Thursday, January 28, 2021

E allora le foibe...?

FOIBOFOBIA

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 gennaio 2021

‘E allora i lager?’

Cosa succederebbe se uscisse un libro con questo titolo che prende in giro la Giornata della Memoria, contesta i numeri del genocidio, invita a “contestualizzarlo” per ridurne la gravità?

'E allora le foibe?' di Eric Gobetti, appena pubblicato da Laterza, attacca il Giorno del Ricordo (10 febbraio) istituito nel 2004 per rievocare anche i massacri di migliaia di civili italiani in Istria nel 1943-45, ad opera dei comunisti jugoslavi.

Una certa sinistra estremista non ha mai accettato questa seconda giornata di meditazione storica, voluta perfino da dirigenti ex Pci (Violante, Fassino) e celebrata dai presidenti della Repubblica (Napolitano, Mattarella) proprio per creare una memoria condivisa sia con gli italiani di destra (i quali vent’anni fa si rifugiavano nei libri di Pansa che sdoganavano le vittime fasciste della guerra di liberazione), sia con le nuove Slovenia e Croazia democratiche.

Le quali hanno fatto forse meglio di noi i conti con il loro passato, visto che nel 2008 il governo di Lubiana, durante la sua prima presidenza semestrale Ue, organizzò a Bruxelles un convegno esaustivo sui ‘Crimini commessi dai regimi totalitari in Europa’, con - fra le altre - un’ottima relazione dello storico Gorazd Bajc sull’occupazione italiana in Slovenia nel 1941-43.

Gobetti invece comincia addirittura negando che la costa istriana sia stata veneziana (quindi italiana) per quasi mille anni, riducendo quella della Serenissima a “significativa influenza”. Gli consigliamo un viaggio da Capodistria a Cattaro, passando da Parenzo e Lesina, Pola e Zara, Rovigno e Trau. Scoprirà anche in tutta la Dalmazia campanili veneziani e leoni di San Marco, seppure scalpellati dai nazionalisti slavi.

Certo, solo i centri storici, abitati da marinai, pescatori, commercianti e professionisti, erano italiani. Già in periferia predominavano i contadini sloveni e croati. Cosicché bene avrebbe fatto l’Italia nel 1918 a non annettere anche l’Istria interna (Pisino), dove la maggioranza era slava.

Ma sotto Venezia e Austria questa multietnicità era pacifica. Durante il fascismo invece gli slavi subirono un’italianizzazione forzata, come in Val d’Aosta e Alto Adige/Sud Tirolo. Le cose precipitarono quando Mussolini annesse per due anni un terzo della Slovenia (non della Jugoslavia, come scrive Gobetti). Lì i generali fascisti commisero anche crimini di guerra. Non peggiori, peraltro, delle atrocità commesse da tutti contro tutti in Jugoslavia (titini contro ustascia croati e cetnici serbi), il Paese con la guerra civile più sanguinosa d’Europa, replicata 50 anni dopo.

Ma tutto ciò non giustifica le migliaia di civili italiani infoibati nel 1945. Quanti? Gobetti li riduce a 3-4mila. Altre stime arrivano a 10mila. Poi arrivò la pulizia etnica di 300mila profughi istriani e dalmati. C’è poco da “contestualizzare” (comprendere, scusare).

Il terrore che spinse tanti italiani alla fuga (il 90% degli abitanti di Pola, riconosce onestamente Gobetti) era doppio: sia politico, perché i titini erano comunisti, sia etnico, perché gli slavi fanatizzati dall’ideologia si illudevano di prendersi una rivincita installandosi nelle case espropriate. Autocondannandosi invece a mezzo secolo di povertà e squallore socialista.

Ma non furono solo i “privilegiati” a scappare: anche gli italiani poveri preferirono la libertà alla dittatura comunista, di cui avevano avuto un assaggio con le foibe, i processi sommari e i desaparecidos.

Un’atmosfera ben descritta in ‘Rosso Istria’ (2018), uno dei soli due (due!) film dedicati alle foibe, stroncato da Gobetti e invece eloquente nell’illustrare i dilemmi di quei giorni sanguinosi. Anche fra chi aveva abbracciato il comunismo, ma che vedeva l’odio etnico prevalere sulla fede internazionalista. Un personaggio appare troppo sadico? Non più di Donald Sutherland in 'Novecento' di Bertolucci.

