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Saturday, December 25, 2021

Happy Xmas di Lennon compie 50 anni

Ma diventò un classico nel Natale 1980, subito dopo la morte dell'ex Beatle

di Mauro Suttora

HuffPost, 25 dicembre 2021

Compie mezzo secolo oggi quella che è diventata una delle più popolari canzoni di Natale: Happy Xmas di John Lennon. L’ex Beatle la incise infatti nel 1971 a New York, e al titolo aggiunse “war is over” come augurio per la fine della guerra in Vietnam (auspicio esaudito quattro anni dopo con la fuga degli statunitensi da Saigon, simile a quella da Kabul l’estate scorsa).

Per la verità in quel Natale la canzone non ebbe un gran successo. Finì in classifica, ma niente di paragonabile all’esplosione di Imagine, il precedente 45 giri di Lennon che aveva appena sbancato le hit parades di tutto il mondo nell’autunno 1971.

Per diventare un classico Happy Xmas dovette aspettare il Natale 1980, e per una ragione tristissima: pochi giorni prima Lennon era stato assassinato. Sull’onda dell’emozione planetaria il disco venne ristampato e le vendite decollarono. 

La musica della canzone riprende un classico folk inglese: Stewball. Lennon la registrò in un’unica giornata in uno studio di Manhattan. Al piano c’era Nicky Hopkins, il ‘quinto Rolling Stone’. L’inizio è inconfondibile: “And so this is is Christmas, and what have you done?”. L’arrangiamento ha un grandioso effetto eco: la famosa “parete del suono” del produttore Phil Spector, morto undici mesi fa di covid mentre scontava 19 anni di carcere per avere ucciso una donna nel 2003.

Innumerevoli le cover di Happy Xmas in questi cinquant’anni, da Celine Dion ai Maroon 5. In Italia, fra gli altri, i Pooh, Raffaella Carrà, Tiziano Ferro, Elisa.

Mauro Suttora

Monday, December 13, 2021

Che nausea i patrioti che hanno bisogno di confini in cui rinchiudersi


 

Perché quando Giorgia Meloni parla di un patriota al Quirinale mi assale un lieve stato di malessere

di Mauro Suttora

13 dicembre 2021
 

La statua di Giuseppe Mazzini nel Central Park di New York sta a 300 metri da Strawberry Fields, il memorial di John Lennon. Ci passavo davanti ogni mattina, per andare al lavoro alla Rizzoli sulla 57esima Strada. Non mi sono mai sentito più patriota e orgoglioso di essere italiano, ammirandola. E anche di fronte alla statua di Dante, poco più in là verso Columbus Circle, e a quella di Garibaldi a Washington Square. Facevo lavare ogni anno la bandiera tricolore che sventolava davanti alla mia finestra alla Rizzoli.

Però resto un fan di Lennon e del suo inno, “Imagine there’s no countries”: immagina che non ci siano Paesi. Sono peggio che europeista: mondialista. Anzi cosmopolita, cittadino del cosmo.

Quindi Giorgia Meloni non mi voterebbe presidente della Repubblica. Vorrei chiederle: nel 1944 chi erano i suoi tanto amati ‘patrioti’? I repubblichini o i partigiani?

“Il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie”, disse Samuel Jackson nel ’700. “Quando gli stati si fanno chiamare patria, si preparano a uccidere”, ha ribadito lo svizzero Dürrenmatt, chiudendo la questione. Aggiungerei: quando i sovranisti parlano di patriottismo, si rivelano fascisti. Perché la patria ha bisogno di frontiere, e di soldati per difenderle. O espanderle, come ora minacciano di fare Putin in Ucraina dopo la Crimea, e la Cina con Taiwan.

Sono affascinato dall’argomento. Nel mio libro ‘Confini’ (ed. Neri Pozza) mi consolo: constato che fortunatamente gli attuali neonazionalisti hanno abbandonato l’insalubre tendenza a volerli spostare in avanti, provocando guerre per secoli. Si limitano a proclamare recuperi di sovranità e identità, ma all’interno degli stati esistenti. Isolazionismo, non aggressione. Frontiere con trincee e muri per proteggersi, non per attaccare.

Ma allora, perché quando la pittoresca Giorgia parla di patrioti mi assale un lieve senso di nausea? Forse perché noto ancora la fiamma fascista nel simbolo dei suoi Fratelli. E ricordo la libreria Orion, qui a Milano in via Plinio, dove negli anni ’80 i ‘camerati del terzo millennio’ avevano come loro principale avversario non più il comunismo o le democrazie giudoplutomassoniche, ma il mondialismo. E all’Onu, alla pace universale e a un mondo senza confini contrapponevano una loro buffa paccottiglia subculturale fatta di Hobbit, leggende medievali, Atreju, esoterismo.

Erano contemporaneamente in retroguardia e all’avanguardia, perché negli anni ’90 anche gli estremisti di sinistra, orbati del comunismo, li raggiunsero nella polemica contro la globalizzazione (Seattle, Genova). I no global dei centri sociali si irritavano quando li avvertivo di questa primogenitura fascista sulle loro idee, ma che ci posso fare se Marx invece era globalissimo, e i compagni lavoratori sono sempre stati internazionalisti?

Ora abito in una via dedicata ad Augusto Anfossi, patriota morto nelle 5 giornate. Qui attorno tante vie di patrioti morti giovanissimi: Emilio Morosini (a 19 anni), Enrico Dandolo (22), Goffredo Mameli (21). Eroi che ammiro. Ma il “siam pronti alla morte” dell’inno è una frase necrofila poco in sintonia con la generazione Erasmus che abbatte le frontiere grazie ai low cost, e anche alla mia che scorrazzava per tutta Europa in autostop e treni Transalpino.

“Morire per delle idee? Sì, ma di morte lenta”, cantavano beffardi Brassens e De Andrè. Alla faccia degli ottimi patrioti mazziniani e delle nostalgie ducesche di Giorgia. Che ieri, sventurata, ha detto pure “Siamo dalla parte giusta della Storia”. Aiuto.

Mauro Suttora

Monday, March 29, 2021

Lo spinello libero farebbe bene a "guardie e ladri"

Negli Usa la diga proibizionista è crollata, ora anche New York. Perché i benefici sono innumerevoli

di Mauro Suttora

HuffPost, 29 marzo 2021

Ha ragione la nonna dei fiori Erica Jong, 79 anni: senza il brivido del proibito, che fascino avrebbero gli spinelli? Anche per questo la sua New York, dove lei furoreggiò con 'sex & drugs', ha deciso di legalizzare marijuana e hashish. È il 14esimo stato Usa a farlo: la diga è crollata. Cinque mesi fa altri tre stati hanno liberalizzato le canne con un referendum, assieme al voto presidenziale. Ormai la maggioranza assoluta degli statunitensi è antiproibizionista, visti i risultati positivi ottenuti negli ultimi vent'anni in California, sempre pioniera.

I benefici sono innumerevoli: le droghe leggere portano soldi non più alle mafie, ma alle casse pubbliche (New York prevede 350 milioni di entrate tassandole al 9%); si risparmiano i costi della repressione poliziesca; i tribunali si disintasano; si spezza il legame con le droghe pesanti; si decriminalizzano le minoranze nere e ispaniche, i cui giovani vengono arrestati per spaccio.

Ma soprattutto, è caduta la grande paura dei proibizionisti: la libertà di fumare non ha provocato un aumento del consumo. Neanche una diminuzione, ma almeno ora gli spinelli sono diventati come alcol e tabacco: chi vuole smettere ha soltanto un problema psicologico e medico, da curare come gli alcolisti anonimi, senza carceri e poliziotti a rovinarti la vita.    

È stato un brutto incubo, durato mezzo secolo. Fu nel 1970, infatti, che il presidente Nixon dichiarò "guerra alla droga". Guerra fallita, come già il primo proibizionismo Usa anti-liquori degli anni '20, il cui unico risultato fu quello di arricchire gli Al Capone. Basta vedere il film 'C'era una volta in America': "E ora che facciamo?", si chiesero smarriti i mafiosi nel 1933, quando il saggio Roosevelt pose fine all'illusione punitiva.

Quanto all'Italia, tutti noi sappiamo che metà dei nostri compagni a scuola si facevano le canne. La notizia non è che i giovani continuano a fumare, ma che ora ne approfittano anche i 'buoni': il disastro dei carabinieri spacciatori di Piacenza dimostra che è urgente depenalizzare anche da noi almeno le droghe leggere, prima che il cancro della corruzione si diffonda a livelli messicani.

Ricordo l'arresto di Walter Chiari e Lelio Luttazzi 50 anni fa: al bambino che ero parve incredibile che il presentatore del suo programma radio preferito, Hit Parade, finisse dentro. Che fosse un 'cattivo', un drogato. All'adolescente che ero nel 1975 sembrò ragionevole che Marco Pannella si facesse arrestare per uno spinello, allo scopo di far cambiare la legge. Avevo studiato Antigone e Gandhi, mi entusiasmai. Grande delusione nel 1988, quando Craxi da progressista divenne reazionario e sposò la repressione. Nè ho mai capito i capi delle comunità antidroga che volevano il carcere per i loro malati: infermieri o aguzzini?

Preistoria. Oggi confesso che noi boomer antiproibizionisti siamo esausti. Ci accontentiamo di 'piccoli passi' come le depenalizzazioni per consumo personale, modica quantità, uso terapeutico. E l'Italia non è diversa dall'Europa: tranne Spagna e Olanda, le droghe leggere rimangono 'illegali' dappertutto, perfino nell'illuminata Scandinavia. Quindi diffusissime. "Il male non si combatte proibendolo", ripetono inascoltati i radicali.

Personalmente, dopo il primo spinello che mi fece solo tossire non ho riprovato. Men che meno quando vivevo a New York: vent'anni fa mi avrebbero arrestato, come se avessi osato fumare tabacco nel tavolino all'aperto di un bar o avessi bevuto vino sul marciapiede davanti allo stesso bar (i benpensanti fascistoidi così preoccupati per la nostra salute emettono leggi ridicole, cosicché gli adepti di bacco e tabacco per farla franca in simultanea si sedevano al confine fra i due opposti divieti: bicchiere in una mano e sigaretta nell'altra, dentro agli spazi leciti).

