Tuesday, August 25, 2020

I paradisi opposti di Ventimiglia

I GIARDINI DI HANBURY E BENNET 150 ANNI FA. OGGI, SULLE STESSE ROCCE, GLI IMMIGRANTI CHE SOGNANO LA FRANCIA

di Mauro Suttora

huffington post, 25 agosto 2020

“Il Paradiso d’altra parte non è che un giardino”, scrisse Alberto Savinio. E i Giardini Hanbury, fra Ventimiglia e la frontiera francese, hanno qualcosa di paradisiaco: sono forse i più belli dell’intero Mediterraneo. Pochi sanno, però, che quando sir Thomas Hanbury li fondò nel 1867 rivaleggiavano con un parco inventato da un altro ricco inglese ancor più vicino al confine: il giardino di acclimatazione di Grimaldi, dal nome dall’ultima frazione di Ventimiglia prima della Francia.

Qui era arrivato da Londra il medico reale James Henry Bennet per realizzare un giardino botanico di piante esotiche. Fu amore a prima vista quello di Bennet con la torre saracena che si può ancora ammirare, e affittare con la sua piscina, all’ultimo tornante della vecchia Aurelia prima del valico di Ponte San Luigi. 
Era il 1859, e non esistevano ancora né l’Italia né la frontiera: il regno di Sardegna si estendeva fino a Nizza, che solo l’anno seguente fu ceduta alla Francia per far venire Napoleone III a combattere la nostra Seconda guerra d’indipendenza.

Bennet acquistò, sistemò, terrazzò, irrigò i terreni attorno alla torre per l’avvistamento dei pirati saraceni, allora piantati solo a limoni e olivi. Trascorreva ogni inverno in Riviera per curare la sua tubercolosi, e in effetti il miracoloso sole mediterraneo lo preservò fino al 1891, quando scomparve 75enne. Accanto, intanto, si sviluppava il giardino di Hanbury.

Nel giro di pochi anni quei due parchi divennero così famosi che li visitò la regina Vittoria: contenevano piante fatte arrivare da India, Australia, Sud Africa e Sud America. L’imperatrice britannica soggiornò per settimane con la sua corte a Mentone nel marzo 1882, ma spesso andava a visitare i suoi amici Bennet e Hanbury appena al di là del confine. E per decenni, fino alle sanzioni contro Mussolini negli anni 30, migliaia di benestanti nordeuropei la imitarono, arrivando in Liguria e Provenza per le loro lunghe vacanze invernali.

Si era insomma realizzato il ‘sogno babilonese’ dei due milionari: “La creazione di giardini a strapiombo sul mare che, facendo pensare a quelli pensili realizzati dalla leggendaria regina Semiramide, arricchiranno le coste mediterranee nel corso della Belle Époque”, scrive Enzo Barnabà, autore del libro ‘Il sogno babilonese: lo Château Grimaldi, la Belle Époque, la Riviera’ appena pubblicato dalle edizioni Infinito di Formigine (Modena).

In quelle stesse decine di metri con rocce e ripidi boschi oggi si svolge, più che un sogno, un dramma: quello dei migranti che cercano di entrare in Francia. I poliziotti francesi hanno ripristinato da cinque anni i controlli di frontiera aboliti dal trattato di Schengen un quarto di secolo fa. 
E qui subentra pure la commedia, perché i clandestini che loro catturano e ci rispediscono a centinaia in Italia provano e riprovano a varcare il confine di notte attraverso percorsi impervi, finché prima o poi ci riescono.

Da Grimaldi ci sono due sentieri vicini per arrivare in Francia. Incredibilmente, uno si chiama passo della Morte, l’altro del Paradiso. Il primo porta a un burrone, il secondo all’estero. ‘Il passo della morte’ è un altro libro che lo stesso Barnabà, storico e scrittore residente proprio a Grimaldi, ha scritto l’anno scorso sulle vicissitudini degli emigranti.

