggia con disinvoltura, e dedica le sue vittorie al papà, un elettricista che ha dovuto smettere di lavorare due anni fa per un tumore al cervello.
Il re delle piscine mondiali è indiscutibilmente Michael Phelps. Il fenomeno statunitense vuole battere il record di Spitz a Monaco ‘72, conquistando una medaglia d’oro in più delle sue sette. Per questo gareggia nei 200 e 400 misti, nei 100 e 200 farfalla, nei 200 stile libero e in tre staffette.
Questo 23enne di Baltimora conquistò il suo primo record mondiale nei 200 farfalla nel 2000, ad appena 15 anni. Ad Atene vinse sei ori e due bronzi. Il suo tallone d’Achille è lo stile libero, e nella staffetta mista qualche suo concorente ha protestato perché preferiscono lui ad altri più bravi, solo per permettergli di gareggiare in otto specialità. Otto medaglie in una sola Olimpiade comunque le aveva vinte solo un ginnasta russo nel 1980, quando però i Giochi di Mosca furono boicottati da Stati Uniti, Germania Ovest e altri 58 Paesi occidentali e musulmani per protesta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan.
Quest’anno la Cina mira a superare gli Stati Uniti nel medagliere. L’atleta cinese più famoso nel mondo è Yao Ming, gigante 27enne alto 2,29 per 134 chili di peso, che gioca nella squadra di basket americana di Houston. Guiderà i cestisti cinesi contro lo squadrone statunitense, superfavorito e soprattutto spinto dalla voglia di cancellare la figuraccia rimediata ad Atene quattro anni fa (bronzo dietro ad Argentina e Italia).
Anche nella squadra di pallacanestro Usa spiccano personaggi celebri in tutto il pianeta, come Kobe Bryant. Ormai trentenne, il campione dei Los Angeles Lakers è da anni il miglior cestista mondiale. Parla perfettamente l’italiano perché è cresciuto in Italia, quando suo padre giocava nel nostro campionato. Nel 2003 fu accusato di stupro da una 19enne, ma alla fine è stato assolto perché lei era consenziente.
Sempre nel campo degli atleti professionisti pagati milioni di euro (in barba alla regola olimpica del dilettantismo), spiccano i nomi dei tennisti. Nel maschile sarà una questione fra lo svizzero Roger Federer, lo spagnolo Rafael Nadal e il serbo Novak Djokovic. E anche le favorite donne ricalcano le classifiche internazionali, come se fossimo a Wimbledon: le serbe Ana Ivanovic e Jelena Jancovic, e le sorelle Williams che gareggeranno anche nel doppio per gli Usa.
Il calcio, infine. Lo sport più popolare del mondo non può mancare dalle Olimpiadi, il torneo è cominciato due giorni prima della cerimonia d’apertura, si svolge in varie città della Cina (anche Shangai) ed è quello che dura di più: per la finale occorre attendere il 23 agosto. Ma anche qui c’è un grosso equivoco. Alcune squadre sono zeppe di professionisti, mentre altre (come l’italiana Under 23) mandano compagini minori. Ci saranno i milanisti Ronaldinho e Pato per il Brasile, ci sarà la superstar del Barcellona Lionel Messi per l’Argentina. L’Italia punta egualmente in alto. Ma finora abbiamo vinto solo nel 1936, a Berlino. Peggio di noi solo il Brasile: i cinque volte campioni del mondo non hanno mai conquistato un oro olimpico.
Mauro Suttora
Friday, August 08, 2008
Monday, August 04, 2008
Olimpiadi: ginnastica ritmica
LE FARFALLE DELLA GINNASTICA SIAMO NOI
La squadra vola in Cina a inseguire una medaglia
di Mauro Suttora
Roma, 30 luglio 2008
Siccome Desio sta in provincia di Monza, la battuta viene fuori spontanea anche se scontata: «Siete un po’ come delle monache...» Nel qual caso la badessa sarebbe Emanuela Maccarani, 41 anni, da dodici allenatrice della squadra nazionale di ginnastica ritmica. Che dal 2003 ha vinto tutto il vincibile: «Quarantun medaglie fra olimpiadi, campionati mondiali ed europei, coppe del mondo».
Dieci ragazze dai 16 ai 23 anni vivono assieme tutto l’anno nell’hotel Selide di Desio e si allenano ogni giorno nel palasport per otto ore. «Quattro al mattino e quattro al pomeriggio», dice l’allenatrice. E se qualche mattino volteggiano solo per tre ore, al pomeriggio si recupera: cinque ore. Ma perché proprio Desio? «Perché ha un palasport bellissimo che ci dà la possibilità di allenarci tutto il giorno».
Disciplina ferrea dal 2001, quando iniziò la residenza permanente in Brianza. Sotto la guida della Maccarani, delle sue assistenti (la chietina Eva D’Amore, la bergamasca Valentina Rovetta), della coreografa Nathalie Van Cauwenberghe e della direttrice nazionale Marina Piazza. D’estate il gineceo si trasferisce a Follonica (Grosseto), ma i ritmi restano gli stessi.
Anche le ragazze sono le stesse da molti anni. Le veterane sono «le due Elise», come le chiama l’allenatrice: la capitana Santoni di Roma e la Blanchi da Velletri (Roma), entrambe ventenni. Anche Marinella Falca, 22, da Giovinazzo (Bari) è in ritiro permanente a Desio da sette anni. Completano la squadra titolare Fabrizia D’Ottavio (Chieti) e Daniela Masseroni da Trescore Balneario (Bergamo), entrambe 23enni. Infine la new entry Angelica Savrayuk, 18, da Arezzo.
Alle olimpiadi di Atene, quattro anni fa, hanno entusiasmato l’Italia vincendo l’argento. A Pechino la squadra da battere sarà sempre la Russia. «Ma temiamo anche Bielorussia, Bulgaria, e le cinesi che gareggiano in casa», dice la Maccarani.
Partono per la Cina il 12 agosto, dopo la cerimonia d’apertura, perché le loro gare iniziano solo il 21 agosto (esibizione con le funi), per poi proseguire con i cerchi e infine il 23 le finali con le migliori otto squadre (su solo dodici ammesse).
La ginnastica ritmica è stata introdotta da poco nelle Olimpiadi: le prime gare individuali a Los Angeles nel 1984, le squadre ad Atlanta nel ’96. Ma la popolarità è in crescita, perché le esibizioni sono spettacolari: un misto fra ginnastica, danza e pattinaggio su ghiaccio. Ogni esercizio dura due minuti e mezzo, e lì dentro finiscono gli sforzi di una vita.
Ai campionati europei di Torino, in giugno, è andata molto bene. Era la prima volta dopo 22 anni che un evento internazionale si svolgeva in Italia, e il palasport era pieno: ottomila spettatori che si sono messi a fare la ola quando le nostre «farfalle azzurre» hanno vinto l’oro alle cinque funi e l’argento, dietro alla solita Russia, ai cerchi e clavette.
Un successo di pubblico che ha avuto una ripercussione anche sul piccolo schermo: il campionato trasmesso di pomeriggio su Raitre ha avuto un milione e 300 mila spettatori con il 14 per cento di share. Il doppio di altri sport e perfino più di certe gare di ciclismo, il tutto per la felicità del presidente di Federginnastica Riccardo Agabio.
Ma chi sono le nostre sei campionesse, che a Pechino volteggeranno accompagnate dalla musica di due colonne sonore (Blood Diamonds, il film con Leonardo DiCaprio, e Il Gladiatore)?
La popolarità della romana Elisa Santoni l’abbiamo saggiata in un afoso pomeriggio domenicale di giugno nel palasport della sua città, quello costruito al Flaminio per le olimpiadi del 1960 dall’architetto Pierluigi Nervi. La squadra nazionale si esibiva alla festa di fine anno della squadra di ginnastica Polimnia, e centinaia di ragazzine urlanti applaudivano dagli spalti.
Elisa, cosa fai nel convento... pardon, nel collegio di Desio, durante il tempo libero? «Ascolto le canzoni di James Blunt, leggo i libri di Dan Brown e Coelho. E studio: sono iscritta al primo anno di Scienza delle comunicazioni all’università di Bergamo, anche se finora sono riuscita a dare solo un esame».
Tutte le ginnaste maggiorenni dall’anno scorso sono state arruolate nell’Aeronautica militare, con il grado di «aviere scelto». Il che, in concreto, significa due cose: ricevere uno stipendio di mille euro mensili, e contare su un lavoro quando finisce la carriera. Il che avviene crudelmente presto: a 23 anni le ginnaste sono già vecchie.
«Sì, l’idea di lavorare in aeronautica mi piace: anche mio nonno era aviere», dice l’altra Elisa, la Blanchi. La quale rivela che tanto «suore» queste belle ragazze non sono, anche se soltanto una risulta fidanzata: «Al sabato sera prendiamo la macchina e ce ne andiamo tutte assieme a Milano, in zona corso Como, dove ci sono i locali. Il mio preferito è il Tocqueville».
Alla barese Marinella piace ballare l’hip hop, mentre l’aretina Angelica confessa la sua passione segreta: leggere I love shopping e gli altri libri della Kinsella. Angelica è l’unica delle titolari a dover fare ancora la maturità: nel ritiro di Desio è possibile studiare da privatiste, e tutte hanno superato l’esame.
Queste ragazze ovviamente hanno una motivazione fortissima, quindi spesso per loro è stato importante l’esempio di una ginnasta già famosa della loro città: «Da piccola guardavo Valentina Rovetta e sognavo di diventare brava come lei», ci dice la bergamasca Daniela. Altre piccole città-vivaio con società di ginnastica capaci di esprimere una campionessa ad ogni generazione sono Chieti, Arezzo, Prato.
La teatina Fabrizia, per esempio, che ha cominciato a far ginnastica a cinque anni, ha avuto come faro Eva D’Amore, che adesso la allena: «Nel tempo libero mi piace ascoltare i Pink Floyd. I miei attori del cuore sono Raoul Bova, Ben Affleck e Brad Pitt. In tv guardo sempre Zelig».
Ora in tv vi ammireremo noi, dal 21 al 23 agosto. Volate, farfalle azzurre.
Mauro Suttora
La squadra vola in Cina a inseguire una medaglia
di Mauro Suttora
Roma, 30 luglio 2008
Siccome Desio sta in provincia di Monza, la battuta viene fuori spontanea anche se scontata: «Siete un po’ come delle monache...» Nel qual caso la badessa sarebbe Emanuela Maccarani, 41 anni, da dodici allenatrice della squadra nazionale di ginnastica ritmica. Che dal 2003 ha vinto tutto il vincibile: «Quarantun medaglie fra olimpiadi, campionati mondiali ed europei, coppe del mondo».
Dieci ragazze dai 16 ai 23 anni vivono assieme tutto l’anno nell’hotel Selide di Desio e si allenano ogni giorno nel palasport per otto ore. «Quattro al mattino e quattro al pomeriggio», dice l’allenatrice. E se qualche mattino volteggiano solo per tre ore, al pomeriggio si recupera: cinque ore. Ma perché proprio Desio? «Perché ha un palasport bellissimo che ci dà la possibilità di allenarci tutto il giorno».
Disciplina ferrea dal 2001, quando iniziò la residenza permanente in Brianza. Sotto la guida della Maccarani, delle sue assistenti (la chietina Eva D’Amore, la bergamasca Valentina Rovetta), della coreografa Nathalie Van Cauwenberghe e della direttrice nazionale Marina Piazza. D’estate il gineceo si trasferisce a Follonica (Grosseto), ma i ritmi restano gli stessi.
Anche le ragazze sono le stesse da molti anni. Le veterane sono «le due Elise», come le chiama l’allenatrice: la capitana Santoni di Roma e la Blanchi da Velletri (Roma), entrambe ventenni. Anche Marinella Falca, 22, da Giovinazzo (Bari) è in ritiro permanente a Desio da sette anni. Completano la squadra titolare Fabrizia D’Ottavio (Chieti) e Daniela Masseroni da Trescore Balneario (Bergamo), entrambe 23enni. Infine la new entry Angelica Savrayuk, 18, da Arezzo.
Alle olimpiadi di Atene, quattro anni fa, hanno entusiasmato l’Italia vincendo l’argento. A Pechino la squadra da battere sarà sempre la Russia. «Ma temiamo anche Bielorussia, Bulgaria, e le cinesi che gareggiano in casa», dice la Maccarani.
Partono per la Cina il 12 agosto, dopo la cerimonia d’apertura, perché le loro gare iniziano solo il 21 agosto (esibizione con le funi), per poi proseguire con i cerchi e infine il 23 le finali con le migliori otto squadre (su solo dodici ammesse).
La ginnastica ritmica è stata introdotta da poco nelle Olimpiadi: le prime gare individuali a Los Angeles nel 1984, le squadre ad Atlanta nel ’96. Ma la popolarità è in crescita, perché le esibizioni sono spettacolari: un misto fra ginnastica, danza e pattinaggio su ghiaccio. Ogni esercizio dura due minuti e mezzo, e lì dentro finiscono gli sforzi di una vita.
Ai campionati europei di Torino, in giugno, è andata molto bene. Era la prima volta dopo 22 anni che un evento internazionale si svolgeva in Italia, e il palasport era pieno: ottomila spettatori che si sono messi a fare la ola quando le nostre «farfalle azzurre» hanno vinto l’oro alle cinque funi e l’argento, dietro alla solita Russia, ai cerchi e clavette.
Un successo di pubblico che ha avuto una ripercussione anche sul piccolo schermo: il campionato trasmesso di pomeriggio su Raitre ha avuto un milione e 300 mila spettatori con il 14 per cento di share. Il doppio di altri sport e perfino più di certe gare di ciclismo, il tutto per la felicità del presidente di Federginnastica Riccardo Agabio.
Ma chi sono le nostre sei campionesse, che a Pechino volteggeranno accompagnate dalla musica di due colonne sonore (Blood Diamonds, il film con Leonardo DiCaprio, e Il Gladiatore)?
La popolarità della romana Elisa Santoni l’abbiamo saggiata in un afoso pomeriggio domenicale di giugno nel palasport della sua città, quello costruito al Flaminio per le olimpiadi del 1960 dall’architetto Pierluigi Nervi. La squadra nazionale si esibiva alla festa di fine anno della squadra di ginnastica Polimnia, e centinaia di ragazzine urlanti applaudivano dagli spalti.
Elisa, cosa fai nel convento... pardon, nel collegio di Desio, durante il tempo libero? «Ascolto le canzoni di James Blunt, leggo i libri di Dan Brown e Coelho. E studio: sono iscritta al primo anno di Scienza delle comunicazioni all’università di Bergamo, anche se finora sono riuscita a dare solo un esame».
Tutte le ginnaste maggiorenni dall’anno scorso sono state arruolate nell’Aeronautica militare, con il grado di «aviere scelto». Il che, in concreto, significa due cose: ricevere uno stipendio di mille euro mensili, e contare su un lavoro quando finisce la carriera. Il che avviene crudelmente presto: a 23 anni le ginnaste sono già vecchie.
«Sì, l’idea di lavorare in aeronautica mi piace: anche mio nonno era aviere», dice l’altra Elisa, la Blanchi. La quale rivela che tanto «suore» queste belle ragazze non sono, anche se soltanto una risulta fidanzata: «Al sabato sera prendiamo la macchina e ce ne andiamo tutte assieme a Milano, in zona corso Como, dove ci sono i locali. Il mio preferito è il Tocqueville».
Alla barese Marinella piace ballare l’hip hop, mentre l’aretina Angelica confessa la sua passione segreta: leggere I love shopping e gli altri libri della Kinsella. Angelica è l’unica delle titolari a dover fare ancora la maturità: nel ritiro di Desio è possibile studiare da privatiste, e tutte hanno superato l’esame.
Queste ragazze ovviamente hanno una motivazione fortissima, quindi spesso per loro è stato importante l’esempio di una ginnasta già famosa della loro città: «Da piccola guardavo Valentina Rovetta e sognavo di diventare brava come lei», ci dice la bergamasca Daniela. Altre piccole città-vivaio con società di ginnastica capaci di esprimere una campionessa ad ogni generazione sono Chieti, Arezzo, Prato.
La teatina Fabrizia, per esempio, che ha cominciato a far ginnastica a cinque anni, ha avuto come faro Eva D’Amore, che adesso la allena: «Nel tempo libero mi piace ascoltare i Pink Floyd. I miei attori del cuore sono Raoul Bova, Ben Affleck e Brad Pitt. In tv guardo sempre Zelig».
Ora in tv vi ammireremo noi, dal 21 al 23 agosto. Volate, farfalle azzurre.
Mauro Suttora
Friday, August 01, 2008
Karadzic: parla Francesco Tullio
LA DIFESA SPREZZANTE DI KARADZIC LETTA DA UN COLLEGA PSICHIATRA
Il dottor Tullio ci spiega la strategia del "macellaio di Srebrenica". Il "patto" con Holbrooke e le ripercussioni americane
Il Foglio, 1 agosto 2008
Radovan Karadzic si è presentato davanti al Tribunale dell'Aia, sbarbato e ripulito, e ha deciso di difendersi orgogliosamente da solo dalle accuse di genocidio e crimini di guerra. Ha iniziato, durante l'udienza preliminare, sostenendo di avere un accordo con gli Stati Uniti che gli garantiva la libertà in cambio della sua uscita di scena. Un accordo siglato con Madeleine Albright, allora al dipartimento di stato, e con Richard Holbrooke, la mente degli accordi di pace di Dayton del 1995.
Il diplomatico americano ha seccamente smentito, aggiungendo di essere pronto ad andare a testimoniare all'Aia. Ma già nel pomeriggio di ieri alcuni analisti sottolineavano che la vicenda potrebbe diventare sensibile per la campagna elettorale statunitense: sia Albright sia Holbrooke infatti sono consulenti del candidato democratico Barack Obama, anche se non direttamente coinvolti nella campagna elettorale (fanno parte di quei 300 advisor che aiutano Obama a definire la sua strategia di politica estera, fra cui molti ex clintoniani).
Karadzic persegue un unico obiettivo: la destabilizzazione, per cui getta ombre sul suo arresto. considerato un successo dalla comunità internazionale.
“Nell’ex Jugoslavia oggi circolano altri diecimila assassini che hanno torturato e ucciso a sangue freddo, a Srebrenica e altrove. Ottima quindi la cattura di Radovan Karadzic, a meno che non se ne faccia il solito capro espiatorio, e liberatorio per tutti gli altri. Compresi noi occidentali che a Srebrenica non siamo intervenuti, e quindi siamo stati suoi complici passivi”.
Il dottor Francesco Tullio è uno psichiatra, ma impegnato da trent’anni sul fronte opposto a quello di Karadzic.
Parlando con il Foglio spiega quel che è successo e la psicologia di Karadzic, la sua difesa, il "patto col diavolo" denunciato per destabilizzare la comunità internazionale.
“Nel ’94 ero il responsabile medico della marcia di Sarajevo, 500 pacifisti italiani guidati dal vescovo di Molfetta Tonino Bello. Andammo dal generale serbo Velibor Veselinovic, che comandava gli assedianti. Quello promise di non spararci, e mantenne la parola”.
Così cominciò la carriera di peacekeeper del dottor Tullio: “Ganic, vicepresidente dei bosniaci musulmani assediati, ci mandò dai serbi per chiedere di riaprire i tubi dell’acqua. Quelli di Karadzic ci risposero: ‘Ok, ma per farlo abbiamo bisogno dell’elettricità, che invece hanno loro’. Tornammo da Ganic per proporre questo scambio. Ma non ci fu risposta”.
Tullio, militante pacifista, ha pubblicato studi studi per il Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa italiano, è stato visiting professor all’università di Belgrado e ha collaborato con l’ufficio Onu della Farnesina. Il suo ultimo libro, ‘Il brivido della sicurezza - Psicopolitica del terrorismo’ (ed. Franco Angeli), è stato recensito un mese fa dall’Osservatore Romano. “Partendo dal conflitto dell’ex Jugoslavia ho descritto la relazione fra capo e massa nelle situazioni di polarizzazione bellica. E il rapporto fra crisi politico-economica, crisi psichica e attivazione distruttiva quando gli impulsi collettivi prevalgono sull razionalità”.
Niente di nuovo: la spirale perversa di Karadzic è simile a quella di Hitler ampiamente analizzata da Erich Fromm e tanti altri. Ma i ‘volenterosi esecutori’ del capo serbo sono ancora in Bosnia,e con gli estremisti delle altre fazioni rendono impossibile la partenza del contingente militare internazionale. Il generale genocida Ratko Mladic è latitante.
“La Serbia”, aggiunge Tullio, “è tuttora spaccata fra i nazionalisti e gli europeisti del presidente Tadic, che sperano di superare i revanscismi con l’entrata nell’Unione. Ma il complicato rapporto capo/massa rimane. I nazionalisti di Seselj cavalcano la tigre dei risentimenti esattamente come fece Karadzic, alimentando il circolo vizioso vittimismo-frustrazione-aggressività. Lo fanno tutti i politici del mondo, d’altronde. Ma in un contesto di crisi economica, come quello della Bosnia negli anni ’90, infiammare gli odi era un gioco da ragazzi. I serbi vedevano che l’intero ricco Occidente inondava di soldi Slovenia e Croazia, e siccome nessuno li ascoltava reagivano col fucile”.
Perché, i serbi avevano qualche ragione? “Non avevano ragione, ma noi occidentali dovevamo ascoltarli. Tutti i conflitti, anche i peggiori, si disinnescano con l’ascolto attivo. Altrimenti resta solo la violenza, che chiama altra violenza”.
Mauro Suttora
Il dottor Tullio ci spiega la strategia del "macellaio di Srebrenica". Il "patto" con Holbrooke e le ripercussioni americane
Il Foglio, 1 agosto 2008
Radovan Karadzic si è presentato davanti al Tribunale dell'Aia, sbarbato e ripulito, e ha deciso di difendersi orgogliosamente da solo dalle accuse di genocidio e crimini di guerra. Ha iniziato, durante l'udienza preliminare, sostenendo di avere un accordo con gli Stati Uniti che gli garantiva la libertà in cambio della sua uscita di scena. Un accordo siglato con Madeleine Albright, allora al dipartimento di stato, e con Richard Holbrooke, la mente degli accordi di pace di Dayton del 1995.
Il diplomatico americano ha seccamente smentito, aggiungendo di essere pronto ad andare a testimoniare all'Aia. Ma già nel pomeriggio di ieri alcuni analisti sottolineavano che la vicenda potrebbe diventare sensibile per la campagna elettorale statunitense: sia Albright sia Holbrooke infatti sono consulenti del candidato democratico Barack Obama, anche se non direttamente coinvolti nella campagna elettorale (fanno parte di quei 300 advisor che aiutano Obama a definire la sua strategia di politica estera, fra cui molti ex clintoniani).
Karadzic persegue un unico obiettivo: la destabilizzazione, per cui getta ombre sul suo arresto. considerato un successo dalla comunità internazionale.
“Nell’ex Jugoslavia oggi circolano altri diecimila assassini che hanno torturato e ucciso a sangue freddo, a Srebrenica e altrove. Ottima quindi la cattura di Radovan Karadzic, a meno che non se ne faccia il solito capro espiatorio, e liberatorio per tutti gli altri. Compresi noi occidentali che a Srebrenica non siamo intervenuti, e quindi siamo stati suoi complici passivi”.
Il dottor Francesco Tullio è uno psichiatra, ma impegnato da trent’anni sul fronte opposto a quello di Karadzic.
Parlando con il Foglio spiega quel che è successo e la psicologia di Karadzic, la sua difesa, il "patto col diavolo" denunciato per destabilizzare la comunità internazionale.
“Nel ’94 ero il responsabile medico della marcia di Sarajevo, 500 pacifisti italiani guidati dal vescovo di Molfetta Tonino Bello. Andammo dal generale serbo Velibor Veselinovic, che comandava gli assedianti. Quello promise di non spararci, e mantenne la parola”.
Così cominciò la carriera di peacekeeper del dottor Tullio: “Ganic, vicepresidente dei bosniaci musulmani assediati, ci mandò dai serbi per chiedere di riaprire i tubi dell’acqua. Quelli di Karadzic ci risposero: ‘Ok, ma per farlo abbiamo bisogno dell’elettricità, che invece hanno loro’. Tornammo da Ganic per proporre questo scambio. Ma non ci fu risposta”.
Tullio, militante pacifista, ha pubblicato studi studi per il Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa italiano, è stato visiting professor all’università di Belgrado e ha collaborato con l’ufficio Onu della Farnesina. Il suo ultimo libro, ‘Il brivido della sicurezza - Psicopolitica del terrorismo’ (ed. Franco Angeli), è stato recensito un mese fa dall’Osservatore Romano. “Partendo dal conflitto dell’ex Jugoslavia ho descritto la relazione fra capo e massa nelle situazioni di polarizzazione bellica. E il rapporto fra crisi politico-economica, crisi psichica e attivazione distruttiva quando gli impulsi collettivi prevalgono sull razionalità”.
Niente di nuovo: la spirale perversa di Karadzic è simile a quella di Hitler ampiamente analizzata da Erich Fromm e tanti altri. Ma i ‘volenterosi esecutori’ del capo serbo sono ancora in Bosnia,e con gli estremisti delle altre fazioni rendono impossibile la partenza del contingente militare internazionale. Il generale genocida Ratko Mladic è latitante.
