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Friday, October 07, 2022

Nobel per la Pace: storia controversa del premio più controverso



Impeccabili i premi 2022. Tutto sommato, oltre al Dalai Lama (1989), finora il premiato più meritevole è stato forse Gorbaciov nel 1990: non capita tutti i giorni che un impero crolli facendo così pochi morti

di Mauro Suttora

Huffpost, 7 ottobre 2022
  
Impeccabili i tre Nobel della pace 2022: gli attivisti per i diritti umani di Russia, Bielorussia e Ucraina meritano tutta la nostra attenzione e riconoscenza. Anche l'anno scorso i giurati di Oslo avevano premiato un russo. Ma il giornalista Dimitri Muratov, direttore della Novaya Gazeta, ha avuto poco tempo per assaporare il Nobel: poche settimane dopo è piombato con tutti i compatrioti nell'incubo della guerra contro l'Ucraina. Il suo era anche un premio postumo, in memoria della redattrice del giornale Anna Politkovskaya eliminata da Putin nel 2006. Ma non è stato di buon auspicio.
 
Speriamo invece che adesso Ales Bialiatski, 60 anni, il dissidente bielorusso premiato, venga liberato: è in prigione da un anno dopo averne già scontati tre per false accuse di evasione fiscale.
Al dissidente cinese Liu Xiaobo il premio del 2010 non è servito per uscire dal carcere. Anzi, sette anni dopo è morto di cancro al fegato, sempre prigioniero. 
La birmana Aung San Suu Kyi è stata liberata solo 19 anni dopo il Nobel del 1991, nei cinque anni da ministro degli Esteri è stata accusata anche lei di maltrattare le minoranze etniche, e l'anno scorso i generali l'hanno arrestata di nuovo. A 77 anni la sventurata langue ancora in una prigione segreta. 

Ma l'assegnazione del Nobel per la pace si muove sempre in un terreno minato. Il presidente etiope Abiy Ahmed Ali dopo il premio del 2019 non gli ha fatto onore: ha scatenato un conflitto contro i guerriglieri del Tigray. 
Il rischio di scambiare guerrafondai per pacifisti viene da lontano: nel 1906 fu decorato Theodore Roosevelt, il presidente Usa passato alla storia per la sua vanteria: "Imbraccio sempre un bastone nodoso". 
Il 99enne Henry Kissinger ha ottenuto dal Nobel un elisir di lunga vita, però neanche lui è un apostolo della nonviolenza come Albert Schweitzer (premio 1952), madre Teresa di Calcutta (1979) o Nelson Mandela (1993). 
Più onesto di Kissinger fu nel 1973 il copremiato vietnamita Le Duc Tho, che declinò il riconoscimento: "In Vietnam c'è ancora la guerra". E seguendo questo stesso criterio, appare surreale il Nobel ad Arafat.
 
A volte sono premi di incoraggiamento. Come Obama nel 2009, per i bei discorsi che faceva. I giurati di Oslo li scambiarono per realtà, definendoli "sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli". Ma quando gli arabi lo presero sul serio, scatenando contro i propri dittatori le loro primavere di libertà nel 2011, Obama non seppe cosa fare. Una no fly zone contro Gheddafi, nulla contro le armi chimiche del siriano Assad e del suo alleato Putin.
 
Con il Nobel si rischia la vita. Martin Luther King è stato assassinato quattro anni dopo averlo ricevuto nel 1964, l'egiziano Sadat (1978) tre anni dopo, l'israeliano Rabin (1994) è sopravvissuto solo un anno. Gandhi, che forse lo avrebbe meritato più di tutti, fu ammazzato prima che a Oslo pensassero a lui.

Qualche buontempone nel 1939 candidò Hitler, con la motivazione che se il premier inglese Chamberlain era stato proposto per gli accordi di Monaco, allora meritavano anche gli altri firmatari.

Quando a Oslo non sanno che pesci pigliare non conferiscono il Nobel (è successo 19 volte), oppure premiano un'organizzazione (24 volte), un'agenzia Onu, la Croce Rossa (tre volte). Che va benissimo, però (ong a parte) si tratta di organismi che la pace la devono promuovere per statuto. È il loro mestiere, sono stipendiati per questo.
 
Tutto sommato, oltre al Dalai Lama (1989), il premiato più meritevole è stato forse Gorbaciov nel 1990: non capita tutti i giorni che un impero crolli facendo così pochi morti. E l'artefice della dolce morte per il blocco sovietico fu in gran parte lui. Per questo Putin non è andato al suo funerale.