Insomma, caro Gobetti, foibe ed esodo giuliano-dalmata non furono “il risultato dell’imperialismo italiano”. Anche, in parte. Ma lei stesso poche pagine dopo ammette che quella del maresciallo Tito fu dappertutto una “repressione preventiva degli eventuali oppositori”, anche contro gli slavi non comunisti. Basta qualche libro di Tomizza e Bettiza per comprenderlo, o i saggi di Marina Cattaruzza e Raoul Pupo. E pure lo spettacolo del povero Simone Cristicchi, anch’esso ingiustamente bollato come “vittimista” da Gobetti.

Risparmiamo quindi le foibe da queste anacronistiche risse fra fascisti e comunisti. Dopo Schengen, d’altronde, è sparito perfino l’oggetto del contendere: quel confine orientale maledettamente insanguinato che fece cambiare padrone alla sventurata Gorizia ben sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947. Record mondiale.

Mauro Suttora

Sunday, January 24, 2021

Istat e discriminazioni Lgbt, non è solo una questione di numeri

"SONO GAY, MA NON SCHEDATEMI"


di Mauro Suttora

HuffPost, 22 gennaio 2021


“Non risponderò al vostro questionario. E vi invito a rimuovere il mio nominativo dagli elenchi”.

Così C.A., consulente romano 50enne, risponde all’Istat che gli ha inviato il formulario di un’indagine sulle discriminazioni subite da soggetti Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender).

C.A. è una delle 21mila persone selezionate dall’istituto di statistica, perché presenti sul registro nazionale delle unioni civili.

“Chi ha autorizzato l’Istat a estrarne gli iscritti?”, chiede C.A. “Perché si dà per scontato che gli lgbt siano soggetti che subiscono discriminazioni? Questo sondaggio è di per sé discriminatorio verso chi, come me, vive la sua vita serenamente e non pensa alla differenza che l’essere omosessuale possa incidere sul piano lavorativo. Ciò che conta o dovrebbe contare sono la competenza e il merito”.

Insomma, C.A. ha stipulato un’unione civile, ma non vuole che questa sua scelta lo iscriva automaticamente nelle liste di una minoranza a rischio persecuzione di cui non si è mai sentito parte.

“So bene che l’indagine è prevista dalla normativa, inserita in un piano nazionale, e che i dati conferiti sono tutelati dal segreto statistico. Ma la mia privacy viene violata già nel momento in cui il mio nome è inserito tra le lettere inviate con tanto di data e protocollo. E se io non avessi intenzione, benché il registro delle unioni civili sia pubblico, di far sapere che sono unito civilmente ai funzionari Istat che hanno predisposto l’invio? 

Non dico che sia un’operazione illegale. Ma è politicamente discutibile, perché fornisce dati non verificabili quanto a veridicità delle informazioni fornite, e malleabili a seconda dell’uso che se ne vorrà fare. 

Altra cosa interessante: cosa pensa di ottenere l’Istat se dovesse chiedere a un campione nazionale di religione ebraica un’opinione sull’Olocausto? Quale risposta diversa dalla condanna di quella follia potrebbe avere? Quindi qual è l’utilità di chiedere a una platea lgbt se abbia subìto discriminazioni sul lavoro, se non si verifica la rispondenza tra il dichiarato e le eventuali denunce nelle sedi appropriate? 

La statistica è una scienza esatta sotto il profilo dei numeri, ma l’interpretazione dei dati non numerici è soggettiva, e potrebbe rispondere a logiche tese a rappresentazioni strumentali. Come pensano di vincere le discriminazioni se compilano lista di proscrizione?”.

Mauro Suttora


Wednesday, January 20, 2021

L’Italia è una Repubblica fondata sul Var

di Mauro Suttora


HuffPost, 20 gennaio 2021

Dalle ore 22 e 14 del 19 gennaio 2021 l’Italia è una repubblica fondata sul Var. Dimenticate il primo articolo della Costituzione, che citava il lavoro: ormai ce n’è poco, è stato sostituito dal reddito di cittadinanza, è più un diritto che un dovere.

No, la nuova frontiera della democrazia è il Video Assistant Referee: arbitro assistente video, quindi maschile, sbagliato dire “la Var”. La presidente del Senato Elisabetta Casellati ieri sera ha chiesto ai suoi questori di rivedere le riprese della seduta dopo aver chiuso la votazione sulla fiducia al governo Conte. E quelli hanno stabilito che i senatori Lello Ciampolillo (ex grillino) e Riccardo Nencini (socialista) potevano votare, perché lo avevano chiesto alzando la mano pochi secondi prima del termine.