“La Serbia”, aggiunge Tullio, “è tuttora spaccata fra i nazionalisti e gli europeisti del presidente Tadic, che sperano di superare i revanscismi con l’entrata nell’Unione. Ma il complicato rapporto capo/massa rimane. I nazionalisti di Seselj cavalcano la tigre dei risentimenti esattamente come fece Karadzic, alimentando il circolo vizioso vittimismo-frustrazione-aggressività. Lo fanno tutti i politici del mondo, d’altronde. Ma in un contesto di crisi economica, come quello della Bosnia negli anni ’90, infiammare gli odi era un gioco da ragazzi. I serbi vedevano che l’intero ricco Occidente inondava di soldi Slovenia e Croazia, e siccome nessuno li ascoltava reagivano col fucile”.
Perché, i serbi avevano qualche ragione? “Non avevano ragione, ma noi occidentali dovevamo ascoltarli. Tutti i conflitti, anche i peggiori, si disinnescano con l’ascolto attivo. Altrimenti resta solo la violenza, che chiama altra violenza”.
Mauro Suttora
Wednesday, July 30, 2008
Ferrovie del Gargano
IL TRENO DEL MARE
dall'inviato Mauro Suttora
Peschici (Foggia), 30 luglio 2008
L'Alfa si chiama Romeo perché dal 1915 al '28 fu di proprietà dell'ingegnere Nicola Romeo. E questo geniale napoletano è stato anche l'inventore della Ferrovia garganica. La quale, inaugurata nel '31, conquistò subito due record. Il primo: è una delle rare opere pubbliche italiane a essere stata completata in anticipo, tre anni invece dei quattro previsti. Secondo primato: i 79 chilometri a scartamento normale (non ridotto come le altre ferrovie locali) furono fin dall'inizio a trazione elettrica a corrente continua. Un sistema all'avanguardia per l'epoca, in anticipo di ben trent'anni rispetto all'elettrificazione della Ancona-Pescara-Bari.
Il Gargano si trovò quindi improvvisamente catapultato nella modernità, dopo secoli di arretratezza feudale.
Oggi si parte da San Severo (Foggia) con undici corse al giorno. Quelle delle 8.40 e delle 9.20 sono ad aria condizionata e con trasporto bici (prenotarsi al 0884.561020), così come le corse di ritorno in partenza da Peschici alle 16.03 e alle 17.22. Il viaggio intero dura un'ora e 40 minuti, ma la maggior parte dei turisti si ferma alle stazioni intermedie. Le carrozze sono moderne: «Le abbiamo appena revampizzate, cioè rinnovate totalmente», ci dice Franco Settimo, il funzionario delle Ferrovie del Gargano che ci accompagna.
Ovviamente nessuno nasconde che, con i quattro euro e 60 cent del costo del biglietto, il servizio è in perdita. È un miracolo che il trenino dello sperone d'Italia sia sopravvissuto ai drastici tagli dei rami secondari negli anni Sessanta, che hanno mietuto tante illustri vittime (dalle ferrovie delle valli Seriana e Brembana a Bergamo, alla sarda Tempio-Palau). Ma la società Ferrovie del Gargano gestisce anche molte linee di corriere, anzi è la maggiore azienda di trasporto pubblico in provincia di Foggia. Può quindi permettersi di ripianare il deficit del delizioso trenino.
Da San Severo a San Nicandro Garganico (da non confondere con l'altro Sannicandro pugliese, vicino a Bari) il panorama è il classico del Tavoliere: immensi campi coltivati a cereali in quello che è da sempre uno dei granai d'Italia. Intanto la ferrovia si alza, e a sinistra si apre una vista spettacolare sul lago di Varano. Purtroppo quasi tutte le stazioni si trovano a una certa distanza dai paesi, ma in coincidenza degli arrivi ci sono dei bus-navetta che portano in centro.
Per arrivare nella deliziosa Vico Garganico, per esempio, bisogna scendere nella stazione costiera di San Menaio, fra Rodi e Peschici. Lo stesso capolinea di Peschici si trova in realtà a quattro chilometri dal paese, nella baia di Calenella. Il tratto più bello della linea è proprio l'ultimo, a picco sul mare blu nel verde della pineta Marzini. Ma è divertente guardare fuori dal finestrino anche nel tratto prima e dopo Rodi, quando i binari costeggiano a lungo le spiagge di sabbia finissima affollate di ombrelloni colorati. Ogni tanto il macchinista scende per azionare manualmente gli scambi. Quest' estate, fino a metà agosto, le Ferrovie del Gargano organizzano otto serate di "Teatro in treno", con spettacoli itineranti in carrozza.
Le coste del Gargano sono un paradiso per i campeggiatori e per le famiglie di mezza Europa, che trovano anche accoglienti alberghi villaggio con la formula dell' all inclusive (pensione completa più intrattenimento). le perle dello sperone Le due perle dello sperone sono Peschici e Vieste. Visitatele quando il sole non è a picco. Di sera si trasformano in presepi bianchi, con la folla brulicante fra vicoli e piazzette. Non hanno nulla da invidiare a Capri.
Nei giorni particolarmente caldi, rifugiatevi nella stupenda Foresta umbra. Fino al ' 700 l' incubo di queste coste erano i pirati turchi, che depredavano e uccidevano. Vieste ebbe settemila sgozzati nel ' 500. Così sulla costa furono costruite le "torri saracene", per avvistare in tempo i predoni. Oggi invece le disgrazie vengono dai piromani, che anche l' anno scorso hanno ridotto in cenere parecchi ettari di bosco.
Il Gargano è sempre stato una terra religiosa, anche prima di Padre Pio (il santuario di San Giovanni Rotondo, come si vede nella cartina in questa pagina, è a poca distanza dal percorso del treno). Di qui passavano i pellegrini e i crociati diretti in Terra Santa. Gran parte del Gargano fa parte dell' omonimo parco, che vicino a ogni monumento e luogo d' interesse turistico ha installato cartelli esplicativi bilingui. Un consiglio: leggeteli, arricchirete la vostra vacanza rendendovi conto di quanta storia siano carichi questi luoghi. A Vico, per esempio, c' è uno dei primi cimiteri monumentali d' Europa (1792). l' icona da bisanzio a rodi A Rodi nel santuario della Libera si venera un' icona della Madonna portata qui dai bizantini quando Costantinopoli cadde nel 1453. Non solo acque cristalline o foreste di pini, ulivi e faggi, quindi, nel magico Gargano.
Riquadro 1
Carpino, capitale dell' olio
La ricchezza del Gargano, oltre al mare che regala pesce e attira i turisti, sta negli estesi uliveti che per centinaia di ettari coprono i contrafforti dell' immenso promontorio. "Da solo il comune di Carpino produce il doppio dell' olio di tutta la Liguria", ci dice Mario Ortore, titolare col padre di un' azienda agricola biologica che oltre all' olio produce le fave già celebrate da Pitagora 2.600 anni fa.
Ortore è anche assessore al turismo e all' agricoltura di Carpino, paese raggiunto dal treno del Gargano. Nel negozio sul viale che porta in centro vende pure cicerchie, piselli secchi, marmellate artigianali, ceci, frutta secca, vincotto di fichi, olive in salamoia, aromi e spezie del Parco nazionale del Gargano. Da Carpino si raggiunge poi San Giovanni Rotondo, passando per la Foresta umbra, tra greggi di pecore e capre.
Azienda Ortore Via Mazzini, 65 71010 Carpino (FG) Tel. 0884.997107 cell.339.7122380 web: www.ortore.com
Riquadro 2:
Si cala la rete, poi si mangia
Tramonti da favola e pesce fresco all' aperto
I trabucchi sono antiche palafitte tipiche del Gargano e del Molise, dalle quali si calano le reti per pescare senza andare in mare, grazie a lunghi bracci di legno e argani. Alcuni sono stati trasformati in ristoranti. Quello di Montepucci, a Peschici sulla strada per Rodi, è ancora in funzione. I proprietari, la stessa famiglia da generazioni, offrono poi il pesce pescato ai clienti, che possono mangiare sui tavoli sia all' interno sia all' esterno, sulle terrazze di legno. I piatti forti sono gli spaghetti alla pescatora e la paranza, ma molto dipende anche da quel che si è tirato su la notte precedente.
Per arrivare al trabucco c' è una stradina in cemento abbastanza impegnativa a picco sul mare, ma il parcheggio è comodo. Poi occorre percorrere ancora qualche decina di gradini. Il proprietario e la figlia sono gentili, e a volte lui si esibisce alla chitarra con gli amici cantando a squarciagola. Prezzi modici (20 30 ), consigliamo il vino negramaro rosé. Si può anche dormire in qualche bungalow.
Tel. 347.8414273, sito internet: www.parcodimontepucci.it
Mauro Suttora
dall'inviato Mauro Suttora
Peschici (Foggia), 30 luglio 2008
L'Alfa si chiama Romeo perché dal 1915 al '28 fu di proprietà dell'ingegnere Nicola Romeo. E questo geniale napoletano è stato anche l'inventore della Ferrovia garganica. La quale, inaugurata nel '31, conquistò subito due record. Il primo: è una delle rare opere pubbliche italiane a essere stata completata in anticipo, tre anni invece dei quattro previsti. Secondo primato: i 79 chilometri a scartamento normale (non ridotto come le altre ferrovie locali) furono fin dall'inizio a trazione elettrica a corrente continua. Un sistema all'avanguardia per l'epoca, in anticipo di ben trent'anni rispetto all'elettrificazione della Ancona-Pescara-Bari.
Il Gargano si trovò quindi improvvisamente catapultato nella modernità, dopo secoli di arretratezza feudale.
Oggi si parte da San Severo (Foggia) con undici corse al giorno. Quelle delle 8.40 e delle 9.20 sono ad aria condizionata e con trasporto bici (prenotarsi al 0884.561020), così come le corse di ritorno in partenza da Peschici alle 16.03 e alle 17.22. Il viaggio intero dura un'ora e 40 minuti, ma la maggior parte dei turisti si ferma alle stazioni intermedie. Le carrozze sono moderne: «Le abbiamo appena revampizzate, cioè rinnovate totalmente», ci dice Franco Settimo, il funzionario delle Ferrovie del Gargano che ci accompagna.
Ovviamente nessuno nasconde che, con i quattro euro e 60 cent del costo del biglietto, il servizio è in perdita. È un miracolo che il trenino dello sperone d'Italia sia sopravvissuto ai drastici tagli dei rami secondari negli anni Sessanta, che hanno mietuto tante illustri vittime (dalle ferrovie delle valli Seriana e Brembana a Bergamo, alla sarda Tempio-Palau). Ma la società Ferrovie del Gargano gestisce anche molte linee di corriere, anzi è la maggiore azienda di trasporto pubblico in provincia di Foggia. Può quindi permettersi di ripianare il deficit del delizioso trenino.
Da San Severo a San Nicandro Garganico (da non confondere con l'altro Sannicandro pugliese, vicino a Bari) il panorama è il classico del Tavoliere: immensi campi coltivati a cereali in quello che è da sempre uno dei granai d'Italia. Intanto la ferrovia si alza, e a sinistra si apre una vista spettacolare sul lago di Varano. Purtroppo quasi tutte le stazioni si trovano a una certa distanza dai paesi, ma in coincidenza degli arrivi ci sono dei bus-navetta che portano in centro.
Per arrivare nella deliziosa Vico Garganico, per esempio, bisogna scendere nella stazione costiera di San Menaio, fra Rodi e Peschici. Lo stesso capolinea di Peschici si trova in realtà a quattro chilometri dal paese, nella baia di Calenella. Il tratto più bello della linea è proprio l'ultimo, a picco sul mare blu nel verde della pineta Marzini. Ma è divertente guardare fuori dal finestrino anche nel tratto prima e dopo Rodi, quando i binari costeggiano a lungo le spiagge di sabbia finissima affollate di ombrelloni colorati. Ogni tanto il macchinista scende per azionare manualmente gli scambi. Quest' estate, fino a metà agosto, le Ferrovie del Gargano organizzano otto serate di "Teatro in treno", con spettacoli itineranti in carrozza.
Le coste del Gargano sono un paradiso per i campeggiatori e per le famiglie di mezza Europa, che trovano anche accoglienti alberghi villaggio con la formula dell' all inclusive (pensione completa più intrattenimento). le perle dello sperone Le due perle dello sperone sono Peschici e Vieste. Visitatele quando il sole non è a picco. Di sera si trasformano in presepi bianchi, con la folla brulicante fra vicoli e piazzette. Non hanno nulla da invidiare a Capri.
Nei giorni particolarmente caldi, rifugiatevi nella stupenda Foresta umbra. Fino al ' 700 l' incubo di queste coste erano i pirati turchi, che depredavano e uccidevano. Vieste ebbe settemila sgozzati nel ' 500. Così sulla costa furono costruite le "torri saracene", per avvistare in tempo i predoni. Oggi invece le disgrazie vengono dai piromani, che anche l' anno scorso hanno ridotto in cenere parecchi ettari di bosco.
Il Gargano è sempre stato una terra religiosa, anche prima di Padre Pio (il santuario di San Giovanni Rotondo, come si vede nella cartina in questa pagina, è a poca distanza dal percorso del treno). Di qui passavano i pellegrini e i crociati diretti in Terra Santa. Gran parte del Gargano fa parte dell' omonimo parco, che vicino a ogni monumento e luogo d' interesse turistico ha installato cartelli esplicativi bilingui. Un consiglio: leggeteli, arricchirete la vostra vacanza rendendovi conto di quanta storia siano carichi questi luoghi. A Vico, per esempio, c' è uno dei primi cimiteri monumentali d' Europa (1792). l' icona da bisanzio a rodi A Rodi nel santuario della Libera si venera un' icona della Madonna portata qui dai bizantini quando Costantinopoli cadde nel 1453. Non solo acque cristalline o foreste di pini, ulivi e faggi, quindi, nel magico Gargano.
Riquadro 1
Carpino, capitale dell' olio
La ricchezza del Gargano, oltre al mare che regala pesce e attira i turisti, sta negli estesi uliveti che per centinaia di ettari coprono i contrafforti dell' immenso promontorio. "Da solo il comune di Carpino produce il doppio dell' olio di tutta la Liguria", ci dice Mario Ortore, titolare col padre di un' azienda agricola biologica che oltre all' olio produce le fave già celebrate da Pitagora 2.600 anni fa.
Ortore è anche assessore al turismo e all' agricoltura di Carpino, paese raggiunto dal treno del Gargano. Nel negozio sul viale che porta in centro vende pure cicerchie, piselli secchi, marmellate artigianali, ceci, frutta secca, vincotto di fichi, olive in salamoia, aromi e spezie del Parco nazionale del Gargano. Da Carpino si raggiunge poi San Giovanni Rotondo, passando per la Foresta umbra, tra greggi di pecore e capre.
Azienda Ortore Via Mazzini, 65 71010 Carpino (FG) Tel. 0884.997107 cell.339.7122380 web: www.ortore.com
Riquadro 2:
Si cala la rete, poi si mangia
Tramonti da favola e pesce fresco all' aperto
I trabucchi sono antiche palafitte tipiche del Gargano e del Molise, dalle quali si calano le reti per pescare senza andare in mare, grazie a lunghi bracci di legno e argani. Alcuni sono stati trasformati in ristoranti. Quello di Montepucci, a Peschici sulla strada per Rodi, è ancora in funzione. I proprietari, la stessa famiglia da generazioni, offrono poi il pesce pescato ai clienti, che possono mangiare sui tavoli sia all' interno sia all' esterno, sulle terrazze di legno. I piatti forti sono gli spaghetti alla pescatora e la paranza, ma molto dipende anche da quel che si è tirato su la notte precedente.
Per arrivare al trabucco c' è una stradina in cemento abbastanza impegnativa a picco sul mare, ma il parcheggio è comodo. Poi occorre percorrere ancora qualche decina di gradini. Il proprietario e la figlia sono gentili, e a volte lui si esibisce alla chitarra con gli amici cantando a squarciagola. Prezzi modici (20 30 ), consigliamo il vino negramaro rosé. Si può anche dormire in qualche bungalow.
Tel. 347.8414273, sito internet: www.parcodimontepucci.it
Mauro Suttora
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Friday, July 11, 2008
Raffaello Follieri in carcere
Stavolta non lo salva neppure Padre Pio
Arrestato l' ex fidanzato italiano della Hathaway
Raffaello Follieri, faccendiere di San Giovanni Rotondo, aveva conquistato New York (e l' attrice) spacciandosi per "direttore finanziario del Vaticano". L' ha fatta franca per cinque anni. Poi l' Fbi...
Oggi, 9 luglio 2008
di Mauro Suttora
New York (Stati Uniti), luglio
Aveva portato l' illustre fidanzatina in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo (Foggia), nel paese dove lui era nato esattamente trent' anni fa. Ma lei, Anne Hathaway, una delle giovani attrici più famose d' America (Il Diavolo veste Prada), confessò onestamente di avere preferito la gita in aliscafo alle vicine isole Tremiti.
La esibiva orgoglioso in tutte le feste che organizzava, a New York e in Italia, per celebrare il proprio status di immigrato "arrivato" in alto che più in alto non si può: Raffaello Follieri da Foggia, non solo conquistatore della Audrey Hepburn del terzo millennio, ma anche amico delle due persone più importanti del mondo (il Papa, il presidente degli Stati Uniti). E ricchissimo.
"Spendeva decine di migliaia di dollari per le spese della sua fidanzata, per pagare il dog runner [quello che porta a passeggio i cani, da non confondere con il dog sitter, che si limita a sorvegliare le bestie in casa, ndr], per l' affitto di due lussuosi appartamenti, uno da 37 mila dollari nella Trump Tower sulla Quinta avenue e un altro a due piani nell' Olympic Tower", ha annotato scrupoloso l' agente speciale dell' Fbi Theodore Cacioppi nelle tredici pagine del dettagliato mandato che ha fatto finire Follieri agli arresti domiciliari.
"Casino totale": solo un film?
La fragile Anne avrebbe dovuto venire in Italia proprio nei prossimi giorni per presentare il suo nuovo film: Agent Smart Casino totale (nelle sale italiane dal 9 luglio). Non si sa se confermerà la sua presenza, ma mai titolo fu più appropriato. Subodorando infatti il casino totale in cui stava precipitando il suo amato Raffaello, la molto smart (furba) Anne ha pensato bene di mollarlo una settimana prima delle manette.
Così lui è rimasto da solo a fronteggiare i poliziotti che sono arrivati a prelevarlo all' alba. All' esame dell' urina, in commissariato, gli hanno trovato tracce di oppiacei. "È una medicina a base di codeina che gli ha prescritto il dottore contro la sinusite", ha cercato di spiegare la sua addetta stampa. Dopodiché, il ragazzo si è fatto ricoverare al Saint Vincent Hospital di Manhattan per un mancamento.
Il giudice ha fissato per lui una cauzione altissima: 21 milioni di dollari. E solo per poter uscire da casa con due mete: il suo medico, o la chiesa. Forse ha voluto fare lo spiritoso, quel giudice, perché proprio grazie agli sbandierati legami con la Chiesa cattolica Follieri è riuscito a fare fortuna.
Si esibiva infatti come "direttore finanziario" del Vaticano, vantava conoscenze, e grazie all' intercessione di un suo amico, semplice commesso del Vaticano, riusciva a procurare posti in prima fila alle udienze papali per i fessi americani che turlupinava.
Il nome più prestigioso di cui si serviva per accreditarsi era quello dell' ingegner Andrea Sodano da Asti, nipote del cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato fino al 2006. Un vero artista della truffa, insomma. Un misto fra il Totò che vendeva il Colosseo ai turisti e Leonardo DiCaprio, finto pilota che sfuggiva a Tom Hanks nel film Prova a prendermi del 2001. Gli agenti dell' Fbi durante una perquisizione a casa sua gli hanno trovato nell' armadio addirittura due vesti talari da cardinale, da fare indossare ai complici che lo accompagnavano per impressionare i suoi interlocutori.
A una delle sue feste newyorkesi riuscì ad attirare perfino l' allora ministro degli Esteri Massimo D' Alema, in città per l' assemblea dell' Onu. "Proprio il giorno dopo uscì sul Sole 24 Ore il primo articolo che rivelava le accuse contro Follieri di un suo ex socio d' affari, il quale reclamava decine di milioni di dollari. Ma il povero D' Alema era ignaro di tutto, e fu imbarazzato dalla compagnia", rivela a Oggi Gianluca Galletto, finanziere italiano a Manhattan.
Democratici e repubblicani
Come Zelig, Follieri si intrufolava ovunque, dalle feste per Valentino, alle cene in casa Angiolillo a Roma, alle gite in yacht con John McCain, candidato repubblicano alla Casa Bianca.
Ma il pesce più grosso che abboccò fu l' ex presidente Usa Bill Clinton con sua moglie Hillary. L' asserito business di Follieri era farsi vendere proprietà immobiliari dalle diocesi cattoliche americane, in difficoltà finanziarie a causa dei cospicui risarcimenti alle vittime dei preti pedofili, per poi rivenderle a prezzi maggiorati. E ci sono voluti vari anni prima che la bolla di sapone scoppiasse. Ora Raffaello rischia vari anni di carcere per truffa e bancarotta.
Mauro Suttora
Arrestato l' ex fidanzato italiano della Hathaway
Raffaello Follieri, faccendiere di San Giovanni Rotondo, aveva conquistato New York (e l' attrice) spacciandosi per "direttore finanziario del Vaticano". L' ha fatta franca per cinque anni. Poi l' Fbi...
Oggi, 9 luglio 2008
di Mauro Suttora
New York (Stati Uniti), luglio
Aveva portato l' illustre fidanzatina in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo (Foggia), nel paese dove lui era nato esattamente trent' anni fa. Ma lei, Anne Hathaway, una delle giovani attrici più famose d' America (Il Diavolo veste Prada), confessò onestamente di avere preferito la gita in aliscafo alle vicine isole Tremiti.
La esibiva orgoglioso in tutte le feste che organizzava, a New York e in Italia, per celebrare il proprio status di immigrato "arrivato" in alto che più in alto non si può: Raffaello Follieri da Foggia, non solo conquistatore della Audrey Hepburn del terzo millennio, ma anche amico delle due persone più importanti del mondo (il Papa, il presidente degli Stati Uniti). E ricchissimo.
"Spendeva decine di migliaia di dollari per le spese della sua fidanzata, per pagare il dog runner [quello che porta a passeggio i cani, da non confondere con il dog sitter, che si limita a sorvegliare le bestie in casa, ndr], per l' affitto di due lussuosi appartamenti, uno da 37 mila dollari nella Trump Tower sulla Quinta avenue e un altro a due piani nell' Olympic Tower", ha annotato scrupoloso l' agente speciale dell' Fbi Theodore Cacioppi nelle tredici pagine del dettagliato mandato che ha fatto finire Follieri agli arresti domiciliari.
"Casino totale": solo un film?
La fragile Anne avrebbe dovuto venire in Italia proprio nei prossimi giorni per presentare il suo nuovo film: Agent Smart Casino totale (nelle sale italiane dal 9 luglio). Non si sa se confermerà la sua presenza, ma mai titolo fu più appropriato. Subodorando infatti il casino totale in cui stava precipitando il suo amato Raffaello, la molto smart (furba) Anne ha pensato bene di mollarlo una settimana prima delle manette.
Così lui è rimasto da solo a fronteggiare i poliziotti che sono arrivati a prelevarlo all' alba. All' esame dell' urina, in commissariato, gli hanno trovato tracce di oppiacei. "È una medicina a base di codeina che gli ha prescritto il dottore contro la sinusite", ha cercato di spiegare la sua addetta stampa. Dopodiché, il ragazzo si è fatto ricoverare al Saint Vincent Hospital di Manhattan per un mancamento.
Il giudice ha fissato per lui una cauzione altissima: 21 milioni di dollari. E solo per poter uscire da casa con due mete: il suo medico, o la chiesa. Forse ha voluto fare lo spiritoso, quel giudice, perché proprio grazie agli sbandierati legami con la Chiesa cattolica Follieri è riuscito a fare fortuna.
Si esibiva infatti come "direttore finanziario" del Vaticano, vantava conoscenze, e grazie all' intercessione di un suo amico, semplice commesso del Vaticano, riusciva a procurare posti in prima fila alle udienze papali per i fessi americani che turlupinava.
Il nome più prestigioso di cui si serviva per accreditarsi era quello dell' ingegner Andrea Sodano da Asti, nipote del cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato fino al 2006. Un vero artista della truffa, insomma. Un misto fra il Totò che vendeva il Colosseo ai turisti e Leonardo DiCaprio, finto pilota che sfuggiva a Tom Hanks nel film Prova a prendermi del 2001. Gli agenti dell' Fbi durante una perquisizione a casa sua gli hanno trovato nell' armadio addirittura due vesti talari da cardinale, da fare indossare ai complici che lo accompagnavano per impressionare i suoi interlocutori.
A una delle sue feste newyorkesi riuscì ad attirare perfino l' allora ministro degli Esteri Massimo D' Alema, in città per l' assemblea dell' Onu. "Proprio il giorno dopo uscì sul Sole 24 Ore il primo articolo che rivelava le accuse contro Follieri di un suo ex socio d' affari, il quale reclamava decine di milioni di dollari. Ma il povero D' Alema era ignaro di tutto, e fu imbarazzato dalla compagnia", rivela a Oggi Gianluca Galletto, finanziere italiano a Manhattan.
Democratici e repubblicani
Come Zelig, Follieri si intrufolava ovunque, dalle feste per Valentino, alle cene in casa Angiolillo a Roma, alle gite in yacht con John McCain, candidato repubblicano alla Casa Bianca.
