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Wednesday, June 03, 2020

La Cina non la chiamiamo ancora dittatura



31 ANNI DOPO LA STRAGE DI TIENANMEN

di Mauro Suttora

Huffington Post, 3 giugno 2020


Eravamo rimasti in tre a Pechino, la sera del 3 giugno 1989: Federico Bugno dell’Espresso, Guido Busetto del Sole 24 Ore ed io per il settimanale Europeo. Gli altri giornalisti italiani avevano lasciato la Cina. La protesta di piazza Tienanmen, iniziata il 15 aprile, si stava esaurendo. C’erano ancora centinaia di tende con migliaia di studenti che la occupavano, ma ormai fra loro prevaleva la stanchezza.

Da dieci giorni ero nella stanza 1149 del Bejing hotel, quello più vicino alla piazza. Cento metri più avanti, sul vialone Changan, la mattina del 4 giugno fu scattata la foto simbolo della strage: il ragazzo che da solo blocca un carro armato, lui armato soltanto con due sacchetti della spesa di plastica. Ma io dall’alba ero bloccato nella hall dell’albergo. Gli agenti in borghese non facevano più uscire i giornalisti e cameramen delle troupe di tutto il mondo.

Più “fortunati” i colleghi che avevano scelto hotel lontani dalla piazza ma più moderni, come lo Sheraton o lo Shangri La (trent’anni fa non erano molti gli alberghi accettabili a Pechino, con buoni telefoni e fax). Bugno e Busetto riuscirono ad arrivare vicino agli scontri. Il primo rimediò una brutta botta in testa, l’altro una pallottola di striscio.

L’esercito aveva attaccato nella notte fra il 3 e il 4 giugno. Due settimane prima il premier Li Peng aveva dichiarato la legge marziale ordinando lo sgombero della piazza, ma nessuno aveva eseguito i suoi ordini. Chiusi nella Città Proibita, i gerarchi lottavano fra loro. Alla fine prevalse la linea dura voluta dall’85enne Deng Xiao Ping. Il segretario riformatore del partito comunista Zhao Zyang, il Gorbaciov cinese che era sceso in piazza a dialogare con gli studenti, passò i restanti 15 anni della sua vita agli arresti domiciliari.

Nei miei dieci giorni di reportage avevo conosciuto i tre leader della protesta: la 23enne Chai Ling, che dopo la strage riuscì a fuggire; il 21enne uiguro Wuercaixi, riparato a Taiwan; e Wan Dan, 20 anni, che fece sette anni di carcere. Avevo passato ore a discutere con gli studenti che parlavano un po’ d’inglese (pochi). Chiedevano cose semplici: libertà, diritti civili, eleggere i propri governanti. Scoprii che il concetto di democrazia è universale, nonostante i dittatori cinesi spaccino ancor oggi scuse inesistenti: siamo diversi dagli occidentali, siamo troppi (e l’India?), la libertà provoca disordine, guardate Hong Kong e ora gli Usa.

La cosa peggiore della carneficina di Tienanmen non è il numero dei morti. È il mistero su quel numero. Si va dalle poche centinaia della versione governativa, alle migliaia denunciate dagli studenti. È calata una cappa di paura sulla strage, vietato parlarne da 31 anni. Almeno le madri di Plaza de Mayo qualcosa sui desaparecidos argentini hanno saputo. Invece molti giovani cinesi di oggi ignorano cosa successe in quella piazza.

Il regime totalitario continua a calpestare diritti elementari (parola, opinione, riunione, associazione, stampa, religione), non permette Facebook, Twitter, Whatsapp, Instagram, Google, Yahoo, Youtube (chi ci arriva con Vpn viene schedato e controllato), censura tutti i siti d’informazione mondiali (dalla Bbc al New York Times a molti italiani), manda la polizia a casa perfino di chi riceve mail contenenti parole come ‘libertà’ o ‘Tienanmen’, fa sparire i dissidenti, incarcera gli oppositori, interna un milione di uiguri nei lager, vuole nominare i vescovi cattolici e opprime i pacifici tibetani (vittime di pulizia etnica), vietando la nomina di un nuovo Dalai Lama quando morirà l’attuale.

Non parliamo del dumping economico, sociale, sindacale e sanitario che falsa la concorrenza e ha provocato il corona virus. Ma noi facciamo fatica addirittura a pronunciare la parola “dittatura” riguardo alla Cina.
Trentun anni dopo, io sto sempre dalla parte del ragazzo che bloccò per due minuti il tank.
Mauro Suttora