Così, a distanza di 150 anni, s’incrociano due tipi opposti di paradiso nelle stesse terrazze a picco sul mar Ligure: quello verso il sud dei ricchi inglesi che venivano a svernare coltivando piante e fiori in Riviera e Costa Azzurra, da Saint Tropez a Cannes, da Bordighera ad Alassio; e quello attuale verso il nord di africani o bengalesi alla ricerca di un passaggio verso il loro eden nordeuropeo, da Parigi a Stoccolma, da Londra ad Amsterdam.
Mauro Suttora

Sunday, August 16, 2020

Nembo kid a Nembro? Quel maledetto 5 marzo



TUTTO QUEL CHE NON TORNA NEL RACCONTO DI CONTE SULLA MANCATA ZONA ROSSA A NEMBRO E ALZANO (BERGAMO)  

di Mauro Suttora

Huffington Post, 16 agosto 2020

Il premier Conte dice la verità su quel maledetto 5 marzo, sulle poche cruciali ore in cui lui afferma di avere appena saputo che i suoi scienziati gli chiedevano la zona rossa alla periferia di Bergamo, ma contemporaneamente a Bergamo già arrivavano 370 fra carabinieri, poliziotti, finanzieri e soldati per sigillarla?

Lo decideranno i magistrati. Paolo Mieli, nel suo pur rispettoso editoriale sul Corriere della Sera del 13 agosto, gli crede poco. Gabriella Cerami sull’Huffington Post dell′8 agosto ha già rilevato le contraddizioni in cui è caduto il premier dopo essere stato costretto a desecretare i verbali del Cts (Comitato tecnico scientifico).

Ha smentito le sue stesse parole. Quattro mesi fa, infatti, dichiarò al Fatto Quotidiano: “Il 3 marzo il Cts propone una zona rossa per Alzano e Nembro. Chiedo agli esperti di formulare un parere più articolato. Mi arriva la sera del 5 marzo e conferma l’opportunità di una cintura rossa per Alzano e Nembro. Il 6 marzo decidiamo di imporla a tutta la Lombardia. Il 7 arriva il decreto”.
Invece l′8 agosto, dopo la pubblicazione obtorto collo del verbale Cts, Conte dichiara: “Del verbale del 3 marzo sono venuto a conoscenza il giorno 5”.
Gli fa eco il ministro della Salute Roberto Speranza: “Ho saputo del verbale il giorno successivo. E il 5 l’ho trasmesso a Conte”.

Se fosse vero, sarebbe una illustrazione agghiacciante della lentezza della nostra burocrazia. Tutte le agenzie di stampa, i siti giornalistici e le tv riferirono la proposta del Cts sulla zona rossa di Bergamo già la stessa sera del 3 marzo. Gli unici ignari in Italia erano Conte e Speranza? Il dinamico Casalino non avvertì il suo premier?

Ma che le date non combacino lo dimostrano soprattutto gli avvenimenti in loco. Nella giornata del 5 marzo infatti arrivano ad Alzano e Nembro numerosi reparti di forze dell’ordine da tutta la Lombardia. In certi casi, gli stessi uomini che hanno già isolato con successo la zona rossa di Codogno (Lodi).
Nel primo pomeriggio cominciano i sopralluoghi. Tutti danno per scontato il blocco di Alzano e Nembro. L’unica incertezza riguarda il quando. Quella sera stessa? L’indomani mattina?
È stabilita perfino l’ora esatta e il posto del concentramento da dove partiranno le pattuglie per il blocco simultaneo delle strade in entrata e uscita della zona rossa: le 19 dal comando provinciale dei carabinieri nella circonvallazione delle Valli a Bergamo.
Contemporaneamente, i reparti prendono alloggio in due alberghi, a Osio Sotto e Verdellino.

Tutto a insaputa del premier, che adesso postdata la propria cognizione della richiesta di zona rossa al 5 marzo? Oppure la ministra dell’Interno e il prefetto di Bergamo stanno cinturando a sua insaputa Alzano e Nembro (che non sono paesini in mezzo al nulla come Vo’ Euganeo, ma una delle zone industriali più antropizzate d’Europa)?
Oppure ancora, prendendo per buona la sua seconda versione: Conte sa da Speranza del verbale soltanto  il 5 mattina, ma veloce come Nembo Kid riesce a spedire un intero gruppo interforze a Bergamo in poche ore, nonostante la lentezza della nostra burocrazia di cui sopra?

Poi c’è il mistero su chi e quando riuscì a far fare marcia indietro a Conte. La zona rossa di Bergamo abortì, probabilmente perché i bergamaschi - tutti, non solo i padroni - preferiscono rischiare di morire piuttosto che non lavorare.