In realtà c'è poco da scherzare: ogni estate la polizia italiana sbatte in galera centinaia di giovani coltivatori diretti di marijuana, dalla Sardegna alla Calabria. Leggo le cronache di complesse operazioni alla James Bond: elicotteri per scovare i campi nascosti, appostamenti, pedinamenti, indagini. Intanto mezza Albania è coltivata a canapa indiana, i migranti vengono arruolati nel racket dello spaccio, miliardi regalati alla 'ndrangheta. E metà dei nostri detenuti scontano pene per reati legati alla droga. Sorge spontanea la domanda: di cosa potrebbero occuparsi più utilmente poliziotti e magistrati, depenalizzando come a New York? Quanti carcerati in meno?

Fuor di provocazione, propongo costruttivo: ok, come volete voi, ancora cinque anni di proibizionismo. Ma se non funziona, se il consumo di stupefacenti non si riduce, questa volta cambiamo. Proviamo qualcosa di diverso. Senza slogan diabolici come 'Sesso, droga e rock'n'roll'. Pragmaticamente.

Mauro Suttora

Wednesday, November 04, 2020

Gli istinti primordiali dell'America di Trump

La pancia degli Usa stanotte ha di nuovo premiato The Donald, che vinca o perda per un pelo. New York e la California sono ancora un altro mondo

di Mauro Suttora

Huffington Post, 4 novembre 2020


La moglie del miliardario di Manhattan, per dimostrare che anche lei è alla mano, per una volta lascia tranquillo lo chauffeur della sua limousine personale e sale su un ‘crosstown’ bus, quelli che che attraverso Central Park collegano l’Upper East all’Upper West Side. Entra dalla porta anteriore, versa le monetine del biglietto sotto gli occhi dell’autista sudamericano e gli cinguetta democratica: “How are you today?”. Non paga, all’uscita gli sorride di nuovo augurandogli “Have a nice day”.

Ho assistito a questa scena agghiacciante nel 2002, all’inizio dei miei quattro anni di lavoro a New York, e ho capito due cose: l’ipocrisia del politicamente corretto, e la presidenza Trump. Allora c’era Bush junior, ma è lo stesso: la riccona aveva votato a sinistra, e l’autista del bus per il fascistone.

Può darsi che l’azienda di trasporti newyorkese paghi un’indennità ai conducenti per le molestie verbali finto-cordiali che subiscono, però poi quelli si vendicano nel segreto dell’urna. E lo hanno fatto anche ieri premiando di nuovo Trump, che o vince o perde per un pelo.

Ormai lo abbiamo stracapito. Esiste un confine invalicabile fra gli Stati Uniti dei soldi e dei cervelli, della California e di New York, di Silicon Valley, Hollywood e Wall Street, e tutto il resto: contadini dell’Iowa, simpatici burini texani, anticastristi in Florida, operai licenziati a Detroit, patrioti del New Jersey che esibiscono la bandiera a stelle e strisce sulla porta di casa.

Ma non solo. Ho conosciuto bene una trumpiana: la mia ex fidanzata americana. Colta (laurea su Derrida all’università Vanderbilt), cosmopolita (vacanze fra lago di Como e campi di golf inglesi), elegante (villa accanto a quella della famiglia di Grace Kelly, nei quartieri residenziali di Filadelfia).

Se Trump si è impossessato di nuovo della progredita Pennsylvania, deve ringraziare anche lei.

Nonostante il fisico etereo e l’aspetto angelico, era favorevole alla pena di morte: “You get what you give, ricevi quel che dai”, sentenziava biblica. Contraria alla sanità gratis: “Lavori e ti paghi l’assicurazione”. Pro guerra in Iraq: “Vendichiamo le torri gemelle”. Sussidi di disoccupazione? “Solo per qualche mese, poi muovi il culo”. Reddito di cittadinanza: “Are you kidding me, stai scherzando?”. I cinesi? “Bastardi, ci rubano il lavoro”.

L’amore rende ciechi, ma confesso che in fondo ero un po’ affascinato da questi sentimenti primordiali. Gli stessi che hanno conquistato di nuovo metà America stanotte.

Mauro Suttora

Wednesday, May 27, 2020

Gli Usa come Milano: milioni per ospedali vuoti. Ma niente proteste

OSPEDALI IN FIERA: 21 MILIONI A MILANO, 761 NEGLI USA. "NON SONO SERVITI, MA SIAMO STATI PREVIDENTI"

di Mauro Suttora

Huffington Post, 26 maggio 2020

https://www.huffingtonpost.it/entry/gli-usa-come-milano-milioni-di-dollari-per-ospedali-demergenza-vuoti-pero-nessuno-protesta_it_5ecced0dc5b6d5ebfe87cbed


La Lombardia ha speso 21 milioni per l’ospedale covid nella fiera di Milano. Gli Stati Uniti ne hanno buttati trentasei volte tanti (830 milioni di dollari, 761 milioni di euro) per 19 ospedali di emergenza, 13 dei quali mai entrati in funzione. Negli Usa, come in Italia, la curva dei ricoverati si è abbassata. Non c’è stata la temuta valanga di ricoveri. Cosicché ora anche gli unici sei ospedali aperti per un mese sono stati chiusi. Però nessuno protesta.

Anche New York per l’ospedale ha scelto un padiglione fieristico: il Javits Center, in pieno centro a Manhattan. È costato 11 milioni, relativamente poco perché lo hanno realizzato gli ingegneri dell’esercito. E perché i 1.900 posti letto previsti non erano di terapia intensiva: si trattava solo di un maxi reparto di alleggerimento dove trasferire dagli ospedali i malati normali, per far posto a quelli covid. Dopo aver ricoverato un migliaio di pazienti, lo hanno smantellato a inizio maggio.

Altri tre ospedali non covid da campo sono sorti vicino a New York, ma con costi astronomici perché costruiti non dal Genio militare, ma da contractor privati. Uno nella contea di Westchester, cento posti per 47 milioni di dollari. Due nei campus di Long Island dell’università statale Suny: duemila letti per un totale di 274 milioni. Neanche un paziente è entrato in questi tre ospedali. 
“Ma li terremo per un’eventuale seconda ondata in autunno”, dice il governatore di New York Andrew Cuomo. Il presidente Trump lo ha attaccato, lui ha risposto: “Prepararsi al peggio, sperare nel meglio. A marzo secondo le proiezioni a New York avremmo avuto bisogno di 110mila posti letto. Per fortuna non è stato così”.

Anche nel resto degli Usa ci sono stati sprechi immensi. L’ospedale aperto il 3 aprile nella fiera di Chicago è costato 65 milioni. Doveva avere 3mila posti letto, poi ridotti a 500, ma ha curato solo 29 pazienti prima di chiudere.

Nella fiera di Detroit i malati sono stati 39, tuttavia il sindaco Mike Duggan non è pentito per i dieci milioni spesi: “Averlo usato poco è stato un grande successo” E lo ha chiuso il 6 maggio.

Filadelfia ha speso ‘soltanto’ cinque milioni per mettere 200 letti nel palasport della Temple University, che però non ha mai curato più di sei pazienti contemporaneamente, per un totale di 14.

Il centro congressi di New Orleans dove 15 anni fa si rifugiarono gli scampati all’uragano Katrina è stato anch’esso convertito in ospedale per l’incredibile cifra di 165 milioni. Ma ha avuto solo 200 pazienti.
Il sesto e ultimo ospedale utilizzato, nel Michigan, ha avuto appena sei pazienti per dodici milioni di dollari: ognuno è costato due milioni.

L’11 maggio è stato inaugurato l’ospedale da 443 posti nella fiera di Washington. Troppo tardi: è rimasto vuoto nonostante i 31 milioni spesi. Stessi buchi nelle fiere di Denver (34 milioni), Memphis e Miami (entrambi 26 milioni) e in altri cinque ospedali d’emergenza con zero pazienti.

Il tredicesimo fallimento (o successo, a seconda dei punti di vista) è quello di una vecchia ala ristrutturata nell’ospedale di East Orange, New Jersey: undici milioni per 250 letti, mai usati. Anche in Lombardia qualcuno avrebbe preferito ripristinare vecchi reparti a Legnano o Vimercate invece dell’ospedale in fiera. Ma negli Usa neppure il restauro ha scongiurato il vuoto.
Mauro Suttora

Wednesday, January 07, 2015

Usa: agenti contro neri

PERCHÈ LA POLIZIA DI NEW YORK CONTESTA IL SINDACO DE BLASIO?
Ai funerali degli agenti uccisi al culmine delle tensioni razziali, i colleghi hanno voltato le spalle al primo cittadino

Oggi, 31 dicembre 2014

di Mauro Suttora

È incredibile che 50 anni dopo il discorso «I have a dream» di Martin Luther King gli Stati Uniti siano ancora alle prese con violenze razziali. Che questo succeda proprio sotto la presidenza di Barack Obama, primo nero alla Casa Bianca. E che venga criticato il sindaco di New York Bill de Blasio, simbolo dell’integrazione: nipote di italiani sposato a una donna di colore.

Ai funerali di due poliziotti newyorkesi (uno di origine spagnola, l’altro cinese) uccisi da un giovane di colore, i loro colleghi hanno contestato il sindaco voltandogli la schiena mentre parlava. Lo accusano di parteggiare per i neri i quali, pur essendo soltanto il 6% degli statunitensi maschi, rappresentano il 40% dei due milioni di incarcerati. 

La polizia di New York è un feudo irlandese, come l’attuale assessore e il precedente. Ma la seconda nazionalità più rappresentata fra gli agenti è l’italiana. Il che non ha impedito la protesta contro De Blasio.