Ma il pesce più grosso che abboccò fu l' ex presidente Usa Bill Clinton con sua moglie Hillary. L' asserito business di Follieri era farsi vendere proprietà immobiliari dalle diocesi cattoliche americane, in difficoltà finanziarie a causa dei cospicui risarcimenti alle vittime dei preti pedofili, per poi rivenderle a prezzi maggiorati. E ci sono voluti vari anni prima che la bolla di sapone scoppiasse. Ora Raffaello rischia vari anni di carcere per truffa e bancarotta.
Mauro Suttora
I 90 anni di Nelson Mandela
Oggi 9/07/2008
La terza vita di Mandela
i 90 anni del premio nobel per la pace sudafricano
I potenti del mondo applaudono Nelson, eroe della lotta contro il razzismo. Prima guerrigliero, poi in carcere per 27 anni, infine padre della patria saggio e non violento. Un esempio per l' Africa
di Mauro Suttora
Londra.
Di premi Nobel per la pace viventi ce ne sono parecchi: dagli ex presidenti Jimmy Carter e Mikhail Gorbaciov a Lech Walesa e Al Gore, dal Dalai Lama alla birmana Aung San Suu Kyi. Ma lui è l' unico che mette d' accordo tutti, da destra a sinistra, dal Nord al Sud del mondo: Nelson Mandela, leggenda planetaria. E così, fra tante brutte notizie, eccone una bellissima: il "nonno del Pianeta" compie 90 anni.
La data esatta del compleanno è il 18 luglio: pensate che quando lui nacque nel 1918 non era ancora finita la Prima guerra mondiale, e Hitler e Stalin erano degli sconosciuti. Il mondo gli si è stretto attorno la scorsa settimana con il concerto di Hyde Park a Londra, cui hanno assistito 46.664 spettatori. Lo stesso numero di matricola che per 27 lunghissimi anni Mandela ha portato cucito sulla propria uniforme di carcerato.
Sulle orme di Gandhi
Ripercorrere la storia della sua vita dà i brividi. Perché, come Gandhi in India, Nelson è riuscito a dare a 42 milioni di sudafricani di colore la libertà senza spargere una goccia di sangue. Certo, nella lunga lotta contro l' apartheid ci sono stati tanti massacri. Famigerato rimane quello di Soweto nel 1976: centinaia di morti fra i manifestanti neri del ghetto colpiti dai poliziotti bianchi. Ma dopo la sua liberazione, nel febbraio 1990, Mandela riuscì a condurre il proprio popolo in una lotta non violenta esemplare, che, nonostante altri scontri nel ' 92, portò alle prime elezioni libere due anni dopo. E Mandela venne eletto presidente.
La sua parola d' ordine, dopo l' uscita dal carcere, è sempre stata una sola: "Riconciliazione". Gli ex nemici, la stragrande maggioranza nera e indiana e la minoranza bianca dei cinque milioni (12 per cento) di boeri e inglesi, dovevano guardarsi negli occhi, parlarsi e perdonarsi reciprocamente. "Non c' è spazio per le vendette", ha ripetuto Mandela in questi 18 anni.
Purtroppo gli avvenimenti di questi giorni nel vicino Zimbabwe, l'ex Rhodesia del Sud dove un altro patriarca di colore, l' ottuagenario Robert Mugabe, si è trasformato da liberatore in despota, dimostrano che la lezione di Mandela non è scontata.
Anzi, quasi mai nella martoriata Africa i padri della patria hanno il coraggio di Mandela. Il coraggio di abbandonare il potere dopo averlo conquistato, così come Nelson ha fatto nel 1999. Si è ritirato lasciando spazio al nuovo presidente, Thabo Mbeki, e il Sudafrica continua a essere un' isola felice in un continente devastato da dittatori, guerre, povertà, fame e stragi.
Tutto è relativo, naturalmente. Anche il Sudafrica si trascina i suoi problemi, con la miseria perdurante nei ghetti neri, l' Aids che colpisce il venti per cento della popolazione, le stragi etniche contro gli immigrati di colore. Ma in confronto a quasi tutti gli Stati vicini (Zimbabwe, Mozambico, Angola, Congo) oggi in Sudafrica si sta bene.
Non era detto che finisse così. All' inizio, e per molti decenni, la lotta per l' uguaglianza dei neri sudafricani fu non violenta. La iniziò nel 1907 con il primo "satyagraha" ("forza della verità", un misto di digiuni e disobbedienza civile) proprio un giovane avvocato indiano emigrato nella città sudafricana di Durban: Gandhi. E lo stesso Mandela quando venne arrestato per la prima volta nel ' 56 assieme a 150 attivisti dell' African National Congress stava organizzando un boicottaggio uguale a quelli che proprio in quei mesi stava portando avanti Martin Luther King nel Sud degli Stati Uniti.
Poi però, per frustrazione e mancanza di risultati, la nuova generazione dei leader neri (Mandela, Luthuli, Tambo e Sisulu) si diede alla lotta armata. L' esempio era l' Algeria. Nel ' 61, dopo il massacro di Sharpeville (80 vittime di colore), cominciò la guerriglia con i primi attentati, e proprio Mandela era il capo dell' ala militare del movimento di liberazione. Ma fu quasi subito arrestato, e condannato all' ergastolo.
Per 18 anni questo possente erede di una famiglia reale del Transkei subì i lavori forzati in miniera a Robben Island. Poteva ricevere una sola visita e una sola lettera ogni sei mesi. Ma spesso le lettere venivano in gran parte cancellate dai censori. Ciononostante, Mandela riuscì a laurearsi in Legge per corrispondenza all' università di Londra. Nell' 81 fu perfino candidato a cancelliere dell' università, perdendo il voto contro la principessa Anna d' Inghilterra.
Intanto in tutto il mondo le campagne contro la segregazione in Sudafrica si rafforzavano. Il regime dell' apartheid subiva il boicottaggio economico decretato dall' Onu, e la parte più avveduta della minoranza bianca premeva per un' apertura.
Nell' 82 Mandela fu trasferito in un' altra prigione, e tre anni dopo il presidente razzista Botha gli offrì la libertà in cambio della rinuncia alla lotta armata. Mandela rifiutò, ma ormai la trattativa era aperta. E nel ' 90, scomparsa la minaccia comunista, il nuovo presidente bianco De Klerk lo liberò: un gesto coraggioso, che valse anche a lui il premio Nobel con Mandela nel ' 93, nove anni dopo quello al vescovo sudafricano Desmond Tutu.
Winnie, moglie arraffona
La terza vita di Mandela, quella da statista e padre della patria, non è stata esente da scandali e ombre. Innanzitutto quelli provocati dalla seconda moglie Winnie, arraffona e arrivista, da cui Nelson dovette divorziare nel ' 96. Due anni dopo, proprio nel giorno dell' 80° compleanno, si è risposato con l' attuale moglie, Graça Machel, vedova dell' ex presidente mozambicano suo amico.
Poi c' è stata la disputa sull' Aids, che per troppo tempo il governo sudafricano ha sottovalutato, ritenendolo quasi un' invenzione dell' Occidente. Infine, non si può dire che dopo la parità dei diritti politici i neri sudafricani abbiano ottenuto anche la parità economica con i bianchi. Le periferie di Città del Capo, Durban e Johannesburg sono ancora ghetti poveri e violenti. Ma ormai Mandela fa parte della storia.
riquadro:
Il figlio morto di Aids
PURTROPPO C' È VOLUTA LA MORTE DEL FIGLIO DI 54 ANNI, MAKGATHO, NEL 2005 PER FAR CAPIRE A MANDELA E A TUTTO IL SUDAFRICA LA TRAGEDIA DELL' AIDS. FINO AD ALLORA, INCREDIBILMENTE, I GOVERNANTI DI UN PAESE IN CUI UN ABITANTE SU CINQUE È SIEROPOSITIVO, E I MORTI PER LA MALATTIA SONO 600 AL GIORNO, LA MINIMIZZAVANO E CONSIGLIAVANO DI CURARLA CON LE ERBE DELLA SAVANA. MA IL TABÙ È STATO INFRANTO DA MANDELA, CHE COLPITO COSÌ INTIMAMENTE HA AMMESSO L' ERRORE. IN AFRICA 30 MILIONI DI PERSONE HANNO CONTRATTO IL VIRUS DELL' AIDS. IL 60 PER CENTO SONO DONNE.
Mauro Suttora
La terza vita di Mandela
i 90 anni del premio nobel per la pace sudafricano
I potenti del mondo applaudono Nelson, eroe della lotta contro il razzismo. Prima guerrigliero, poi in carcere per 27 anni, infine padre della patria saggio e non violento. Un esempio per l' Africa
di Mauro Suttora
Londra.
Di premi Nobel per la pace viventi ce ne sono parecchi: dagli ex presidenti Jimmy Carter e Mikhail Gorbaciov a Lech Walesa e Al Gore, dal Dalai Lama alla birmana Aung San Suu Kyi. Ma lui è l' unico che mette d' accordo tutti, da destra a sinistra, dal Nord al Sud del mondo: Nelson Mandela, leggenda planetaria. E così, fra tante brutte notizie, eccone una bellissima: il "nonno del Pianeta" compie 90 anni.
La data esatta del compleanno è il 18 luglio: pensate che quando lui nacque nel 1918 non era ancora finita la Prima guerra mondiale, e Hitler e Stalin erano degli sconosciuti. Il mondo gli si è stretto attorno la scorsa settimana con il concerto di Hyde Park a Londra, cui hanno assistito 46.664 spettatori. Lo stesso numero di matricola che per 27 lunghissimi anni Mandela ha portato cucito sulla propria uniforme di carcerato.
Sulle orme di Gandhi
Ripercorrere la storia della sua vita dà i brividi. Perché, come Gandhi in India, Nelson è riuscito a dare a 42 milioni di sudafricani di colore la libertà senza spargere una goccia di sangue. Certo, nella lunga lotta contro l' apartheid ci sono stati tanti massacri. Famigerato rimane quello di Soweto nel 1976: centinaia di morti fra i manifestanti neri del ghetto colpiti dai poliziotti bianchi. Ma dopo la sua liberazione, nel febbraio 1990, Mandela riuscì a condurre il proprio popolo in una lotta non violenta esemplare, che, nonostante altri scontri nel ' 92, portò alle prime elezioni libere due anni dopo. E Mandela venne eletto presidente.
La sua parola d' ordine, dopo l' uscita dal carcere, è sempre stata una sola: "Riconciliazione". Gli ex nemici, la stragrande maggioranza nera e indiana e la minoranza bianca dei cinque milioni (12 per cento) di boeri e inglesi, dovevano guardarsi negli occhi, parlarsi e perdonarsi reciprocamente. "Non c' è spazio per le vendette", ha ripetuto Mandela in questi 18 anni.
Purtroppo gli avvenimenti di questi giorni nel vicino Zimbabwe, l'ex Rhodesia del Sud dove un altro patriarca di colore, l' ottuagenario Robert Mugabe, si è trasformato da liberatore in despota, dimostrano che la lezione di Mandela non è scontata.
Anzi, quasi mai nella martoriata Africa i padri della patria hanno il coraggio di Mandela. Il coraggio di abbandonare il potere dopo averlo conquistato, così come Nelson ha fatto nel 1999. Si è ritirato lasciando spazio al nuovo presidente, Thabo Mbeki, e il Sudafrica continua a essere un' isola felice in un continente devastato da dittatori, guerre, povertà, fame e stragi.
Tutto è relativo, naturalmente. Anche il Sudafrica si trascina i suoi problemi, con la miseria perdurante nei ghetti neri, l' Aids che colpisce il venti per cento della popolazione, le stragi etniche contro gli immigrati di colore. Ma in confronto a quasi tutti gli Stati vicini (Zimbabwe, Mozambico, Angola, Congo) oggi in Sudafrica si sta bene.
Non era detto che finisse così. All' inizio, e per molti decenni, la lotta per l' uguaglianza dei neri sudafricani fu non violenta. La iniziò nel 1907 con il primo "satyagraha" ("forza della verità", un misto di digiuni e disobbedienza civile) proprio un giovane avvocato indiano emigrato nella città sudafricana di Durban: Gandhi. E lo stesso Mandela quando venne arrestato per la prima volta nel ' 56 assieme a 150 attivisti dell' African National Congress stava organizzando un boicottaggio uguale a quelli che proprio in quei mesi stava portando avanti Martin Luther King nel Sud degli Stati Uniti.
Poi però, per frustrazione e mancanza di risultati, la nuova generazione dei leader neri (Mandela, Luthuli, Tambo e Sisulu) si diede alla lotta armata. L' esempio era l' Algeria. Nel ' 61, dopo il massacro di Sharpeville (80 vittime di colore), cominciò la guerriglia con i primi attentati, e proprio Mandela era il capo dell' ala militare del movimento di liberazione. Ma fu quasi subito arrestato, e condannato all' ergastolo.
Per 18 anni questo possente erede di una famiglia reale del Transkei subì i lavori forzati in miniera a Robben Island. Poteva ricevere una sola visita e una sola lettera ogni sei mesi. Ma spesso le lettere venivano in gran parte cancellate dai censori. Ciononostante, Mandela riuscì a laurearsi in Legge per corrispondenza all' università di Londra. Nell' 81 fu perfino candidato a cancelliere dell' università, perdendo il voto contro la principessa Anna d' Inghilterra.
Intanto in tutto il mondo le campagne contro la segregazione in Sudafrica si rafforzavano. Il regime dell' apartheid subiva il boicottaggio economico decretato dall' Onu, e la parte più avveduta della minoranza bianca premeva per un' apertura.
Nell' 82 Mandela fu trasferito in un' altra prigione, e tre anni dopo il presidente razzista Botha gli offrì la libertà in cambio della rinuncia alla lotta armata. Mandela rifiutò, ma ormai la trattativa era aperta. E nel ' 90, scomparsa la minaccia comunista, il nuovo presidente bianco De Klerk lo liberò: un gesto coraggioso, che valse anche a lui il premio Nobel con Mandela nel ' 93, nove anni dopo quello al vescovo sudafricano Desmond Tutu.
Winnie, moglie arraffona
La terza vita di Mandela, quella da statista e padre della patria, non è stata esente da scandali e ombre. Innanzitutto quelli provocati dalla seconda moglie Winnie, arraffona e arrivista, da cui Nelson dovette divorziare nel ' 96. Due anni dopo, proprio nel giorno dell' 80° compleanno, si è risposato con l' attuale moglie, Graça Machel, vedova dell' ex presidente mozambicano suo amico.
Poi c' è stata la disputa sull' Aids, che per troppo tempo il governo sudafricano ha sottovalutato, ritenendolo quasi un' invenzione dell' Occidente. Infine, non si può dire che dopo la parità dei diritti politici i neri sudafricani abbiano ottenuto anche la parità economica con i bianchi. Le periferie di Città del Capo, Durban e Johannesburg sono ancora ghetti poveri e violenti. Ma ormai Mandela fa parte della storia.
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Il figlio morto di Aids
PURTROPPO C' È VOLUTA LA MORTE DEL FIGLIO DI 54 ANNI, MAKGATHO, NEL 2005 PER FAR CAPIRE A MANDELA E A TUTTO IL SUDAFRICA LA TRAGEDIA DELL' AIDS. FINO AD ALLORA, INCREDIBILMENTE, I GOVERNANTI DI UN PAESE IN CUI UN ABITANTE SU CINQUE È SIEROPOSITIVO, E I MORTI PER LA MALATTIA SONO 600 AL GIORNO, LA MINIMIZZAVANO E CONSIGLIAVANO DI CURARLA CON LE ERBE DELLA SAVANA. MA IL TABÙ È STATO INFRANTO DA MANDELA, CHE COLPITO COSÌ INTIMAMENTE HA AMMESSO L' ERRORE. IN AFRICA 30 MILIONI DI PERSONE HANNO CONTRATTO IL VIRUS DELL' AIDS. IL 60 PER CENTO SONO DONNE.
Mauro Suttora
Wednesday, July 02, 2008
La cantante Giusy Ferreri
GIUSY, CASSIERA DA HIT
Scala le classifiche la cantante di X-Factor
di Mauro Suttora
2 luglio 2008
Chi l’ha detto che bisogna emigrare in America per realizzare i propri sogni? Qualche volta la più bella delle fantasie diventa realtà anche in Italia. Prendete Giusy, nome d’arte di Giuseppa Gaetana Ferreri, 29 anni, metà dei quali passati a coltivare la passione della sua vita: la musica. Ora è prima in classifica nella hit parade. La sua canzone Non ti scordar mai di me ha superato Jovanotti, Madonna, Coldplay, e promette di diventare il tormentone dell’estate.
Rintracciamo questa figlia di emigrati siciliani alta uno e 53 ad Abbiategrasso (Milano), a casa sua col mal di gola. Un bel guaio per una cantante…
«Eh, sì. Ma almeno così posso riposarmi un po’. Dovrò lavorare tutta l’estate per promuovere il mio primo disco, in uscita il 27 giugno, e per preparare il prossimo con Tiziano Ferro».
Fino a poche settimane fa Giusy lavorava come cassiera del supermercato Esselunga di Corbetta (Milano): «Solo tre giorni alla settimana: venerdì, sabato e lunedì, più qualche domenica di straordinario nelle festività. Ma mi andava benissimo, 24 ore di part-time per mantenermi e il resto del tempo libero per la musica. Ho cominciato dieci anni, sempre lo stesso supermercato dopo il liceo linguistico. Ma anche adesso, mica mi sono licenziata: ho solo chiesto un’aspettativa di sei mesi, non si sa mai…»
Simpatica come una siciliana ma concreta come una lombarda, Giusy è arrivata seconda nel programma X-Factor di Raidue, dedicato alle voci nuove. Hanno vinto gli Aram Quartet con una canzone di Morgan, ma ora nella Top ten è in testa lei, che nella trasmissione era sponsorizzata da Simona Ventura.
La sua voce si riconosce subito: roca, spezzata quasi come in un singhiozzo, è a metà fra la Shirley Bassey degli anni ’60 e Amy Winehouse, l’attuale cantante «maledetta» sempre in bilico fra alcol e droga.
Invece l’unica droga di Giusy è la musica: «Ho cominciato a 14 anni, cantavo cover e andavo in giro con un gruppo a far concerti nei pub e alle feste della birra. Però da qualche anno mi ero stufata, era dura esibirsi al sabato dopo nove ore di lavoro, e dover pure cantare canzoni che non mi piacevano per far piacere al pubblico. Così ho cominciato a comporre io le mie canzoni, ho trovato un produttore in zona e alla fine sono riuscita a farmi pubblicare un disco dalla Sony, nel 2005».
Quella canzone, Il party, si può sentire e vedere su internet. Ed è una sorpresa, per chi era abituato alla Giusy scatenata ma in tailleur di X-Factor: allora si faceva chiamare Gaetana, si dava arie sexy con un serpente attorno al collo, e tutta orgiastica sospirava: «Il sesso si fa in tre, e anche in più di tre…»
E allora? Qual è la vera Giusy?
«Di Giusy ce ne sono tante, a seconda delle situazioni», ride lei ora, «tutti mi dicevano che scrivevo canzoni malinconiche e tristi, quindi ho pensato: ora vi faccio vedere io…»
E chi ha inventato il singhiozzo? «Prego?» Il modo di cantare sincopato che hai esibito in X-Factor. «Ah, mi è venuto spontaneo, perché gli arrangiamenti erano vicini al blues. Ma la mia voce vera è più corposa e modulata».
Giusy si è fidanzata con il coetaneo Andrea pochi mesi fa, appena prima di approdare su Raidue e di diventare famosa. Ma a volte le sembra ancora di dover montare sulla sua Citroen C4 coupé per andare a lavorare all’Esselunga. «No, non viviamo insieme. Anche perché io sono andata a vivere da sola solo l’anno scorso, mi sono comprata una bella casetta col mutuo. Mio padre è un piccolo imprenditore edile, lavora con mio fratello. Mia madre è casalinga».
Prova e riprova, questo scricciolo di figlia ce l’ha fatta. Nel suo sito rivela che i suoi scrittori preferiti sono il rivoluzionario e scandaloso Charles Bukovski, ma anche Erich Fromm, il filosofo di Avere o Essere. E fra le cantanti cita Guesch Patti, una francese che pochi ricordano perché ebbe un unico momento di gloria in Italia: nell’88 a Sanremo con Etienne. «Ma io avevo nove anni e rimasi sconvolta vedendola in tv».
Giusy sul palco si muove molto bene, sa «tenere la scena», come si dice. Oltre a Non ti scordar mai di me, il suo disco contiene rivisitazioni di Ma che freddo fa di Nada, La bambola di Patty Pravo, Che cosa c'è di Gino Paoli, Insieme a te non ci sto più di Caterina Caselli e Remedios di Gabriella Ferri. Nei giorni scorsi Giusy ha girato a Roma il video per Non ti scordar mai di me: atmosfere almodovariane, dicono. E nata una stella.
Mauro Suttora
Scala le classifiche la cantante di X-Factor
di Mauro Suttora
2 luglio 2008
Chi l’ha detto che bisogna emigrare in America per realizzare i propri sogni? Qualche volta la più bella delle fantasie diventa realtà anche in Italia. Prendete Giusy, nome d’arte di Giuseppa Gaetana Ferreri, 29 anni, metà dei quali passati a coltivare la passione della sua vita: la musica. Ora è prima in classifica nella hit parade. La sua canzone Non ti scordar mai di me ha superato Jovanotti, Madonna, Coldplay, e promette di diventare il tormentone dell’estate.
Rintracciamo questa figlia di emigrati siciliani alta uno e 53 ad Abbiategrasso (Milano), a casa sua col mal di gola. Un bel guaio per una cantante…
«Eh, sì. Ma almeno così posso riposarmi un po’. Dovrò lavorare tutta l’estate per promuovere il mio primo disco, in uscita il 27 giugno, e per preparare il prossimo con Tiziano Ferro».
Fino a poche settimane fa Giusy lavorava come cassiera del supermercato Esselunga di Corbetta (Milano): «Solo tre giorni alla settimana: venerdì, sabato e lunedì, più qualche domenica di straordinario nelle festività. Ma mi andava benissimo, 24 ore di part-time per mantenermi e il resto del tempo libero per la musica. Ho cominciato dieci anni, sempre lo stesso supermercato dopo il liceo linguistico. Ma anche adesso, mica mi sono licenziata: ho solo chiesto un’aspettativa di sei mesi, non si sa mai…»
Simpatica come una siciliana ma concreta come una lombarda, Giusy è arrivata seconda nel programma X-Factor di Raidue, dedicato alle voci nuove. Hanno vinto gli Aram Quartet con una canzone di Morgan, ma ora nella Top ten è in testa lei, che nella trasmissione era sponsorizzata da Simona Ventura.
La sua voce si riconosce subito: roca, spezzata quasi come in un singhiozzo, è a metà fra la Shirley Bassey degli anni ’60 e Amy Winehouse, l’attuale cantante «maledetta» sempre in bilico fra alcol e droga.
Invece l’unica droga di Giusy è la musica: «Ho cominciato a 14 anni, cantavo cover e andavo in giro con un gruppo a far concerti nei pub e alle feste della birra. Però da qualche anno mi ero stufata, era dura esibirsi al sabato dopo nove ore di lavoro, e dover pure cantare canzoni che non mi piacevano per far piacere al pubblico. Così ho cominciato a comporre io le mie canzoni, ho trovato un produttore in zona e alla fine sono riuscita a farmi pubblicare un disco dalla Sony, nel 2005».
Quella canzone, Il party, si può sentire e vedere su internet. Ed è una sorpresa, per chi era abituato alla Giusy scatenata ma in tailleur di X-Factor: allora si faceva chiamare Gaetana, si dava arie sexy con un serpente attorno al collo, e tutta orgiastica sospirava: «Il sesso si fa in tre, e anche in più di tre…»
E allora? Qual è la vera Giusy?
«Di Giusy ce ne sono tante, a seconda delle situazioni», ride lei ora, «tutti mi dicevano che scrivevo canzoni malinconiche e tristi, quindi ho pensato: ora vi faccio vedere io…»
E chi ha inventato il singhiozzo? «Prego?» Il modo di cantare sincopato che hai esibito in X-Factor. «Ah, mi è venuto spontaneo, perché gli arrangiamenti erano vicini al blues. Ma la mia voce vera è più corposa e modulata».
Giusy si è fidanzata con il coetaneo Andrea pochi mesi fa, appena prima di approdare su Raidue e di diventare famosa. Ma a volte le sembra ancora di dover montare sulla sua Citroen C4 coupé per andare a lavorare all’Esselunga. «No, non viviamo insieme. Anche perché io sono andata a vivere da sola solo l’anno scorso, mi sono comprata una bella casetta col mutuo. Mio padre è un piccolo imprenditore edile, lavora con mio fratello. Mia madre è casalinga».
Prova e riprova, questo scricciolo di figlia ce l’ha fatta. Nel suo sito rivela che i suoi scrittori preferiti sono il rivoluzionario e scandaloso Charles Bukovski, ma anche Erich Fromm, il filosofo di Avere o Essere. E fra le cantanti cita Guesch Patti, una francese che pochi ricordano perché ebbe un unico momento di gloria in Italia: nell’88 a Sanremo con Etienne. «Ma io avevo nove anni e rimasi sconvolta vedendola in tv».