Ma poiché il contagio si espande con una velocità di accelerazione al quadrato, se il 3 bastava isolare Nembro e Alzano, il 6 era necessario farlo con tutta la Lombardia (come ha giustamente detto Conte1, prima versione). E alla fine, il 9 marzo, l’intera Italia si ritrovò in lockdown proprio perché erano state persi sei giorni preziosi.
Sull’eventuale numero di infetti e morti in meno a Bergamo sorvoliamo, per buon gusto.

Il presidente Usa Nixon non dovette dimettersi per il Watergate (una piccola, insignificante effrazione), ma perché disse il falso sul Watergate. Clinton passò i guai non per quel che gli fece Monica, ma perché lo negò.
Le parole del gentile e flautato premier Conte svolazzano nell’aria. Inafferrabili come un virus.
Mauro Suttora

Friday, August 14, 2020

Rousseau, Tridico, Raggi: la caduta delle stelle

IL VOTO-FARSA PER LA POLITICA A TEMPO PIENO, LA SCENEGGIATA INPS SUI BONUS, L'AUTOCANDIDATURA DELLA RAGGI

intervista a Mauro Suttora

ilsussidiario.net, 14 agosto 2020

Dopo l’annuncio lampo di ieri l’altro, da ieri alle 12 fino a mezzogiorno di oggi gli iscritti alla piattaforma Rousseau voteranno per decidere sulla deroga al limite dei due mandati. La deroga consiste nel non conteggiare più, nel conteggio dei mandati, che per gli iscritti al Movimento resteranno al massimo due, l’incarico di consigliere comunale. Questo permetterebbe a Virginia Raggi di ricandidarsi a sindaco, visto che la sindaca, prima dell’attuale mandato alla guida di Roma, è stata consigliere comunale di opposizione durante la giunta Marino. Inoltre, si voterà sul via libera ad accordi sulle elezioni amministrative con gli altri partiti.

Intanto nel Movimento si sta avvicinando una pericolosa resa dei conti, perché sull’altare della sopravvivenza del Governo si sacrificano le poche battaglie identitarie rimaste. Secondo Mauro Suttora, giornalista, esperto del fenomeno M5s, il voto su Rousseau è finta democrazia, e ormai i grillini sono assuefatti al palazzo: “Il risultato di oggi sarà, come sempre, la ratifica della decisione presa dai capi. E ormai la base dei meetup è composta da amici degli eletti e carrieristi della politica”.

Perché prima si ricandida la Raggi e poi si fa il referendum per la deroga di cui la sindaca aveva bisogno? Non si potevano invertire gli eventi?
Questo fatto dimostra una volta in più la finta democrazia interna del Movimento, che dal 2012 cambia linea a colpi di votazioni online che non hanno nulla di democratico: lo prova il fatto che dal voto non è mai uscito nulla di diverso rispetto a ciò che era stato deciso dai capi.

Sono semplici ratifiche di scelte prese dall’alto?
Sì, ed è successo anche stavolta, col “daje” di Grillo in sostegno alla Raggi. E poi queste votazioni prêt-à-porter, che si annunciano da un giorno all’altro in pieno agosto, non hanno nulla della democrazia, che ha regole ma anche tempi. La democrazia diretta potrebbe essere una cosa seria, ma deve dare a chi vota alternative credibili o almeno di pari dignità, oltre che il tempo necessario a farsi un’idea.

Solo Buffagni si è opposto al cambio delle regole, scrivendo che “ogni volta che deroghi a una regola praticamente la cancelli”, e poi ha chiesto di rinviare il tema agli Stati generali del 4 ottobre. Può avere il sostegno di qualcuno nella base, o di Casaleggio?
Seguendo i vari gruppi Facebook 5 Stelle dove c’è ancora un po’ di dibattito, molto ridotto rispetto a un tempo, vedo che la maggioranza di loro è contraria al cambio delle regole. Anche perché molti sono a favore del limite di due mandati solo perché stanno aspettando di prendere il posto di chi è in carica. Poi resta il problema di chi può votare su Rousseau. Per iscriversi basta una copia della carta d’identità, non costa niente. E quello che non costa niente non vale niente.

Lei parla di una base dei 5 Stelle in ripiegamento. Esistono ancora i meetup di un tempo?
No, oggi sono composti solo da amici e parenti degli eletti o da coloro che, semplicemente, vogliono fare carriera politica. È diventato un partito come tutti gli altri, come ha rinfacciato loro la Meloni.