Gli agenti Usa hanno il grilletto facile contro i giovani neri? Sì. Ma bisogna considerare che questi ultimi commettono la metà degli omicidi negli Usa. Anche se il 93% delle loro vittime sono pure loro di colore. Non esiste, quindi, una guerra razziale bianchi/neri. 

I poliziotti americani sono più duri di quelli europei. Sparano appena qualcuno punta contro di loro un’arma. Il problema è nato perché in agosto hanno ucciso un 18enne afroamericano a Ferguson (Missouri), rapinatore ma disarmato, e non sono stati neppure processati: colpa dei giudici, semmai.

Wednesday, November 20, 2013

Italiani a New York

Bill de Blasio sindaco, ma i nostri connazionali sono ancora discriminati. Adesso i figli dei nostri emigrati sono sia al vertice della città sia dello stato, con Andrew Cuomo. Eppure l’invisibile apartheid sociale di Manhattan colpisce ancora gli italoamericani. Ecco come

di Mauro Suttora per il settimanale Oggi


New York (Stati Uniti), 13 novembre 2013
Potrebbe perfino diventare presidente degli Stati Uniti, un giorno. Bill de Blasio da Sant’Agata dei Goti (Benevento), nuovo sindaco di New York, ha avuto tanti di quei voti che fra otto o 12 anni nulla gli vieterebbe di ambire alla poltrona più importante del mondo. Come fu già per Rudy Giuliani, altro sindaco italoamericano fino al 2001 e candidato alle primarie presidenziali nel 2008.

Ma cosa vuol dire essere italoamericani oggi a New York? Molti ignorano che nella città apparentemente più aperta e democratica del mondo, incredibilmente, esiste ancora l’apartheid. Nessun italiano può abitare in un palazzo/zona di ebrei o wasp (acronimo che significa white, anglosaxon protestant, cioè bianchi, anglosassoni protestanti) o irlandesi o neri. E viceversa.

I miliardari di Park avenue

Perfino a Park Avenue uno come Gianni Agnelli aveva trovato posto in un bulding «international», ovvero riservato ai miliardari stranieri, mentre i palazzi vicini sono totalmente ebrei o wasp. Quasi mai misti.

Ugualmente, nelle decine di feste di gala che accendono ogni notte Manhattan, dal Waldorf Astoria al Plaza, vige una codice non detto, ma strettissimo per cui è praticamente impossibile per un nero o un italiano accedere ai board e ai tavoli delle feste di beneficenza più ambìte: basta scorrere le liste dei cognomi degli invitati per accorgersene. Ed è qui che si svolge la vita sociale che conta.

Gli italoamericani, anche quelli ricchi, sono confinati in zone ben precise di Brooklyn, Staten Island, Bronx e New Jersey. Vantano una sola giornalista famosa: Maria Bartiromo, appena passata dalla rete tv Cnbc alla Fox.

Sono discriminati come mafiosi, considerati tutti Sopranos, e la sede della loro Fondazione (Knights of Columbus, Cavalieri di Colombo, organizzatori dell’annuale parata del 12 ottobre, anniversario della scoperta dell’America), nell’elegante Upper East Side, è tanto prestigiosa quanto snobbata dall’establishment sociale/finanziario/culturale.

Poliziotti e pompieri, feudi nostri

Le uniche rivincite ce le prendiamo in politica (un altro italiano, Andrew Cuomo, è presidente dello stato di New York), nel cinema (Robert De Niro, Martin Scorsese, Al Pacino, Francis Ford Coppola) e negli altri due feudi newyorkesi, polizia e pompieri, in condominio con gli irlandesi.

Certo, i ristoranti di Cipriani o la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada sono affollati anche dai newyorkesi che contano. Ma quella è considerata un’Italia raffinata, lontana dagli immigrati.
Mauro Suttora

Wednesday, December 05, 2012

Daverio: Il museo immaginato


MUSEO IMMAGINATO: IL SECOLO LUNGO DELLA MODERNITA'

di Mauro Suttora

Oggi, 5 dicembre 2012

«Eugene Delacroix racconta la Rivoluzione parigina del 1830 con un dipinto che diventa un’icona mondiale della libertà dei popoli. Delacroix era allora considerato il capofila dei romantici. Il gesto vigoroso e convinto delle pennellate è travolgente».
Così Philippe Daverio descrive il quadro 28 luglio: la Libertà guida il popolo che celebra la rivoluzione “borghese” di Luigi Filippo nel suo nuovo libro: Museo immaginato, il secolo lungo della modernità (Rizzoli).

Un anno fa il poliedrico critico d’arte, professore universitario (ordinario di Disegno industriale ad Architettura a Firenze), conduttore tv (Passepartout su Rai3, Emporio Daverio su Rai5) ed ex politico (assessore leghista  alla Cultura a Milano negli anni ’90) aveva ottenuto un enorme successo con Il museo immaginato: 100mila copie vendute.

Intreccio di arte, politica e storia

Ora Daverio torna in libreria con il seguito di quel libro, scritto con lo stesso stile vivace ed eccentrico in cui mescola indissolubilmente arte, politica e storia. E immagina di dover riempire un museo di opere dal 1800 al 1914.

Ecco, per esempio, come descrive un altro quadro-simbolo: Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo: «Nel 1901 il cammino dei lavoratori sembra avere intrapreso una strada gloriosa. Gli equilibri dell’Italia postunitaria si sono rotti; il partito socialista fondato a Genova nel 1892 è diventato Psi nel 1895. A Milano le fortissime tensioni del 1898 si conclusero con le cannonate sparate sulle barricate dal generale Bava Beccaris. Oltre trecento i morti. Turati e i politici di sinistra vengono arrestati. Il dipinto di Pellizza è la risposta solida e matura alla situazione in corso. Nel vasto giro dei postimpressionisti non v’è dubbio che il gruppo dei divisionisti occupi l’area più attraente e innovativa».

Il gioco di Daverio, nel suo museo personale di fantasia, è quello di proporre coppie ardite come quella fra Delacroix e Pellizza. Seguono le Demoiselles d’Avignon, con cui Pablo Picasso nel 1907 inaugura il cubismo, accanto alla Morte di Sardanapalo di Delacroix di 80 anni prima: «I due dipinti hanno un’intrigante assonanza. Sono ambedue opere di rottura. Non le troverete mai vicine in un museo tradizionale, dove le categorie sono state stabilite definitivamente un secolo fa».

Fra le tante Veneri nude da accostare alla celeberrima di Ingres del 1848, Daverio  sceglie Il sonno con «le due amiche, considerate sconce, che Gustave Courbet avrebbe dipinto nel tepore baudelairiano stile Fleurs du mal d’una stanza chiusa, ragffigurando la sua amante irlandese in una compagnia più dolce di quella che egli stesso le poteva fornire».

Daverio documenta anche casi di vero e proprio plagio, che tuttavia lui definisce educatamente “citazione”: «La Statua della Libertà di New York è senza dubbio alcuno la più nota del secolo XIX, anche se non necessariamente la più bella. Fu offerta dalla Francia agli Stati Uniti per celebrare i cent’anni della loro indipendenza nel 1876, e inaugurata dieci anni dopo. Il progetto fu affidato allo scultore Auguste Bartholdi. Strutturista fu l’ingegnere Gustave Eiffel, quello della futura torre.
Evidente è la citazione del balcone nuovo del Duomo di Milano. Sulla sinistra vi è la scultura La legge nuova di Camillo Pacetti realizzata nel 1810, che regge la fiaccola della Fede. Sulla destra c’è la Legge vecchia di Luigi Acquisti, sua contemporanea, che regge nella mano sinistra le Tavole mosaiche.
Se si sommano le due statue ne viene fuori automaticamente, come per incanto, la Statua della Libertà».

Daverio non calca la mano contro Bartholdi, forse perché lo scultore era alsaziano come lui e nel 1870, quando Alsazia e Lorena furono cedute dalla Francia alla Germania, si ritrovò senza patria d’origine.

da Milano a New York

Anzi, lo giustifica: «Era assai comprensibile che un patriota francese ritrovasse le sue origini nella Milano  ancora francese (nel 1810) e retta dal Beauharnais. In fondo la Statua della Libertà non è altro che la nuova e romantica versione della Legge nuova combinata con quella antica ebraica, a New York».

E così via. In ogni pagina di questo stupendo libro di Daverio c’è una curiosità, un ragionamento sottile, un paradosso che ne rendono la lettura un piacere.
Mauro Suttora    
 

Friday, September 09, 2011

11 settembre, no tower

PERCHÉ LA RICOSTRUZIONE DI GROUND ZERO RITARDA?

di Mauro Suttora per il settimanale Oggi

New York, settembre 2011

Hanno fatto prima ad andare sulla Luna che a ricostruire le Twin Towers, gli americani. Passarono otto anni, da quando il presidente John Kennedy lo promise, fino all'allunaggio del 1969. Ci saranno voluti invece dodici anni quando, nel 2013, verrà inaugurata la Freedom Tower, alta più di mezzo chilometro (1.776 piedi, come l'anno di nascita degli Stati Uniti).

Ma non sarà il grattacielo più alto del mondo, superato da quelli a Dubai e La Mecca (primato islamico, per lo sconforto dei conservatori). E non si chiamerà più Torre della Libertà, bensì burocraticamente One World Trade Center, per non diventare bersaglio di altri fanatici.

«Ricostruiremo le torri in tre anni!», avevano proclamato le autorità il 12 settembre 2001. Poi, la triste realtà: nessuno voleva riaprire uffici in quel posto maledetto. E, senza contratti d' affitto, nessuno negli Usa costruisce: impera il dio dollaro. In extremis si sono offerti enti pubblici, i cinesi, l'editore Conde Nast. E i lavori sono partiti.

Thursday, July 07, 2011

Le tre agenzie che controllano il mondo

dall'inviato a New York Mauro Suttora

Oggi, 29 giugno 2011

A tradurle letteralmente, hanno nomi ridicoli. Perché Moody in inglese significa «squilibrato mentale», Fitch «puzzola», e lo Standard Poor è un «poveraccio cronico», senza speranza di miglioramento. Invece le tre agenzie di «rating» (valutazione del credito) tengono in pugno il mondo intero: in cinque secondi possono cambiare il destino di centinaia di milioni di persone. Italiani compresi: se bocciano il nostro debito pubblico ci condannano alla bancarotta, come la Grecia. O l’Argentina nel 2001.