Giusy sul palco si muove molto bene, sa «tenere la scena», come si dice. Oltre a Non ti scordar mai di me, il suo disco contiene rivisitazioni di Ma che freddo fa di Nada, La bambola di Patty Pravo, Che cosa c'è di Gino Paoli, Insieme a te non ci sto più di Caterina Caselli e Remedios di Gabriella Ferri. Nei giorni scorsi Giusy ha girato a Roma il video per Non ti scordar mai di me: atmosfere almodovariane, dicono. E nata una stella.
Mauro Suttora
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Mr. Esselunga le manda champagne
Giusy Ferreri ha conquistato anche Bernardo Caprotti, suo datore di lavoro
Oggi, 2 luglio 2008
Bernardo Caprotti, 82 anni, ha fondato la catena Esselunga 51 anni fa assieme al miliardario americano Nelson Rockefeller. Il primo supermercato in Italia lo aprì in viale Regina Giovanna a Milano. Autore del libro Falce e carrello (Marsilio, 2007), Caprotti non parla mai con i giornalisti. Ha fatto un' eccezione per Giusy Ferreri.
Ecco quel che ci ha dichiarato: "È una ragazza fantastica, coraggiosa, simpatica, con una voce straordinaria, metallica e calda allo stesso tempo. Mi sono congratulato con lei e le ho mandato una cassa di Veuve Clicquot millésimé. Giusy a sua volta mi ha inviato il suo cd con la dedica. L'ho messo in cassaforte, diventerà prezioso. Possiamo solo ripetere tutti i nostri auguri e tutto il nostro dispiacere per aver perso la più simpatica delle nostre cinquemila cassiere. Senza offesa per le altre, sono tutte formidabili !".
Mauro Suttora
Oggi, 2 luglio 2008
Bernardo Caprotti, 82 anni, ha fondato la catena Esselunga 51 anni fa assieme al miliardario americano Nelson Rockefeller. Il primo supermercato in Italia lo aprì in viale Regina Giovanna a Milano. Autore del libro Falce e carrello (Marsilio, 2007), Caprotti non parla mai con i giornalisti. Ha fatto un' eccezione per Giusy Ferreri.
Ecco quel che ci ha dichiarato: "È una ragazza fantastica, coraggiosa, simpatica, con una voce straordinaria, metallica e calda allo stesso tempo. Mi sono congratulato con lei e le ho mandato una cassa di Veuve Clicquot millésimé. Giusy a sua volta mi ha inviato il suo cd con la dedica. L'ho messo in cassaforte, diventerà prezioso. Possiamo solo ripetere tutti i nostri auguri e tutto il nostro dispiacere per aver perso la più simpatica delle nostre cinquemila cassiere. Senza offesa per le altre, sono tutte formidabili !".
Mauro Suttora
Friday, June 20, 2008
Festa del cinema a Roma
La Capitale del debito fa pure la Festa del Cinema
Liberiamo la cultura dal Festival dei dittatori
di Mauro Suttora
Libero, 20 giugno 2008
Nei Paesi civili i politici non si intromettono nella cultura. Non la finanziano (con soldi altrui) con la scusa di «aiutarla» o «promuoverla». Infatti negli Stati Uniti non esiste un ministero della Cultura, né quella sciagura che sono gli assessori alla Cultura. La Gran Bretagna ha capitolato soltanto nel 1992, ma il nuovo Ministry of Culture britannico ha soprattutto il compito di preservare biblioteche e monumenti.
Solo i dittatori vogliono controllare la cultura. Per questo Mussolini creò nel ’32 la Mostra del cinema di Venezia. E il festival di Cannes nacque qualche anno dopo perché i francesi erano stufi delle interferenze fasciste e naziste a Venezia.
Dove il cinema funziona c’è poco bisogno di festival. Infatti a Hollywood ci sono gli Oscar, che si risolvono in una serata dopo un voto fra 5.800 professionisti del settore (non di una giuria di una decina di smandrappati). Ed è una cerimonia privata, senza finanziamenti pubblici.
Gli unici due festival di una certa rilevanza negli Usa (Sundance e Tribeca) sono legati all’impegno personale di Robert Redford e Robert De Niro, ad eventi particolari (il Tribeca è nato dopo l’11 settembre 2001 per risollevare le sorti del quartiere), e hanno pochissimi contributi pubblici.
Nei Paesi civili hanno letto Orson Welles. L’unico «aiuto» che i politici danno alle arti è la detassazione dei soldi investiti dai privati. Invece a Roma vige ancora, da duemila anni, la legge del «panem et circenses». Gli italiani trovano normale che chi ha il potere lo mantenga tramite l’elargizione di spettacoli, a carico dell’erario.
Dopo gli imperatori e i papi, a Roma 33 anni fa arrivò Renato Nicolini. Il primo «assessore alla Cultura» d’Italia. L’inventore dell’«estate romana». Un genio (sul serio, senza ironia: infatti i politici professionisti lo hanno fatto fuori). Due anni fa, invece, è nata la festa del Cinema. Una disgrazia. E non solo perché ha scialacquato decine di milioni in una città con sette miliardi di debito e in un Paese in rosso per 1.600 miliardi. Ma perché ha sbagliato tempo e luogo.
Il tempo. «Ma sono pazzi?», ho quando ho saputo che la festa del cinema di Roma si sarebbe svolta solo un mese dopo il festival di Venezia. Cioè di un evento che bene o male richiama l’attenzione mondiale, e dove infatti vengono un sacco di attori famosi. Che certo non ritornano in Italia dopo cinque settimane, anche se hanno un nuovo film da promuovere. Si chiama «cannibalizzazione». Sarebbe come se Parigi organizzasse una sua festa del cinema a giugno, un mese dopo Cannes.
E poi, ottobre. A Roma in ottobre da sempre non si trova una camera d’albergo vuota. E’ altissima stagione. Come ogni Pro loco sa, gli eventi si organizzano invece per tirar su la bassa stagione.
Ma mi hanno spiegato: «L’auditorium è libero solo in ottobre, prima che inizi la stagione dell’orchestra di Santa Cecilia». Quindi: decidono di organizzare un evento internazionale, prenotando decine di camere nei migliori alberghi e rompendo le balle ai turisti veri, quelli che pagano di tasca propria, solo per sistemare i bilanci in deficit dell’Auditorium (un altro esempio di soldi pubblici scialacquati nel faraonismo pseudoculturale dei politici).
Il luogo, infine. «La festa del cinema ha rilanciato l’immagine di Roma», dichiarò il sindaco Walter Veltroni dopo la prima edizione. Come se la città più bella del mondo avesse bisogno di un lifting d’immagine. Ma i festival fateli a Manfredonia, Monza, Monfalcone: tutte cittadine il cui nome giustamente comincia per M…
Dice: «Molte spese sono coperte dagli sponsor». Te li raccomando, gli «sponsor» a Roma. Sono quasi tutte aziende statali, parastatali, o comunque in debito di favori presso i politici. Certo che Lottomatica finanzia tanti circenses a Roma, invitando i papaveri in prima fila: chi gliela rinnova, altrimenti, la concessione per giochi e lotterie? Certo che la Camera di commercio romana è generosissima con Comune, Provincia e Regione: quante sue aziende dipendono da commesse pubbliche, licenze, permessi, varianti al piano regolatore?
La verità è che a Roma c’è poco o nulla di non parastatale. Perfino la Chiesa lo è diventata, con l’8 per mille. Ma lo spettacolo più buffo è la gente di spettacolo che chiede l’elemosina al burocrate. Il cinema italiano che, con le sale semivuote tranne Christian De Sica, Moccia e Pieraccioni, pretende soldi statali per fare film. E protesta se tagliano il Fus (Fondo unico spettacolo), che finanzia il sottobosco di produttori, maestranze, attori, comparse e pierre alla perenne ricerca di favori, lavoretti, consulenzine da dieci o centomila euro. Non a caso il film vincitore della prima festa del cinema di Roma, nel 2006, s’intitolava «Fare la vittima». Qualcuno l’ha visto?
A questo servono le feste del cinema. A regalare i soldi di chi non va al cinema a quelli che fanno un cinema che fa scappare dai cinema.
Sono andato alla prima dell’ultimo film con Nanni Moretti. All’uscita, davanti al cinema Sacher, c’era un caos calmo di auto blu e limousine parcheggiate. Tutte di sinistra. Al neosindaco di Roma Alemanno e al neoministro della Cultura Sandro Bondi un solo augurio: tagliate. Liberate la cultura.
Mauro Suttora
Liberiamo la cultura dal Festival dei dittatori
di Mauro Suttora
Libero, 20 giugno 2008
Nei Paesi civili i politici non si intromettono nella cultura. Non la finanziano (con soldi altrui) con la scusa di «aiutarla» o «promuoverla». Infatti negli Stati Uniti non esiste un ministero della Cultura, né quella sciagura che sono gli assessori alla Cultura. La Gran Bretagna ha capitolato soltanto nel 1992, ma il nuovo Ministry of Culture britannico ha soprattutto il compito di preservare biblioteche e monumenti.
Solo i dittatori vogliono controllare la cultura. Per questo Mussolini creò nel ’32 la Mostra del cinema di Venezia. E il festival di Cannes nacque qualche anno dopo perché i francesi erano stufi delle interferenze fasciste e naziste a Venezia.
Dove il cinema funziona c’è poco bisogno di festival. Infatti a Hollywood ci sono gli Oscar, che si risolvono in una serata dopo un voto fra 5.800 professionisti del settore (non di una giuria di una decina di smandrappati). Ed è una cerimonia privata, senza finanziamenti pubblici.
Gli unici due festival di una certa rilevanza negli Usa (Sundance e Tribeca) sono legati all’impegno personale di Robert Redford e Robert De Niro, ad eventi particolari (il Tribeca è nato dopo l’11 settembre 2001 per risollevare le sorti del quartiere), e hanno pochissimi contributi pubblici.
Nei Paesi civili hanno letto Orson Welles. L’unico «aiuto» che i politici danno alle arti è la detassazione dei soldi investiti dai privati. Invece a Roma vige ancora, da duemila anni, la legge del «panem et circenses». Gli italiani trovano normale che chi ha il potere lo mantenga tramite l’elargizione di spettacoli, a carico dell’erario.
Dopo gli imperatori e i papi, a Roma 33 anni fa arrivò Renato Nicolini. Il primo «assessore alla Cultura» d’Italia. L’inventore dell’«estate romana». Un genio (sul serio, senza ironia: infatti i politici professionisti lo hanno fatto fuori). Due anni fa, invece, è nata la festa del Cinema. Una disgrazia. E non solo perché ha scialacquato decine di milioni in una città con sette miliardi di debito e in un Paese in rosso per 1.600 miliardi. Ma perché ha sbagliato tempo e luogo.
Il tempo. «Ma sono pazzi?», ho quando ho saputo che la festa del cinema di Roma si sarebbe svolta solo un mese dopo il festival di Venezia. Cioè di un evento che bene o male richiama l’attenzione mondiale, e dove infatti vengono un sacco di attori famosi. Che certo non ritornano in Italia dopo cinque settimane, anche se hanno un nuovo film da promuovere. Si chiama «cannibalizzazione». Sarebbe come se Parigi organizzasse una sua festa del cinema a giugno, un mese dopo Cannes.
E poi, ottobre. A Roma in ottobre da sempre non si trova una camera d’albergo vuota. E’ altissima stagione. Come ogni Pro loco sa, gli eventi si organizzano invece per tirar su la bassa stagione.
Ma mi hanno spiegato: «L’auditorium è libero solo in ottobre, prima che inizi la stagione dell’orchestra di Santa Cecilia». Quindi: decidono di organizzare un evento internazionale, prenotando decine di camere nei migliori alberghi e rompendo le balle ai turisti veri, quelli che pagano di tasca propria, solo per sistemare i bilanci in deficit dell’Auditorium (un altro esempio di soldi pubblici scialacquati nel faraonismo pseudoculturale dei politici).
Il luogo, infine. «La festa del cinema ha rilanciato l’immagine di Roma», dichiarò il sindaco Walter Veltroni dopo la prima edizione. Come se la città più bella del mondo avesse bisogno di un lifting d’immagine. Ma i festival fateli a Manfredonia, Monza, Monfalcone: tutte cittadine il cui nome giustamente comincia per M…
Dice: «Molte spese sono coperte dagli sponsor». Te li raccomando, gli «sponsor» a Roma. Sono quasi tutte aziende statali, parastatali, o comunque in debito di favori presso i politici. Certo che Lottomatica finanzia tanti circenses a Roma, invitando i papaveri in prima fila: chi gliela rinnova, altrimenti, la concessione per giochi e lotterie? Certo che la Camera di commercio romana è generosissima con Comune, Provincia e Regione: quante sue aziende dipendono da commesse pubbliche, licenze, permessi, varianti al piano regolatore?
La verità è che a Roma c’è poco o nulla di non parastatale. Perfino la Chiesa lo è diventata, con l’8 per mille. Ma lo spettacolo più buffo è la gente di spettacolo che chiede l’elemosina al burocrate. Il cinema italiano che, con le sale semivuote tranne Christian De Sica, Moccia e Pieraccioni, pretende soldi statali per fare film. E protesta se tagliano il Fus (Fondo unico spettacolo), che finanzia il sottobosco di produttori, maestranze, attori, comparse e pierre alla perenne ricerca di favori, lavoretti, consulenzine da dieci o centomila euro. Non a caso il film vincitore della prima festa del cinema di Roma, nel 2006, s’intitolava «Fare la vittima». Qualcuno l’ha visto?
A questo servono le feste del cinema. A regalare i soldi di chi non va al cinema a quelli che fanno un cinema che fa scappare dai cinema.
Sono andato alla prima dell’ultimo film con Nanni Moretti. All’uscita, davanti al cinema Sacher, c’era un caos calmo di auto blu e limousine parcheggiate. Tutte di sinistra. Al neosindaco di Roma Alemanno e al neoministro della Cultura Sandro Bondi un solo augurio: tagliate. Liberate la cultura.
Mauro Suttora
Wednesday, June 18, 2008
Obama vince le primarie
Elezioni usa. Cosa significa la vittoria di Obama
A 40 anni dalla morte di Bob Kennedy, gli Stati Uniti hanno un nuovo mito: Barack. Ora un nero può diventare presidente. Una rivoluzione
di Mauro Suttora
New York (Stati Uniti), 6 giugno 2008
Una coincidenza da fare accapponare la pelle: il 5 giugno Barack Obama ha conquistato la candidatura del partito democratico per le presidenziali americane di novembre. In quello stesso giorno, 40 anni prima a Los Angeles, veniva assassinato Robert Kennedy, dopo avere ottenuto anche lui quella candidatura. Due miti che si stringono la mano, due leggende che si saldano a distanza di quattro decenni: quella del primo possibile presidente di colore degli Stati Uniti, e quella del secondo dei fratelli Kennedy che tentò la scalata alla stessa poltrona, pagando anch' egli con la vita come il fratello John cinque anni prima a Dallas.
"Mi sono accorto che stiamo vivendo un momento storico solo ieri mattina, quando in autobus un passeggero sconosciuto ha commentato la vittoria di Obama con il conducente", dice Hector Garcia, un nero che gestisce una bisteccheria ad Harlem, il quartiere dei neri di New York. "Anche i miei clienti hanno cominciato a parlare di Obama, e perfino i miei vicini di negozio, un barbiere e un ottico, mi hanno fermato sul marciapiede elettrizzati dall' accaduto".
Negli Stati Uniti il 12 per cento della popolazione è di colore. Ma è dai tempi dei Kennedy, dagli anni Sessanta appunto, che per loro l' orologio sembrava essersi fermato. Infatti, dopo l' abolizione dell' apartheid negli Stati del Sud e la parità dei diritti civili ottenuta da Martin Luther King (assassinato due mesi prima di Robert Kennedy in quell' orrendo 1968), la minoranza di colore non ha fatto grandi progressi sociali.
Certo, si è formata una media borghesia di colore che in molte città conduce una vita paragonabile a quella della middle class bianca. Certo, in molte professioni l' accesso dei neri è ormai garantito: lo stesso Obama e sua moglie Michelle sono entrambi avvocati. Certo, dopo l' ambasciatore Andrew Young nominato dal presidente Jimmy Carter nel ' 76, e dopo i segretari di Stato Colin Powell e Condoleezza Rice nominati da George Bush nel 2000, anche in politica quasi tutte le porte sono state aperte. E perfino nel big business qualche nero si è fatto strada, come Richard Parsons che dal ' 95 guida il gigante dei media Cnn Time Warner. Ma in generale le statistiche sono incresciose. Nei ghetti neri la criminalità è altissima, così come gli stupri e le ragazze madri. Una normale famiglia con padre e madre che non divorziano dopo qualche anno è quasi una rarità. E i neri perdono la gara anche con le nuove minoranze: surclassati da asiatici e ispanici.
"Smettiamola di lamentarci e di dare la colpa alla società dei bianchi per le nostre condizioni d' inferiorità", ha ammonito il personaggio televisivo Bill Cosby nel 2005, "la responsabilità è nostra: rimbocchiamoci le maniche e smettiamola di pensare che la nostra cultura è quella dei ragazzotti ignoranti della musica rap". Parole dure, ma che che hanno colto nel segno. Perfino Obama, oggi, non vuole più che l' emancipazione dei neri sia affidata solo alle "quote" obbligatorie delle cosiddette affirmative action, cioè i posti garantiti ai neri nelle migliori università e in molti posti di lavoro pubblici.
La storia della sua vita, d' altronde, è lì a garantire per lui: figlio di uno dei tanti neri che non si sono assunti la responsabilità di fare il padre, e che quindi spariscono dopo avere messo incinte le madri dei loro figli, si è fatto strada studiando. Laureato alla Columbia di New York, specializzato ad Harvard, quando fu preso per una sostituzione estiva in uno studio legale di Chicago venne affidato alla supervisione dell' unica altra avvocata di colore dello studio, anche lei con un curriculum brillante (Princeton e Harvard): Michelle Robinson. "L' ho invitata a pranzo e poi a vedere il film Fai la cosa giusta di Spike Lee. Ora è mia moglie", ha raccontato lui. Barack, che aveva sette anni quando Robert Kennedy morì, ha fatto la cosa giusta anche in questi ultimi mesi, quando ha sbaragliato poco a poco Hillary Clinton. "Lei era troppo aggressiva e piena di sé all' inizio delle primarie", spiegano gli analisti, "si è addolcita troppo tardi".
Per le prossime settimane l' interrogativo è: Obama prenderà Hillary come vicepresidente ? Lo sognano molti democratici, anche se alcuni come l' ex presidente Carter avvertono: "Metterebbero assieme soltanto le loro debolezze". Vinta, ma ancora orgogliosa, nel discorso in cui ha dovuto ammettere la sconfitta, Hillary ha promesso un pieno appoggio a Barack contro il candidato repubblicano John McCain. Però sa che non pochi dei 18 milioni di statunitensi che hanno votato per lei alle primarie potrebbero scegliere alla fine McCain. Quindi sta trattando con gli uomini di Obama, e il prezzo del suo impegno sarà alto. Innanzitutto l' ex avversario vittorioso dovrà aiutarla a pagare i 30 milioni di dollari di debiti della sua campagna. Finora Obama si è impegnato per 12, ma non è abbastanza. E poi, se non la vicepresidenza, qualcosa spunterà. Per esempio la carica che adesso è della Rice: quella di Segretario di Stato.
La verità di cui nessuno può apertamente parlare negli Stati Uniti, perché le questioni razziali sono tabù, è che molti ispanici e asiatici democratici che hanno votato per la Clinton sceglierebbero McCain piuttosto che votare per un nero come Obama. Oppure si asterranno. Questo il furbo McCain l' ha capito, e ora si è messo incredibilmente a corteggiare gli elettori di Hillary amareggiati per la sconfitta. Loda la Clinton, sottolinea che sul ritiro dei soldati dall' Iraq lei è meno decisa di Obama. E non parliamo dell' assistenza sanitaria, che Hillary vorrebbe gratuita per tutti come in Europa, mentre Obama è più cauto.
Insomma, i giochi sono ancora aperti. E non è per niente sicuro che Obama vinca l' elezione a presidente. Per questo Barack sta pensando ad altre mosse a sorpresa. Come la vicepresidenza a Caroline Kennedy, figlia di John. Per riunirsi al mito della grande famiglia.
Didascalia
Obama. famiglia da leggenda Barack Obama, 47 anni, con la moglie Michelle, 44, e le figlie Malia Ann, 10, (a sinistra) e Natasha, 7.
Mauro Suttora
A 40 anni dalla morte di Bob Kennedy, gli Stati Uniti hanno un nuovo mito: Barack. Ora un nero può diventare presidente. Una rivoluzione
di Mauro Suttora
New York (Stati Uniti), 6 giugno 2008
Una coincidenza da fare accapponare la pelle: il 5 giugno Barack Obama ha conquistato la candidatura del partito democratico per le presidenziali americane di novembre. In quello stesso giorno, 40 anni prima a Los Angeles, veniva assassinato Robert Kennedy, dopo avere ottenuto anche lui quella candidatura. Due miti che si stringono la mano, due leggende che si saldano a distanza di quattro decenni: quella del primo possibile presidente di colore degli Stati Uniti, e quella del secondo dei fratelli Kennedy che tentò la scalata alla stessa poltrona, pagando anch' egli con la vita come il fratello John cinque anni prima a Dallas.
"Mi sono accorto che stiamo vivendo un momento storico solo ieri mattina, quando in autobus un passeggero sconosciuto ha commentato la vittoria di Obama con il conducente", dice Hector Garcia, un nero che gestisce una bisteccheria ad Harlem, il quartiere dei neri di New York. "Anche i miei clienti hanno cominciato a parlare di Obama, e perfino i miei vicini di negozio, un barbiere e un ottico, mi hanno fermato sul marciapiede elettrizzati dall' accaduto".
Negli Stati Uniti il 12 per cento della popolazione è di colore. Ma è dai tempi dei Kennedy, dagli anni Sessanta appunto, che per loro l' orologio sembrava essersi fermato. Infatti, dopo l' abolizione dell' apartheid negli Stati del Sud e la parità dei diritti civili ottenuta da Martin Luther King (assassinato due mesi prima di Robert Kennedy in quell' orrendo 1968), la minoranza di colore non ha fatto grandi progressi sociali.
Certo, si è formata una media borghesia di colore che in molte città conduce una vita paragonabile a quella della middle class bianca. Certo, in molte professioni l' accesso dei neri è ormai garantito: lo stesso Obama e sua moglie Michelle sono entrambi avvocati. Certo, dopo l' ambasciatore Andrew Young nominato dal presidente Jimmy Carter nel ' 76, e dopo i segretari di Stato Colin Powell e Condoleezza Rice nominati da George Bush nel 2000, anche in politica quasi tutte le porte sono state aperte. E perfino nel big business qualche nero si è fatto strada, come Richard Parsons che dal ' 95 guida il gigante dei media Cnn Time Warner. Ma in generale le statistiche sono incresciose. Nei ghetti neri la criminalità è altissima, così come gli stupri e le ragazze madri. Una normale famiglia con padre e madre che non divorziano dopo qualche anno è quasi una rarità. E i neri perdono la gara anche con le nuove minoranze: surclassati da asiatici e ispanici.
"Smettiamola di lamentarci e di dare la colpa alla società dei bianchi per le nostre condizioni d' inferiorità", ha ammonito il personaggio televisivo Bill Cosby nel 2005, "la responsabilità è nostra: rimbocchiamoci le maniche e smettiamola di pensare che la nostra cultura è quella dei ragazzotti ignoranti della musica rap". Parole dure, ma che che hanno colto nel segno. Perfino Obama, oggi, non vuole più che l' emancipazione dei neri sia affidata solo alle "quote" obbligatorie delle cosiddette affirmative action, cioè i posti garantiti ai neri nelle migliori università e in molti posti di lavoro pubblici.
La storia della sua vita, d' altronde, è lì a garantire per lui: figlio di uno dei tanti neri che non si sono assunti la responsabilità di fare il padre, e che quindi spariscono dopo avere messo incinte le madri dei loro figli, si è fatto strada studiando. Laureato alla Columbia di New York, specializzato ad Harvard, quando fu preso per una sostituzione estiva in uno studio legale di Chicago venne affidato alla supervisione dell' unica altra avvocata di colore dello studio, anche lei con un curriculum brillante (Princeton e Harvard): Michelle Robinson. "L' ho invitata a pranzo e poi a vedere il film Fai la cosa giusta di Spike Lee. Ora è mia moglie", ha raccontato lui. Barack, che aveva sette anni quando Robert Kennedy morì, ha fatto la cosa giusta anche in questi ultimi mesi, quando ha sbaragliato poco a poco Hillary Clinton. "Lei era troppo aggressiva e piena di sé all' inizio delle primarie", spiegano gli analisti, "si è addolcita troppo tardi".
Per le prossime settimane l' interrogativo è: Obama prenderà Hillary come vicepresidente ? Lo sognano molti democratici, anche se alcuni come l' ex presidente Carter avvertono: "Metterebbero assieme soltanto le loro debolezze". Vinta, ma ancora orgogliosa, nel discorso in cui ha dovuto ammettere la sconfitta, Hillary ha promesso un pieno appoggio a Barack contro il candidato repubblicano John McCain. Però sa che non pochi dei 18 milioni di statunitensi che hanno votato per lei alle primarie potrebbero scegliere alla fine McCain. Quindi sta trattando con gli uomini di Obama, e il prezzo del suo impegno sarà alto. Innanzitutto l' ex avversario vittorioso dovrà aiutarla a pagare i 30 milioni di dollari di debiti della sua campagna. Finora Obama si è impegnato per 12, ma non è abbastanza. E poi, se non la vicepresidenza, qualcosa spunterà. Per esempio la carica che adesso è della Rice: quella di Segretario di Stato.