Anche se, a differenza di tutti gli altri, ormai ha perso qualsiasi riferimento identitario.
Dopo aver mollato la Lega, per il Pd i 5 Stelle hanno fatto qualsiasi cosa.

Riguardo al bonus 600 euro preso dai politici, non sarebbe meglio fare dei distinguo?
Sì, il presidente dell’Inps Tridico ha detto che hanno un elenco di 2mila politici locali, ma tra questi ce ne saranno solo un centinaio a cui la politica dà uno stipendio per campare. Gli altri sono consiglieri comunali che devono continuare a lavorare, e se sono partita iva hanno diritto al bonus.

La fuga di notizie potrebbe essere stata decisa dallo stesso Tridico, che è un ex candidato dei 5 Stelle per il Governo. Si pone un problema di indipendenza dell’Inps?
Certo. Una volta che è filtrato che ci sono 3 o 5 parlamentari che hanno preso il bonus, e dei due leghisti sono già uscite le foto, è inutile continuare la commedia…

Se invece la commedia si allunga, non sarà per rinforzare il sentimento antipolitico in vista del referendum sul taglio dei parlamentari?
È uno scenario che vedono in molti, anche perché per i grillini il referendum è l’ultima chance di riprendersi. E magari fare qualche punto in più alle elezioni nelle sette Regioni dove si vota il 20 settembre.

Tridico rischia di doversi dimettere, cosa che chiede anche Renzi sulla fuga di notizie?
Sì, anche perché non esiste che un ente pubblico metta così alla berlina la classe politica. Un tempo l’Irpef pubblicava il reddito delle persone, ma era risaputo. Il garante della privacy ha ragione a dire che gli eletti non hanno diritto alla riservatezza sul sussidio, ma questo doveva essere chiaro prima, non si può decidere adesso.

Qualcuno ha detto che la ricandidatura della Raggi è stata fatta per contrastare Conte, accusato di flirtare troppo col Pd.
Questa uscita della Raggi è sicuramente un colpo al Pd e una strizzata d’occhio al centrodestra. Se Pd e 5 Stelle vanno separati al voto su Roma, a meno che il centrodestra non prenda subito il 51% al primo turno, i 5 Stelle avranno le mani libere su chi sostenere al ballottaggio. A cui sicuramente la Raggi non arriverà.

Ci sono opinioni contrastanti sul consenso alla Raggi, in assenza di sondaggi disponibili. Lei la vede messa così male?
Dovrebbero fare un sondaggio, ma, contrariamente ai grillini che addirittura votano, i sondaggisti sanno che ad agosto è impossibile. Dubito che la Raggi arrivi al secondo turno, non credo supererà il 10-12%. E al ballottaggio potrebbe sostenere la destra: ha fatto il praticantato nello studio di Previti, e Di Battista è vicino a Paragone e ad altri fuori dal Movimento con posizioni sovraniste, vicine alla destra.

Vede la possibilità di una scissione dentro il Movimento?
La scissione è sicura, bisogna vedere quando. Sicuramente il 21 settembre sarà un punto di svolta.

E dopo ci saranno gli Stati generali, il 4 ottobre.
Bisogna capire se Davide Casaleggio andrà apertamente allo scontro con Grillo oppure no. Casaleggio vorrebbe che si rispettasse il vincolo dei due mandati.

L’identità dei 5 Stelle è definitivamente persa?
Il Pd e i giornali di sistema li spingono all’omologazione, parlano di 5 Stelle che “diventano grandi”. Ma in realtà i 5 Stelle stanno perdendo il motivo per cui esistono. Possono solo puntare sull’effetto trascinamento del referendum, che sicuramente vinceranno.

Ne è sicuro?
Se diamo alle persone la possibilità di tagliare i costi della politica, 8 su 10 votano sì.

Il vento dell’antipolitica continua a soffiare forte?
Certo, come insegna La Casta, il libro di Stella e Rizzo uscito ben tredici anni fa. Un esempio: negli anni 80, Palazzo Chigi occupava 2-3 palazzi a Roma. Oggi ne ha 10. Va detto poi che tutti i grillini sono assuefatti alla politica, vanno in giro con la scorta e l’auto blu. E il sindaco 5 Stelle di Campobasso, con uno stipendio da 4mila euro, ha preso il bonus. Fico che da presidente della Camera viaggia in autobus è un lontano ricordo.