Ce ne siamo accorti pochi giorni fa, quando è bastata la voce di un «downgrading» (abbassamento del voto) per le nostre banche a farle crollare in Borsa del 10 per cento. Poi si sono parzialmente riprese, però l’episodio è stato drammatico. Ma chi sono questi misteriosi giudici che ci danno i voti, e che ci governano forse più dei politici che eleggiamo?

Per capirlo siamo andati a New York, nella punta sud di Manhattan, dove le tre agenzie hanno le loro sedi centrali. E abbiamo scoperto che sono vicine di casa: i palazzi di Standard&Poor’s (S&P) e Fitch stanno a poche decine di metri l’uno dall’altro, mentre Moody’s è 500 metri più in là, a Ground Zero.

«I ragazzi di Moody’s vengono qui a mangiare in pausa pranzo», ci dice un barista di Greenwich Street, che porta verso il Village omonimo. «Ma naturalmente non i big brass, i pezzi grossi: quelli si fanno portare il cibo direttamente su nelle loro suite dal catering».

Ha un nome inquietante, l’edificio dove Moody’s occupa vari piani (i suoi dipendenti nel mondo sono 4.500, e fatturano ben due miliardi di dollari): World Trade Center 7. Sì, questo è uno dei cinque grattacieli più bassi che attorniavano le Torri Gemelle. Scampato al disastro, ora di fronte c’è il cantiere della nuova Freedom Tower, che però arranca a ritmi italiani: non sarà pronta per il decennale dell’11 settembre. La verità è che pochi vogliono tornare a lavorare qui, e gli uffici restano invenduti.

Parliamo con un cordiale impiegato 35enne di Moody’s, che però non può darci il nome: «È vietato parlare con esterni del nostro lavoro, soprattutto con giornalisti. Trattiamo affari delicati da miliardi di dollari: quando una multinazionale emette obbligazioni, il loro valore dipende dal nostro giudizio. I fondi che le acquistano si fidano solo di noi».

Fanno bene? Il maggiore azionista di Moody’s è, con il 33 per cento, l’80enne Warren Buffett: il miliardario più ricco d’America assieme a Bill Gates (Microsoft) e all’altro leggendario speculatore, George Soros. La sua holding Berkshire Hathaway per decenni ha garantito ai soci guadagni siderali del 10-20% annuo, reggendo bene anche alla crisi del 2008. Un bel conflitto d’interessi: chi garantisce gli altri fondi che le preziose informazioni di Moody’s non vengano spifferate in anteprima al suo padrone?

È su questo che puntano i concorrenti S&P e Fitch per aumentare le proprie quote di mercato (oggi rispettivamente al 40 e 16%,contro il 39 di Moody’s). Oltre a cercare di sottrarre all’avversario gli analisti migliori. Che non sono le formichine come il nostro simpatico interlocutore, il quale non ha problemi a dirci il suo stipendio: «Non mi lamento, prendo 100 mila dollari l’anno. Ma ai piani alti si va sui milioni. Gente che arriva in limousine dai loro attici nell’Upper East Side con vista su Central Park».

Andiamo a vedere la concorrenza. Superiamo la stretta Wall Street e arriviamo in un altro luogo ben conosciuto dai turisti: l’imbarcadero del ferry per Staten Island e la Statua della Libertà. I palazzi di S&P e Fitch sono qui di fronte. «Ma probabilmente i responsabili del desk italiano stanno a Londra o Francoforte, nelle nostre filiali europee», ci dice un altro anonimo. Insomma, impossibile vedere in faccia chi fa salire e scendere il valore dei nostri risparmi.

«Ma non chiamateci pescecani. Anzi, siamo proprio noi a difendere i pensionati che hanno investito nei fondi previdenziali. Dicendo loro se si possono fidare dei titoli pubblici dei vari Paesi, o delle azioni delle società private».

Insomma, nessun complotto? «Non è colpa nostra se l’Italia ha il terzo maggiore debito del mondo, dopo Giappone e Usa. È come prendersela con un prof che dà un brutto voto se lo studente è svogliato, o con il termometro per la febbre».

Vero. Ma è anche vero che tutte le agenzie di rating (a proposito: il fondatore di Fitch nel 1913 non era socio di Abercrombie) sono statunitensi. E che agli americani non piace che l’euro minacci il dollaro come valuta di riferimento mondiale. Per questo la piccola procura di Trani sta indagando i tre analisti Moody’s che seguono l’Italia. Reati ipotizzati: aggiotaggio e divulgazione di notizie false che turbano il mercato finanziario. Davide contro Golia.

Mauro Suttora

Wednesday, February 10, 2010

Il Vietnam di Bersani

LA CRISI DEL PD SECONDO PANSA, PASQUINO E CALDAROLA

Oggi, 3 febbraio 2010

di Mauro Suttora

Ogni settimana uno scivolone. Prima la sconfitta alle primarie in Puglia, dove il Partito democratico col suo 26 per cento si è fatto battere da Nichi Vendola, capo di un partitino del due per cento (Sinistra e libertà). Poi le dimissioni del sindaco di Bologna Flavio Delbono, per i favori alla ex amante e segretaria. Infine la scelta del candidato governatore in Campania, Vincenzo De Luca, contestata da Antonio Di Pietro.Che succede al partito guidato da Pier Luigi Bersani? «Rischia di fare la fine della Dc», avverte Giampaolo Pansa. «È nato male, rimetterlo assieme sarà complicato», sentenzia Gianfranco Pasquino. «Anche Bersani segue il destino dei segretari del pd, che durano pochi mesi», commenta Giuseppe Caldarola con Oggi.

Abbiamo chiesto a questi tre personaggi, che il Pd lo conoscono molto da vicino, di spiegare la crisi che avviluppa il primo partito d’opposizione a meno di due mesi dalle delicate elezioni regionali. E, in particolare, il travaglio personale del segretario Bersani che, in sella da appena tre mesi, sembra già logorato. Tanto che l’ex premier Romano Prodi chiede pubblicamente (e polemicamente): «Chi comanda nel Pd?»

«Quello di Bersani non è un Vietnam che riguarda solo lui. La disfatta tocca l’intero progetto del Partito democratico»: Pasquino da New York, dove è fellow dell’Italian Academy alla Columbia University, fornisce un giudizio drastico. Il professore conosce bene i suoi polli: è stato infatti senatore della Sinistra indipendente, e poi del Pds, dal 1983 al ‘96. L’anno scorso è stato l’unico nella sinistra bolognese a opporsi a Delbono, ma con una lista civica personale ha raccolto solo il due per cento. Allora sembrava un grillo parlante.

«Appetito sessuale»

Oggi, dopo il disastro, accusa: «L’irrefrenabile appetito sessuale del sindaco era conosciuto da tutti, si sapeva dei suoi viaggi frequenti con la segretaria. Ma, come ho detto, il problema non è personale, è di struttura. Basta vedere la fine che hanno già fatto i due fondatori del Pd: Fassino e Rutelli. Dopo appena due anni il primo è sparito, il secondo se n’è andato. Il disastro, dopo Veltroni e Franceschini, è oggi ereditato da Bersani, che è l’uomo più capace, affidabile e competente. Ha dimostrato effettive capacità di governo quand’era ministro».
E allora, come mai non riesce a governare il suo partito?
«Perché il Pd è ormai composto da duecentomila persone che non saprebbero in quale altro modo vivere se perdessero la propria carica di consigliere circoscrizionale, comunale, provinciale, regionale, parlamentare o funzionario nominato in qualche ente. Non hanno una professione alla quale tornare, sono obbligati a fare politica per sempre. Perfino Ghedini può permettersi di litigare con Berlusconi, riprenderebbe a fare l’avvocato. Invece la casta dei politici di professione è inamovibile».
È l’argomento di Berlusconi contro «i politici che non hanno mai lavorato».
«Non è un insulto. Avrei qualche difficoltà a dire se e quando D’Alema o Fassino, e lo dico con affetto, hanno mai lavorato».
Qual è la soluzione, allora?
«Non il limite dei mandati, che ora colpisce i sindaci dopo otto anni. Un giovane che si dà alla politica può pianificare la propria carriera e, passando da un consiglio comunale alla Provincia, alla Regione e poi al Parlamento, coprendo tutto il cursus honorum dopo quarant’anni arriva alla pensione. Ecco perché quasi tutti i giovani politici oggi, al di là della retorica e delle loro polemiche contro i “vecchi”, sono solo ambiziosi arrivisti».
E allora? «Dovremmo eleggere soltanto chi ha già una posizione professionale alla quale fare ritorno».

Dc con pci? «impossibile»

Anche Giuseppe Caldarola è stato nel cuore del potere Ds. Direttore dell’Unità dal ‘96 al ‘98, deputato fino a due anni fa, se n’è andato alla nascita del Pd: «Che in realtà non è mai nato, perché non si possono mettere assieme le culture di Pci e Dc».
Bersani sembrava il candidato ideale.
«Ma il partito democratico mangerà anche lui. È incredibile la refrattarietà di questa formazione a qualsiasi leader. E non se ne esce con le ricette di Cacciari o Chiamparino su nuovi Ulivi o chissà cos’altro. Bersani è una persona piacevole e concreta, ma è il contrario del leader politico moderno, perché non ama il palcoscenico e non trascina. Potrebbe essere una risorsa, ma non per quella macchina tritasassi che è il Pd».
Quindi?
«Sciogliere il Pd e tornare a prima: una partito socialista moderno, come la tedesca Spd, che si allea a un centro cattolico moderato in attesa del declino di Berlusconi».
«Ma l’unica cosa che Bersani non può permettersi di fare è attendere», tuona Pansa, che ha trasferito la sua storica rubrica Bestiario dall’Espresso al quotidiano Il Riformista.
«“Meglio tirare a campare che tirare le cuoia” era il motto di Andreotti, ma ormai il partito democratico è balcanizzato. Ci sono tanti clan regionali comandati da cacicchi. Bersani può solo usare la poca forza rimasta per cambiare politica e linguaggio, scardinando una linea che non dà più frutti».