Urla di protesta, naturalmente, proprio come negli stadi. Questa volta i tifosi imbufaliti erano quelli di centrodestra, visto che i due senatori hanno votato per Conte, portando il suo esiguo bottino a quota 156.

La coppia di ‘costruttori’ (o voltagabbana, per i loro avversari) ha aspettato ben due ‘chiame’ (gli appelli in ordine alfabetico) prima di esprimere la propria scelta. “La riunione di segreteria del Psi è finita tardi”, si è giustificato Nencini. Eppure avevano avuto tutto il tempo per decidere, quindi il ritardo è sospetto. Hanno fatto i preziosi? Esibizionismo? Imbarazzo per il loro passaggio dall’opposizione alla maggioranza, denominato volgarmente ‘salto della quaglia’?

Le cronache da Bisanzio registrano che, in ogni caso, l’innovazione procedurale introdotta dalla Casellati non è stata pro domo sua, visto che lei è di centrodestra. Ma aspettiamoci d’ora in poi bisticci infiniti: i parlamentari pigri e sbadati chiederanno il Var ogni volta che si attarderanno al bar.

Non è la prima volta che la moviola entra in aula. Il povero senatore Barani (pure lui socialista) ha avuto la carriera stroncata nel 2015 quando la terribile grillina Taverna gli si scagliò contro, accusandolo di avere mimato con mano e bocca un rapporto orale a commento di un intervento della collega Lezzi.

Processo, replay, sporcaccione sospeso e non ricandidato.

Soltanto che nella foga l’incantevole Taverna commise un errore: ripeté il gestaccio per convincere l’allora presidente Grasso, più divertito che allibito, ad aprire il procedimento. Cosicché oggi, in quell’immenso Var che è la rete, si reperisce più facilmente il video della denunciante che quello del reprobo.

In realtà la moviola è la peggior nemica dei politici, perché li inchioda al loro passato. Prossimo o remoto: Veltroni che annuncia di trasferirsi in Africa, Renzi che promette di lasciare la politica se perde il referendum, il grillino che giura di ridursi lo stipendio a 2500 euro, il Salvini comunista padano, la Meloni fascista hobbit.

Prima delle videocamere c’erano fotografi che si guadagnavano da vivere appostandosi per ore e ore in tribuna stampa al solo scopo di cogliere attimi imbarazzanti: i ‘pianisti’ che votavano di nascosto per il vicino assente, il parlamentare dormiente, la Jotti col dito nel naso. Agguati poi amplificati da Striscia la Notizia, con Tapiro d’oro al malcapitato.

In realtà, nella nostra nuova repubblica fondata sul Var, non possiamo che ringraziare le videocamere. Che, è vero, ci angustiano con gli autovelox. Ma, installate a milioni su ogni strada, hanno permesso un incommensurabile balzo in avanti alle statistiche su casi risolti, criminali catturati, pirati della strada individuati. Fino agli stupratori esibizionisti come Genovese, che regalano essi stessi prove agli inquirenti con i filmatini da distribuire agli amici.

E quando useremo il Var anche fra marito e moglie, nessun Ciampolillo la farà franca: annienteremo il coniuge colpevole con un semplice rewind, facendogli risentire o rivedere la scemenza detta un’ora, un giorno, un mese prima.

Mauro Suttora

Monday, January 18, 2021

Razzi, Scilipoti, Casaleggio, Spadafora: trasformisti del terzo millennio

di Mauro Suttora


HuffPost, 18 gennaio 2021

Cos’hanno in comune coi grillini Antonio Razzi e Domenico Scilipoti, eroi eponimi del trasformismo?

Molto, scopriamo. Dopo un decennio usato dai 5 stelle per far carriera sventolando i loro due nomi, simboli del male, adesso i voltagabbana, trasformati in responsabili costruttori, risultano preziosissimi per conservare il proprio stipendio.