Ha vinto il palazzo?
Sono durati meno della Lega del 1992, quella che entrò in Parlamento al grido di Roma ladrona.
Lucio Valentini 

Thursday, August 13, 2020

Israele-Emirati, pace storica


DA 26 ANNI SI ASPETTAVA UNA GIORNATA COSÌ. CON L'ACCORDO VINCONO TRUMP, NETANYAHU E GLI ARABI SUNNITI. 
A PERDERE SONO GLI AYATOLLAH IRANIANI E I LORO PROTETTI DI HAMAS.
TEMPI DURI PER GLI SCIITI

di Mauro Suttora

Huffington Post, 13 agosto 2020

Oggi è una bellissima giornata per la pace in Medio Oriente. La aspettavamo da 26 anni, da quel 1994 quando re Hussein di Giordania fu il secondo capo arabo a riconoscere l'esistenza di Israele. Il primo era stato il presidente egiziano Anwar Sadat nel 1979, dopo gli accordi di Camp David con il premier israeliano Menachem Begin: guadagnò il premio Nobel per la pace, ma due anni dopo fu ammazzato dagli estremisti islamici.

Per capire quanto rischino i leader arabi che fanno la pace con Israele, basta un particolare: ai funerali di Sadat non partecipò nessuno di loro, tranne il sudanese Nimeiri.

Ora sono gli emiri Zayed di Abu Dhabi e Maktoum di Dubai a tendere una mano a Israele. Stabiliscono relazioni diplomatiche e annunciano accordi in campo scientifico, turistico ed economico, in cambio del congelamento "per ora" dell'annunciata annessione israeliana di larghe parti della Cisgiordania.

Il progetto 'Vision for peace', illustrato otto mesi fa dal presidente Usa Donald Trump e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu senza il coinvolgimento dei palestinesi, prevedeva infatti una Palestina privata della valle del Giordano, con tutti gli insediamenti dei coloni ebraici confermati e la capitale palestinese situata non a Gerusalemme Est, ma in una periferia della città.

Piano rifiutato non solo da Hamas, ma anche dal presidente palestinese Mahmud Abbas e dall'intero mondo musulmano. Ora gli Emirati Arabi Uniti possono sventolare il ritiro provvisorio del piano come una vittoria.

I principali sventolatori però sono Trump e il suo genero ebreo Jared Kushner, marito di Ivanka, che hanno annunciato al mondo lo storico accordo Israele-Emirati di cui sono mallevadori.

Non che il ruolo di garante porti una gran fortuna ai presidenti statunitensi: Jimmy Carter non fu rieletto nel 1980 nonostante Camp David, e Bill Clinton non è certo passato alla storia per gli abortiti accordi di Oslo 1993 fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin.

Viene invece confermata una costante della storia israeliana: sono i premier "duri" quelli che ottengono accordi con gli ex nemici. Così Begin del Likud con l'Egitto, il falco laburista Rabin più della colomba Shimon Peres con Palestina e Giordania, Ariel Sharon che nel 2005 seppe rinunciare alle costose colonie di Gaza, e oggi Netanyahu con gli Emirati.

Gli unici perdenti di questa storica giornata del 13 agosto 2020 sono gli ayatollah iraniani e i loro protetti di Hamas, che infatti gridano al "tradimento". Sono stati nove giorni tremendi per gli sciiti: prima l'esplosione di Beirut del 4 agosto, che ha provocato la bruciatura in effigie in piazza di Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, da parte dei giovani libanesi; oggi l'accordo di Israele con gli Emirati, seconda potenza economica sunnita dopo l'Arabia Saudita.
Trump riesce così a emarginare l'Iran sciita, appoggiandosi agli arabi sunniti storici alleati degli americani.

Quanto alla Turchia, che nel 1949 fu il primo stato musulmano a riconoscere Israele, è dal 2011 che il neosultano Recep Erdogan ha innestato la marcia indietro con Tel Aviv. Prima ha rotto i rapporti diplomatici quando Israele ammazzò dieci cittadini turchi della cosiddetta Flotta della pace; e due anni fa, dopo un parziale riavvicinamento, ha di nuovo richiamato il proprio ambasciatore per protesta contro lo spostamento di quello Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, capitale israeliana accettata da pochi.
Mauro Suttora

Wednesday, August 12, 2020

Il vaccino di Putin

IL PRESIDENTE RUSSO ANNUNCIA UN VACCINO CONTRO IL COVID E LANCIA LA PROPAGANDA SPUTNIK

di Mauro Suttora

Huffington Post11 agosto 2020

Lo ha tradito lo Sputnik. Quel battezzare il suo presunto vaccino anti covid col nome del satellite che umiliò gli Usa nel 1957 svela la tremenda voglia di rivincita da cui è posseduto Vladimir Putin. Deve arrivare primo, come nella corsa allo spazio che 63 anni fa vide l’Unione Sovietica trionfare con il lancio nello spazio di quella palla di alluminio larga mezzo metro.