No ai clandestini

Per esempio? «Dica che i magistrati non devono andare in tv, scrivere sui giornali, partecipare a convegni politici ed essere eletti in Parlamento. Combatta gli evasori fiscali permettendo di scaricare le spese, cosicché tutti chiederanno le ricevute. Ammetta che gli immigrati clandestini aumentano la criminalità...».

Friday, November 07, 2008

"Obama? Carino"

L'America che non vota

"Il nuovo presidente? E' un mulatto carino"

Libero, venerdì 7 novembre 2008

di Mauro Suttora

«He looks kinda nice, though…»: con l’indifferenza di chi viene solo annoiata dalla politica, la mia ex fidanzata americana Marsha commenta l’elezione di Obama. «Però è carino»: è questo il giudizio più profondo che riesco a strapparle sul suo nuovo presidente.

Marsha, 34 anni, ex modella, stilista in erba, vive a Manhattan e in questi giorni ha ben altro a cui pensare: sta organizzando la sua prima sfilata d’autunno nel Connecticut. Sono passato a salutarla per Halloween, e lei mi ha portato nelle tre feste cui era invitata quella sera. Ora sta con uno del cinema («Un cameraman: sei come Julia Roberts», la prendo in giro), ma lui è a Los Angeles e lei continua a vivere sola nel monolocale «alcova» di un grattacielo dell’Upper East Side.
«Alcova» non ha niente di lussurioso: semplicemente, a New York chiamano così i monolocali con la pianta a elle, che permettono il «lusso» di non vedere subito il letto dalla porta d’entrata.

Marsha non ha mai votato in vita sua. Come quattro statunitensi adulti su dieci se ne frega allegramente della politica.
«Ma questo è un voto storico, no?», obietto.
«E perché?»
«Un nero, per la prima volta…»
«Veramente non è un nero vero, sua madre era bianca, no?»
«Vabbè, un mulatto, ma è proprio questa la grandezza dell’America».
«Grandezza, grandezza… Sei sempre innamorato dell’America, eh, Mauro?» Marsha mi ha sempre accusato di essermi messo con lei per questo, e non perché fossi innamorato di lei.
«Beh, non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre del Kenya e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo».
«Anch’io sono un miscuglio pazzesco, Mauro: un quarto irlandese, un quarto tedesca, un quarto italiana, solo un quarto americana di due generazioni».
«Obama è cresciuto in Indonesia, poi alle Hawaii, poi università a Los Angeles, New York, Boston… Sta a Chicago ma ha una nonnastra a Nairobi e una sorellastra a Giakarta. Non eri tu che lamenti sempre quanto siano provinciali i tuoi compatrioti, che otto su dieci non sono mai stati all’estero. Ecco Obama, un cittadino del mondo!»
«Come on, io sono nata a Filadelfia, università a Nashville e Firenze, abito a New York, ho lavorato a Roma, mio padre sta in Florida, mia mamma in New Jersey e le mie sorelle dall’altra parte del continente, in California e a Seattle. Tutti gli americani sono dei “bastardi” vagabondi».
«Quindi non voti neppure questa volta?»
«Troppa fatica. Non sono neanche registrata. Non saprei da dove cominciare. E poi troppe code, io ho da fare».
«Però eri bushiana».
«Ha fatto bene a combattere quei maledetti terroristi».
«Saddam non era di Al Qaeda».
«Che noia, Mauro. Ricominciamo?»
«Ammetti almeno che la guerra in Iraq è stata un errore».
«Boh. Tu, piuttosto, vai sempre a quelle cose contro la pena di morte? Ti ricordi?» (Incontrai Marsha cinque anni fa a un concerto all’Onu contro le esecuzioni capitali).
«Certo, e mi ricordo anche la tua opinione al riguardo: “Chi la fa l’aspetti, se uccidi è giusto che ti uccidano”…»
«Lo penso sempre, my dear».
«Incredibile che una donna fine e coltivata come te, laureata con tesi su Derrida, sia rimasta alla legge del taglione».
«Mauro, è Halloween, non litighiamo: let’s have fun, divertiamoci».

In realtà Marsha di questi tempi non si diverte molto: mi ha confessato di essere in rosso di 15 mila dollari con la sua carta di credito: «Passo il tempo a ristrutturare, rifinanziare e rinegoziare il mio debito. Se al mio prossimo trunk show [vendita privata di vestiti, ndr] non vendo abbastanza, non so neppure se mi conviene continuare a pagare duemila dollari al mese d’affitto qui a Manhattan. Dovrò trasferirmi a Brooklyn, o condividere un appartamento».

Facciamo il giro delle sue tre feste di Halloween. All’ultima, in una discoteca sulla Quinta Avenue, appena entrato corro nei bagni per la pipì. Mi ritrovo in una calca enorme, circondato da ragazze alte e bellissime. Penso di essermi sbagliato, forse ho bevuto troppo. «Ma è il bagno delle donne?», domando alla mia bionda vicina. «No, but we share», mi sorride lei, alitandomi alcol sul viso da cinque centimetri. No, ma condividiamo. L’era Obama è iniziata, ci sarà anche la crisi. Ma New York è sempre New York.

Mauro Suttora

Friday, June 13, 2008

Bush a Roma: caos

LO SFOGO: TROPPI DIVIETI

Pedoni perquisiti e code infinite
Una città bloccata senza motivo

di Mauro Suttora

Libero, venerdì 13 giugno 2008

Sono filoamericano. Adoro i cheeseburger McDonald’s, e penso che Bush abbia fatto bene a cacciare Saddam. Sono felice che al presidente degli Stati Uniti piaccia Roma, e che ci torni ogni anno. Questa volta però, scusatemi, ma ha rotto le balle. Non lui, ma chi per proteggerlo ha bloccato mezza capitale d’Italia per tre giorni. Non so chi sia: il ministro dell’Interno, il prefetto, il questore, o la Cia che avrà chiesto misure di sicurezza eccessive. Ma qualcuno ha esagerato. Hanno raddoppiato i divieti rispetto all’anno scorso, ampliato a dismisura le zone proibite. Perché?

«Non sa che giorno è oggi?», mi sussurra il funzionario di polizia che mi blocca mercoledì mattina in via Aldrovandi mentre vado a lavorare. Il mio ufficio sta vicino a villa Taverna, residenza privata dell’ambasciatore americano. «Undici giugno. E ai terroristi piace colpire l’11 del mese…»

Okay. Quindi niente auto, niente parcheggi, niente taxi. Ma neanche il tram 19 e i bus. Tutti deviati. Il problema è che il loro nuovo percorso, tre chilometri da viale Bruno Buozzi ai viali Liegi e Regina Margherita, è così intasato di auto che l’autista ci consiglia di scendere: «A piedi fate prima».

Va bene. Però mezzo chilometro prima di villa Taverna controllano i documenti ai pedoni. Bloccano tutti i non residenti, e chi non lavora in zona. Passo, perché la mia società risulta nell’elenco in mano a un poliziotto. Obietto: «Sono le nove del mattino, Bush arriva nel tardo pomeriggio, l’anno scorso avete fatto scattare i divieti solo due ore prima, perché questo inasprimento?» «Dotto’, obbediamo agli ordini».

All’una esco per andare a pranzo in centro. Per tutta la mattina i clacson del traffico fermo in piazza Ungheria ci hanno assordato. Rifaccio il percorso di quattro ore prima, alle transenne ritiro fuori la carta d’identità. No, non si può più passare: «Giri per via Paisiello». «Ma stamane sono passato di qui». «Mi spiace». Cammino un chilometro fino a via Pinciana, dove passano il 52, il 53 e il 910. Fermata soppressa. Un inutile giro vizioso, visto che è impossibile tagliare per Villa Borghese. Arrivo con mezz’ora di ritardo, sudato, dopo cinque chilometri a piedi.

Ieri mattina, peggioramento ulteriore. Via Aldrovandi tutta proibita anche ai pedoni, chissà come faranno i Caltagirone e Nancy Brilli a uscire di casa. Due interi quartieri, Parioli e Pinciano, paralizzati.

Nel 2004 ero a New York per la Convention repubblicana. Anche lì c’era Bush. Ma la polizia non fece tutto questo casino. Chiuse tre strade, però i pedoni passavano. E comunque lì la metropolitana (che in questa parte di Roma non c’è) ha sempre funzionato. Nessuno si sognerebbe di bloccare i traffici di mezza metropoli.

Caro Bush, facciamoci del male. Quest’anno al corteo contro di te c’erano solo quattro gatti. Ci hanno pensato le autorità a far maledire l’America da decine di migliaia di romani, impotenti e imbufaliti al volante.

Sex and the City, il film

LE QUATTRO 'RAGAZZE' DI NEW YORK APPRODANO SULLO SCHERMO

"Ma io che le ho conosciute da vicino dico: alla larga!"

Oggi, 11 giugno 2008

Rischia di passare alla storia come quello di 'Sex and the city', il decennio degli anni Zero che stiamo vivendo. In mancanza - tocchiamo ferro - di nuove guerre o attentati. Purtroppo ho conosciuto da vicino le "ragazze" di Manhattan (si fanno chiamare ridicolmente così anche quando hanno 50 anni), avendo vissuto con una di loro per un anno mentre ero corrispondente di 'Oggi' da New York. Le conseguenze sono state: portafogli (mio) vuoto, stress, divertimento, molte ubriacature.

Ho raccontato tutto nel libro 'No Sex in the City' (ed. Cairo, seconda edizione 2007). Molti pensano che a New York, capitale mondiale dei single, si faccia parecchio l' amore. È vero il contrario: le donne, ossessionate da carriera e shopping, provano più piacere comprando un paio di scarpe che a letto. Riducono il sesso a un' attività ginnica, che però viene dopo il tapis roulant in palestra. Per i maschi è un inferno: ho visto miliardari di Wall Street ridotti a cagnolini al guinzaglio delle loro mogli. Samantha, la più simpatica delle quattro smandrappate del film, viene dipinta come una ninfomane. In realtà, è proprio lei la meno falsa.