La verità di cui nessuno può apertamente parlare negli Stati Uniti, perché le questioni razziali sono tabù, è che molti ispanici e asiatici democratici che hanno votato per la Clinton sceglierebbero McCain piuttosto che votare per un nero come Obama. Oppure si asterranno. Questo il furbo McCain l' ha capito, e ora si è messo incredibilmente a corteggiare gli elettori di Hillary amareggiati per la sconfitta. Loda la Clinton, sottolinea che sul ritiro dei soldati dall' Iraq lei è meno decisa di Obama. E non parliamo dell' assistenza sanitaria, che Hillary vorrebbe gratuita per tutti come in Europa, mentre Obama è più cauto.
Insomma, i giochi sono ancora aperti. E non è per niente sicuro che Obama vinca l' elezione a presidente. Per questo Barack sta pensando ad altre mosse a sorpresa. Come la vicepresidenza a Caroline Kennedy, figlia di John. Per riunirsi al mito della grande famiglia.
Didascalia
Obama. famiglia da leggenda Barack Obama, 47 anni, con la moglie Michelle, 44, e le figlie Malia Ann, 10, (a sinistra) e Natasha, 7.
Mauro Suttora
Cecchi Gori arrestato
Donne, champagne, manette
Cecchi Gori in galera. il nuovo capitolo di un' odissea senza fine
Il re del cinema e della bella vita è finito per la quarta volta agli arresti. I magistrati lo torchiano, le sue "ex" lo difendono, lui disperato dice: "E ora fatemi morire !"
di Mauro Suttora
Roma, 18 giugno 2008
E quattro. È la quarta volta che i poliziotti piombano nel suo appartamento di palazzo Borghese, uno dei più maestosi di Roma. Questa volta, però, accanto a Vittorio Cecchi Gori non c'era Valeria Marini. La prima volta, nel luglio 2001, la perquisizione fu tragicomica. La coppia fu sorpresa nell' intimità. Poi le forze dell' ordine scoprirono della cocaina, ma lui si difese: "È zafferano". Stessa scena qualche mese dopo, sempre in vestaglia: l' irruzione era per un' indagine su un presunto voto di scambio (Cecchi Gori era stato candidato per l' Ulivo ad Acireale). Terzo arresto, sempre in pigiama, nell' ottobre 2002, per il fallimento della Fiorentina: quella volta però Vittorio oppose una fiera resistenza, e per più di due ore non fece aprire il portone ai domestici filippini.
Ora Cecchi Gori è rimasto solo. Nonostante il tourbillon di donne di cui si circonda, non ha più una relazione fissa da quando a gennaio è finita, dopo due anni, l' ultima storia con l' attrice Mara Meis. Con la quale però è rimasto in buoni rapporti. Come con tutte le sue ex, cosicché ogni tanto esce una foto annunciante improbabili revival anche con Rita Rusic e la Marini. "Non riesco a capire l' accanimento dei magistrati contro Vittorio", ci dice Mara Meis. "Lui è un uomo buono. Se ha avuto problemi, sono stati causati dalla sua ingenuità. Ma lui è uno che come produttore ha vinto tre Oscar, ha dato lustro all' Italia in tutto il mondo. Perché lo trattano così ?"
Il problema è il fallimento della sua società, la Finmavi, con debiti per centinaia di milioni di euro che hanno lasciato insoddisfatti decine di creditori. Quello dei Cecchi Gori era un impero da mille miliardi. Ma ormai gli hanno tolto quasi tutto. Ha perso la Fiorentina, che con lui attraversò il periodo d' oro di Batistuta. Lo hanno spossessato di Telemontecarlo (l' odierna La7), per la quale aveva grandi progetti: sognava di trasformarla nel terzo polo televisivo, che facesse concorrenza vera a Rai e Mediaset.
Gli hanno tolto la catena delle sale di cinema, dove la famosa sigla "Mario e Vittorio Cecchi Gori Group" ha fatto divertire e sognare milioni d' italiani. Il Postino, La vita è bella, Mediterraneo sono gli Oscar, ma i campioni d' incasso sono tanti, dai film di Verdone a quelli di Pieraccioni, fino ai lavori di qualità come Canone inverso. "Possono togliermi tutto, ma non impedirmi di lavorare", diceva lui, fino a pochi giorni fa. Con quel suo carattere fumantino e sempre un po' aggressivo che probabilmente lo ha messo in urto con qualche pubblico ministero.
E così, dopo anni di forzata stasi, settimane e mesi passati con gli avvocati a studiare le carte di processi e ricorsi, in gennaio per Vittorio era arrivato il momento della rivincita. Serata di gala nella sala privata di proiezione a palazzo Borghese per l' anteprima del nuovo film suo e di Rita Rusic: Scusa ma ti chiamo amore. Debutto alla regia di Federico Moccia, protagonisti Raoul Bova e Michela Quattrociocche. Perché in questi anni Cecchi Gori, nonostante le traversie giudiziarie, ha continuato a ricevere ospiti nel suo palazzo come sempre, ed è stato un anfitrione generoso. Alle anteprime di film come Scoop di Woody Allen o Flags of our Fathers di Clint Eastwood hanno partecipato personaggi come Lamberto Dini, Antonio Di Pietro, Claudio Martelli, Giovanni Minoli, Barbara Palombelli, Mara Venier. Anche questa volta Cecchi Gori ha fatto centro: comprò i diritti di Scusa ma ti chiamo amore quando Moccia non aveva ancora scritto il libro. E il film è diventato il maggiore incasso italiano del 2008: 14 milioni, quasi il triplo di Caos calmo con Nanni Moretti.
Proprio questo successo ha irritato qualche grande creditore del fallimento Cecchi Gori: i magistrati ora gli imputano di avere distratto fondi che avrebbero dovuto rimanere nella sua vecchia società a garanzia dei debiti, per crearne un' altra nuova con la quale è stato prodotto il film. Insomma, paradossalmente Vittorio è finito di nuovo a Regina Coeli perché è stato troppo bravo a fare il suo lavoro. Cioè a produrre film. Accanto, professionalmente, gli è rimasta Rita Rusic, 48 anni. Che gli ha subito espresso solidarietà e dolore dopo l' incarcerazione. In effetti, con tanti grandi imprenditori incriminati e condannati, i quali però continuano indisturbati a lavorare e a essere riveriti, non si capisce perché il povero Cecchi Gori, se proprio doveva essere arrestato, non abbia potuto ottenere almeno i domiciliari. Infatti, anche ammettendo che abbia continuato a (cercare di) truffare i creditori, non sussisteva la necessità del carcere per rischio di fuga, o di reiterazione del reato, o di particolare odiosità dello stesso.
"Mi voglio ammazzare, praticatemi l' eutanasia", ha detto disperato Vittorio appena messo piede in cella. Il produttore anche quest' estate, se e quando i magistrati glielo permetteranno, passerà metà del tempo nella sua bella villa di Sabaudia (Latina), l' unico possedimento che gli è rimasto oltre alla casa ufficio di palazzo Borghese e quella da dividere a metà con l'ex moglie Rita Rusic, dalla quale ha divorziato nel 2000 e litigato per anni prima di mettersi d' accordo su una cifra. All' inizio, infatti, lei aveva chiesto la pazzesca cifra di 2.300 miliardi di lire per sé e i due figli Vittoria e Mario. Alla fine si era accontentata di un mensile di 50 milioni (di lire).
E pensare che ci fu un periodo, verso il 1994, in cui Cecchi Gori junior, subito dopo la morte del padre Mario che aveva pazientemente costruito l' impero, sembrava potesse addirittura rivaleggiare con Berlusconi. Silvio scendeva in politica ? Anche lui, nel Partito popolare: eletto nel ' 94, e ancora due anni dopo. Silvio si dava al cinema ? All' inizio era alleato con Cecchi Gori nella società Penta. E sia nella distribuzione sia nella produzione, per anni ha vinto Vittorio. Silvio aveva tre tv ? E Vittorio nel ' 95 comprò dai brasiliani Telemontecarlo. Perfino nel calcio, in seguito, sono stati rivali. Ma ora Berlusconi è a palazzo Chigi. Mentre, tre isolati più a nord, il palazzo Borghese di Cecchi Gori sembra diventato il tiro al bersaglio preferito della procura di Roma.
Mauro Suttora
Cecchi Gori in galera. il nuovo capitolo di un' odissea senza fine
Il re del cinema e della bella vita è finito per la quarta volta agli arresti. I magistrati lo torchiano, le sue "ex" lo difendono, lui disperato dice: "E ora fatemi morire !"
di Mauro Suttora
Roma, 18 giugno 2008
E quattro. È la quarta volta che i poliziotti piombano nel suo appartamento di palazzo Borghese, uno dei più maestosi di Roma. Questa volta, però, accanto a Vittorio Cecchi Gori non c'era Valeria Marini. La prima volta, nel luglio 2001, la perquisizione fu tragicomica. La coppia fu sorpresa nell' intimità. Poi le forze dell' ordine scoprirono della cocaina, ma lui si difese: "È zafferano". Stessa scena qualche mese dopo, sempre in vestaglia: l' irruzione era per un' indagine su un presunto voto di scambio (Cecchi Gori era stato candidato per l' Ulivo ad Acireale). Terzo arresto, sempre in pigiama, nell' ottobre 2002, per il fallimento della Fiorentina: quella volta però Vittorio oppose una fiera resistenza, e per più di due ore non fece aprire il portone ai domestici filippini.
Ora Cecchi Gori è rimasto solo. Nonostante il tourbillon di donne di cui si circonda, non ha più una relazione fissa da quando a gennaio è finita, dopo due anni, l' ultima storia con l' attrice Mara Meis. Con la quale però è rimasto in buoni rapporti. Come con tutte le sue ex, cosicché ogni tanto esce una foto annunciante improbabili revival anche con Rita Rusic e la Marini. "Non riesco a capire l' accanimento dei magistrati contro Vittorio", ci dice Mara Meis. "Lui è un uomo buono. Se ha avuto problemi, sono stati causati dalla sua ingenuità. Ma lui è uno che come produttore ha vinto tre Oscar, ha dato lustro all' Italia in tutto il mondo. Perché lo trattano così ?"
Il problema è il fallimento della sua società, la Finmavi, con debiti per centinaia di milioni di euro che hanno lasciato insoddisfatti decine di creditori. Quello dei Cecchi Gori era un impero da mille miliardi. Ma ormai gli hanno tolto quasi tutto. Ha perso la Fiorentina, che con lui attraversò il periodo d' oro di Batistuta. Lo hanno spossessato di Telemontecarlo (l' odierna La7), per la quale aveva grandi progetti: sognava di trasformarla nel terzo polo televisivo, che facesse concorrenza vera a Rai e Mediaset.
Gli hanno tolto la catena delle sale di cinema, dove la famosa sigla "Mario e Vittorio Cecchi Gori Group" ha fatto divertire e sognare milioni d' italiani. Il Postino, La vita è bella, Mediterraneo sono gli Oscar, ma i campioni d' incasso sono tanti, dai film di Verdone a quelli di Pieraccioni, fino ai lavori di qualità come Canone inverso. "Possono togliermi tutto, ma non impedirmi di lavorare", diceva lui, fino a pochi giorni fa. Con quel suo carattere fumantino e sempre un po' aggressivo che probabilmente lo ha messo in urto con qualche pubblico ministero.
E così, dopo anni di forzata stasi, settimane e mesi passati con gli avvocati a studiare le carte di processi e ricorsi, in gennaio per Vittorio era arrivato il momento della rivincita. Serata di gala nella sala privata di proiezione a palazzo Borghese per l' anteprima del nuovo film suo e di Rita Rusic: Scusa ma ti chiamo amore. Debutto alla regia di Federico Moccia, protagonisti Raoul Bova e Michela Quattrociocche. Perché in questi anni Cecchi Gori, nonostante le traversie giudiziarie, ha continuato a ricevere ospiti nel suo palazzo come sempre, ed è stato un anfitrione generoso. Alle anteprime di film come Scoop di Woody Allen o Flags of our Fathers di Clint Eastwood hanno partecipato personaggi come Lamberto Dini, Antonio Di Pietro, Claudio Martelli, Giovanni Minoli, Barbara Palombelli, Mara Venier. Anche questa volta Cecchi Gori ha fatto centro: comprò i diritti di Scusa ma ti chiamo amore quando Moccia non aveva ancora scritto il libro. E il film è diventato il maggiore incasso italiano del 2008: 14 milioni, quasi il triplo di Caos calmo con Nanni Moretti.
Proprio questo successo ha irritato qualche grande creditore del fallimento Cecchi Gori: i magistrati ora gli imputano di avere distratto fondi che avrebbero dovuto rimanere nella sua vecchia società a garanzia dei debiti, per crearne un' altra nuova con la quale è stato prodotto il film. Insomma, paradossalmente Vittorio è finito di nuovo a Regina Coeli perché è stato troppo bravo a fare il suo lavoro. Cioè a produrre film. Accanto, professionalmente, gli è rimasta Rita Rusic, 48 anni. Che gli ha subito espresso solidarietà e dolore dopo l' incarcerazione. In effetti, con tanti grandi imprenditori incriminati e condannati, i quali però continuano indisturbati a lavorare e a essere riveriti, non si capisce perché il povero Cecchi Gori, se proprio doveva essere arrestato, non abbia potuto ottenere almeno i domiciliari. Infatti, anche ammettendo che abbia continuato a (cercare di) truffare i creditori, non sussisteva la necessità del carcere per rischio di fuga, o di reiterazione del reato, o di particolare odiosità dello stesso.
"Mi voglio ammazzare, praticatemi l' eutanasia", ha detto disperato Vittorio appena messo piede in cella. Il produttore anche quest' estate, se e quando i magistrati glielo permetteranno, passerà metà del tempo nella sua bella villa di Sabaudia (Latina), l' unico possedimento che gli è rimasto oltre alla casa ufficio di palazzo Borghese e quella da dividere a metà con l'ex moglie Rita Rusic, dalla quale ha divorziato nel 2000 e litigato per anni prima di mettersi d' accordo su una cifra. All' inizio, infatti, lei aveva chiesto la pazzesca cifra di 2.300 miliardi di lire per sé e i due figli Vittoria e Mario. Alla fine si era accontentata di un mensile di 50 milioni (di lire).
E pensare che ci fu un periodo, verso il 1994, in cui Cecchi Gori junior, subito dopo la morte del padre Mario che aveva pazientemente costruito l' impero, sembrava potesse addirittura rivaleggiare con Berlusconi. Silvio scendeva in politica ? Anche lui, nel Partito popolare: eletto nel ' 94, e ancora due anni dopo. Silvio si dava al cinema ? All' inizio era alleato con Cecchi Gori nella società Penta. E sia nella distribuzione sia nella produzione, per anni ha vinto Vittorio. Silvio aveva tre tv ? E Vittorio nel ' 95 comprò dai brasiliani Telemontecarlo. Perfino nel calcio, in seguito, sono stati rivali. Ma ora Berlusconi è a palazzo Chigi. Mentre, tre isolati più a nord, il palazzo Borghese di Cecchi Gori sembra diventato il tiro al bersaglio preferito della procura di Roma.
Mauro Suttora
Friday, June 13, 2008
Bush a Roma: caos
LO SFOGO: TROPPI DIVIETI
Pedoni perquisiti e code infinite
Una città bloccata senza motivo
di Mauro Suttora
Libero, venerdì 13 giugno 2008
Sono filoamericano. Adoro i cheeseburger McDonald’s, e penso che Bush abbia fatto bene a cacciare Saddam. Sono felice che al presidente degli Stati Uniti piaccia Roma, e che ci torni ogni anno. Questa volta però, scusatemi, ma ha rotto le balle. Non lui, ma chi per proteggerlo ha bloccato mezza capitale d’Italia per tre giorni. Non so chi sia: il ministro dell’Interno, il prefetto, il questore, o la Cia che avrà chiesto misure di sicurezza eccessive. Ma qualcuno ha esagerato. Hanno raddoppiato i divieti rispetto all’anno scorso, ampliato a dismisura le zone proibite. Perché?
«Non sa che giorno è oggi?», mi sussurra il funzionario di polizia che mi blocca mercoledì mattina in via Aldrovandi mentre vado a lavorare. Il mio ufficio sta vicino a villa Taverna, residenza privata dell’ambasciatore americano. «Undici giugno. E ai terroristi piace colpire l’11 del mese…»
Okay. Quindi niente auto, niente parcheggi, niente taxi. Ma neanche il tram 19 e i bus. Tutti deviati. Il problema è che il loro nuovo percorso, tre chilometri da viale Bruno Buozzi ai viali Liegi e Regina Margherita, è così intasato di auto che l’autista ci consiglia di scendere: «A piedi fate prima».
Va bene. Però mezzo chilometro prima di villa Taverna controllano i documenti ai pedoni. Bloccano tutti i non residenti, e chi non lavora in zona. Passo, perché la mia società risulta nell’elenco in mano a un poliziotto. Obietto: «Sono le nove del mattino, Bush arriva nel tardo pomeriggio, l’anno scorso avete fatto scattare i divieti solo due ore prima, perché questo inasprimento?» «Dotto’, obbediamo agli ordini».
All’una esco per andare a pranzo in centro. Per tutta la mattina i clacson del traffico fermo in piazza Ungheria ci hanno assordato. Rifaccio il percorso di quattro ore prima, alle transenne ritiro fuori la carta d’identità. No, non si può più passare: «Giri per via Paisiello». «Ma stamane sono passato di qui». «Mi spiace». Cammino un chilometro fino a via Pinciana, dove passano il 52, il 53 e il 910. Fermata soppressa. Un inutile giro vizioso, visto che è impossibile tagliare per Villa Borghese. Arrivo con mezz’ora di ritardo, sudato, dopo cinque chilometri a piedi.
Ieri mattina, peggioramento ulteriore. Via Aldrovandi tutta proibita anche ai pedoni, chissà come faranno i Caltagirone e Nancy Brilli a uscire di casa. Due interi quartieri, Parioli e Pinciano, paralizzati.
Nel 2004 ero a New York per la Convention repubblicana. Anche lì c’era Bush. Ma la polizia non fece tutto questo casino. Chiuse tre strade, però i pedoni passavano. E comunque lì la metropolitana (che in questa parte di Roma non c’è) ha sempre funzionato. Nessuno si sognerebbe di bloccare i traffici di mezza metropoli.
Caro Bush, facciamoci del male. Quest’anno al corteo contro di te c’erano solo quattro gatti. Ci hanno pensato le autorità a far maledire l’America da decine di migliaia di romani, impotenti e imbufaliti al volante.
Pedoni perquisiti e code infinite
Una città bloccata senza motivo
di Mauro Suttora
Libero, venerdì 13 giugno 2008
Sono filoamericano. Adoro i cheeseburger McDonald’s, e penso che Bush abbia fatto bene a cacciare Saddam. Sono felice che al presidente degli Stati Uniti piaccia Roma, e che ci torni ogni anno. Questa volta però, scusatemi, ma ha rotto le balle. Non lui, ma chi per proteggerlo ha bloccato mezza capitale d’Italia per tre giorni. Non so chi sia: il ministro dell’Interno, il prefetto, il questore, o la Cia che avrà chiesto misure di sicurezza eccessive. Ma qualcuno ha esagerato. Hanno raddoppiato i divieti rispetto all’anno scorso, ampliato a dismisura le zone proibite. Perché?
«Non sa che giorno è oggi?», mi sussurra il funzionario di polizia che mi blocca mercoledì mattina in via Aldrovandi mentre vado a lavorare. Il mio ufficio sta vicino a villa Taverna, residenza privata dell’ambasciatore americano. «Undici giugno. E ai terroristi piace colpire l’11 del mese…»
Okay. Quindi niente auto, niente parcheggi, niente taxi. Ma neanche il tram 19 e i bus. Tutti deviati. Il problema è che il loro nuovo percorso, tre chilometri da viale Bruno Buozzi ai viali Liegi e Regina Margherita, è così intasato di auto che l’autista ci consiglia di scendere: «A piedi fate prima».
Va bene. Però mezzo chilometro prima di villa Taverna controllano i documenti ai pedoni. Bloccano tutti i non residenti, e chi non lavora in zona. Passo, perché la mia società risulta nell’elenco in mano a un poliziotto. Obietto: «Sono le nove del mattino, Bush arriva nel tardo pomeriggio, l’anno scorso avete fatto scattare i divieti solo due ore prima, perché questo inasprimento?» «Dotto’, obbediamo agli ordini».
All’una esco per andare a pranzo in centro. Per tutta la mattina i clacson del traffico fermo in piazza Ungheria ci hanno assordato. Rifaccio il percorso di quattro ore prima, alle transenne ritiro fuori la carta d’identità. No, non si può più passare: «Giri per via Paisiello». «Ma stamane sono passato di qui». «Mi spiace». Cammino un chilometro fino a via Pinciana, dove passano il 52, il 53 e il 910. Fermata soppressa. Un inutile giro vizioso, visto che è impossibile tagliare per Villa Borghese. Arrivo con mezz’ora di ritardo, sudato, dopo cinque chilometri a piedi.
Ieri mattina, peggioramento ulteriore. Via Aldrovandi tutta proibita anche ai pedoni, chissà come faranno i Caltagirone e Nancy Brilli a uscire di casa. Due interi quartieri, Parioli e Pinciano, paralizzati.
Nel 2004 ero a New York per la Convention repubblicana. Anche lì c’era Bush. Ma la polizia non fece tutto questo casino. Chiuse tre strade, però i pedoni passavano. E comunque lì la metropolitana (che in questa parte di Roma non c’è) ha sempre funzionato. Nessuno si sognerebbe di bloccare i traffici di mezza metropoli.
Caro Bush, facciamoci del male. Quest’anno al corteo contro di te c’erano solo quattro gatti. Ci hanno pensato le autorità a far maledire l’America da decine di migliaia di romani, impotenti e imbufaliti al volante.
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LE QUATTRO 'RAGAZZE' DI NEW YORK APPRODANO SULLO SCHERMO
"Ma io che le ho conosciute da vicino dico: alla larga!"
Oggi, 11 giugno 2008
Rischia di passare alla storia come quello di 'Sex and the city', il decennio degli anni Zero che stiamo vivendo. In mancanza - tocchiamo ferro - di nuove guerre o attentati. Purtroppo ho conosciuto da vicino le "ragazze" di Manhattan (si fanno chiamare ridicolmente così anche quando hanno 50 anni), avendo vissuto con una di loro per un anno mentre ero corrispondente di 'Oggi' da New York. Le conseguenze sono state: portafogli (mio) vuoto, stress, divertimento, molte ubriacature.
Ho raccontato tutto nel libro 'No Sex in the City' (ed. Cairo, seconda edizione 2007). Molti pensano che a New York, capitale mondiale dei single, si faccia parecchio l' amore. È vero il contrario: le donne, ossessionate da carriera e shopping, provano più piacere comprando un paio di scarpe che a letto. Riducono il sesso a un' attività ginnica, che però viene dopo il tapis roulant in palestra. Per i maschi è un inferno: ho visto miliardari di Wall Street ridotti a cagnolini al guinzaglio delle loro mogli. Samantha, la più simpatica delle quattro smandrappate del film, viene dipinta come una ninfomane. In realtà, è proprio lei la meno falsa.
Mauro Suttora
"Ma io che le ho conosciute da vicino dico: alla larga!"
Oggi, 11 giugno 2008
Rischia di passare alla storia come quello di 'Sex and the city', il decennio degli anni Zero che stiamo vivendo. In mancanza - tocchiamo ferro - di nuove guerre o attentati. Purtroppo ho conosciuto da vicino le "ragazze" di Manhattan (si fanno chiamare ridicolmente così anche quando hanno 50 anni), avendo vissuto con una di loro per un anno mentre ero corrispondente di 'Oggi' da New York. Le conseguenze sono state: portafogli (mio) vuoto, stress, divertimento, molte ubriacature.
Ho raccontato tutto nel libro 'No Sex in the City' (ed. Cairo, seconda edizione 2007). Molti pensano che a New York, capitale mondiale dei single, si faccia parecchio l' amore. È vero il contrario: le donne, ossessionate da carriera e shopping, provano più piacere comprando un paio di scarpe che a letto. Riducono il sesso a un' attività ginnica, che però viene dopo il tapis roulant in palestra. Per i maschi è un inferno: ho visto miliardari di Wall Street ridotti a cagnolini al guinzaglio delle loro mogli. Samantha, la più simpatica delle quattro smandrappate del film, viene dipinta come una ninfomane. In realtà, è proprio lei la meno falsa.
Mauro Suttora
I pirati della strada
Killer della strada, licenza di uccidere
Inchiesta: vittime senza giustizia
Giovani vite spezzate, famiglie distrutte. Chi guida ubriaco o drogato e ammazza rischia oltre 12 anni. Ma quasi sempre se la cava con meno di uno. Ecco perché la strage degli innocenti è una lista che ci fa vergognare. E cresce ogni anno
di Mauro Suttora
Roma, 11 giugno 2008
Quarantuno morti. Una strage. Il trenta per cento in più rispetto allo stesso periodo dell' anno scorso. Tante sono le vittime dei pirati della strada nei primi cinque mesi del 2008. Dieci solo a Roma. Gli ultimi: Alessio Giuliani e Flaminia Giordani, i fidanzati in scooter uccisi due settimane fa a Roma, sulla Nomentana.