Gli americani impazzirono di rabbia, perché i sovietici dimostravano di poter lanciare una loro bomba atomica ovunque nel mondo, surclassando i bombardieri  e missili statunitensi. Ma ci misero solo quattro mesi per spedire anche loro in orbita un satellite. Poi, con Yuri Gagarin primo uomo nello spazio nel 1961, nuovo successo russo. Tuttavia alla fine furono gli Usa a vincere la corsa alla Luna.

Però almeno lo Sputnik era vero. Tutti i radioamatori del mondo poterono verificarne subito l’esistenza, perché emetteva onde radio. Il vaccino annunciato oggi da Putin, invece, rimane un mistero per gli scienziati. Nessuna informazione trapela dai laboratori russi, se non che è finita la fase due e inizia la fase tre, quella delle vaccinazioni su migliaia di cavie umane. Di solito dura un anno, per scoprire effetti indesiderati. Contro il covid tutto accelera, quindi almeno quattro mesi. Macché. Il turbozar, eccitato dal primato mondiale, smentisce i suoi stessi scienziati che raccomandano prudenza, e annuncia: “Abbiamo già registrato il vaccino”.

Non fosse Putin, l’Oms lo denuncerebbe come pirata internazionale. Ma l’organizzazione della sanità di Ginevra è gentile con i regimi autoritari (Russia) e totalitari (Cina) che la finanziano, e poi chissà. Magari il vaccino di Mosca funziona, e tanto meglio per tutti. In fondo, gli eventuali danni collaterali se li procureranno gli sventurati volontari russi che lo testeranno.

“Una delle prime”, annuncia orgoglioso papà Vladimir, “è stata mia figlia. Il primo giorno ha avuto 38 di febbre, poi tutto bene”. Non ha specificato quale delle due figlie. Maria, che viveva tranquilla nei Paesi Bassi col marito olandese, è già stata vittima delle imprese del padre. Nel 2014, dopo che un missile russo abbatté in Ucraina un aereo partito da Amsterdam uccidendone i 300 passeggeri, dovette scappare dalla sua villa assediata dai dimostranti. In ogni caso, auguriamo alla figlia vaccinata di non fare la fine della povera cagnolina Laika, immolata per motivi patriottici nel secondo Sputnik, un mese dopo il primo.

Putin ha un gran bisogno di galvanizzare i propri sudditi, in queste settimane. Il petrolio ai minimi sta distruggendo l’economia russa. Il rublo è svalutato: lo si cambiava a 23 per un euro quando diventò presidente nel 2000, ora ce ne vogliono 85. Il pil di Mosca, inferiore a quello italiano, con la pandemia è crollato del 10%.

Brutte notizie anche sul fronte virus: la Russia è il quarto Paese con più casi al mondo dopo Usa, Brasile e India. I 900mila contagiati aumentano di 5mila ogni giorno, i 15mila morti di cento. Agli oligarchi russi tocca trascorrere il primo mese di agosto confinati a casa, pochi Paesi accettano i loro aerei privati. Le truffe sul doping impediranno la partecipazione della Russia alle olimpiadi 2021 di Tokyo e ai mondiali di calcio 2022. Nella classifica della democrazia di Freedom House Mosca totalizza un imbarazzante 20 su cento (l’Italia 89).

Cionostante, un mese e mezzo fa Putin ha vinto il referendum che gli permette di restare presidente fino al 2036, quando avrà 84 anni. Ci arriverà con il viso di un bambino, grazie alle plastiche facciali. Metà dei russi lo ama, gli altri lo odiano. Ma poiché questi ultimi alle elezioni si astengono per protesta, o i loro candidati vengono espulsi con trucchi vari, vince sempre lui.