Mauro Suttora

Thursday, December 28, 2006

recensione dell'Avanti

“NO SEX IN THE CITY”, IL DIARIO “DALL’ESILIO” NEWYORKESE DEL GIORNALISTA MAURO SUTTORA
 
Alla ricerca di una donna normale

di Sergio Sammartino

Avanti!, 20/12/2006

E’ uscito, per i tipi della Cairo Editore, “No sex in the city” (222 pp., 14,00 euro) di Mauro Suttora, giornalista poco più che quarantenne, da poco rientrato in Italia dopo un soggiorno di quattro anni in America come corrispondente di “Oggi”. Il titolo, ovviamente, fa la parafrasi - ed anzi l’antifrasi - alla famosa commedia “Sex in the city”, di cui proprio in questi giorni circola un sequel nei nostri teatri. 
 Il libro sorprende per una curiosa originalità sia nel contenuto che nello stile. In apparenza è un diario “dall’esilio”, come ve ne sono già, ma a sorprendere non è solo il tono ironico e autoironico, quanto il fatto che a scandire le vicende di questo italiano a New York sia essenzialmente il sesso, la ricerca continua e scontata di sesso - sia da parte sua che da parte delle sue numerose interlocutrici - con l’aggiunta poco prevedibile che, quasi sempre, si finisce in bianco (da cui il titolo). 

 Ovviamente il sesso è la cifra con cui si interpreta tutto un mondo che sembra non avere più altri orizzonti, la lente attraverso cui si decifra tutta un’umanità vista essenzialmente dal suo lato femminile, posta sulla cima del mondo moderno - nei migliori quartieri della capitale della Terra - eppure così incerta, così fragile, così piena di miti fasulli e di autentica incapacità a vivere accettando gli impegni, le responsabilità e le rinunce che la vita comporta. 

 Così vediamo il Nostro abbandonato da una bella di turno con motivazioni vaghe e inutilmente complicate, tipo: “Ti sei accorto che ormai non vivo che con te? Voglio i miei spazi!”; lo vediamo alle prese con la moglie d’un ambasciatore che gli si spoglia dinanzi a lui ma pretende di non essere penetrata perché “sono molto cattolica”, salvo a volere una doccia con lo champagne. Insomma, accompagniamo il protagonista nella inutile ricerca di un donna normale, che non abbia fisime (tipo fare sesso, ma senza baci, perché “mi fanno senso”).

In un mondo così contorto e corrotto, alla fine, è diventata incredibilmente difficile persino una sana notte di sesso puro, quasi che la sessualità si sia talmente liberata... da finire a volersi liberare di se stessa. Non a caso, nel leggere ci tornava in mente un bell’articolo di Marcello Veneziani uscito sul “Domenicale” di qualche settimana fa, in cui il pensatore analizzava la deriva dell’erotismo occidentale, denaturato e spinto al punto da diventare la macchietta meccanica dell’eros vero. 

 Ma non si creda che Suttora si atteggi a moralista: egli si trova perfettamente a suo agio - salvo qualche breve timidezza - in questo mondo di feste e di club in cui ci si invita al letto come una volta ci si invitava ad un aperitivo; nell’amoralità disarmante di questo stile di vita volutamente superficiale, egli si identifica perfettamente (per questo Beppe Severgnini, nel presentare il libro lo ha definito “invadente, immodesto e impudico”). 
 E siccome siamo in un epoca in cui i moralisti risultano irrimediabilmente antipatici, ecco che lui, Suttora, guadagna subito la simpatia del lettore, tanto più che “la morale” - almeno quella della favola - alla fine risulta lo stesso. 

Alla maniera di Machiavelli - di cui si disse che, evitando attentamente di giudicare il mondo politico, lo mostrava nefando con ulteriore lucidità -, così l’impersonalità non giudicante di questo autore finisce per darci un allarme ancor più forte sul vuoto ideale delle attuali classi dirigenti e sulla confusione mentale in cui vivono. Proprio l’assenza di scandalo ci dà una visione più nera della normalità. Lo stile merita una lode a parte: è pieno di creazioni lessicali, di sorprese linguistiche che scatenano la risata alla maniera di Wodehouse. Alla fine, conoscendo l’America più da vicino, ci divertiamo pure parecchio. 

E poi - senza poterlo ammettere chiaramente (egli scrive anche su riviste americane, e certo il libro sarà tradotto negli Usa) - Mauro Suttora non riesce a nascondere fino in fondo la consapevolezza della propria superiorità culturale di europeo e di italiano, rispetto ad una società la cui classe dirigente non studia Filosofia e studia ben poco la Storia, e vive quindi il presente con scarsa o nulla coscienza della grande vicenda umana. 
 Anche quando sta per sposare un’americana, quand’egli dice al futuro suocero che “adora l’America” non riusciamo a credergli davvero. In realtà questo libro ci ricorda anche di tenerci cara la nostra identità e di demistificare il mito degli Usa, fin troppo presente nel nostro linguaggio e nel nostro pensiero. 
Sergio Sammartino

Thursday, December 07, 2006

Corriere della Sera: Severgnini su No Sex in the City



GRANDE MELA
La Manhattan degli «affari galanti» raccontata da Mauro Suttora

Non troppo sesso, per favore. Siamo a New York

7 dicembre 2006

di Beppe Severgnini

recensione sul Corsera

Mauro Suttora voleva scrivere un saggio, e per fortuna non c'è riuscito. Ha prodotto invece un romanzo breve e un lungo affresco: e questi gli sono venuti piuttosto bene (No sex in the city - Amori e avventure di un italiano a New York, Cairo Editore, pp. 206, 14 euro).

No sex in the city - dove di sesso ce n' è abbastanza - è uno dei rari ritratti efficaci della città più complicata e nevrotica d' America: New York. Molti italiani hanno provato a dipingerlo, con risultati che vanno dall' infantile al disastroso. Perché quasi tutti, della Grande Mela, hanno una fifa blu (interamente giustificata). Quando la superano - di solito, dopo pochi giorni - cadono in una specie di euforia, che gli impedisce di andar oltre, e capire dove sono finiti.

Le avventure galanti sono, in realtà, una scusa per mettere il naso nelle faccende sociali, mondane e professionali di Manhattan. Talvolta si ha l' impressione che Suttora salisse in casa delle ragazze per studiare l'arredamento, e riferircelo.

Alcuni rapporti sono esilaranti: la ragazza che non vuole baciare, quella che si scatena solo in taxi, quella che lo pianta per email. C'è anche un focoso incontro notturno sul tappeto del Rizzoli Bookstore nella 57esima strada, un luogo dove alcuni di noi si sono limitati a presentare, ogni tanto, un libro.

Ripeto: il sesso, negato nel titolo, esiste. Ma è una scusa, e per l' autore non è una priorità. Più che dalle gambe e dai seni, Mr Suttora è ipnotizzato dalla pancia di Manhattan - in senso metaforico, naturalmente. Corrispondente per il settimanale «Oggi» - i newyorkesi capiscono sempre «orgy», orgia, e restano perplessi - l'autore ha scritto anche per «Newsweek» e «New York Observer», dov'è nata la rubrica che ha dato il titolo al libro.

Per uscire dalla cuccia calda della corrispondenza ci vuole coraggio, Suttora l' ha avuto, ed è stato premiato. Nei media di New York sanno chi è, e non sarei stupito se un editore americano mettesse gli occhi sul volume. Alcune intuizioni sono folgoranti. Il quarantenne Mauro - che è più abbagliato dalla mondanità di quanto voglia farci credere - riesce tuttavia a restare un italiano con gli occhi aperti.
Racconta che troppe donne newyorkesi «parlano con la voce di Topolino» (un fenomeno che la scienza non ha ancora spiegato); che i ristoranti francesi sono in crisi, e quelli italiani no; che la tariffa fissa telefonica (flat rate) è una jattura, perché i taxisti di Manhattan sono sempre al cellulare, e confabulano come zombie in lingue misteriose, disinteressandosi di chi hanno a bordo.

I personaggi del libro vengono attivati a turno con pochi tocchi, e un dialogo che fa invidia a tanti affermati narratori nostrani. Tra le ragazze americane (Marsha, Liza, Maria, Danielle, Paula, Susan, Adrienne, Nicole: dimentico qualcuna?) compare anche qualche collega italiano (Giuliano Ferrara, Guia Soncini, Christian Rocca, Simona Vigna, lo ieratico Cianfanelli).

No sex, per loro: ma contribuiscono a movimentare il racconto, che procede con leggerezza per duecento pagine fino a un finale sorprendente. «Adoro i flip-flop, le ciabatte infradito: sono sexyssime», scrive l'autore appena sopra la parola «fine». Questa, Suttora, devi proprio spiegarmela.

Beppe Severgnini

Thursday, December 22, 2005

Corrispondenti esteri a New York

URAGANI MEDIATICI

Perché una pena di morte negli Stati Uniti surriscalda i giornalisti e le uccisioni a Pechino e in Iran no

Il Foglio, giovedi' 22 dicembre 2005

New York. La mobilitazione contro l'esecuzione di Stanley 'Tookie' Williams non è servita a nulla, ma ha provocato una memorabile tempesta fra i giornalisti esteri a New York. E' noto: l'unica Foreign Press Association (Fpa) che conta qualcosa negli Stati Uniti è quella di Hollywood. Non perchè i corrispondenti che si occupano di cinema siano più bravi, ma perchè ogni anno decidono chi premiare con i Golden Globe, cioè gli antipasti propiziatori degli Oscar. La Fpa di New York, invece, politicamente vale quanto l'Associazione Stampa Estera di Roma: poco. Iscriversi costa 70 dollari l'anno, dentro ci si trova di tutto: dai corrispondenti delle più prestigiose testate mondiali, a poveracci che si spacciano per giornalisti allo scopo di raccattare qualche invito a pranzi e cocktail. Non impone controlli sulle credenziali come quelli severi del Foreign Press Center governativo di Lexington Avenue, che pretende addirittura una prova certificata dai consolati dell'esistenza dei media per i quali si chiede l'accredito.