Friday, January 01, 2021

Dalai Lama, il mondo in campo per 'garantire' la successione

LA CINA VIOLA LA LIBERTA' RELIGIOSA IN TIBET

di Mauro Suttora

HuffPost, 1 gennaio 2021

Il 6 luglio 2021 il Dalai Lama compie 86 anni. Guida i buddisti tibetani da quando ne aveva 15: batte anche la regina Elisabetta con i suoi 70 anni di durata (in esilio dal 1959). E nella storia è superato soltanto dai 72 anni del regno di Luigi XIV.

Ma nessuno è immortale, quindi è aperta la sua successione. Il regime cinese, che occupa il Tibet dal 1950, pretende di approvare la nomina del prossimo Dalai Lama, così come fa con i vescovi cattolici. Ma mentre il Vaticano ha abbassato la testa in questa anacronistica lotta per le investiture in ritardo di nove secoli sull'Europa, i tibetani non ne vogliono sapere di sottostare ai diktat comunisti.

I precedenti sono agghiaccianti. L'ultima volta che i buddisti hanno osato designare un Lama da soli, nel 1995, la Cina lo ha rapito, nominandone un altro fedele al regime. Non si sa più nulla dello sventurato Panchen Lama, che allora aveva sei anni e oggi ne avrebbe trenta.

Per evitare che il misfatto si ripeta, il 27 dicembre negli Stati Uniti è entrato in vigore il Tpsa (Tibetan policy and support Act), legge bipartisan che protegge il diritto dei buddisti tibetani a scegliere il loro prossimo Dalai Lama senza interferenze da parte della Cina. I governanti di Pechino che cercassero di nominarlo saranno colpiti da sanzioni. È auspicata una soluzione negoziale fra la Cina e i rappresentanti del Dalai Lama, ma intanto si vieta l'apertura di nuovi consolati cinesi negli Usa finché Pechino continuerà a vietare un consolato statunitense a Lhasa, capitale del Tibet. Vengono finanziati progetti umanitari dentro e fuori dal Tibet. E si elogia la democratizzazione del governo tibetano in esilio: il Dalai Lama dal 2011 ha trasferito l'autorità politica a Lobsang Sangay, primo premier laico regolarmente eletto. Il quale ha ribadito che non chiede più l'indipendenza del Tibet, ma soltanto l'autonomia.

Fra i principali artefici del Tibet Act, il primo dopo quello del 2002 che dettava la politica statunitense sulla regione oppressa, c'è l'Ict (International Campaign for Tibet), la fondazione di Richard Gere guidata da sette anni da un italiano: il 45enne Matteo Mecacci, deputato radicale fino al 2013, ora nominato segretario generale per le Istituzioni democratiche e i Diritti umani dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Gere è stato invitato dal Senato Usa in giugno a parlare sull'argomento.

"Sappiamo che il governo cinese non cambierà il suo atteggiamento sul Tibet solo per questa legge", commenta Mecacci, "ma il Tpsa chiarisce che la libertà religiosa è importante, e che ci saranno conseguenze concrete se Pechino continuerà a violarla".    

Nel 2007 la Cina ha introdotto nuove regole sulla nomina dei Lama 'reincarnati', e i governanti di Pechino ripetono in ogni occasione che spetta a loro selezionarli. Ma il Dalai Lama ha avvertito che la reincarnazione potrà avvenire solo in un contesto di libertà, come quello dell'India dove vive in esilio dopo la fuga dalla dittatura. E che nessuno rispetterà un eventuale futuro Dalai Lama imposto dalla Cina.     

Lo scorso luglio per la prima volta Washington ha vietato l'entrata negli Usa ai gerarchi cinesi accusati di avere impedito a cittadini statunitensi l'accesso al Tibet. In settembre Joe Biden ha dichiarato che anche la sua amministrazione difenderà il popolo tibetano, che lui incontrerà il Dalai Lama, finanzierà i programmi in lingua tibetana di Radio free Asia e Voice of America, e che assieme agli alleati premerà su Pechino affinché riprenda il dialogo diretto con i rappresentanti tibetani per arrivare a una "genuina autonomia".