Ma lo scandalo vero sta nel comportamento dei giudici. Fino a due anni fa l' omicidio colposo era punito col carcere da sei mesi a cinque anni. Poi il minimo è stato alzato a due anni per le uccisioni sulla strada. E con le aggravanti si arriverebbe oltre i dodici. "Invece nove volte su dieci i colpevoli se la cavano con pene inferiori all' anno", denuncia Enrico Gelpi, presidente dell' Aci. E spesso, grazie alla condizionale, non passano neanche un giorno in carcere.
Rispetto ai cinquemila morti annui sulle strade italiane, le vittime dei pirati si distinguono perché i loro investitori non si fermano a soccorrerle, spesso in preda ad alcol e droga. Ma "pirati" vengono definiti tutti gli automobilisti che guidano con particolare imprudenza o scelleratezza, fino appunto a provocare l' uccisione di persone innocenti.
L' osservatorio dell' Asaps (Associazione amici Polizia stradale) registra un aumento addirittura dell' 82 per cento di tutti gli episodi di pirateria, che nel 2008 hanno provocato anche 105 feriti. "Sempre più spesso, nell' 85 per cento dei casi, le vittime sono pedoni o ciclisti", avverte Giordano Biserni, presidente dell' Asaps. "Chi li colpisce ha l'auto che marcia ancora, e quindi si può allontanare impunemente, specie di notte. Hanno paura di perdere punti della patente o la patente stessa, o per lo stato di ebbrezza, o perché l' assicurazione è scaduta o falsa".
Unico dato positivo: nei tre quarti dei casi il pirata viene individuato: o immediatamente o nei giorni successivi. L' aggravarsi del fenomeno ha provocato una risposta: nel decreto sulla sicurezza, il governo ha appena aumentato fino a dieci anni la pena massima di carcere per l' omicidio colposo, se il conducente è ubriaco o drogato. "Il problema però", ci spiega l'avvocato Federico Alfredo Bianchi di Roma, "è che nonostante i pirati rischiassero anche prima fino a dodici anni con le aggravanti per omissione di soccorso e altro, inspiegabilmente i giudici comminavano loro quasi sempre il minimo della pena".
Fra patteggiamenti, attenuanti e riti abbreviati, insomma, la giustizia evapora. Perché ? "L' omicidio colposo trova comprensione presso i giudici perché, si dice, può capitare a tutti", spiega Biserni. "Nel senso che tutti guidiamo e quindi potrebbe capitare a ciascuno di noi, per una distrazione, di investire e ammazzare qualcuno".Qui però si ha a che fare non con gente comune, ma con disgraziati che si imbottiscono di droga o alcol e che si lanciano a mo' di roulette russa nella notte per vedere quanti semafori rossi riescono a passare indenni, com' è capitato nell' ultimo caso della via Nomentana.
Perciò, anche prima dell' inasprimento della pena minima, tutto si giocava attorno a queste due parole: "dolo eventuale". "Il pirata non ammazza per semplice colpa", ci dice l'avvocato Bianchi, specializzato nell' assistenza ai parenti delle vittime, "ma mette nel conto di potere uccidere. Quindi il suo non è omicidio colposo, ma doloso". In quasi tutti i casi, però, compreso quello della Nomentana, i magistrati derubricano l' omicidio da doloso a colposo.
Come il 23 aprile 2007, ad Appignano sul Tronto (Ascoli Piceno), quando un furgone guidato da Marco Ahmetovic, nomade ubriaco di 22 anni, investì e uccise quattro ragazzi fra i 16 e i 18 anni. A ottobre l' investitore era già stato scarcerato. Qualcuno gli aveva perfino proposto di esibirsi come modello, vista la "fama" conquistata. Il pm aveva chiesto solo tre anni e tre mesi. Chissà se ha contato la pressione dell' opinione pubblica, ma Ahmetovic è stato condannato a sei anni e sei mesi. Cioè 19 mesi per ogni sua vittima.
Domenica 5 agosto 2007 è morta Giulia Bollo, 21 anni, di Civitavecchia: si è schiantata contro un albero di Guidonia (Roma) su un' auto guidata da un amico 25enne ubriaco e drogato che andava a velocità folle. Dev' essere ancora processato.
Atroce il destino della povera Giovanna Rachele Mazzeo, 26enne siciliana emigrata da Milazzo a Treviso per lavorare al Coin. La sera dello scorso 4 novembre aveva portato il suo cane a fare la pipì sul Terraglio, lo stradone che esce da Treviso verso Venezia. Era sulle strisce pedonali nella frazione Frescada di Preganziol, quando è stata spazzata via da una Citroeen. Il conducente, Francesco Parise, 56 anni, dipendente delle Ferrovie, si è costituito 72 ore dopo. "Ho sentito un botto, avevo visto un cane, non mi sono fermato perché pensavo di aver preso lui", si è giustificato. Sette mesi dopo, è libero e non è stato ancora processato.
Una strage che ha emozionato è stata quella di Fiumicino (Roma) nel febbraio di quest' anno: cinque morti, tutti donne e bambini che aspettavano l' autobus sul bordo di via Geminiano Montanari. Una Fiat Stilo in assetto da corsa guidata dal 21enne Simone Perrini arrivata a velocità folle si è scontrata con un pick up Mitsubishi e ha scagliato un' altra vettura fra la gente, come in un autoscontro. "Non sono un mostro, non sono un assassino, andavo a 90", si scagiona Perrini, che si è fermato a soccorrere le vittime. Assieme a lui è indagato per omicidio colposo plurimo il pizzaiolo Alessandro Cresta.
Pochi giorni dopo, il 17 marzo, è la volta di due giovani turiste irlandesi che stavano attraversando il lungotevere a Roma di fronte a Castel Sant' Angelo per tornare in albergo. Travolte e uccise da una Mercedes guidata da Friedrich Vernarelli, 32enne ubriaco che poi non si ferma e, quando viene arrestato, si rifiuta di sottoporsi al test dell' alcol. Vernarelli è ancora in carcere. Il 28 maggio la procura ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Ma il suo avvocato ora dice che andava a 85 e non a 120 all' ora, e ha chiesto due perizie: una per stabilire se le due irlandesi stavano attraversando col rosso, e l' altra per capire se avessero bevuto pure loro. Era la festa di San Patrizio, patrono degli irlandesi...
L' 11 aprile a Napoli, nel quartiere Scampia, un ragazzino di 10 anni e la madre sono stati uccisi da un 39enne invalido al 100 per cento per disturbi psichici al quale era stata ritirata la patente. I poliziotti lo hanno salvato dalla folla inferocita che stava per linciarlo.
Poche ore dopo, sempre a Napoli, è stato travolto e ucciso Salvatore Lauretano, operatore Rai, sposato, due figlie, che correva al bordo di una strada fra San Sebastiano e San Giorgio, allenandosi per la maratona. Infine, alla mezzanotte del 22 maggio, l' ultimo episodio della via crucis: i fidanzatini 23enni Flaminia e Alessio falciati sul motorino all' incrocio fra la via Nomentana e viale Regina Margherita a Roma dalla Mercedes di Stefano Lucidi, 33 anni, al quale era già stata tolta la patente. Era lanciato a 90 ed è passato col rosso. "No, andavo a 70 ed era giallo", si è difeso lui.
Mauro Suttora
RIQUADRO:
"Al processo l' assassino di mio figlio mi ha riso in faccia"
Il killer stava per uscire di prigione per decorrenza dei termini, e allora lui per far celebrare finalmente il processo è dovuto andare a incatenarsi davanti al Quirinale. "Ma ricordo che il magistrato quasi sbuffò contro di me, mi disse che era stufo di tutte quelle polemiche". Giovanni Delle Cave, ristoratore di Latina, ha perso il figlio 22enne Eros otto anni fa: "Passeggiava sul lungomare di Latina verso mezzanotte, era estate. Improvvisamente un' auto con a bordo cinque russi ubriachi si è abbattuta su di lui e i suoi amici. Sono morti in due, un terzo è stato spinto in un fosso accanto alla strada. Naturalmente i russi sono scappati".
Dopo sei mesi il processo non era stato ancora fatto, e il signor Delle Cave ha dovuto sollecitarlo con modi clamorosi. "Quando l' assassino di mio figlio è stato condannato a due anni e all' espulsione, si è voltato verso di me e mi ha riso in faccia. Non dimenticherò mai quel momento. Anche perché adesso lo vedo che scorrazza sempre beato in zona. Altro che espulsione !". Da allora Giovanni Delle Cave si batte per le vittime dei pirati. Ha fondato assieme all' avvocato di Roma Federico Alfredo Bianchi l' Associazione europea familiari delle vittime della strada, di cui è vicepresidente. La presidente è Lilia Gaviani Dellamore di Cesena. Sul sito internet c' è il resoconto della loro attività.
Delle Cave pochi giorni fa era di nuovo davanti al Quirinale con uno striscione di protesta. Oltre al danno, la beffa: "Dopo otto anni non abbiamo ricevuto ancora un centesimo di risarcimento. Ovviamente il tagliando dell' assicurazione del russo era falso, ma c' è un fondo per le vittime. A mia moglie hanno "misurato" il dolore per la morte del figlio, domandandole per quanto tempo non era venuta a lavorare nel ristorante".
M.S.
Inchiesta: vittime senza giustizia
Giovani vite spezzate, famiglie distrutte. Chi guida ubriaco o drogato e ammazza rischia oltre 12 anni. Ma quasi sempre se la cava con meno di uno. Ecco perché la strage degli innocenti è una lista che ci fa vergognare. E cresce ogni anno
di Mauro Suttora
Roma, 11 giugno 2008
Quarantuno morti. Una strage. Il trenta per cento in più rispetto allo stesso periodo dell' anno scorso. Tante sono le vittime dei pirati della strada nei primi cinque mesi del 2008. Dieci solo a Roma. Gli ultimi: Alessio Giuliani e Flaminia Giordani, i fidanzati in scooter uccisi due settimane fa a Roma, sulla Nomentana.
Ma lo scandalo vero sta nel comportamento dei giudici. Fino a due anni fa l' omicidio colposo era punito col carcere da sei mesi a cinque anni. Poi il minimo è stato alzato a due anni per le uccisioni sulla strada. E con le aggravanti si arriverebbe oltre i dodici. "Invece nove volte su dieci i colpevoli se la cavano con pene inferiori all' anno", denuncia Enrico Gelpi, presidente dell' Aci. E spesso, grazie alla condizionale, non passano neanche un giorno in carcere.
Rispetto ai cinquemila morti annui sulle strade italiane, le vittime dei pirati si distinguono perché i loro investitori non si fermano a soccorrerle, spesso in preda ad alcol e droga. Ma "pirati" vengono definiti tutti gli automobilisti che guidano con particolare imprudenza o scelleratezza, fino appunto a provocare l' uccisione di persone innocenti.
L' osservatorio dell' Asaps (Associazione amici Polizia stradale) registra un aumento addirittura dell' 82 per cento di tutti gli episodi di pirateria, che nel 2008 hanno provocato anche 105 feriti. "Sempre più spesso, nell' 85 per cento dei casi, le vittime sono pedoni o ciclisti", avverte Giordano Biserni, presidente dell' Asaps. "Chi li colpisce ha l'auto che marcia ancora, e quindi si può allontanare impunemente, specie di notte. Hanno paura di perdere punti della patente o la patente stessa, o per lo stato di ebbrezza, o perché l' assicurazione è scaduta o falsa".
Unico dato positivo: nei tre quarti dei casi il pirata viene individuato: o immediatamente o nei giorni successivi. L' aggravarsi del fenomeno ha provocato una risposta: nel decreto sulla sicurezza, il governo ha appena aumentato fino a dieci anni la pena massima di carcere per l' omicidio colposo, se il conducente è ubriaco o drogato. "Il problema però", ci spiega l'avvocato Federico Alfredo Bianchi di Roma, "è che nonostante i pirati rischiassero anche prima fino a dodici anni con le aggravanti per omissione di soccorso e altro, inspiegabilmente i giudici comminavano loro quasi sempre il minimo della pena".
Fra patteggiamenti, attenuanti e riti abbreviati, insomma, la giustizia evapora. Perché ? "L' omicidio colposo trova comprensione presso i giudici perché, si dice, può capitare a tutti", spiega Biserni. "Nel senso che tutti guidiamo e quindi potrebbe capitare a ciascuno di noi, per una distrazione, di investire e ammazzare qualcuno".Qui però si ha a che fare non con gente comune, ma con disgraziati che si imbottiscono di droga o alcol e che si lanciano a mo' di roulette russa nella notte per vedere quanti semafori rossi riescono a passare indenni, com' è capitato nell' ultimo caso della via Nomentana.
Perciò, anche prima dell' inasprimento della pena minima, tutto si giocava attorno a queste due parole: "dolo eventuale". "Il pirata non ammazza per semplice colpa", ci dice l'avvocato Bianchi, specializzato nell' assistenza ai parenti delle vittime, "ma mette nel conto di potere uccidere. Quindi il suo non è omicidio colposo, ma doloso". In quasi tutti i casi, però, compreso quello della Nomentana, i magistrati derubricano l' omicidio da doloso a colposo.
Come il 23 aprile 2007, ad Appignano sul Tronto (Ascoli Piceno), quando un furgone guidato da Marco Ahmetovic, nomade ubriaco di 22 anni, investì e uccise quattro ragazzi fra i 16 e i 18 anni. A ottobre l' investitore era già stato scarcerato. Qualcuno gli aveva perfino proposto di esibirsi come modello, vista la "fama" conquistata. Il pm aveva chiesto solo tre anni e tre mesi. Chissà se ha contato la pressione dell' opinione pubblica, ma Ahmetovic è stato condannato a sei anni e sei mesi. Cioè 19 mesi per ogni sua vittima.
Domenica 5 agosto 2007 è morta Giulia Bollo, 21 anni, di Civitavecchia: si è schiantata contro un albero di Guidonia (Roma) su un' auto guidata da un amico 25enne ubriaco e drogato che andava a velocità folle. Dev' essere ancora processato.
Atroce il destino della povera Giovanna Rachele Mazzeo, 26enne siciliana emigrata da Milazzo a Treviso per lavorare al Coin. La sera dello scorso 4 novembre aveva portato il suo cane a fare la pipì sul Terraglio, lo stradone che esce da Treviso verso Venezia. Era sulle strisce pedonali nella frazione Frescada di Preganziol, quando è stata spazzata via da una Citroeen. Il conducente, Francesco Parise, 56 anni, dipendente delle Ferrovie, si è costituito 72 ore dopo. "Ho sentito un botto, avevo visto un cane, non mi sono fermato perché pensavo di aver preso lui", si è giustificato. Sette mesi dopo, è libero e non è stato ancora processato.
Una strage che ha emozionato è stata quella di Fiumicino (Roma) nel febbraio di quest' anno: cinque morti, tutti donne e bambini che aspettavano l' autobus sul bordo di via Geminiano Montanari. Una Fiat Stilo in assetto da corsa guidata dal 21enne Simone Perrini arrivata a velocità folle si è scontrata con un pick up Mitsubishi e ha scagliato un' altra vettura fra la gente, come in un autoscontro. "Non sono un mostro, non sono un assassino, andavo a 90", si scagiona Perrini, che si è fermato a soccorrere le vittime. Assieme a lui è indagato per omicidio colposo plurimo il pizzaiolo Alessandro Cresta.
Pochi giorni dopo, il 17 marzo, è la volta di due giovani turiste irlandesi che stavano attraversando il lungotevere a Roma di fronte a Castel Sant' Angelo per tornare in albergo. Travolte e uccise da una Mercedes guidata da Friedrich Vernarelli, 32enne ubriaco che poi non si ferma e, quando viene arrestato, si rifiuta di sottoporsi al test dell' alcol. Vernarelli è ancora in carcere. Il 28 maggio la procura ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Ma il suo avvocato ora dice che andava a 85 e non a 120 all' ora, e ha chiesto due perizie: una per stabilire se le due irlandesi stavano attraversando col rosso, e l' altra per capire se avessero bevuto pure loro. Era la festa di San Patrizio, patrono degli irlandesi...
L' 11 aprile a Napoli, nel quartiere Scampia, un ragazzino di 10 anni e la madre sono stati uccisi da un 39enne invalido al 100 per cento per disturbi psichici al quale era stata ritirata la patente. I poliziotti lo hanno salvato dalla folla inferocita che stava per linciarlo.
Poche ore dopo, sempre a Napoli, è stato travolto e ucciso Salvatore Lauretano, operatore Rai, sposato, due figlie, che correva al bordo di una strada fra San Sebastiano e San Giorgio, allenandosi per la maratona. Infine, alla mezzanotte del 22 maggio, l' ultimo episodio della via crucis: i fidanzatini 23enni Flaminia e Alessio falciati sul motorino all' incrocio fra la via Nomentana e viale Regina Margherita a Roma dalla Mercedes di Stefano Lucidi, 33 anni, al quale era già stata tolta la patente. Era lanciato a 90 ed è passato col rosso. "No, andavo a 70 ed era giallo", si è difeso lui.
Mauro Suttora
RIQUADRO:
"Al processo l' assassino di mio figlio mi ha riso in faccia"
Il killer stava per uscire di prigione per decorrenza dei termini, e allora lui per far celebrare finalmente il processo è dovuto andare a incatenarsi davanti al Quirinale. "Ma ricordo che il magistrato quasi sbuffò contro di me, mi disse che era stufo di tutte quelle polemiche". Giovanni Delle Cave, ristoratore di Latina, ha perso il figlio 22enne Eros otto anni fa: "Passeggiava sul lungomare di Latina verso mezzanotte, era estate. Improvvisamente un' auto con a bordo cinque russi ubriachi si è abbattuta su di lui e i suoi amici. Sono morti in due, un terzo è stato spinto in un fosso accanto alla strada. Naturalmente i russi sono scappati".
Dopo sei mesi il processo non era stato ancora fatto, e il signor Delle Cave ha dovuto sollecitarlo con modi clamorosi. "Quando l' assassino di mio figlio è stato condannato a due anni e all' espulsione, si è voltato verso di me e mi ha riso in faccia. Non dimenticherò mai quel momento. Anche perché adesso lo vedo che scorrazza sempre beato in zona. Altro che espulsione !". Da allora Giovanni Delle Cave si batte per le vittime dei pirati. Ha fondato assieme all' avvocato di Roma Federico Alfredo Bianchi l' Associazione europea familiari delle vittime della strada, di cui è vicepresidente. La presidente è Lilia Gaviani Dellamore di Cesena. Sul sito internet c' è il resoconto della loro attività.
Delle Cave pochi giorni fa era di nuovo davanti al Quirinale con uno striscione di protesta. Oltre al danno, la beffa: "Dopo otto anni non abbiamo ricevuto ancora un centesimo di risarcimento. Ovviamente il tagliando dell' assicurazione del russo era falso, ma c' è un fondo per le vittime. A mia moglie hanno "misurato" il dolore per la morte del figlio, domandandole per quanto tempo non era venuta a lavorare nel ristorante".
M.S.
Roberta Mancino, paracadutista
"Volo libera coi marines"
Una paracadutista italiana addestra i soldati statunitensi
Roberta Mancino è campionessa mondiale di "free style". È andata a lavorare in North Carolina, con allievi molto speciali. "E pensare che sono una pacifista..."
di Mauro Suttora
Raeford (Stati Uniti), 11 giugno 2008
Confessa: "Ogni volta che mi butto dall' aereo provo le stesse sensazioni di quando faccio l' amore". Beata lei: perché Roberta Mancino, 26 anni, da Nettuno (Roma), di lanci ogni giorno ne fa anche una dozzina. Ora però il piacere è continuo, perché la nostra campionessa di paracadutismo free style (quello che prevede spettacolari figure di gruppo in volo libero prima di aprire il paracadute) è approdata nel più grande tunnel del vento del mondo: quello di Raeford, nella Carolina del Nord.
I lanci non danno pane: nonostante gli sponsor tecnici, anche i paracadutisti di livello mondiale come Roberta per mantenersi devono lavorare. Così lei è diventata istruttrice. "E fra i miei allievi ci sono anche dei soldati americani, ai quali insegno il free fly". E cos' è ? "Devono imparare come non ruzzolare in aria, a rallentare, ad accelerare...". Anche a sparare ? "Ma no ! Il tunnel del vento è solo un grande simulatore dove si galleggia come se si fosse per aria. Io poi odio le guerre e le armi, sono pacifista".
Fate l' amore, non la guerra. Potrebbe essere questo il motto della bella Roberta, che da modella ha posato nuda e che continua a farlo anche lanciandosi dagli aerei (in cambio di ben 20 mila dollari): alcune sue foto sono finite sull' edizione americana di Playboy. Comprensibile, quindi, l' entusiasmo nei suoi confronti dei soldati americani, che rintracciano queste sue generosissime immagini su Internet e poi, appena finita la lezione, la invitano a cena. Ma le loro speranze di riuscirci sono finora risultate vane. Anche se Roberta si è appena lasciata col fidanzato...
Ma com' è iniziata questa passione ? "Ho fatto i primi lanci ad Anzio nel 2001, e mi è subito piaciuto. Così ho frequentato un corso e ho preso il brevetto". Le capitali del paracadutismo sportivo in Italia, oltre ad Anzio, sono Reggio Emilia, Fano, Arezzo. Una ventina di squadre che si allenano per costruire figure con posti assegnati in aria. Da terra i giudici votano le migliori coreografie basandosi sui video filmati da un paracadutista che si lancia contemporaneamente.
Il primo record italiano per Roberta è arrivato nel 2005. Poi quello europeo in Spagna, replicato l' anno scorso. Infine quello mondiale. E da lì, il salto oltre Atlantico: "Passo tutto l' inverno in Arizona, fra Phoenix e Tucson. Lì il tempo è bello, ci si può lanciare sempre. E i prezzi sono minori. In Italia invece ogni lancio costa 25 euro...". Che però non è moltissimo. "No, ma per allenarci ne facciamo tanti. Io sono arrivata a quattromila". Né si risparmia nel Wind tunnel della Carolina, che costa 750 dollari all' ora. Lì si fa a meno degli aerei, ma le condizioni simulate sono quelle di un lancio da cinquemila metri di quota a una velocità di 250 chilometri l' ora. Il prossimo grande appuntamento per Roberta Mancino è ai mondiali di agosto in Francia. "Mi sto allenando fra una lezione e l' altra. E oltre ai militari insegno anche a bambini e anziani".
Il paracadutismo in America è più popolare che in Italia: perfino l' ex presidente George Bush senior ci ha tenuto a farsi immortalare mentre si lanciava, incosciente, per festeggiare l' ottantesimo compleanno. E lei, Roberta, pensa di paracadutarsi fino a quell' età ? "Per ora mi godo il presente. Noi paracadutisti siamo una specie di tribù, siamo sempre in movimento cercando i posti migliori per lanciarci. Volare dà una sensazione di libertà totale". Hai mai avuto paura ? "Solo in uno dei primissimi lanci. Mi sono bloccata, ho guardato giù e non sono riuscita a saltare dall' aereo. Sono ritornata a terra a bordo. Ma il giorno dopo ci ho riprovato, e la paura era passata".
Diplomata in ragioneria, Roberta da piccola ha fatto per anni danza classica. È minuta di corpo, non dà l' impressione della sportivona vitaminizzata. La grazia e il ritmo acquisiti danzando le servono ora per il free style. Ma prima le era scattata la molla degli sport estremi: ha nuotato fra gli squali, si è data anche al parapendio... "Tutto troppo noioso. Non c' è niente come volare".
Mauro Suttora
Una paracadutista italiana addestra i soldati statunitensi
Roberta Mancino è campionessa mondiale di "free style". È andata a lavorare in North Carolina, con allievi molto speciali. "E pensare che sono una pacifista..."
di Mauro Suttora
Raeford (Stati Uniti), 11 giugno 2008
Confessa: "Ogni volta che mi butto dall' aereo provo le stesse sensazioni di quando faccio l' amore". Beata lei: perché Roberta Mancino, 26 anni, da Nettuno (Roma), di lanci ogni giorno ne fa anche una dozzina. Ora però il piacere è continuo, perché la nostra campionessa di paracadutismo free style (quello che prevede spettacolari figure di gruppo in volo libero prima di aprire il paracadute) è approdata nel più grande tunnel del vento del mondo: quello di Raeford, nella Carolina del Nord.
I lanci non danno pane: nonostante gli sponsor tecnici, anche i paracadutisti di livello mondiale come Roberta per mantenersi devono lavorare. Così lei è diventata istruttrice. "E fra i miei allievi ci sono anche dei soldati americani, ai quali insegno il free fly". E cos' è ? "Devono imparare come non ruzzolare in aria, a rallentare, ad accelerare...". Anche a sparare ? "Ma no ! Il tunnel del vento è solo un grande simulatore dove si galleggia come se si fosse per aria. Io poi odio le guerre e le armi, sono pacifista".
Fate l' amore, non la guerra. Potrebbe essere questo il motto della bella Roberta, che da modella ha posato nuda e che continua a farlo anche lanciandosi dagli aerei (in cambio di ben 20 mila dollari): alcune sue foto sono finite sull' edizione americana di Playboy. Comprensibile, quindi, l' entusiasmo nei suoi confronti dei soldati americani, che rintracciano queste sue generosissime immagini su Internet e poi, appena finita la lezione, la invitano a cena. Ma le loro speranze di riuscirci sono finora risultate vane. Anche se Roberta si è appena lasciata col fidanzato...