Ma sono sfuggite ai più due altre curiose coincidenze. Da chi furono infatti eletti deputati, Razzi nel 2006 e Scilipoti nel 2008? Da Antonio Di Pietro, altro ex moralizzatore. E chi organizzava la campagna elettorale online del suo partito, Italia dei Valori? La società Casaleggio&associati, che per portare quei due gentiluomini in Parlamento incassò un milione e mezzo di euro nel 2005-10. Provenienti dal finanziamento pubblico con cui Di Pietro pagava all’azienda milanese la gestione del suo sito (e pazienza se contemporaneamente, nel 2008, la Casaleggio organizzava con il nascente Grillo politico un referendum contro quello stesso finanziamento pubblico).

Ecco quindi che, grazie alla casa madre grillina, la contiguità e continuità fra i saltatori della quaglia del terzo millennio è assicurata.

Certo, Razzi&Scilipoti furono dilettanti al cospetto di Giuseppe Conte. Il nostro ineguagliabile premier infatti detiene il guinness mondiale del trasformismo. Non si rinvengono nella storia dell’intero pianeta precedenti di un premier passato direttamente dalla guida di un governo a quella di un altro di segno opposto. 

Andreotti nel 1972 presiedette una coalizione di centrodestra e nel 1976-79 sposò i comunisti, ma dopo un intervallo di quattro anni. E, anzi, fu scelto proprio grazie ai suoi precedenti non di sinistra per rassicurare gli elettori dc di destra durante l’abbraccio col Pci.

Il liberale tedesco Genscher nel 1982 terminò l’era del socialista Schmidt e inaugurò quella del dc Kohl rimanendo ministro degli Esteri. Ma non era premier.

Si parva licet, il sindaco psi di Milano Pillitteri nel 1987 passò da un’alleanza con la Dc al Pci. Però erano tradimenti locali.

Seconda connection con lo spensierato mondo delle giravolte: il ministro grillino dello Sport Vincenzo Spadafora da Afragola. Lui con il neoalleato Mastella sente odore di casa. Se non gli riesce l’impresa di far espellere l’Italia dalle Olimpiadi (perché ha tolto al Coni l’autonomia dal governo), recupererà almeno le comuni origini campane. La sua variopinta carriera inizia infatti da virgulto 24enne come segretario particolare del presidente regionale campano Andrea Losco (Udeur di Mastella). Poi plana ovunque, destra, sinistra, centro: eccolo alla corte di Pecoraro Scanio, Rutelli, Fini, Schifani, Carfagna, Montezemolo, finché atterra dal compaesano Di Maio. 

Spadafora è un prodigio di ubiquità. Infatti il titolo della sua autobiografia, inopinatamente pubblicata da Mondadori nel 2014, è “Manifesto di un Paese che non si tira indietro”.

Ora gliele tira addosso il grillino Di Battista, che poche settimane fa alludendo a Spadafora gemeva: “Rischiamo di finire come l’Udeur”. E non erano ancora arrivati i neoRazzi&Scilipoti a salvarli.

Mauro Suttora

Thursday, January 14, 2021

Conte (quasi) out

“L’alternativa Pd è pronta: Franceschini premier con Di Maio vice”

intervista a Mauro Suttora

di Federico Ferraù

Ilsussidiario.net, 14 gennaio 2021

Renzi ritira le ministre di Iv e accusa conte di violare le regole. ma la trattativa rimane aperta. Se ne gioveranno Franceschini e Zingaretti

Sono passate da poco le 18.20 quando Renzi annuncia in conferenza stampa che le ministre di Italia viva Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, insieme al sottosegretario Ivan Scalfarotto, lasciano il governo. “La crisi politica non è aperta da Italia viva” spiega Renzi, “è aperta da mesi”. 

L’ex premier snocciola una lunga serie di critiche alla conduzione di Conte: “Proprio perché c’è la pandemia occorre rispettare regole democratiche, perché se durante la pandemia non le rispetti allora la democrazia non serve più a niente”. 

A sorpresa, però, Renzi lascia aperte diverse porte. “Noi non abbiamo nessuna pregiudiziale né su nomi né su formule”, tranne quella di un’alleanza con la destra.

Adesso si attende di capire quali saranno i binari della crisi. Mauro Suttora, giornalista, collaboratore dell’Huffington Post dopo Oggi e L’Europeo, vede improbabile un Conte ter, perché “l’obiettivo di Renzi è fare fuori Conte per conto del Pd”. Prematuro fare ipotesi, ma una di queste contempla una sorta di staffetta M5s-Pd a Palazzo Chigi. Tre, secondo Suttora, i nomi possibili.