La direttrice della Fpa è Suzanne Adams, una simpatica signora ultrasettantenne che ogni tanto organizza gite in barca nella baia di Manhattan, scampagnate in qualche factory outlet, incontri con Ivana Trump e degustazioni di rum o whisky. Il clou dell'attività della Fpa è l'annuale gala di maggio al Mark Hotel di Madison Avenue, in cui si distribuiscono borse di studio per giovani promettenti e si ascoltano big della politica e della comunicazione: George Stephanopoulos, ex addetto stampa di Bill Clinton e oggi presentatore di un talk show sulla tv Abc, oppure il rettore della Columbia University.

Un trantran dignitoso, che negli ultimi giorni è stato scosso da un acceso dibattito sulla pena di morte. A dar fuoco alle polveri è stato Roberto Rezzo, corrispondente dell'Unità da New York, che già aveva sollecitato una mobilitazione pro-Tookie presso i membri dell'Acina (Associazione Corrispondenti Italiani Nord America) L'Acina ha fatto circolare il testo dell'appello, invitando a sottoscriverlo. L'ex presidente della Fpa Jeffrey Blyth, invece, si è ribellato: «Perchè ai soci dell'Fpa viene chiesto di impegnarsi a favore di un assassino condannato a morte in California? Firmare appelli non è compito dei corrispondenti esteri negli Usa. Il suo giornale sa di questo suo impegno?». Risposta di Rezzo: «L'Unità è stata fondata nel 1924 dal filosofo Antonio Gramsci, e ha una solida reputazione nella difesa dei diritti umani. Mi appoggia in questa battaglia dandomi spazio e risorse. Il mio era solo un appello personale. Capisco che lei è favorevole alla pena di morte, e rispetto la sua opinione. Ma dubitare della mia etica professionale è inaccettabile».

Tuona Andy Robinson (La Vanguardia, Barcellona): «Ogni giornalista ha il dovere di difendere i diritti umani violati dalla pena di morte. E proprio questo dovrebbe fare la Fpa, invece di organizzare aperitivi sponsorizzati da industrie private. Sono anche choccato dal fatto che la nostra associazione abbia avuto un presidente favorevole alla pena capitale». Proprio in questi giorni la Fpa elegge il nuovo presidente. Il candidato Alan Capper (corripondente di una radio inglese) promette battagliero: «Non saremo più un club dove ci limitiamo a sorseggiare aperitivi». A questo punto non ci ho visto più e ho voluto dare un contributo al dibattito: «Sono personalmente contrario alla pena di morte, però i giornalisti dovrebbero rimanere neutrali, senza immischiarsi nei dibattiti interni americani. E poi i cocktail mi piacciono...»

Ana Grumberg, più nota come nuora del leggendario promoter di boxe bushiano Don King che come giornalista (collabora con una tv francese), molla una carico da novanta: «Io sto sempre dalla parte delle vittime [sottinteso: dei killer che vengono condannati a morte, ndr]. Chiedere ai colleghi di firmare questa petizione è offensivo. Non desideriamo neppure che ci venga chiesto di farlo. Tookie è un criminale incallito, che ha assassinato varie persone e vive gratis in prigione. A noi nessuno paga vitto e alloggio. Mantenere in carceri di lusso criminali della peggiore specie non è la mia idea di giustizia».

Alessandra Farkas (Corriere della Sera) cerca di elevare il dibattito: «La pena di morte riguarda più i diritti umani che la politica. Quasi tutti noi proveniamo da Paesi dove è stata abolita da parecchio. Gli Stati Uniti sono l'unica democrazia occidentale dov'è ancora in uso, assieme ad alcune fra le peggiori dittature del mondo. Non è questione di destra o sinistra, ma del diritto umano basilare alla vita».

«E il diritto alla vita di quelli che sono stati ammazzati, allora?», le risponde Daniela Hoffman della tv tedesca Rtl, «Gli assassini sapevano quali sarebbero state le conseguenze del loro atto se fossero stati presi. Mi preoccupa semmai la correttezza dei processi: troppo spesso in questo Paese viene condannato chi non ha i soldi per l'avvocato». Eva Schweitzer, freelance tedesca, raccoglie l'assist e vince la palma della più antiamericana: «Il miliardario assassino Robert Durst è a piede libero. E' ridicolo pretendere di essere neutrali. Se gli Stati Uniti vogliono fare i poliziotti del mondo, sottoponiamoli allo scrutinio del mondo intero: la cosa deve funzionare in entrambe le direzioni».

Secondo Amnesty International, nel 2004 in Cina ci sono state 3.400 esecuzioni, sul totale mondiale di 3.797. Per i radicali di Nessuno Tocchi Caino la cifra cinese è più vicina a 5.000. Il boia è attivissimo anche in Iran, Arabia Saudita e Vietnam. Negli Usa, una cinquantina di esecuzioni. Per ogni articolo che leggiamo su un giustiziato negli Usa, quindi, ce ne dovrebbero essere cento sulla Cina... se solo conoscessimo volto e nome dei condannati cinesi. Con due aggravanti: i processi in Cina sono assai meno equi che negli Usa, e non essendoci democrazia la maggioranza non può decidere sulla pena di morte. La maggioranza degli americani invece la approva. Ma i corrispondenti esteri, fra un cocktail e l'altro a Manhattan, sembrano dimenticarlo.

Mauro Suttora

Wednesday, October 19, 2005

Musulmane

Una serata con Phyllis Chesler, la femminista che difende le donne islamiche dalle donne di sinistra

Il Foglio, 19 ottobre 2005

di Mauro Suttora

New York. Il femminismo è morto? Sì, se non sceglie come priorità il dramma delle donne islamiche. Lo sostiene Phyllis Chesler, 65 anni, dall’alto dei due milioni e mezzo di copie vendute di “Le donne e la pazzia”, caposaldo della letteratura femminista negli anni Settanta. Il sottotitolo del suo nuovo libro-choc (“The Death of Feminism”, che segue “Donna contro donna”, tradotto in Italia nel 2003 da Mondadori) fa imbestialire varie ex compagne: “What’s Next in the Struggle for Women’s Freedom”. Cioè: di cosa dobbiamo occuparci ora, per fa avanzare la libertà delle donne? Per Chesler la risposta è chiara: «L’apartheid schiavista subito dal mondo femminile nell’Islam. Se non capiamo il pericolo per i nostri valori - e per le nostre vite - rappresentato dal razzismo e dal sessismo dei reazionari musulmani, siamo morte: uccise dal virus della passività provocata dalla correttezza politica».

Venerdì sera, Quinta avenue di Manhattan, di fronte all’Empire State Building. La pioggia torrenziale non deterre decine di donne dall’affollare il salone dei dibattiti della Cuny (City University di New York), l’ateneo pubblico che fece aspettare 22 anni anche la Chesler prima di concederle la cattedra di ruolo in Psicologia. Ora però il suo avversario non è più l’establishment accademico maschile, ma il femminismo di sinistra. Incrostatosi esso stesso come nuovo potere, in una palude conformista dove per ogni docente repubblicano ce ne sono sette democratici (proporzione raddoppiata rispetto a trent’anni fa), e in cui i contributi pro-Kerry ad Harvard e negli atenei pubblici californiani (Berkeley, Ucla) hanno superato l’anno scorso di 19 volte quelli pro-Bush.

In questo ambientino, automatiche le proteste contro le organizzatrici del Now (National Organization of Women) e della Cuny appena annunciata la Chesler come protagonista della conferenza. «Davanti a un clima d’intimidazione degno dell’era McCarthy, ringrazio le dirigenti per aver difeso il primo emendamento alla costituzione, proteggendo la mia libertà di parola», esordisce la “traditrice”. Che difende tuttora l’intervento in Iraq, ma che già poche settimane dopo l’11 settembre 2001 suscitò clamore appoggiando l’attacco all’Afghanistan sul New York Times. E non ha migliorato il proprio status di pecora nera pubblicando due anni fa, lei ebrea di Brooklyn, una requisitoria contro “Il nuovo Antisemitismo”.

Il marito di Kabul

In questa sua ultima polemica contro il maschilismo islamico Phyllis Chesler parte da lontano, ma anche da molto vicino: «Nell’estate ‘61 mi trasferii a Kabul, dopo aver sposato il mio fidanzato Alì. Lui proveniva da una potente famiglia afghana, eravamo stati assieme per due anni frequentando l’università qui in America. Alì era delizioso, interessante, coltivato: parlavamo di Simone Signoret, Fellini, Proust e Dostoievski... Peccato che abbia smesso di parlarmi una volta in Afghanistan. Reimmerso nell’ambiente di famiglia, cambiò totalmente. Quanto a me, vissi segregata da quando all’aeroporto di Kabul mi confiscarono il passaporto. Ero praticamente agli arresti domiciliari, Ma anche in casa non potevo mai stare da sola, se volevo leggere o scrivere mi chiedevano perchè fossi così triste dal volerlo fare. Non esiste il concetto di privacy, da quelle parti. Ero prigioniera. Scoprii che il padre di Alì aveva tre mogli.
Dopo qualche mese di incubo riuscii a scappare e a tornare indietro. Baciai la terra quando atterrai all’aeroporto di New York. Ero incinta, ma se lo avessi detto a Kabul non mi avrebbero lasciata partire. Abortii».

Nulla è cambiato negli ultimi 44 anni, sostiene questa fondatrice del femminismo Usa: «Nell’Islam i matrimoni continuano a essere combinati, le donne vengono torturate, per le accusate di adulterio c’è la lapidazione. A scagliare la prima pietra sono il padre o il primogenito... E i maschi musulmani sono ancora affetti dalla sindrome di personalità multipla culturale, come il mio Alì: diversi quando sono in occidente, ritengono noi degli ingenui perchè di personalità tendiamo ad averne una sola... Di fronte a tutto questo, giustifico che gli Stati Uniti usino la propria potenza per sottrarre le donne islamiche al loro tremendo destino, e anche che facciano ricorso allo strumento militare come mezzo estremo».