Cosa farà ora l'Europa? Josep Borrell, capo della politica estera Ue, ha dichiarato che anche l'Unione si oppone a ogni interferenza cinese sulla successione al Dalai Lama. Ma finora soltanto Belgio, Germania e Olanda hanno espresso posizioni simili. Manca l'Italia, e soprattutto mancano strumenti concreti ed efficaci per prevenire la malefatta annunciata.

Mauro Suttora

Wednesday, June 03, 2020

La Cina non la chiamiamo ancora dittatura



31 ANNI DOPO LA STRAGE DI TIENANMEN

di Mauro Suttora

Huffington Post, 3 giugno 2020


Eravamo rimasti in tre a Pechino, la sera del 3 giugno 1989: Federico Bugno dell’Espresso, Guido Busetto del Sole 24 Ore ed io per il settimanale Europeo. Gli altri giornalisti italiani avevano lasciato la Cina. La protesta di piazza Tienanmen, iniziata il 15 aprile, si stava esaurendo. C’erano ancora centinaia di tende con migliaia di studenti che la occupavano, ma ormai fra loro prevaleva la stanchezza.

Da dieci giorni ero nella stanza 1149 del Bejing hotel, quello più vicino alla piazza. Cento metri più avanti, sul vialone Changan, la mattina del 4 giugno fu scattata la foto simbolo della strage: il ragazzo che da solo blocca un carro armato, lui armato soltanto con due sacchetti della spesa di plastica. Ma io dall’alba ero bloccato nella hall dell’albergo. Gli agenti in borghese non facevano più uscire i giornalisti e cameramen delle troupe di tutto il mondo.

Più “fortunati” i colleghi che avevano scelto hotel lontani dalla piazza ma più moderni, come lo Sheraton o lo Shangri La (trent’anni fa non erano molti gli alberghi accettabili a Pechino, con buoni telefoni e fax). Bugno e Busetto riuscirono ad arrivare vicino agli scontri. Il primo rimediò una brutta botta in testa, l’altro una pallottola di striscio.

L’esercito aveva attaccato nella notte fra il 3 e il 4 giugno. Due settimane prima il premier Li Peng aveva dichiarato la legge marziale ordinando lo sgombero della piazza, ma nessuno aveva eseguito i suoi ordini. Chiusi nella Città Proibita, i gerarchi lottavano fra loro. Alla fine prevalse la linea dura voluta dall’85enne Deng Xiao Ping. Il segretario riformatore del partito comunista Zhao Zyang, il Gorbaciov cinese che era sceso in piazza a dialogare con gli studenti, passò i restanti 15 anni della sua vita agli arresti domiciliari.

Nei miei dieci giorni di reportage avevo conosciuto i tre leader della protesta: la 23enne Chai Ling, che dopo la strage riuscì a fuggire; il 21enne uiguro Wuercaixi, riparato a Taiwan; e Wan Dan, 20 anni, che fece sette anni di carcere. Avevo passato ore a discutere con gli studenti che parlavano un po’ d’inglese (pochi). Chiedevano cose semplici: libertà, diritti civili, eleggere i propri governanti. Scoprii che il concetto di democrazia è universale, nonostante i dittatori cinesi spaccino ancor oggi scuse inesistenti: siamo diversi dagli occidentali, siamo troppi (e l’India?), la libertà provoca disordine, guardate Hong Kong e ora gli Usa.

La cosa peggiore della carneficina di Tienanmen non è il numero dei morti. È il mistero su quel numero. Si va dalle poche centinaia della versione governativa, alle migliaia denunciate dagli studenti. È calata una cappa di paura sulla strage, vietato parlarne da 31 anni. Almeno le madri di Plaza de Mayo qualcosa sui desaparecidos argentini hanno saputo. Invece molti giovani cinesi di oggi ignorano cosa successe in quella piazza.

Il regime totalitario continua a calpestare diritti elementari (parola, opinione, riunione, associazione, stampa, religione), non permette Facebook, Twitter, Whatsapp, Instagram, Google, Yahoo, Youtube (chi ci arriva con Vpn viene schedato e controllato), censura tutti i siti d’informazione mondiali (dalla Bbc al New York Times a molti italiani), manda la polizia a casa perfino di chi riceve mail contenenti parole come ‘libertà’ o ‘Tienanmen’, fa sparire i dissidenti, incarcera gli oppositori, interna un milione di uiguri nei lager, vuole nominare i vescovi cattolici e opprime i pacifici tibetani (vittime di pulizia etnica), vietando la nomina di un nuovo Dalai Lama quando morirà l’attuale.