L’unica pregiudiziale di Renzi è verso un possibile accordo con la “destra sovranista e populista”. Dunque la trattativa continua?

Sì. La politica è trattativa continua. Ma dietro Conte in realtà c’è il Pd, ridotto nei sondaggi al 19%, che non ha guadagnato un voto dell’alleanza coi grillini. In un anno di governo Salvini li dimezzò, vampirizzandoli. Ora la Lega è scesa, ma i voti di destra sottratti ai grillini sono comunque rimasti nel centrodestra, finendo alla Meloni.

Il Pd invece?

Il Pd invece non è riuscito ad attrarre il voto di un solo grillino di sinistra: il M5s era al 17% all’inizio del Conte 2, alle europee 2019, e oggi resiste al 14-16%. Invece di svuotare i grillini, è stato il Pd a grillizzarsi.

Cosa vuole veramente Renzi?

Far fuori Conte per conto del Pd.

Renzi continua a sostenere che non si vota. Come fa a esserne così sicuro?

Perché tutti gli attuali 945 parlamentari rischierebbero il seggio con un nuovo voto, dato il taglio del loro numero, tranne i Fratelli d’Italia. L’unico dato sicuro è che non ci saranno elezioni politiche fino al febbraio 2022, dopo che sarà votato il successore di Mattarella.

Conte potrebbe guidare un governo per la terza volta? O l’operazione di Renzi rende possibile “quasi” tutto ma non questo?

La vedo dura. Sarebbe il suo terzo salto della quaglia. Troppo anche per lui, che pur detiene il record mondiale del trasformismo. Non si conoscono precedenti di un premier che guida prima una coalizione e poi ne guida un’altra di segno opposto. Ricordo solo il liberale tedesco Genscher, che nel 1982 fece fuori il socialista Schmidt per mettersi con il democristiano Kohl, o il sindaco Psi di Milano Pillitteri che nel 1987 passò da un’alleanza con la Dc al Pci. Ma non erano capi nazionali di governo.

Le parole di Bettini (Pd): “ci sono le condizioni per definire un’intesa di fine legislatura” dette poco prima che Renzi ritirasse le ministre hanno ancora un senso?

Quel grande stratega di Bettini ha addirittura incoronato Conte come capo della sinistra, facendone uno statista eccelso, una specie di Moro in sedicesimo.

Stando ai retroscena, l’aut-aut di Conte ieri a Italia viva ha spiazzato tutti, Colle compreso. Tutti dunque a pensare che Conte avesse davvero i numeri. Che cosa è successo?

Più che avere i numeri, Conte li ha dati… E Mattarella lo ha ridotto a più miti consigli. Che non sono quelli di Casalino e Travaglio.

Secondo te il governo ha i voti in Senato? Insomma i responsabili si troveranno?

Mi limito a dire che i cosiddetti “responsabili” fino a pochi mesi fa venivano definiti “Razzi e Scilipoti”, orrendi voltagabbana.

Cosa faranno i 5 Stelle e gli ex 5 Stelle, quelli che sono nel Misto?

I grillini ed ex grillini ingoieranno qualsiasi cosa pur di conservare il posto, visto che sono destinati a dimezzarsi dal 33 al 16%.

“Un patto tra tutti i partiti, costruttori per il bene comune dell’Italia”. Che senso dare all’appello di Grillo?

È un appello degno del comico che è. Dopo aver tuonato per quindici anni che i politici sono tutti ladri, ora li vuole tutti con sé. L’ammucchiata finale. Pittoresco.

E adesso? Che cosa potrebbe succedere nel breve termine?

Non lo so, la politica è bella perché imprevedibile. So solo che Renzi sembra essere l’unico che fa politica oggi in Italia. L’unico che la sa fare, o che la vuole fare. È stato lui a inventare il Conte 2, costringendo il Pd ad allearcisi. E ora è di nuovo lui a distruggere la sua marionetta Conte, dopo averla creata. Sarebbe del tutto normale, a metà legislatura, una staffetta di governo. Finora il premier è stato grillino, ora è il turno di un Pd. Magari con Di Maio vice.

C’è qualcuno ne Pd che può aspirare a questo ruolo?

Franceschini, Zingaretti, Gualtieri. Ma per ora è fantapolitica.

E Renzi?

Con tutti i suoi difetti, per fortuna che Renzi c’è. Poi magari rimarrà al 3%. Ma il Pd dovrebbe fargli un monumento, se non altro come kamikaze.