Segue dibattito. Cagnara. Parlano alcune femministe di estrema sinistra, senza porre domande. Quando la Chesler interrompe i loro comizietti si mettono a urlare contro la censura, il fascismo e Bush. Unica obiezione sensata: le donne saudite stanno peggio delle irachene sotto Saddam, ma Riyad è alleata degli Usa. «Su questo mi trovo più a destra di Bush», risponde ironica Phyllis Chesler.

Mauro Suttora

Wednesday, October 05, 2005

George Clooney

CLOONEY MALATO

Oggi, 2 ottobre 2005

New York (Stati Uniti), ottobre

George Clooney è malato. Una malattia grave, anche se non mortale. Lo ha rivelato lui stesso alla giornalista americana Diane Sawyer, durante una trasmissione della rete Abc girata nella sua villa sul lago di Como. «A tutti, prima o poi, capita nella vita quell'anno in cui si invecchia dieci anni», ha confessato l'attore statunitense, «e a me è toccato un male raro e debilitante, con il fluido spinale che mi esce da naso. E pensare che all’inizio credevo fosse una semplice sinusite...».

Si tratta di una patologia collegata addirittura con il morbo della mucca pazza, perchè colpisce la «dura mater», ovvero la membrana che protegge il midollo spinale. Ma ne è una versione benigna, curabile se individuata in tempo, seppur dolorosa e fastidiosissima: «Praticamente quando starnutivo mi uscivano dei pezzi di testa dal naso», scherza oggi George, anche se all'inizio la sorpresa e la paura sono state grandi. «Dopotutto ho recitato per cinque anni in ER, quindi sono abbastanza abituato a situazioni del genere. Come quel malato che cominciò con un’emicrania, e finì con un tumore al cervello», dice l'attore 44enne, riferendosi al serial Tv che lo ha reso famoso, ambientato in un pronto soccorso (Emergency Room, appunto).

I sintomi del male sono forti mal di testa e perdite di memoria. La star, che negli ultimi tempi ha perso ben quattordici chili, li sta sconfiggendo poco a poco: «Ma sono sicuro che alla fine ce la farò, miglioro ogni giorno. Ho dovuto sottopormi a una quarantina di piccoli interventi chirurgici, mi hanno suturato e infilato tamponi nel naso. Però, tutto sommato, per me che faccio l’attore è stata un'esperienza interessante. Non ricordarsi le cose a breve termine ti colpisce proprio nell’attività professionale, si perde la fiducia in se stessi... Per esercitarmi ora mi tocca contare i gradini quando faccio le scale, e metto bigliettini dappertutto per non dimenticarmi le cose che devo fare».

E i mal di testa? «Ce li ho ancora, ogni giorno. Ma sempre meno, e più leggeri. Cerco anche di stare il più lontano possibile dai farmaci. Mia zia Rosemary Clooney, attrice di successo nei musical, si rovinò la vita e la carriera perchè usava tanti di quegli antidolorifici che ne divenne dipendente. Grazie a Dio io non ho avuto danni permanenti. Ma ogni giorno e ogni notte devo affrontare una piccola sfida. A volte mi sento come se dovessi respirare con una cannuccia stando sdraiato nel fondo di una piscina. E il disturbo peggiora con il passare delle ore che sto in piedi, perchè il peso del cervello spinge il fluido verso il basso e lo fa fuoriuscire... Comunque passare attraverso queste cose ti fa capire che ogni giorno è un regalo. E che non bisogna arrivare alla fine con dei rimpianti: “Ah, se avessi fatto questo, o quest’altro...»

E le donne, i bambini? Il nuovo Cary Grant, uomo desideratissimo dalle femmine dell’intero pianeta, non rimpiangerà un giorno di non aver avuto una moglie e dei figli? «Non prevedo di sposarmi nel prossimo futuro. Lo sono stato in passato, ma ora il matrimonio non rientra proprio fra le mie priorità. Non sto cercando nessuno. E non ho alcun desiderio di diventare padre. Lo so che può sembrare strano, ma non ho mai voluto avere figli. Anche perchè sarebbe una cosa che mi assorbirebbe molto, non prenderei certo una responsabilità simile alla leggera». Lo scapolo 44enne è stato nominato di recente «l'ultraquarantenne più sexy del mondo», ma lui scherza pure su questo: «Anche se avessero specificato “ultraquarantenne col cognome che inizia per C” avrei perso, perchè c'è già Sean Connery...»

Speranze svanite, quindi, per Gianna Elvira Cantatore, la 32enne pugliese che ultimamente era stata accreditata come nuova fiamma di Clooney. I due si erano conosciuti a una festa privata in una villa di Cernobbio, e in seguito ci sono state cene al ‘Gatto Nero’, ristorante a picco sul lago dei Como. Ma era stata lei a fargli la corte, spedendogli un mazzo di margherite nella villa di Laglio, e non viceversa. E, alla fine, anche questa volta lo splendido George ha liquidato la vogliosa candidata con un simpatico sorriso.

Ciò che gli sta veramente a cuore, in queste settimane, è il successo dell’ultimo film che ha diretto, Good Night and Good Luck. E’ la storia di un coraggioso giornalista televisivo americano che negli anni Cinquanta si oppose alla caccia alle streghe del senatore Joe McCarthy. Ma è anche un omaggio a suo padre, reporter tv. Ogni riferimento all’attuale situazione politica statunitense è assolutamente voluto.

Clooney non fa mistero di essere di sinistra: «La mia frase preferita nel film è: “Dobbiamo primeggiare grazie alle nostre idee, non con le bombe...” Mi piace perchè non è una frase che attacca questo o quello, che definisce il bene o il male, ma si limita a constatare che il nostro Paese può fare un sacco di cose positive e sorprendenti, per noi e per i nostri alleati. Quanto a mio padre, il momento più bello del film è stato la prima volta che gliel’ho fatto vedere, proprio qui nella villa mentre era in vacanza in Italia con mia madre. Alla fine si è alzato, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto: ‘Tutto vero, bravo’. Per me è stato il massimo».

Il settimanale Newsweek ha già definito Good Night and Good Luck «il miglior film americano dell’anno». E ha tracciato un ritratto trionfale di quello che è non solo un attore, regista, produttore e sceneggiatore di successo, ma anche un uomo simpaticissimo, intelligente, di classe e impegnato. E’ un impegno politico gaudente, però, quello di Clooney. Ancora l’altra sera l’attore è andato a letto alle otto del mattino a Manhattan, dopo aver fatto bisboccia con gli amici alla festa d’apertura del festival del cinema di New York.

Quand’è nella sua villa italiana in vacanza, invece, i suoi orari sono più mattinieri: sveglia alle sette e mezzo, un’ora e mezzo per leggere i giornali, poi palestra, un giro in moto attorno al lago, ed è già l’ora di pranzo: «Alle due suona la campana e tutti, come una piccola mandria, arriviamo per mangiare. Ho sempre dai quindici ai venticinque ospiti. Sono stato molto fortunato con la mia carriera. Molte cose mi sono capitate per caso, ma sicuramente la svolta sono state le puntate di successo di ER, in tv ogni giovedì sera. Senza quel serial non avrei potuto permettermi questa villa».

In cucina ci sono ben quattro frigoriferi. «Una villa del diciottesimo secolo con dentro una superstar del ventunesimo», la definisce l’intervistatrice, con ammirazione per entrambe. «Sono stati questi suoi soffitti affrescati a conquistarmi», confessa Clooney, «ma nella camera matrimoniale non ci dormo, è troppo grande. Ha un bagno privato che da solo è più grosso del mio vecchio appartamento...»

E' la prima volta che i telespettatori americani possono vedere gli splendori di villa Oleandra, la magione con quindici camere da letto che Clooney possiede in riva al lago: «L'ho comprata dalla famiglia dei miliardari Heinz, e mi sento un po’ in colpa perchè sono un cattolico di origine irlandese: per molto tempo non ho avuto una lira. Ma tutto sommato è positivo avere complessi di colpa sui soldi, si possono utilizzare responsabilmente».

Ora Clooney vuole realizzare un altro sogno: aprire un casinò a Las Vegas. Lo farà in società con Rande Berger, marito di Cindy Crawford (ex top model e moglie di Richard Gere) e con gli inseparabili Brad Pitt e Matt Damon: «Ma sarà un casinò di classe, dove si entrerà solo se si è vestiti bene, e ci saranno feste danzanti... Come la prima volta che andai a Las Vegas con mia zia, e fui colpito dall’eleganza del posto». Insomma, la star di Ocean Eleven e Twelve vuole copiare le imprese di Frank Sinatra e Dean Martin non solo sullo schermo, ma anche nella realtà. Un quarto dei guadagni verrà però versato in beneficenza, promette Clooney.

E Brad Pitt? Sposerà la sua Angelina Jolie a villa Oleandra, come si sussurra? Clooney smentisce. Ma se non lo facesse, che matrimonio segreto sarebbe?

Mauro Suttora

Saturday, March 05, 2005

Ari Fleischer, portavoce di Bush jr


















di Mauro Suttora

Il Foglio, 5 marzo 2005

New York. "Tedioso, tendenzioso, tristissimo, inutile, affrettato, totalmente banale". Non capita spesso che la 'politically correct' critica letteraria del New York Times, la 50enne Michiko Kakutani, stronchi così nettamente un libro. Il bersaglio della severa sacerdotessa del giornalismo è Ari Fleischer, 45enne ex portavoce della Cada Bianca, che sicuramente è stato piuttosto prevedibile nello scrivere il solito libro di memorie dopo aver lasciato lo staff presidenziale due anni fa - lo fanno tutti, e neanche lui ci ha risparmiato 381 pesanti pagine di amarcord.