Non parliamo del dumping economico, sociale, sindacale e sanitario che falsa la concorrenza e ha provocato il corona virus. Ma noi facciamo fatica addirittura a pronunciare la parola “dittatura” riguardo alla Cina.
Trentun anni dopo, io sto sempre dalla parte del ragazzo che bloccò per due minuti il tank.
Mauro Suttora

Friday, July 11, 2008

I 90 anni di Nelson Mandela

Oggi 9/07/2008

La terza vita di Mandela

i 90 anni del premio nobel per la pace sudafricano

I potenti del mondo applaudono Nelson, eroe della lotta contro il razzismo. Prima guerrigliero, poi in carcere per 27 anni, infine padre della patria saggio e non violento. Un esempio per l' Africa

di Mauro Suttora

Londra.
Di premi Nobel per la pace viventi ce ne sono parecchi: dagli ex presidenti Jimmy Carter e Mikhail Gorbaciov a Lech Walesa e Al Gore, dal Dalai Lama alla birmana Aung San Suu Kyi. Ma lui è l' unico che mette d' accordo tutti, da destra a sinistra, dal Nord al Sud del mondo: Nelson Mandela, leggenda planetaria. E così, fra tante brutte notizie, eccone una bellissima: il "nonno del Pianeta" compie 90 anni.

La data esatta del compleanno è il 18 luglio: pensate che quando lui nacque nel 1918 non era ancora finita la Prima guerra mondiale, e Hitler e Stalin erano degli sconosciuti. Il mondo gli si è stretto attorno la scorsa settimana con il concerto di Hyde Park a Londra, cui hanno assistito 46.664 spettatori. Lo stesso numero di matricola che per 27 lunghissimi anni Mandela ha portato cucito sulla propria uniforme di carcerato.

Sulle orme di Gandhi

Ripercorrere la storia della sua vita dà i brividi. Perché, come Gandhi in India, Nelson è riuscito a dare a 42 milioni di sudafricani di colore la libertà senza spargere una goccia di sangue. Certo, nella lunga lotta contro l' apartheid ci sono stati tanti massacri. Famigerato rimane quello di Soweto nel 1976: centinaia di morti fra i manifestanti neri del ghetto colpiti dai poliziotti bianchi. Ma dopo la sua liberazione, nel febbraio 1990, Mandela riuscì a condurre il proprio popolo in una lotta non violenta esemplare, che, nonostante altri scontri nel ' 92, portò alle prime elezioni libere due anni dopo. E Mandela venne eletto presidente.

La sua parola d' ordine, dopo l' uscita dal carcere, è sempre stata una sola: "Riconciliazione". Gli ex nemici, la stragrande maggioranza nera e indiana e la minoranza bianca dei cinque milioni (12 per cento) di boeri e inglesi, dovevano guardarsi negli occhi, parlarsi e perdonarsi reciprocamente. "Non c' è spazio per le vendette", ha ripetuto Mandela in questi 18 anni.

Purtroppo gli avvenimenti di questi giorni nel vicino Zimbabwe, l'ex Rhodesia del Sud dove un altro patriarca di colore, l' ottuagenario Robert Mugabe, si è trasformato da liberatore in despota, dimostrano che la lezione di Mandela non è scontata.

Anzi, quasi mai nella martoriata Africa i padri della patria hanno il coraggio di Mandela. Il coraggio di abbandonare il potere dopo averlo conquistato, così come Nelson ha fatto nel 1999. Si è ritirato lasciando spazio al nuovo presidente, Thabo Mbeki, e il Sudafrica continua a essere un' isola felice in un continente devastato da dittatori, guerre, povertà, fame e stragi.

Tutto è relativo, naturalmente. Anche il Sudafrica si trascina i suoi problemi, con la miseria perdurante nei ghetti neri, l' Aids che colpisce il venti per cento della popolazione, le stragi etniche contro gli immigrati di colore. Ma in confronto a quasi tutti gli Stati vicini (Zimbabwe, Mozambico, Angola, Congo) oggi in Sudafrica si sta bene.