Federico Ferraù 

Thursday, January 07, 2021

Usa: tanti corpi di polizia, zero sicurezza

L'ETERNA DEBOLEZZA INTERNA DEGLI STATI UNITI

di Mauro Suttora

HuffPost, 7 gennaio 2021

Sette colpi in cinque secondi. Tanti ne riuscì a sparare John Hinckley al presidente Ronald Reagan nel 1981. Quel mancato assassinio fu perfino più grave dell’omicidio Kennedy, perché dimostrò l’assoluta perforabilità della sicurezza attorno all’uomo più potente del mondo. A Dallas, infatti, il killer sparò dal sesto piano, a centinaia di metri di distanza. A Washington, invece, Reagan fu colpito da pochi metri.

Quarant’anni dopo, il problema è sempre lo stesso. Quant’è vulnerabile l’impero americano? Gli Stati Uniti dominano il pianeta, spendono 800 miliardi di dollari ogni anno per le forze armate (Cina ed Europa 260, la Russia 70).

Eppure centinaia di pazzoidi addobbati da bisonti cornuti riescono a entrare nel cuore del loro sistema, il palazzo del Congresso, proprio mentre Camera e Senato sono riuniti in sessione congiunta per una delle occasioni più sacre: la proclamazione del nuovo presidente.

I grillini promettevano di aprire il nostro Parlamento “come una scatola di tonno”. I complottisti trumpiani lo hanno fatto.

Così, blindatissimi all’esterno, gli Usa si ritrovano indifesi all’interno. Gli americani, allibiti, scoprono che a proteggere il Campidoglio c’è una forza apposita, la Capitol police, forte di duemila agenti. I quali tuttavia ieri erano impotenti quanto i vigili urbani. Dotati di manganello, ma impediti dall’usare “lethal force” contro l’onda di assalitori. 

Un video di HuffPost Usa mostra un povero agente di colore che arretra davanti agli energumeni provvisti di aste di bandiera: scappa su per le scale, non osa menare la prima randellata perché sa che avrebbe la peggio.

Mai sottovalutare l’idiozia della burocrazia. Nella sola Washington coesistono ben sei corpi di polizia locale. Con lo stesso affiatamento che affratella e coordina i nostri carabinieri e poliziotti. Poi c’è l’Fbi federale. Poi la Guardia nazionale, che però dipende dal Pentagono. Quella di Washington ha solo mille effettivi, quindi ieri sera (dopo ore e ore) sono scesi in campo gli stati vicini, Virginia e Maryland. Fino alla mossa comica del governatore di New York, che ha inviato un suo contingente.

Gli Usa spendono ogni anno 115 miliardi per le varie forze dell’ordine. Ma a controllare le manifestazioni politiche ci sono anche i servizi segreti. E qui, ecco l’ulteriore barzelletta: l’intelligence statunitense è divisa in sedici agenzie. Cia, Dia, Nsa, sicurezza interna ed esterna, ogni arma ha le proprie spie, e poi il ministero dell’Energia, e volete mettere la Home Security, il nuovo ministero dell’Interno federale inventato dopo l′11 settembre 2001? Il suo bilancio è di altri 50 miliardi, più i 78 totali dell’intelligence.

Quanto all’intelligenza, quella vera, non poteva prevedere che il capo dei nuovi terroristi all’assalto del Palazzo in questo inverno non fosse un imam islamista, ma un vecchio signore che ieri ha aizzato per un’ora 40mila persone, invitandole ad andare poi al Congresso a dimostrare. E quelli hanno dimostrato, mandati dal capo dei poliziotti che avrebbero dovuto fermarli.

Il nero George Floyd è stato fermato per un biglietto falso da venti dollari, lo scorso maggio. È finito soffocato. La povera Ashley Babbitt, penetrata nel Senato contro il voto “rubato”, ieri è stata uccisa da un poliziotto terrorizzato. Ora anche i trumpiani potranno sventolare la loro martire. Ma “legge e ordine”, lo slogan di Trump, non è più utilizzabile dalla destra Usa: i “patrioti” cospirazionisti si sono fatti male da soli.