Per qualcuno Vladimir è un nuovo Stalin. Per altri, un grande statista. Lo accusano di aver fatto ammazzare la giornalista Anna Politkovskaia e l’ex vicepremier Boris Nemtsov, di avere avvelenato col polonio radioattivo a Londra nel 2006 l’ex collega del Kgb Alexander Litvinenko. Gli addossano misfatti tremendi, come l’aereo in Ucraina o le 550 vittime delle stragi nel teatro di Mosca nel 2002 e della scuola cecena di Beslan due anni dopo. «Tutte invenzioni della Cia», ribatte la maggioranza dei russi.

L’Occidente, comunque, gli è grato per avere sconfitto gli islamisti dell’Isis in Siria. E se questo suo vaccino propagandistico dovesse avere successo, lo ringrazieremo di nuovo.
Mauro Suttora

Sunday, August 09, 2020

Siamo tutti libanizzati

In Libano, dove la folla scende in piazza chiedendo la forca per i responsabili dell'esplosione, non ci sono politici, ma capi fazione. Una deriva che stiamo iniziando a conoscere bene anche in Italia


di Mauro Suttora

Huffington Post, 8 agosto 2020 

 
In Libano non c’è democrazia. Il che è normale, in Medio Oriente. Però c’è più libertà che in tutti i Paesi vicini, tranne Israele. Solo che è una libertà a coriandoli: ciascuno è libero, basta che sia protetto da una cosca, una setta, una milizia.

I deputati sono divisi per religione: metà ai musulmani e metà ai cristiani. Le percentuali sono fisse, così come le più alte cariche statali: premier sunnita, presidente cristiano, presidente del Parlamento sciita. In realtà è un regalo ai cristiani, che non superano il 35%. Sunniti e sciiti hanno il 30% ciascuno, ai drusi il restante 5%.

Si chiama “libanizzazione”. Così la definisce il dizionario Garzanti: “Condizione di estrema disgregazione della vita politica, nella quale, essendo del tutto assente il potere dello stato, il controllo del paese è affidato allo scontro di fazioni armate”. Etimologia: “Situazione determinatasi in Libano negli anni ’70-’80 del ’900”.

In questo senso ha ragione il sottosegretario grillino agli Esteri, Manlio Di Stefano, che ha confuso il Libano con la Libia (chissà se conosce la Liberia). A Beirut come a Bengasi, e a Tripoli come a Tripoli (ce n’è una in Libia e una in Libano, a parziale discolpa dell’apprendista geografo Manlio), comandano le milizie.

In Libano non esistono politici. Gli ultimi degni di tal nome sono stati fatti saltare in aria, com’è normale a quelle latitudini: nel 1982 Bashir Gemayel, presidente cristiano; nel 1987 Rashid Karame e nel 2005 Rafiq Hariri, entrambi premier sunniti. Pierre Gemayel, nipote di Bashir, è stato mitragliato a morte nel 2006.

Gli altri sono soltanto capi fazione, la cui autorità non va oltre l’ambito del proprio gruppo religioso. Anche perché ormai il Libano è un gerontocomio: il presidente Michel Aoun ha 85 anni, quello del Parlamento Nabih Berri 82. Il premier 60enne Hassan Diab è un virgulto al confronto, ma è in carica soltanto dal gennaio di quest’anno. Ha sostituito Saad Hariri, figlio del miliardario Rafiq (4 miliardi di patrimonio personale), travolto dalle proteste di strada poi bloccate dal virus.

Ora le dimostrazioni di piazza riprendono, con disperata genericità sardino-pentastellata: “Via i politici corrotti e incompetenti!” “Forca per i responsabili dell’esplosione al porto!”

Può darsi che si spengano nel nulla, oppure che provochino un bagno di sangue. O che questa volta abbiano successo, innescando perfino reazioni a catena come nove anni fa le primavere arabe partite dalla Tunisia ed esportate in Libia (giù Gheddafi), Egitto (giù Mubarak) e Siria, dove invece Assad ha resistito al prezzo di quasi mezzo milione di morti e sei milioni di profughi.