Non era detto che finisse così. All' inizio, e per molti decenni, la lotta per l' uguaglianza dei neri sudafricani fu non violenta. La iniziò nel 1907 con il primo "satyagraha" ("forza della verità", un misto di digiuni e disobbedienza civile) proprio un giovane avvocato indiano emigrato nella città sudafricana di Durban: Gandhi. E lo stesso Mandela quando venne arrestato per la prima volta nel ' 56 assieme a 150 attivisti dell' African National Congress stava organizzando un boicottaggio uguale a quelli che proprio in quei mesi stava portando avanti Martin Luther King nel Sud degli Stati Uniti.

Poi però, per frustrazione e mancanza di risultati, la nuova generazione dei leader neri (Mandela, Luthuli, Tambo e Sisulu) si diede alla lotta armata. L' esempio era l' Algeria. Nel ' 61, dopo il massacro di Sharpeville (80 vittime di colore), cominciò la guerriglia con i primi attentati, e proprio Mandela era il capo dell' ala militare del movimento di liberazione. Ma fu quasi subito arrestato, e condannato all' ergastolo.

Per 18 anni questo possente erede di una famiglia reale del Transkei subì i lavori forzati in miniera a Robben Island. Poteva ricevere una sola visita e una sola lettera ogni sei mesi. Ma spesso le lettere venivano in gran parte cancellate dai censori. Ciononostante, Mandela riuscì a laurearsi in Legge per corrispondenza all' università di Londra. Nell' 81 fu perfino candidato a cancelliere dell' università, perdendo il voto contro la principessa Anna d' Inghilterra.

Intanto in tutto il mondo le campagne contro la segregazione in Sudafrica si rafforzavano. Il regime dell' apartheid subiva il boicottaggio economico decretato dall' Onu, e la parte più avveduta della minoranza bianca premeva per un' apertura.

Nell' 82 Mandela fu trasferito in un' altra prigione, e tre anni dopo il presidente razzista Botha gli offrì la libertà in cambio della rinuncia alla lotta armata. Mandela rifiutò, ma ormai la trattativa era aperta. E nel ' 90, scomparsa la minaccia comunista, il nuovo presidente bianco De Klerk lo liberò: un gesto coraggioso, che valse anche a lui il premio Nobel con Mandela nel ' 93, nove anni dopo quello al vescovo sudafricano Desmond Tutu.

Winnie, moglie arraffona

La terza vita di Mandela, quella da statista e padre della patria, non è stata esente da scandali e ombre. Innanzitutto quelli provocati dalla seconda moglie Winnie, arraffona e arrivista, da cui Nelson dovette divorziare nel ' 96. Due anni dopo, proprio nel giorno dell' 80° compleanno, si è risposato con l' attuale moglie, Graça Machel, vedova dell' ex presidente mozambicano suo amico.

Poi c' è stata la disputa sull' Aids, che per troppo tempo il governo sudafricano ha sottovalutato, ritenendolo quasi un' invenzione dell' Occidente. Infine, non si può dire che dopo la parità dei diritti politici i neri sudafricani abbiano ottenuto anche la parità economica con i bianchi. Le periferie di Città del Capo, Durban e Johannesburg sono ancora ghetti poveri e violenti. Ma ormai Mandela fa parte della storia.

riquadro:

Il figlio morto di Aids

PURTROPPO C' È VOLUTA LA MORTE DEL FIGLIO DI 54 ANNI, MAKGATHO, NEL 2005 PER FAR CAPIRE A MANDELA E A TUTTO IL SUDAFRICA LA TRAGEDIA DELL' AIDS. FINO AD ALLORA, INCREDIBILMENTE, I GOVERNANTI DI UN PAESE IN CUI UN ABITANTE SU CINQUE È SIEROPOSITIVO, E I MORTI PER LA MALATTIA SONO 600 AL GIORNO, LA MINIMIZZAVANO E CONSIGLIAVANO DI CURARLA CON LE ERBE DELLA SAVANA. MA IL TABÙ È STATO INFRANTO DA MANDELA, CHE COLPITO COSÌ INTIMAMENTE HA AMMESSO L' ERRORE. IN AFRICA 30 MILIONI DI PERSONE HANNO CONTRATTO IL VIRUS DELL' AIDS. IL 60 PER CENTO SONO DONNE.