Mauro Suttora

Wednesday, January 06, 2021

Assalto alla democrazia, America nel caos

Trump incendia, i suoi obbediscono. Spari, lacrimogeni e devastazione al Congresso. Donald non molla

di Mauro Suttora

HuffPost, 6 gennaio 2021

Scene di guerra civile da Washington. I manifestanti trumpiani, reduci da un comizio incendiario del presidente uscente Donald Trump che li ha incitati ad andare sotto il palazzo del Congresso, alle 14.30 ora locale sono riusciti a penetrarvi superando le guardie e aprendosi una breccia attraverso porte e finestre. Sono state estratte le pistole e, secondo diverse fonti, esplosi degli spari: una donna sarebbe stata colpita al petto e sarebbe grave, riporta la Cnn, e altre persone, tra cui diversi agenti, sono rimasti feriti negli scontri. 

Sono immagini di pura follia quelle che arrivano dal Congresso: manifestanti travestiti che prendono di mira le forze dell’ordine, un trumpiano che si siede sullo scranno di Mike Pence per scattarsi un selfie, un altro alla scrivania di Nancy Pelosi, e altri manifestanti che si fotografano accanto alle statue dei padri fondatori americani. E ancora: parlamentari con le maschere a gas tirati fuori di corsa dalle aule e dagli uffici dagli uomini di polizia per essere evacuati, il fumo di gas lacrimogeni nella storica rotonda del Campidoglio.

I parlamentari, riuniti in seduta comune per ratificare l’elezione del nuovo presidente Joe Biden, hanno dovuto interrompere i lavori e sono stati segregati in una zona sicura predisposta contro gli attacchi terroristici, altri sono stati evacuati. Il sindaco di Washington ha dichiarato il coprifuoco per le 18. Il presidente uscente ha invitato con un tweet i suoi manifestanti a obbedire alla polizia. Troppo tardi, perché ormai la situazione era già sfuggita di mano.

La verità è che Trump non mollerà mai. Oggi ha arringato la folla di repubblicani convocati nella spianata fra la Casa Bianca e il Congresso proprio nei minuti in cui il Congresso si riuniva.

Tutti i ricorsi di Trump sono stati respinti dai tribunali, ma lui insisterà per il resto della sua vita a definire “truccate” le elezioni che ha perso. E ieri ha perso di nuovo. La Georgia ha eletto due senatori democratici, dando al partito di Biden la maggioranza alla Camera alta. Il margine è minimo: 51 a 50, sarà la nuova vicepresidente Kamala Harris a fare la differenza come presidente del Senato. Ma la disfatta repubblicana è totale: per la prima volta da dieci anni sono in minoranza al Senato, oltre ad aver perso la Camera bassa e la presidenza.

Naturalmente Trump ha rifiutato anche la sconfitta in Georgia: il 50 virgola qualcosa per cento dei democratici, solo 17mila voti in piu, è un invito a nozze per la sua bellicosità. “Anche ieri c’è stato un set-up, una trappola!”, ha urlato dal palco.

Il problema è che buona parte dei suoi 74 milioni di elettori gli crede. Sono convinti di essere vittime di una truffa colossale. E adesso Trump attacca anche i repubblicani che non fanno fuoco e fiamme come lui. Sono loro, più che i democratici, il suo nuovo bersaglio: i “weak republicans”, i deboli come il vicepresidente Mike Pence e gli altri senatori che accettano la sconfitta.

Lui ormai è su un altro pianeta, quello del complottismo. Quasi sicuramente diserterà la cerimonia di inaugurazione fra due settimane. Non stringerà la mano al suo successore.

È la prima volta che capita, nel quarto di millennio della storia Usa. Ed è gravissimo, perché approfondisce il fossato fra le due Americhe.

“Bisogna saper perdere”, cantavano i Rokes a Sanremo 1967. Niente da fare, per l’arrogante Donald perdere con stile è impossibile. Chi soccombe è solo un “loser”: il peggior insulto che conosca.

Aspettarsi da lui almeno il rispetto del galateo istituzionale è speranza vana. Perché lui è il Supercafone immortalato dal Piotta, e la giornata di oggi con il definitivo schiaffo in Georgia e il trionfo di Biden non è stata il ‘reality check’, il ritorno alla realtà, ma solo l’inizio della sua nuova campagna elettorale permanente. I repubblicani senzienti, come Mitt Romney, faticheranno a sbarazzarsi di questo tumore.