Ma com' è iniziata questa passione ? "Ho fatto i primi lanci ad Anzio nel 2001, e mi è subito piaciuto. Così ho frequentato un corso e ho preso il brevetto". Le capitali del paracadutismo sportivo in Italia, oltre ad Anzio, sono Reggio Emilia, Fano, Arezzo. Una ventina di squadre che si allenano per costruire figure con posti assegnati in aria. Da terra i giudici votano le migliori coreografie basandosi sui video filmati da un paracadutista che si lancia contemporaneamente.
Il primo record italiano per Roberta è arrivato nel 2005. Poi quello europeo in Spagna, replicato l' anno scorso. Infine quello mondiale. E da lì, il salto oltre Atlantico: "Passo tutto l' inverno in Arizona, fra Phoenix e Tucson. Lì il tempo è bello, ci si può lanciare sempre. E i prezzi sono minori. In Italia invece ogni lancio costa 25 euro...". Che però non è moltissimo. "No, ma per allenarci ne facciamo tanti. Io sono arrivata a quattromila". Né si risparmia nel Wind tunnel della Carolina, che costa 750 dollari all' ora. Lì si fa a meno degli aerei, ma le condizioni simulate sono quelle di un lancio da cinquemila metri di quota a una velocità di 250 chilometri l' ora. Il prossimo grande appuntamento per Roberta Mancino è ai mondiali di agosto in Francia. "Mi sto allenando fra una lezione e l' altra. E oltre ai militari insegno anche a bambini e anziani".
Il paracadutismo in America è più popolare che in Italia: perfino l' ex presidente George Bush senior ci ha tenuto a farsi immortalare mentre si lanciava, incosciente, per festeggiare l' ottantesimo compleanno. E lei, Roberta, pensa di paracadutarsi fino a quell' età ? "Per ora mi godo il presente. Noi paracadutisti siamo una specie di tribù, siamo sempre in movimento cercando i posti migliori per lanciarci. Volare dà una sensazione di libertà totale". Hai mai avuto paura ? "Solo in uno dei primissimi lanci. Mi sono bloccata, ho guardato giù e non sono riuscita a saltare dall' aereo. Sono ritornata a terra a bordo. Ma il giorno dopo ci ho riprovato, e la paura era passata".
Diplomata in ragioneria, Roberta da piccola ha fatto per anni danza classica. È minuta di corpo, non dà l' impressione della sportivona vitaminizzata. La grazia e il ritmo acquisiti danzando le servono ora per il free style. Ma prima le era scattata la molla degli sport estremi: ha nuotato fra gli squali, si è data anche al parapendio... "Tutto troppo noioso. Non c' è niente come volare".
Mauro Suttora
Friday, June 06, 2008
Iuri Maria Prado e De Marchi
Cambio di linea
Addio editoriali di Prado e De Marchi.
Radio radicale spegne le voci liberiste
di Mauro Suttora
Libero, 6 giugno 2008
Radio radicale ha eliminato i quattro editoriali bisettimanali del mattino (l’orario di massimo ascolto) di Iuri Maria Prado e di Luigi De Marchi. Andavano in onda da una dozzina d'anni. Si cancella così la fase «liberista» della radio e del partito radicale, iniziata nel 1992, che aveva portato all'exploit della lista Bonino nel ’99 (8,5%).
Prado, 43 anni, avvocato milanese, ha uno studio specializzato in «proprietà industriale» (marchi e brevetti). Appassionato di Gadda e Savinio, nel ’96 era stato contattato da Pannella che apprezzava i suoi editoriali sul Giornale allora diretto da Vittorio Feltri. «Ma da quando nel 2006 scrissi su Libero che non avrei più votato radicale, non mi ha più chiamato. Mi ha solo detto: “Mi spiace per te”».
Nel suo ultimo editoriale, l’altroieri, Prado ha ringraziato Radio radicale per avergli sempre garantito totale libertà, «anche quando esprimevo opinioni diverse dalla linea del partito. Un caso quasi unico, in Italia». Ma dopo la svolta a sinistra di Pannella due anni fa, l’alleanza con i socialisti di Boselli nella riesumata Rosa nel pugno e l’appoggio a Prodi, era evidente che Prado e De Marchi si sono trovati spiazzati.
Stesso destino toccato ai due brillanti giovani allevati da Pannella negli anni ’90: Benedetto Della Vedova e Daniele Capezzone. Il primo si è candidato con Berlusconi già nel 2006, pur mantenendo ottimi rapporti con i radicali. Capezzone invece ha consumato un’acrimoniosa rottura con il partito di cui era stato segretario per cinque anni, e ora è portavoce di Forza Italia. L’unico radicale di destra rimasto a collaborare con Radio radicale è Marco Taradash, che cura la rassegna stampa al sabato.
L’ottuagenario Luigi De Marchi è un monumento del libertarismo italiano. Psicologo e politologo, negli anni ’50 introdusse in Italia il pensiero di Wilhelm Reich e nei ’60 fondò l’Aied (Associazione italiana educazione demografica), con i primi consultori sessuali. Nel ’67 si ritrovò in piazza San Pietro con Pannella sotto lo slogan: «Contro l’aborto, sì alla pillola».
All’inizio degli anni ’90 si avvicinò alla Lega, scrivendo saggi sulla «nuova lotta di classe liberale: produttori contro burocrati». In quel periodo anche i radicali si allearono con i leghisti, promuovendo assieme vari referendum liberisti. Due volte alla settimana De Marchi distillava il suo pensiero «psicopolitico» per Radio radicale, prima della seguitissima rassegna stampa del direttore Massimo Bordin.
Suscitava consensi ma anche forti avversioni: «Ogni volta che iniziava la sua rubrica spegnevo la radio per quei tre inascoltabili minuti», dice Angiolo Bandinelli, storico dirigente radicale e commentatore del Foglio.
I maligni collegano l’allontanamento di Prado e De Marchi ai trenta milioni di finanziamento concessi da Prodi nel novembre scorso alla radio per la trasmissione delle sedute parlamentari fino al 2010. «Sciocchezze», commenta il direttore Bordin, «a De Marchi ho già proposto un’altra collocazione nel palinsesto a partire dall’autunno».
Mauro Suttora
Addio editoriali di Prado e De Marchi.
Radio radicale spegne le voci liberiste
di Mauro Suttora
Libero, 6 giugno 2008
Radio radicale ha eliminato i quattro editoriali bisettimanali del mattino (l’orario di massimo ascolto) di Iuri Maria Prado e di Luigi De Marchi. Andavano in onda da una dozzina d'anni. Si cancella così la fase «liberista» della radio e del partito radicale, iniziata nel 1992, che aveva portato all'exploit della lista Bonino nel ’99 (8,5%).
Prado, 43 anni, avvocato milanese, ha uno studio specializzato in «proprietà industriale» (marchi e brevetti). Appassionato di Gadda e Savinio, nel ’96 era stato contattato da Pannella che apprezzava i suoi editoriali sul Giornale allora diretto da Vittorio Feltri. «Ma da quando nel 2006 scrissi su Libero che non avrei più votato radicale, non mi ha più chiamato. Mi ha solo detto: “Mi spiace per te”».
Nel suo ultimo editoriale, l’altroieri, Prado ha ringraziato Radio radicale per avergli sempre garantito totale libertà, «anche quando esprimevo opinioni diverse dalla linea del partito. Un caso quasi unico, in Italia». Ma dopo la svolta a sinistra di Pannella due anni fa, l’alleanza con i socialisti di Boselli nella riesumata Rosa nel pugno e l’appoggio a Prodi, era evidente che Prado e De Marchi si sono trovati spiazzati.
Stesso destino toccato ai due brillanti giovani allevati da Pannella negli anni ’90: Benedetto Della Vedova e Daniele Capezzone. Il primo si è candidato con Berlusconi già nel 2006, pur mantenendo ottimi rapporti con i radicali. Capezzone invece ha consumato un’acrimoniosa rottura con il partito di cui era stato segretario per cinque anni, e ora è portavoce di Forza Italia. L’unico radicale di destra rimasto a collaborare con Radio radicale è Marco Taradash, che cura la rassegna stampa al sabato.
L’ottuagenario Luigi De Marchi è un monumento del libertarismo italiano. Psicologo e politologo, negli anni ’50 introdusse in Italia il pensiero di Wilhelm Reich e nei ’60 fondò l’Aied (Associazione italiana educazione demografica), con i primi consultori sessuali. Nel ’67 si ritrovò in piazza San Pietro con Pannella sotto lo slogan: «Contro l’aborto, sì alla pillola».
All’inizio degli anni ’90 si avvicinò alla Lega, scrivendo saggi sulla «nuova lotta di classe liberale: produttori contro burocrati». In quel periodo anche i radicali si allearono con i leghisti, promuovendo assieme vari referendum liberisti. Due volte alla settimana De Marchi distillava il suo pensiero «psicopolitico» per Radio radicale, prima della seguitissima rassegna stampa del direttore Massimo Bordin.
Suscitava consensi ma anche forti avversioni: «Ogni volta che iniziava la sua rubrica spegnevo la radio per quei tre inascoltabili minuti», dice Angiolo Bandinelli, storico dirigente radicale e commentatore del Foglio.
I maligni collegano l’allontanamento di Prado e De Marchi ai trenta milioni di finanziamento concessi da Prodi nel novembre scorso alla radio per la trasmissione delle sedute parlamentari fino al 2010. «Sciocchezze», commenta il direttore Bordin, «a De Marchi ho già proposto un’altra collocazione nel palinsesto a partire dall’autunno».
Mauro Suttora
Wednesday, June 04, 2008
Il ballo delle vergini
Stravaganze d'America: il voto di purezza
«No sex in the city»: i padri s’impegnano a difendere la castità delle figlie fino alle nozze. È un’idea delle nuove chiese evangeliche, che fa discutere. Ma tra i suoi fan c’è anche il presidente degli Stati Uniti Bush
New York (Stati Uniti), 4 giugno 2008
Ci mancavano i «balli della purezza». Dagli Stati Uniti, fonte inesauribile di stravaganze, arriva la notizia che si stanno moltiplicando i cosiddetti purity ball: cerimonie annuali simili a serate di gala in cui gli adepti delle nuove chiese cristiane evangeliche si impegnano pubblicamente e solennemente a proteggere e preservare la verginità delle proprie figlie teen-ager. Compito arduo, in un Paese dove tutte le statistiche indicano che l’età del primo rapporto sessuale è attorno ai 14-15 anni. E dove i giovani che eventualmente si ritrovassero vergini a 18 anni finiscono in quei college descritti nell’ultimo libro di Tom Wolfe, Io sono Charlotte Simmons: «Sesso, sesso! Si respirava ovunque, insieme all’azoto e all’ossigeno! Tutto il campus era sempre pronto, inumidito e lubrificato. Si ingozzava di sesso, in un arrapamento continuo!».
Per reagire a questi eccessi, nel profondo Sud religioso dell’America sono nati nel 1998 i «Balli della purezza». «Io, padre di Elizabeth, scelgo di fronte a Dio di proteggere mia figlia con autorità nel campo della purezza. Sarò puro nella mia vita come uomo, marito e padre. Sarò una persona integra e onesta nel guidare mia figlia e pregare per lei, come il sacerdote della mia casa. E questa promessa verrà usata nel nome di Dio per influenzare le prossime generazioni». Queste sono, letteralmente, le parole che i padri pronunciano in giuramento con tanto di spadoni in difesa dell’illibatezza della figlia teen-ager. I loro eventuali fidanzatini sono avvertiti: niente rapporti sessuali prima del matrimonio.
Già negli Anni 80 erano nati alcuni gruppi di giovani religiosi che sventolavano con orgoglio la propria castità. Ma solo con la presidenza di George Bush alcuni Stati della «cintura della Bibbia» sono arrivati a finanziare con soldi pubblici corsi di educazione sessuale in cui l’astinenza viene propagandata come il miglior anticoncezionale, la migliore protezione contro le malattie veneree e il baluardo più efficace contro il fenomeno dilagante delle ragazze madri di 16-18 anni, diffuso soprattutto nei ghetti neri.
Ma questi «Balli della purezza», con l’entrata in campo diretta dei padri, segnano un ulteriore passo per le chiese del Texas, del Dakota o del Missouri.
Così li critica la femminista Eve Ensler: «Alle ragazze che affidano la propria verginità al padre viene di fatto tolto il diritto alla sessualità. Fino a quando non firmano un contratto con un altro uomo: il marito. Diventano invisibili. Non esistono più».
Che per evitare gli eccessi della promiscuità sessuale non si debba cadere in eccessi opposti lo sostengono anche molti cristiani evangelici, come Betsy Hart: «Sono cristiana e credo fermamente che il sesso sia riservato al matrimonio. Ma non farei mai una cosa simile per i miei figli, maschi o femmine. Questa fissazione per la verginità finisce con l’essere controproducente. Cristo, condannando l’ipocrisia dei farisei esibizionisti, ci ha insegnato che il peccato non è ciò che entra in una persona, ma ciò che esce dal suo cuore».
In effetti, le statistiche dimostrano che chi si impegna alla castità conserva la propria verginità «tecnica» solo 18 mesi più a lungo delle altre ragazze, ma ha una probabilità sei volte maggiore di praticare il sesso orale. Che, come arrivò a (sper)giurare l’ex presidente Bill Clinton, secondo alcuni non sarebbe sesso completo.
Non si capisce poi perché i ragazzi maschi non debbano essere oggetto di un’attenzione altrettanto rigorosa di quella riservata alle loro sorelle.
In ogni caso, anche se circoscritto a poche decine di migliaia di persone in un Paese con 300 milioni di abitanti, il ritorno alla verginità sembra un fenomeno in crescita. Forse per reazione ai matrimoni gay, appena legalizzati anche in California dopo il Massachusetts, o all’eutanasia permessa in Oregon.
Insomma, esiste un’America rurale ed economicamente arretrata dove questi messaggi rassicuranti fanno presa. E un tribunale ha appena condannato l’«intro-missione» della polizia che ha liberato le donne di un gruppo religioso che praticava la poligamia in Texas. Massima libertà per tutti, negli Stati Uniti. Anche troppa.
Sbaglia quindi chi immagina che l’America sia tutta libertina come nel film appena uscito 'Sex and the City'. Quella è solo New York: basta attraversare il fiume Hudson per scoprire che le donne disinibite e gli omosessuali di Manhattan non hanno vita facile altrove.
Il 22 luglio, per esempio, si riunirà ad Orlando (Florida) il congresso nazionale del Centro per l’astinenza, fondato nel 1993 da Leslee Unruh, energica biondona del Sud Dakota. In questo quindicennio la sua propaganda per un «nuova verginità» ha fatto proseliti anche nelle università più di sinistra, come Harvard a Boston o Columbia a New York. Si sono formati piccoli gruppi non più tanto catacombali di ragazzi che, spesso delusi dal sesso promiscuo praticato in passato anche da loro stessi, aspettano il matrimonio, o almeno il grande amore, per «donarsi completamente». Proprio come il giocatore del Milan Kakà.
E poiché gli americani sono pragmatici, aumentano gli interventi chirurgici per richiudere l’imene. Ovvero per riguadagnare una verginità perduta. Non siamo nella Sicilia di un secolo fa. Siamo nel Paese guida dell’Occidente, dove c’è ancora l’illusione che, con po’ di fortuna, ottimismo e buona volontà, tutto è possibile. Rivergination compresa.
In fondo, fanno parte del Grande sogno americano anche i simpatici signori di queste foto, convinti di proteggere l’innocenza delle proprie figliole.
● E in Italia, la verginità è ancora un valore? «Il 45 per cento dei giovani tra i 18 e i 25 anni ritiene la verginità un valore importante», dice la psicosessuologa Marinella Cozzolino.
● Meno legati al valore della verginità gli universitari di Teramo, che hanno risposto alla domanda: «Andiamo a letto con tutti/e o aspettiamo l’amore?». Per l’80 per cento la verginità non è un valore.
Mauro Suttora
«No sex in the city»: i padri s’impegnano a difendere la castità delle figlie fino alle nozze. È un’idea delle nuove chiese evangeliche, che fa discutere. Ma tra i suoi fan c’è anche il presidente degli Stati Uniti Bush
New York (Stati Uniti), 4 giugno 2008
Ci mancavano i «balli della purezza». Dagli Stati Uniti, fonte inesauribile di stravaganze, arriva la notizia che si stanno moltiplicando i cosiddetti purity ball: cerimonie annuali simili a serate di gala in cui gli adepti delle nuove chiese cristiane evangeliche si impegnano pubblicamente e solennemente a proteggere e preservare la verginità delle proprie figlie teen-ager. Compito arduo, in un Paese dove tutte le statistiche indicano che l’età del primo rapporto sessuale è attorno ai 14-15 anni. E dove i giovani che eventualmente si ritrovassero vergini a 18 anni finiscono in quei college descritti nell’ultimo libro di Tom Wolfe, Io sono Charlotte Simmons: «Sesso, sesso! Si respirava ovunque, insieme all’azoto e all’ossigeno! Tutto il campus era sempre pronto, inumidito e lubrificato. Si ingozzava di sesso, in un arrapamento continuo!».
Per reagire a questi eccessi, nel profondo Sud religioso dell’America sono nati nel 1998 i «Balli della purezza». «Io, padre di Elizabeth, scelgo di fronte a Dio di proteggere mia figlia con autorità nel campo della purezza. Sarò puro nella mia vita come uomo, marito e padre. Sarò una persona integra e onesta nel guidare mia figlia e pregare per lei, come il sacerdote della mia casa. E questa promessa verrà usata nel nome di Dio per influenzare le prossime generazioni». Queste sono, letteralmente, le parole che i padri pronunciano in giuramento con tanto di spadoni in difesa dell’illibatezza della figlia teen-ager. I loro eventuali fidanzatini sono avvertiti: niente rapporti sessuali prima del matrimonio.
Già negli Anni 80 erano nati alcuni gruppi di giovani religiosi che sventolavano con orgoglio la propria castità. Ma solo con la presidenza di George Bush alcuni Stati della «cintura della Bibbia» sono arrivati a finanziare con soldi pubblici corsi di educazione sessuale in cui l’astinenza viene propagandata come il miglior anticoncezionale, la migliore protezione contro le malattie veneree e il baluardo più efficace contro il fenomeno dilagante delle ragazze madri di 16-18 anni, diffuso soprattutto nei ghetti neri.
Ma questi «Balli della purezza», con l’entrata in campo diretta dei padri, segnano un ulteriore passo per le chiese del Texas, del Dakota o del Missouri.
Così li critica la femminista Eve Ensler: «Alle ragazze che affidano la propria verginità al padre viene di fatto tolto il diritto alla sessualità. Fino a quando non firmano un contratto con un altro uomo: il marito. Diventano invisibili. Non esistono più».
Che per evitare gli eccessi della promiscuità sessuale non si debba cadere in eccessi opposti lo sostengono anche molti cristiani evangelici, come Betsy Hart: «Sono cristiana e credo fermamente che il sesso sia riservato al matrimonio. Ma non farei mai una cosa simile per i miei figli, maschi o femmine. Questa fissazione per la verginità finisce con l’essere controproducente. Cristo, condannando l’ipocrisia dei farisei esibizionisti, ci ha insegnato che il peccato non è ciò che entra in una persona, ma ciò che esce dal suo cuore».
In effetti, le statistiche dimostrano che chi si impegna alla castità conserva la propria verginità «tecnica» solo 18 mesi più a lungo delle altre ragazze, ma ha una probabilità sei volte maggiore di praticare il sesso orale. Che, come arrivò a (sper)giurare l’ex presidente Bill Clinton, secondo alcuni non sarebbe sesso completo.
Non si capisce poi perché i ragazzi maschi non debbano essere oggetto di un’attenzione altrettanto rigorosa di quella riservata alle loro sorelle.
In ogni caso, anche se circoscritto a poche decine di migliaia di persone in un Paese con 300 milioni di abitanti, il ritorno alla verginità sembra un fenomeno in crescita. Forse per reazione ai matrimoni gay, appena legalizzati anche in California dopo il Massachusetts, o all’eutanasia permessa in Oregon.
Insomma, esiste un’America rurale ed economicamente arretrata dove questi messaggi rassicuranti fanno presa. E un tribunale ha appena condannato l’«intro-missione» della polizia che ha liberato le donne di un gruppo religioso che praticava la poligamia in Texas. Massima libertà per tutti, negli Stati Uniti. Anche troppa.
Sbaglia quindi chi immagina che l’America sia tutta libertina come nel film appena uscito 'Sex and the City'. Quella è solo New York: basta attraversare il fiume Hudson per scoprire che le donne disinibite e gli omosessuali di Manhattan non hanno vita facile altrove.
Il 22 luglio, per esempio, si riunirà ad Orlando (Florida) il congresso nazionale del Centro per l’astinenza, fondato nel 1993 da Leslee Unruh, energica biondona del Sud Dakota. In questo quindicennio la sua propaganda per un «nuova verginità» ha fatto proseliti anche nelle università più di sinistra, come Harvard a Boston o Columbia a New York. Si sono formati piccoli gruppi non più tanto catacombali di ragazzi che, spesso delusi dal sesso promiscuo praticato in passato anche da loro stessi, aspettano il matrimonio, o almeno il grande amore, per «donarsi completamente». Proprio come il giocatore del Milan Kakà.
E poiché gli americani sono pragmatici, aumentano gli interventi chirurgici per richiudere l’imene. Ovvero per riguadagnare una verginità perduta. Non siamo nella Sicilia di un secolo fa. Siamo nel Paese guida dell’Occidente, dove c’è ancora l’illusione che, con po’ di fortuna, ottimismo e buona volontà, tutto è possibile. Rivergination compresa.
In fondo, fanno parte del Grande sogno americano anche i simpatici signori di queste foto, convinti di proteggere l’innocenza delle proprie figliole.
● E in Italia, la verginità è ancora un valore? «Il 45 per cento dei giovani tra i 18 e i 25 anni ritiene la verginità un valore importante», dice la psicosessuologa Marinella Cozzolino.
● Meno legati al valore della verginità gli universitari di Teramo, che hanno risposto alla domanda: «Andiamo a letto con tutti/e o aspettiamo l’amore?». Per l’80 per cento la verginità non è un valore.
Mauro Suttora
I dittatori più longevi
Nella gara dei tiranni Mugabe batte Mao e Pol Pot
Libero, 4 giugno 2008
di Mauro Suttora
Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe che ieri ha parlato al vertice Fao di Roma, è un decano fra i despoti mondiali: è al potere da 28 anni. Più longevi di lui sono soltanto il sultano del Brunei e quattro altri tiranni africani: Omar Bongo (Gabon) che si installò 41 anni fa, il libico Muammar Gheddafi (dal 1969) e, con appena un anno in più al potere di Mugabe, Eduardo Dos Santos (Angola) e Teodoro Obiang Nguema (Guinea Equatoriale). L’Africa, insomma, la fa da padrona in questo triste elenco.
Mugabe, come l’iraniano Ahmadinejad, tecnicamente non potrebbe essere definito «dittatore». Nello Zimbabwe come in Iran, infatti, si svolgono regolarmente elezioni presidenziali. Ma i risultati sono falsati o truccati, a causa della mancanza di libertà.
Secondo Freedom House sono otto le dittature peggiori del mondo: Birmania, Corea del Nord, Cuba, Libia, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan. Subito dopo, lo Zimbabwe di Mugabe assieme a Bielorussia, Cina, Costa d’Avorio, Guinea Equatoriale, Eritrea, Laos, Arabia Saudita e Siria. Al terzo peggior posto Camerun, Ciad, Iran, Swaziland e Vietnam. Ma anche Brunei e Angola vengono considerati Paesi «non liberi». Si «salva» solo Omar Bongo: il suo Gabon è considerato «parzialmente libero».
Ieri al vertice Fao ha preso la parola anche Isaias Afewerki, dittatore dell’Eritrea. Come Mugabe e tanti altri leader africani (da Dos Santos al tanzaniano Nyerere, dal keniota Kenyatta al guineano Houphuet-Boigny), all’inizio era un liberatore e padre della patria. Ma col passare degli anni si è attaccato al potere e incattivito. Esattamente come accade in «The Interpreter» (2006), l’ultimo film con Nicole Kidman e Sean Penn del povero Sydney Pollack, scomparso la scorsa settimana.
Se non avesse abdicato in favore del fratello Raul, in vetta alla classifica ci sarebbe stato Fidel Castro. Per pochi mesi non ha raggiunto i 49 anni di dominio assoluto esercitati dal coreano Kim Il Sung (1945-94), prima di morire lasciando lo scettro al figlio Kim Jong Il (che quindi è già arrivato a 14 anni). Fra gli immarcescibili, notevoli l’albanese Enver Hoxha (40 anni, fino all’85), lo spagnolo Francisco Franco e il persiano Reza Pahlevi (entrambi durati 39anni), e lo jugoslavo Tito (35, come Saddam Hussein).
Relativamente poco hanno resistito Hitler (12 anni) e Mussolini (23). Molto di più i comunisti Stalin (29) e Mao (27).
Naturalmente la durata di un dittatore non è correlata alla sua ferocia. Al cambogiano Pol Pot sono bastati quattro anni per sterminare un quarto dei suoi sudditi.
Incredibile, invece, la quantità di tiranni che riescono a morire tranquilli nel proprio letto. Perfino i cannibali e sanguinari Bokassa e Idi Amin Dada sono riusciti a scappare in esilio. Il tirannicidio, giudicato legittimo dagli antichi greci e perfino dalla Chiesa, non viene più molto praticato. Dove sono finiti gli anarchici dell’Ottocento? Se aspettiamo i tribunali Onu, nessuno verrà punito. Perfino il serbo Milosevic ha fatto in tempo a crepare per conto suo, prima della fine del processo all’Aia.