Mauro Suttora

Wednesday, May 14, 2008

Carmen Lasorella

Libro-intervista ad Aung San Suu Kyi

Roma, 14 maggio

L’immagine che le ritrae assieme risale ormai a dieci anni fa. Ma il tempo sembra essersi fermato per la povera Aung San Suu Kyi, premio Nobel della Pace, che è ancora prigioniera dei generali birmani. Come nel 1998, quando Carmen Lasorella andò a intervistarla a Rangoon. In quel periodo la leader dell’opposizione birmana (e presidente della Birmania, se la giunta avesse rispettato il risultato delle elezioni del 1990) si trovava in uno dei suoi rari momenti di semilibertà. I dittatori infatti per qualche tempo le permisero di uscire una volta al mese dalla sua casa, anche se sotto un costante e soffocante controllo. Così Lasorella potè così incontrarla nella sede di un’ambasciata occidentale, della quale però ancora oggi non vuole rivelare il nome: «Promisi discrezione allora, e la mantengo adesso».

Il testo di quella lunga e bella intervista è stato pubblicato adesso da Bompiani, nel libro Verde e zafferano. A voce alta per la Birmania (euro 16,50). Lasorella lo ha scritto sull’onda dell’emozione che ha percorso il mondo intero lo scorso settembre, quando migliaia di monaci buddisti sono scesi in piazza reclamando libertà. E sono stati massacrati dai militari. Così com’è capitato questo inverno ad altri monaci, quelli tibetani, anch’essi picchiati, incarcerati e torturati dai militari cinesi.

Cos’è che non va, in quelle parti del pianeta? Perché i dittatori e le soldataglie cinesi e birmane, in mancanza di nemici armati, se la prendono con le persone più pacifiche della Terra? La signora Aung San e il Dalai Lama sono i simboli viventi della nonviolenza, eppure vengono trattati crudelmente dai loro avversari. Sembra quasi che i gerarchi comunisti di Pechino (senza l’appoggio dei quali anche quelli di Rangoon cadrebbero) vogliano spingere il Tibet e la Birmania alla rivolta violenta e armata, magari terrorista, visti i risultati nulli di decenni di lotte gandhiane.

Per discuterne siamo andati in via Teulada, nella sede della Rai dove anche Lasorella sta subendo nel suo piccolo, da quattro anni, i suoi «arresti domiciliari» personali, un po’ come Aung San Suu Kyi. «Non scherziamo», si schermisce lei, «paragonare la mia situazione alla sua sarebbe insultante per tutti». Fatto sta che il mobbing patito dall’ex corrispondente dei Tg Rai da Berlino (fino al 2003) e poi conduttrice del programma 'Visite a domicilio' le ha lasciato tutto il tempo necessario per scrivere il libro.

La «pena» che i vertici Rai infliggono ai propri giornalisti in disgrazia per mancanza di padrini politici, infatti, è quella di non farli lavorare. Pena dolcissima, perché lo stipendio viene percepito egualmente (tanto è a carico dei contribuenti), ma allo stesso tempo crudele per una come Lasorella abituata a girare il mondo come inviata di guerra. Tutti ricordano l’imboscata che patì nel ‘95 in Somalia, e che costò la vita all’operatore che l’accompagnava, Marcello Palmisano.

Scalpita impaziente, quindi, la signora 53enne nella sua stanza-prigione dorata della Rai, proprio sopra gli studi dove ogni giorno arrivano gli ospiti per registrare il Porta a porta di Bruno Vespa. E s’immalinconiva ancor di più lo scorso settembre, quando di fronte alle notizie che arrivavano di ora in ora sul suo computer dalla rivolta birmana, lei non poteva prendere e partire.

«Ma partire per dove, poi?», ragiona adesso a voce alta. Perché quando i dittatori massacrano, chiudono immediatamente le frontiere. Nessun giornalista può testimoniare le stragi. Tuttora quella cinese di piazza Tian an men, a quasi vent’anni di distanza, non ha un numero preciso di morti: centinaia? Migliaia? Decine di migliaia? Nessuna immagine, nessun resoconto.

E allora ben venga questa testimonianza della signora più dolce della Terra, quella Aung San Suu Kyi ormai 62enne che vent’anni fa tornò da Londra nella sua Birmania, e da allora si batte eroicamente per la libertà. Il 10 maggio i generali birmani hanno organizzato un referendum su una nuova costituzione, ma sembra solo l’ennesimo trucco di una giunta sanguinaria per mantenere il potere.