Mauro Suttora

Friday, January 01, 2021

Dalai Lama, il mondo in campo per 'garantire' la successione

LA CINA VIOLA LA LIBERTA' RELIGIOSA IN TIBET

di Mauro Suttora

HuffPost, 1 gennaio 2021

Il 6 luglio 2021 il Dalai Lama compie 86 anni. Guida i buddisti tibetani da quando ne aveva 15: batte anche la regina Elisabetta con i suoi 70 anni di durata (in esilio dal 1959). E nella storia è superato soltanto dai 72 anni del regno di Luigi XIV.

Ma nessuno è immortale, quindi è aperta la sua successione. Il regime cinese, che occupa il Tibet dal 1950, pretende di approvare la nomina del prossimo Dalai Lama, così come fa con i vescovi cattolici. Ma mentre il Vaticano ha abbassato la testa in questa anacronistica lotta per le investiture in ritardo di nove secoli sull'Europa, i tibetani non ne vogliono sapere di sottostare ai diktat comunisti.

I precedenti sono agghiaccianti. L'ultima volta che i buddisti hanno osato designare un Lama da soli, nel 1995, la Cina lo ha rapito, nominandone un altro fedele al regime. Non si sa più nulla dello sventurato Panchen Lama, che allora aveva sei anni e oggi ne avrebbe trenta.

Per evitare che il misfatto si ripeta, il 27 dicembre negli Stati Uniti è entrato in vigore il Tpsa (Tibetan policy and support Act), legge bipartisan che protegge il diritto dei buddisti tibetani a scegliere il loro prossimo Dalai Lama senza interferenze da parte della Cina. I governanti di Pechino che cercassero di nominarlo saranno colpiti da sanzioni. È auspicata una soluzione negoziale fra la Cina e i rappresentanti del Dalai Lama, ma intanto si vieta l'apertura di nuovi consolati cinesi negli Usa finché Pechino continuerà a vietare un consolato statunitense a Lhasa, capitale del Tibet. Vengono finanziati progetti umanitari dentro e fuori dal Tibet. E si elogia la democratizzazione del governo tibetano in esilio: il Dalai Lama dal 2011 ha trasferito l'autorità politica a Lobsang Sangay, primo premier laico regolarmente eletto. Il quale ha ribadito che non chiede più l'indipendenza del Tibet, ma soltanto l'autonomia.

Fra i principali artefici del Tibet Act, il primo dopo quello del 2002 che dettava la politica statunitense sulla regione oppressa, c'è l'Ict (International Campaign for Tibet), la fondazione di Richard Gere guidata da sette anni da un italiano: il 45enne Matteo Mecacci, deputato radicale fino al 2013, ora nominato segretario generale per le Istituzioni democratiche e i Diritti umani dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Gere è stato invitato dal Senato Usa in giugno a parlare sull'argomento.

"Sappiamo che il governo cinese non cambierà il suo atteggiamento sul Tibet solo per questa legge", commenta Mecacci, "ma il Tpsa chiarisce che la libertà religiosa è importante, e che ci saranno conseguenze concrete se Pechino continuerà a violarla".    

Nel 2007 la Cina ha introdotto nuove regole sulla nomina dei Lama 'reincarnati', e i governanti di Pechino ripetono in ogni occasione che spetta a loro selezionarli. Ma il Dalai Lama ha avvertito che la reincarnazione potrà avvenire solo in un contesto di libertà, come quello dell'India dove vive in esilio dopo la fuga dalla dittatura. E che nessuno rispetterà un eventuale futuro Dalai Lama imposto dalla Cina.     

Lo scorso luglio per la prima volta Washington ha vietato l'entrata negli Usa ai gerarchi cinesi accusati di avere impedito a cittadini statunitensi l'accesso al Tibet. In settembre Joe Biden ha dichiarato che anche la sua amministrazione difenderà il popolo tibetano, che lui incontrerà il Dalai Lama, finanzierà i programmi in lingua tibetana di Radio free Asia e Voice of America, e che assieme agli alleati premerà su Pechino affinché riprenda il dialogo diretto con i rappresentanti tibetani per arrivare a una "genuina autonomia".

Cosa farà ora l'Europa? Josep Borrell, capo della politica estera Ue, ha dichiarato che anche l'Unione si oppone a ogni interferenza cinese sulla successione al Dalai Lama. Ma finora soltanto Belgio, Germania e Olanda hanno espresso posizioni simili. Manca l'Italia, e soprattutto mancano strumenti concreti ed efficaci per prevenire la malefatta annunciata.

Mauro Suttora