Mauro Suttora
Libero, 4 giugno 2008
di Mauro Suttora
Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe che ieri ha parlato al vertice Fao di Roma, è un decano fra i despoti mondiali: è al potere da 28 anni. Più longevi di lui sono soltanto il sultano del Brunei e quattro altri tiranni africani: Omar Bongo (Gabon) che si installò 41 anni fa, il libico Muammar Gheddafi (dal 1969) e, con appena un anno in più al potere di Mugabe, Eduardo Dos Santos (Angola) e Teodoro Obiang Nguema (Guinea Equatoriale). L’Africa, insomma, la fa da padrona in questo triste elenco.
Mugabe, come l’iraniano Ahmadinejad, tecnicamente non potrebbe essere definito «dittatore». Nello Zimbabwe come in Iran, infatti, si svolgono regolarmente elezioni presidenziali. Ma i risultati sono falsati o truccati, a causa della mancanza di libertà.
Secondo Freedom House sono otto le dittature peggiori del mondo: Birmania, Corea del Nord, Cuba, Libia, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan. Subito dopo, lo Zimbabwe di Mugabe assieme a Bielorussia, Cina, Costa d’Avorio, Guinea Equatoriale, Eritrea, Laos, Arabia Saudita e Siria. Al terzo peggior posto Camerun, Ciad, Iran, Swaziland e Vietnam. Ma anche Brunei e Angola vengono considerati Paesi «non liberi». Si «salva» solo Omar Bongo: il suo Gabon è considerato «parzialmente libero».
Ieri al vertice Fao ha preso la parola anche Isaias Afewerki, dittatore dell’Eritrea. Come Mugabe e tanti altri leader africani (da Dos Santos al tanzaniano Nyerere, dal keniota Kenyatta al guineano Houphuet-Boigny), all’inizio era un liberatore e padre della patria. Ma col passare degli anni si è attaccato al potere e incattivito. Esattamente come accade in «The Interpreter» (2006), l’ultimo film con Nicole Kidman e Sean Penn del povero Sydney Pollack, scomparso la scorsa settimana.
Se non avesse abdicato in favore del fratello Raul, in vetta alla classifica ci sarebbe stato Fidel Castro. Per pochi mesi non ha raggiunto i 49 anni di dominio assoluto esercitati dal coreano Kim Il Sung (1945-94), prima di morire lasciando lo scettro al figlio Kim Jong Il (che quindi è già arrivato a 14 anni). Fra gli immarcescibili, notevoli l’albanese Enver Hoxha (40 anni, fino all’85), lo spagnolo Francisco Franco e il persiano Reza Pahlevi (entrambi durati 39anni), e lo jugoslavo Tito (35, come Saddam Hussein).
Relativamente poco hanno resistito Hitler (12 anni) e Mussolini (23). Molto di più i comunisti Stalin (29) e Mao (27).
Naturalmente la durata di un dittatore non è correlata alla sua ferocia. Al cambogiano Pol Pot sono bastati quattro anni per sterminare un quarto dei suoi sudditi.
Incredibile, invece, la quantità di tiranni che riescono a morire tranquilli nel proprio letto. Perfino i cannibali e sanguinari Bokassa e Idi Amin Dada sono riusciti a scappare in esilio. Il tirannicidio, giudicato legittimo dagli antichi greci e perfino dalla Chiesa, non viene più molto praticato. Dove sono finiti gli anarchici dell’Ottocento? Se aspettiamo i tribunali Onu, nessuno verrà punito. Perfino il serbo Milosevic ha fatto in tempo a crepare per conto suo, prima della fine del processo all’Aia.
Mauro Suttora
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Tuesday, June 03, 2008
Mangiano pure sulla fame
PAPPONI MONDIALI
Si apre a Roma il vertice mondiale sulla povertà. Un ente internazionale che brucia quattrini senza fare nulla. Presenti anche capi di Stato che affamano i popoli. Come Mugabe e Ahmadinejad
Libero, 3 giugno 2008
di Mauro Suttora
Il quinto dittatore più longevo del mondo è atterrato a Fiumicino tranquillo e felice domenica notte con la moglie Grace. Ha conquistato il potere nel 1980 e non lo ha più mollato. Soltanto Gheddafi e altri tre despoti (il sultano del Brunei, Omar Bongo in Gabon e Dos Santos in Angola) tiranneggiano i loro popoli da più tempo.
Robert Mugabe ha 84 anni ed è ospitato a Roma nell’ambasciata del suo Zimbabwe, quartiere Prati. Mentre era in volo i suoi poliziotti in Africa hanno arrestato l’oppositore più prestigioso, il giovane scienziato Arthur Mutambara, assieme a decine di altri avversari politici.
Lo Zimbabwe è l’ex Rhodesia del Sud. Era un Paese florido, uno dei granai d’Africa. Gli inglesi se ne sono andati 28 anni fa, e da allora le cose sono costantemente peggiorate. Oggi i tredici milioni di sudditi di Mugabe sono fra i più poveri del mondo, ridotti alla fame. L’inflazione è del 156.000 per cento. Non è un refuso: significa che ogni giorno i prezzi quadruplicano. Fino a una dozzina di anni fa almeno c’era la libertà. Ora neanche più quella. Da liberatore, Mugabe si è trasformato in tiranno.
Nel 2002 ha truccato le elezioni per farsi rieleggere. L’Unione europea ha reagito proibendogli di venire nel nostro continente. Ma lui si fa gioco di questo divieto. Con la scusa che a Roma c’è la Fao (Food and agriculture organization), la quale come tutte le agenzie dell’Onu gode di extraterritorialità, fa una capatina in Italia ogni volta che può. L’ultima volta, a un vertice Fao del 2005, paragonò Bush e Blair a Mussolini e Hitler. Chissà cosa dirà questa volta.
Con la sua presenza a Roma, Mugabe sta facendo ombra perfino a un altro gentiluomo come l’iraniano Ahmadinejjad. Il ministro degli Esteri australiano Smith ha definito «oscena» la sua presenza al vertice contro la fame nel mondo: «Mugabe è responsabile della fame di cui soffre il suo popolo, e ha usato gli aiuti alimentari a fini politici». Due mesi fa ha perso di nuovo le elezioni, ma grazie ai soliti brogli ha ottenuto un ballottaggio per il 27 giugno. E ora è venuto a farsi un po’ di propaganda in Italia.
Il pretesto glielo offre uno dei tanti inutili vertici contro la fame di una delle tante inutili agenzie dell’Onu. La Fao, appunto. Il palazzo bianco della Fao sta vicino alle terme di Caracalla, un precursore di Mugabe. Fino al 2002 nel piazzale davanti alla Fao c’era l’obelisco di Axum. Poi l’Etiopia ha chiesto di riaverlo. L’Italia, chissà perché, ha acconsentito. Così l’obelisco è stato tolto e rispedito in Etiopia a nostre spese. Da allora giace abbandonato sotto una tettoia. Questo è il risultato dei complessi di colpa degli ex colonialisti.
Un altro risultato è che continuiamo a finanziare baracconi come la Fao. Ha quattromila funzionari. Duemila stanno «sul campo», nei posti dove si soffre la fame, e probabilmente qualcosa combinano. Gli altri duemila stanno a Roma, e si godono i loro stipendi da ottomila euro al mese esentasse. La Fao costa quasi 400 milioni di dollari l’anno. Poco, tutto sommato, se paragonati ai 300 milioni di euro che abbiamo appena deciso di buttare via per dare qualche altro mese di vita all’Alitalia. Ma tanto, se si scopre che gran parte del bilancio serve per pagare i dipendenti.
Come per l’Onu e l’Unesco, i tre quarti dei soldi vengono versati da undici Paesi (fra i quali non compaiono Cina e Russia, nonostante abbiano diritto di veto). Gli Usa pagano da soli il 25% delle spese, il Giappone il 20. Ma quando si decide come spendere, vale la regola della maggioranza. I membri della Fao sono 191. E il voto di San Marino vale quanto quello degli Usa.
L’inefficienza della Fao è leggendaria. Già nel 1960, visti gli scarsi risultati, fu creato il Pam (Programma alimentare mondiale), agenzia operativa per le emergenze sempre con sede a Roma. Esiste tuttora e funziona abbastanza bene. Negli anni ’70 si continua con la moltiplicazione degli enti: nascono il Wfc (World food council) e l’Ifad (International fund for agricultural development).
Vent’anni fa la Heritage Foundation, think tank Usa di destra, dimostra dati alla mano che l’inefficienza continua. E nel ’91 ai critici della Fao si aggiunge la rivista The Ecologist, bibbia degli ambientalisti, che decreta addirittura: “La Fao promuove la fame nel mondo, invece di combatterla”.
Niente da fare. La burobaracca sopravvive organizzando vertici su vertici. Quello del 2002 viene considerato uno «spreco di tempo» perfino da molti dei partecipanti ufficiali. Nel maggio 2006 si dimette Louise Fresco, assistente direttore generale della Fao, che ammette: “La nostra organizzazione è incapace di adattarsi alla nuova era,i suoi capi non propongono soluzioni per superare la crisi”.
Dopo il vertice del 2006 Oxfam, la più grande Ong (Organizzazione non governativa) privata contro la fame nel mondo, chiese di finirla con le «feste di parole». Un mese fa il presidente del Senegal ha ribadito: “Meglio chiudere la Fao”. Invece ora ci risiamo. Per tre giorni i potenti della Terra, dittatori e affamatori compresi, banchettano a Roma alla faccia degli affamati. Quelli che fanno qualcosa di concreto (i missionari, i volontari delle Ong) sono rimasti in Africa, in Asia, in America Latina.
Mauro Suttora
Si apre a Roma il vertice mondiale sulla povertà. Un ente internazionale che brucia quattrini senza fare nulla. Presenti anche capi di Stato che affamano i popoli. Come Mugabe e Ahmadinejad
Libero, 3 giugno 2008
di Mauro Suttora
Il quinto dittatore più longevo del mondo è atterrato a Fiumicino tranquillo e felice domenica notte con la moglie Grace. Ha conquistato il potere nel 1980 e non lo ha più mollato. Soltanto Gheddafi e altri tre despoti (il sultano del Brunei, Omar Bongo in Gabon e Dos Santos in Angola) tiranneggiano i loro popoli da più tempo.
Robert Mugabe ha 84 anni ed è ospitato a Roma nell’ambasciata del suo Zimbabwe, quartiere Prati. Mentre era in volo i suoi poliziotti in Africa hanno arrestato l’oppositore più prestigioso, il giovane scienziato Arthur Mutambara, assieme a decine di altri avversari politici.
Lo Zimbabwe è l’ex Rhodesia del Sud. Era un Paese florido, uno dei granai d’Africa. Gli inglesi se ne sono andati 28 anni fa, e da allora le cose sono costantemente peggiorate. Oggi i tredici milioni di sudditi di Mugabe sono fra i più poveri del mondo, ridotti alla fame. L’inflazione è del 156.000 per cento. Non è un refuso: significa che ogni giorno i prezzi quadruplicano. Fino a una dozzina di anni fa almeno c’era la libertà. Ora neanche più quella. Da liberatore, Mugabe si è trasformato in tiranno.
Nel 2002 ha truccato le elezioni per farsi rieleggere. L’Unione europea ha reagito proibendogli di venire nel nostro continente. Ma lui si fa gioco di questo divieto. Con la scusa che a Roma c’è la Fao (Food and agriculture organization), la quale come tutte le agenzie dell’Onu gode di extraterritorialità, fa una capatina in Italia ogni volta che può. L’ultima volta, a un vertice Fao del 2005, paragonò Bush e Blair a Mussolini e Hitler. Chissà cosa dirà questa volta.
Con la sua presenza a Roma, Mugabe sta facendo ombra perfino a un altro gentiluomo come l’iraniano Ahmadinejjad. Il ministro degli Esteri australiano Smith ha definito «oscena» la sua presenza al vertice contro la fame nel mondo: «Mugabe è responsabile della fame di cui soffre il suo popolo, e ha usato gli aiuti alimentari a fini politici». Due mesi fa ha perso di nuovo le elezioni, ma grazie ai soliti brogli ha ottenuto un ballottaggio per il 27 giugno. E ora è venuto a farsi un po’ di propaganda in Italia.
Il pretesto glielo offre uno dei tanti inutili vertici contro la fame di una delle tante inutili agenzie dell’Onu. La Fao, appunto. Il palazzo bianco della Fao sta vicino alle terme di Caracalla, un precursore di Mugabe. Fino al 2002 nel piazzale davanti alla Fao c’era l’obelisco di Axum. Poi l’Etiopia ha chiesto di riaverlo. L’Italia, chissà perché, ha acconsentito. Così l’obelisco è stato tolto e rispedito in Etiopia a nostre spese. Da allora giace abbandonato sotto una tettoia. Questo è il risultato dei complessi di colpa degli ex colonialisti.
Un altro risultato è che continuiamo a finanziare baracconi come la Fao. Ha quattromila funzionari. Duemila stanno «sul campo», nei posti dove si soffre la fame, e probabilmente qualcosa combinano. Gli altri duemila stanno a Roma, e si godono i loro stipendi da ottomila euro al mese esentasse. La Fao costa quasi 400 milioni di dollari l’anno. Poco, tutto sommato, se paragonati ai 300 milioni di euro che abbiamo appena deciso di buttare via per dare qualche altro mese di vita all’Alitalia. Ma tanto, se si scopre che gran parte del bilancio serve per pagare i dipendenti.
Come per l’Onu e l’Unesco, i tre quarti dei soldi vengono versati da undici Paesi (fra i quali non compaiono Cina e Russia, nonostante abbiano diritto di veto). Gli Usa pagano da soli il 25% delle spese, il Giappone il 20. Ma quando si decide come spendere, vale la regola della maggioranza. I membri della Fao sono 191. E il voto di San Marino vale quanto quello degli Usa.
L’inefficienza della Fao è leggendaria. Già nel 1960, visti gli scarsi risultati, fu creato il Pam (Programma alimentare mondiale), agenzia operativa per le emergenze sempre con sede a Roma. Esiste tuttora e funziona abbastanza bene. Negli anni ’70 si continua con la moltiplicazione degli enti: nascono il Wfc (World food council) e l’Ifad (International fund for agricultural development).
Vent’anni fa la Heritage Foundation, think tank Usa di destra, dimostra dati alla mano che l’inefficienza continua. E nel ’91 ai critici della Fao si aggiunge la rivista The Ecologist, bibbia degli ambientalisti, che decreta addirittura: “La Fao promuove la fame nel mondo, invece di combatterla”.
Niente da fare. La burobaracca sopravvive organizzando vertici su vertici. Quello del 2002 viene considerato uno «spreco di tempo» perfino da molti dei partecipanti ufficiali. Nel maggio 2006 si dimette Louise Fresco, assistente direttore generale della Fao, che ammette: “La nostra organizzazione è incapace di adattarsi alla nuova era,i suoi capi non propongono soluzioni per superare la crisi”.
Dopo il vertice del 2006 Oxfam, la più grande Ong (Organizzazione non governativa) privata contro la fame nel mondo, chiese di finirla con le «feste di parole». Un mese fa il presidente del Senegal ha ribadito: “Meglio chiudere la Fao”. Invece ora ci risiamo. Per tre giorni i potenti della Terra, dittatori e affamatori compresi, banchettano a Roma alla faccia degli affamati. Quelli che fanno qualcosa di concreto (i missionari, i volontari delle Ong) sono rimasti in Africa, in Asia, in America Latina.
Mauro Suttora
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Mr. Mugabe non gradito
Il dittatore dello Zimbabwe arriva a Roma grazie all'extraterritorialità. Il sistema dell'Onu è impotente
Il Foglio, 3 giugno 2008
Roma. Non dite a Robert Mugabe che il palazzo della Fao (Food and agricolture organization) fu progettato da Benito Mussolini per ospitare il ministero delle Colonie fascista, prima di essere regalato alle Nazioni Unite nel 1951. L’84enne dittatore dello Zimbabwe c’è affezionato, non mancò neanche al precedente vertice del 2005 per il sessantennale dell’agenzia Onu. Allora scandalizzò il mondo con un paragone ardito: “Bush e Blair, come Hitler e Mussolini, si sono alleati per attaccare un Paese innocente”. Il presidente venezuelano Hugo Chavez si alzò per abbracciarlo.
Come userà Mugabe questa volta il podio planetario graziosamente messogli a disposizione dalla Fao? Allora come oggi era «persona non grata» in Europa, dopo il voto truccato in Zimbabwe del 2002. Crea casi diplomatici ovunque vada, come a Lisbona lo scorso dicembre quando la sua presenza al vertice euroafricano provocò la defezione del premier britannico Gordon Brown.
Oggi anche la sua legittimità formale è dubbia: ha infatti perso le elezioni del 29 marzo, solo altri brogli gli hanno permesso il ballottaggio col rivale Morgan Tsvangirai fra 24 giorni. E proprio in queste ore, come sempre, i suoi sgherri sono scatenati nel bastonare gli esponenti del partito d’opposizione Mdc (Movement for a democratic change). Settanta di loro sono finiti in prigione negli ultimi giorni. Cinquanta sono stati uccisi nelle scorse settimane. Lo scienziato Arthur Mutambara, 42 anni, il secondo grande oppositore di Mugabe, è in carcere da sabato notte solo per avere scritto in un articolo quello che tutto il mondo sa e dice: il despota ha ridotto alla fame il proprio Paese, che prima di lui (fino al 1980) era il granaio d’Africa.
La presenza di Mugabe a Roma rischia quindi d’essere perfino più imbarazzante di quella dell’iraniano Mahmud Ahmadinejad. Il dittatore africano venne a Roma anche per i funerali del Papa tre anni fa: è infatti cattolico, scuole dai gesuiti. Allora si invocò l’extraterritorialità del Vaticano, oggi quella della Fao. Roma uguale a New York, insomma: dittatori di tutto il mondo, da Fidel Castro in giù, hanno potuto recarsi a Manhattan perché accolti dall’Onu al Palazzo di vetro. Anche la Fao oggi si affanna a precisare che gli inviti a tutti i capi dei 191 Paesi membri erano «dovuti».
Ed è proprio questo è il problema: che il sistema Onu non ha, ma soprattutto non vuole vuole avere, i mezzi giuridici e politici per emarginare le proprie pecore nere. O almeno per non fornire loro preziosi megafoni. L’unico che ha avuto il coraggio di dire la verità, al di là dei diplomatismi, è il ministro degli Esteri australiano Stephen Smith, che rappresenta il proprio Paese al vertice romano: “Mugabe è il responsabile della fame di cui soffre il suo popolo. Ha usato gli aiuti alimentari a fini politici. Il fatto che partecipi a una conferenza sulla sicurezza alimentare è francamente osceno”.
C’è chi è ancora più sincero di Smith. Il 5 maggio il presidente Abdulaye Wade del Senegal ha dichiarato: “La Fao dovrebbe essere smantellata. Non serve a niente, anzi è proprio lei una delle responsabili per l’aumento dei prezzi dei cereali. E’ uno spreco di soldi, un doppione di altre agenzie Onu più efficienti come l’Ifad, l’International Fund for Agricultural Development. In passato pensavo che bastasse spostare la sede centrale da Roma all’Africa, vicino ai problemi reali della fame. Ma ora dico: aboliamola”.
Parole pesanti, anche perché provengono da un compatriota dell’attuale direttore generale della Fao, Jacques Diouf. “Attuale” si fa per dire, perché i capi Fao hanno la spiacevole tendenza a rimanere incollati per periodi lunghissimi alla propria poltrona. Diouf è in carica dal 1994, e due anni fa è stato confermato per il terzo mandato di sei anni. Resterà quindi in carica fino al 2012. Batterà il record del suo predecessore, il libanese Edouard Saouma, che resistette dal ’76 al ’93.
Questi mandati interminabili dicono tutto sull’efficienza del pachiderma burocratico Fao. Otto mesi fa un Rapporto di valutazione, preparato da un gruppo di economisti internazionali guidati dal danese Leif Christoffersen, ha denunciato gli eterni difetti dell’Onu e delle sue agenzie: sprechi, sovrapposizione di interventi, mancanza di comunicazione e coordinamento tra le sedi, processi decisionali lenti e costosi. La ricetta: “Snellire la burocrazia, tagliare i dipendenti, decentrare”. A Roma i figli dei funzionari frequentano, a spese Fao, un liceo da 12 mila euro l’anno. E il 90% delle uscite paga gli stipendi dei funzionari.
Mauro Suttora
Il Foglio, 3 giugno 2008
Roma. Non dite a Robert Mugabe che il palazzo della Fao (Food and agricolture organization) fu progettato da Benito Mussolini per ospitare il ministero delle Colonie fascista, prima di essere regalato alle Nazioni Unite nel 1951. L’84enne dittatore dello Zimbabwe c’è affezionato, non mancò neanche al precedente vertice del 2005 per il sessantennale dell’agenzia Onu. Allora scandalizzò il mondo con un paragone ardito: “Bush e Blair, come Hitler e Mussolini, si sono alleati per attaccare un Paese innocente”. Il presidente venezuelano Hugo Chavez si alzò per abbracciarlo.
Come userà Mugabe questa volta il podio planetario graziosamente messogli a disposizione dalla Fao? Allora come oggi era «persona non grata» in Europa, dopo il voto truccato in Zimbabwe del 2002. Crea casi diplomatici ovunque vada, come a Lisbona lo scorso dicembre quando la sua presenza al vertice euroafricano provocò la defezione del premier britannico Gordon Brown.
Oggi anche la sua legittimità formale è dubbia: ha infatti perso le elezioni del 29 marzo, solo altri brogli gli hanno permesso il ballottaggio col rivale Morgan Tsvangirai fra 24 giorni. E proprio in queste ore, come sempre, i suoi sgherri sono scatenati nel bastonare gli esponenti del partito d’opposizione Mdc (Movement for a democratic change). Settanta di loro sono finiti in prigione negli ultimi giorni. Cinquanta sono stati uccisi nelle scorse settimane. Lo scienziato Arthur Mutambara, 42 anni, il secondo grande oppositore di Mugabe, è in carcere da sabato notte solo per avere scritto in un articolo quello che tutto il mondo sa e dice: il despota ha ridotto alla fame il proprio Paese, che prima di lui (fino al 1980) era il granaio d’Africa.
La presenza di Mugabe a Roma rischia quindi d’essere perfino più imbarazzante di quella dell’iraniano Mahmud Ahmadinejad. Il dittatore africano venne a Roma anche per i funerali del Papa tre anni fa: è infatti cattolico, scuole dai gesuiti. Allora si invocò l’extraterritorialità del Vaticano, oggi quella della Fao. Roma uguale a New York, insomma: dittatori di tutto il mondo, da Fidel Castro in giù, hanno potuto recarsi a Manhattan perché accolti dall’Onu al Palazzo di vetro. Anche la Fao oggi si affanna a precisare che gli inviti a tutti i capi dei 191 Paesi membri erano «dovuti».
Ed è proprio questo è il problema: che il sistema Onu non ha, ma soprattutto non vuole vuole avere, i mezzi giuridici e politici per emarginare le proprie pecore nere. O almeno per non fornire loro preziosi megafoni. L’unico che ha avuto il coraggio di dire la verità, al di là dei diplomatismi, è il ministro degli Esteri australiano Stephen Smith, che rappresenta il proprio Paese al vertice romano: “Mugabe è il responsabile della fame di cui soffre il suo popolo. Ha usato gli aiuti alimentari a fini politici. Il fatto che partecipi a una conferenza sulla sicurezza alimentare è francamente osceno”.
C’è chi è ancora più sincero di Smith. Il 5 maggio il presidente Abdulaye Wade del Senegal ha dichiarato: “La Fao dovrebbe essere smantellata. Non serve a niente, anzi è proprio lei una delle responsabili per l’aumento dei prezzi dei cereali. E’ uno spreco di soldi, un doppione di altre agenzie Onu più efficienti come l’Ifad, l’International Fund for Agricultural Development. In passato pensavo che bastasse spostare la sede centrale da Roma all’Africa, vicino ai problemi reali della fame. Ma ora dico: aboliamola”.
Parole pesanti, anche perché provengono da un compatriota dell’attuale direttore generale della Fao, Jacques Diouf. “Attuale” si fa per dire, perché i capi Fao hanno la spiacevole tendenza a rimanere incollati per periodi lunghissimi alla propria poltrona. Diouf è in carica dal 1994, e due anni fa è stato confermato per il terzo mandato di sei anni. Resterà quindi in carica fino al 2012. Batterà il record del suo predecessore, il libanese Edouard Saouma, che resistette dal ’76 al ’93.
Questi mandati interminabili dicono tutto sull’efficienza del pachiderma burocratico Fao. Otto mesi fa un Rapporto di valutazione, preparato da un gruppo di economisti internazionali guidati dal danese Leif Christoffersen, ha denunciato gli eterni difetti dell’Onu e delle sue agenzie: sprechi, sovrapposizione di interventi, mancanza di comunicazione e coordinamento tra le sedi, processi decisionali lenti e costosi. La ricetta: “Snellire la burocrazia, tagliare i dipendenti, decentrare”. A Roma i figli dei funzionari frequentano, a spese Fao, un liceo da 12 mila euro l’anno. E il 90% delle uscite paga gli stipendi dei funzionari.
Mauro Suttora
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