«La solidarietà dei popoli per la Birmania è diventata una ciclopica onda anomala», commenta Lasorella nel libro, «ha attraversato tutti i continenti. Ma la reazione politica rimane arenata nelle secche della retorica. Nei palazzi di vetro, a Washington come a Bruxelles, il cinismo degli interessi costruisce gli alibi all’impotenza. Anche di fronte ai bagni di sangue». E fa notare come tutti gli embarghi economici decretati dall’Onu contro la Birmania non riguardino gas e petrolio. Infatti la francese Total in Birmania è di casa. Ma la vera chiave per la liberazione della Birmania è la Cina: finché a Pechino comanderanno i dittatori, i militari di Rangoon saranno protetti.

«Li rivedo, i generali impettiti nelle parate che a Rangoon la tv trasmetteva con sussiego», racconta Lasorella. «Vietato filmare le loro caserme e i loro palazzi perfino dall’esterno, perfino i tassisti sono terrorizzati quando vedono la cinepresa di una turista, come io avevo finto di essere per potere entrare in Birmania».

La giornalista italiana e il suo operatore arrivano a Rangoon su due aerei diversi e in due giorni diversi. Durante l’intervista Aung San si dimostra ispirata, carismatica, convincente, paziente, ma anche pragmatica e a volte perfino sbrigativa. Ha studiato e insegnato nelle università inglesi, quindi inorridisce davanti alla retorica. Lasorella ha avuto il permesso di parlarle un’ora, ma poi pranza con lei, conversa in privato a telecamere spente, e va via dopo un intero pomeriggio dall’ambasciata.

«Com’è giovane!», la descrive la giornalista: «Magra e minuta, vestita con studiata semplicità: un corpetto grigio stile coreano a quadretti, gonna lunga color zafferano, una fascia ricamata larga sui fianchi, i sandali scuri, come la borsa di panno a sacchetto».

La Rai ha trasmesso solo parte dell’intervista, nel programma Prima donna dieci anni fa. Nel libro c’è invece il testo completo, emozionante. Anche perché da anni ormai intervistare la Signora della Birmania è impossibile, e questa rimane una delle rare interviste concesse ai giornalisti del mondo intero. Un documento quasi storico, quindi.

La domanda forse più importante che Lasorella rivolge ad Aung San Suu Kyi è: «Lei, come Gandhi e Martin Luther King, ha scelto la via della nonviolenza. Ma ha di fronte un regime dittatoriale, feroce. Come pensa di rovesciarlo?»
E la signora, pacata: «Come ho detto più volte, da sola non posso ottenere alcun risultato. È necessario l’aiuto di tutti. Abbiamo scelto la nonviolenza perché riteniamo che, diversamente, non renderemmo un buon servizio al nostro Paese. Non vogliamo cambiare regime con la violenza».

Tempi lunghi, quindi. Come Nelson Mandela, altro Nobel per la pace, rimasto in carcere per 28 anni prima di essere liberato nel 1990 (in curiosa staffetta con Aung San, che quell’anno venne arrestata), e di diventare infine presidente di un Sud Africa libero dall’apartheid.
Non resta che sperare che la Birmania non debba aspettare così tanto.

Mauro Suttora

Wednesday, December 21, 2005

Tibet, basta nonviolenza?

"SIAMO TROPPO PASSIVI", PRIMI DUBBI TIBETANI SULLA NONVIOLENZA

Il Foglio

21 dicembre 2005

New York. Il mensile Elle lo ha eletto nel luglio 2002 fra i "50 uomini più eleganti" dell'India, assieme al Dalai Lama. Particolarmente ammirata la sua bandana rossa. Ma Tenzin Tsundue, 30 anni, non è indiano. E' tibetano. Ha promesso che non si leverà la bandana fino alla liberazione del Tibet. E sta sfidando il suo assai più illustre compatriota proprio nel campo in cui il Dalai Lama è un'icona mondiale: la nonviolenza. "Noi tibetani siamo troppo passivi", proclama.

La Cina occupa il Tibet dal 1950. Da 46 anni 140 mila tibetani vivono in esilio in India, avendone i cinesi massacrati più di un milione. Ma di questo genocidio e dei suoi profughi, che aumentano al ritmo di duemila all'anno, nessuno parla. "La Palestina è sotto gli occhi di tutti, a causa dell'intifada e degli attacchi suicidi", constata un amico di Tsundue nel Caffè della pace di Dharamsala, la capitale indiana dei tibetani esiliati. "Che cosa abbiamo ottenuto invece noi, con le proteste pacifiche in questo mezzo secolo? Niente, solo qualche conversione in più al buddismo in Occidente. Siamo simpatici a tutto il mondo, ma nessuno fa nulla per noi".

Discorsi pericolosi, che ricordano quelli dei giovani kosovari nei bar di Pristina una decina d'anni fa, quando la resistenza underground contro i serbi si protraeva da anni, con le università parallele e i boicottaggi di Ibrahim Rugova, ma senza risultati. Cosicchè i duri del Kla (Kosovo Liberation Army) ebbero terreno fertile per l'arruolamento, iniziarono la guerriglia, provocarono la reazione a tappeto di Belgrado. Infine la guerra.

Finora della clamorosa svolta fra le nuove generazioni di tibetani esacerbate dal nulla di fatto si è accorto soltanto il New York Times Magazine, che ha dedicato a Tsundue un lunghissimo articolo domenica scorsa. "Una lotta più violenta in Tibet?", è l'allarmante titolo in copertina. "No", rispondono gli amici di Tsundue, "ma passeremo ad azioni nonviolente più aggressive". Il Dalai Lama, che in privato è un burlone dotato di gran senso dell'humour, lo prende in giro ogni volta che lo incontra: "Non hai caldo con quella bandana, non sudi in fronte?"

Il sacro trittico della nonviolenza politica moderna è formato da Gandhi, Martin Luther King e dal Dalai Lama. (Ci scusiamo con Marco Pannella se non lo includiamo, ma con lui diventerebbe un poker). Vi sono poi altri capipopolo assolutamente pacifici e venerabili, dai Lech Walesa e Vaclav Havel ormai passés anche per missione compiuta, alla povera premio Nobel della pace Aung San Suu Kyi, birmana che rimane incarcerata da 15 anni. Un nonviolento di ritorno è Nelson Mandela, anche se non ha mai rinnegato il suo passato guerrigliero. Ma non c'è dubbio che fra i leader viventi il principale erede di Gandhi è il Dalai Lama.

La sua però è una nonviolenza religiosa, che nella pratica coincide col buddismo. Il Dalai Lama infatti considera troppo estreme perfino armi utilizzatissime come scioperi della fame e sanzioni economiche. Ma è soprattutto la sua svolta politica degli ultimi anni ad avere alienato grosse fasce di tibetani ventenni e trentenni, molti dei quali non hanno mai visto la loro terra. Il Dalai Lama ha infatti smesso di chiedere l'indipendenza per il Tibet: si accontenterebbe di una "vera autonomia". Spera che prima o poi i contatti e le trattative con la Cina portino qualche frutto. Ma finora questa sua disponibilità non è approdata a nulla. Anzi: il regime comunista di Pechino continua a torturare, incarcerare senza processo e a condannare a morte chiunque sia sospettato di essere un separatista, o anche solo un simpatizzante del Dalai Lama.

"Per questo oggi non possiamo non domandarci: sarebbe così sbagliato far saltare alcuni ponti della ferrovia cinese per Lhasa, visto che la consideriamo tutti un atto di violenza compiuto per colonizzarci e annientarci?", si chiede Tsundue. Il treno è visto come il simbolo della pulizia etnica che sta sostituendo i tibetani con immigrati cinesi. La storia del Tibet, d'altra parte, è anche quella di rivolte violente: come quelle dei Khampa, che nel '50 e nel '59 si opposero ai soldati cinesi.

I genitori di Tsundue scapparono nel '59 da Lhasa, erano ancora bambini. Attraversarono l'Himalaya a piedi per raggiungere l'India. Suo padre morì nel '75, poco dopo la sua nascita. Lui riuscì a studiare nei campi profughi, fino a frequentare l'università a Bombay. Prima dell'impegno politico a tempo pieno faceva lo scrittore, il poeta, ammirava Albert Camus. Ha parecchio carisma, i ragazzi lo seguono. E‚ stato imprigionato sei volte, in India e in Tibet. Ogni volta che un premier cinese visita l'India, lui riesce a mostrare in sua presenza un grosso manifesto indipendentista, o la bandiera del Tibet libero: è l'incubo dei poliziotti indiani, che lo arrestano sempre troppo tardi. Il Dalai Lama ha appena compiuto 70 anni. "Quando morirà. la nostra lotta s'indurirà", prevede e minaccia Lhasang Tsering, libraio amico di Tsundue. Tempi duri per il Tibet.