Ma attenzione, perché qui comincia un perverso giro dell’oca che rischia di replicare una tragedia storica. Un milione e mezzo di profughi siriani, infatti, sono sfollati in Libano, ripetendo il disastro dell’esodo palestinese. Mezzo secolo fa centinaia di migliaia di palestinesi scapparono a Beirut dalla Giordania dopo la strage del Settembre nero 1970. 
Allora il Libano era lo stato più ricco, sofisticato e cosmopolita del Medio Oriente, e Beirut la sua Monte Carlo. Dubai e Abu Dhabi erano ancora villaggi di poveri pescatori. Ma l’arrivo dell’Olp di Arafat sconvolse il fragile equilibrio del Libano, e provocò la guerra civile più lunga della storia: 15 anni, 150mila morti, diaspora di sei milioni di libanesi (chi se l’è potuto permettere, quindi i benestanti sunniti e cristiani maroniti riparati a Londra e Parigi, in esilio di lusso).

Nel 1990 ha preso il potere il generale cristiano Aoun. Non l’ha più mollato, prima appoggiandosi ai siriani e poi sfruttando la rivalità sunnita/sciita. Intanto i diseredati sciiti delle periferie di Beirut e del Libano meridionale hanno trovato conveniente e naturale appoggiarsi alle milizie di Hezbollah finanziate dall’Iran. Che procura non solo armi, ma anche sussidi per i disoccupati.

Per dare l’idea del problema Libano: su sei milioni di abitanti, due milioni sono profughi. Ricevono gli aiuti Onu, ma sarebbe come se l’Italia ne avesse 20 milioni. Ammassati in una superficie più piccola dell’Abruzzo. 
Eppure il Libano non è l’inferno. È un paradiso. Il cielo è più azzurro che a Napoli, i tramonti più rosa che a Roma. Basta salire da Beirut sui monti retrostanti, e le foreste dei cedri profumano più dei pini di Cortina. Basta andare a cenare nella baia di Jounieh, e le serate mediterranee sono più dolci che in Costa Smeralda o Azzurra. La valle della Beqaa, che porta in un attimo a Damasco, è più verde della campagna toscana.

Fino al 1975 le estreme diversità del Libano formavano un mosaico prezioso. Dopo, bombe e mitra hanno rovinato tutto. Eppure i libanesi continuano a rinascere. Negli anni ’90, dopo la guerra civile, i traffici sono ripresi, i soldi sono tornati, lo splendido lungomare di Beirut è stato ricostruito e la vita è ricominciata. Idem dopo la ritirata degli occupanti siriani, nel 2005. Ultimamente, prima della bancarotta statale che ha fatto crollare la lira (ha perso il 70% da ottobre), il Libano era tornato nonostante tutto a essere un centro finanziario e una meta turistica.

Ma attenti, Beirut non è lontana dall’Italia. Ci stiamo “libanizzando” pure noi. Ciascuno rinchiuso nella propria cerchia di amici, reali o Facebook. Banniamo quelli che ci contraddicono, fingiamo che non esistano. Esattamente come i ricchi cristiani maroniti rinchiusi nelle loro ville di Beirut nord-est ignorano il terzo mondo dei ghetti sciiti e dei campi profughi di Beirut sud-ovest. A Sabra e Chatila nel 1982 i fascisti falangisti cristiani massacrarono i palestinesi nell’indifferenza degli israeliani di Sharon. Oggi in quei vicoli si sono aggiunti gli sfollati poveri siriani.

Il distanziamento sociale del virus ha solo confermato la distanza fra i coriandoli di Beirut: nel golf club vicino all’aeroporto sembra di essere a Beverly Hills, ma dall’altra parte della superstrada Hafez Assad, a 200 metri, c’è la bidonville di Bourj-el-Barajneh, con la bomba sociale di sciiti e profughi. Ogni tanto in Libano le bombe esplodono, apposta o per sbaglio, e fanno 160 morti.
Mauro Suttora

Saturday, August 01, 2020

Che bel regalo per Salvini

CAOS GOVERNO/ Un doppio rimpasto per “arginare” migranti, Regionali e autunno caldo

1 agosto 2020

intervista a Mauro Suttora


La crisi economica e le regionali saranno uno tsunami per il governo, e Conte potrebbe essere tentato, per salvarsi, di giocare d’anticipo. Ma potrebbe non bastare

È un brusco risveglio quello che il dati del Pil impongono al governo: -12,4% rispetto al primo trimestre e -17,3% rispetto allo stesso periodo del 2019.
 “È solo un antipasto della tragedia economica che arriva in autunno” dice al Sussidiario Mauro Suttora, giornalista, già corrispondente Usa per numerose testate italiane ed estere. La crisi economica e le regionali saranno uno tsunami per il governo, e Conte potrebbe essere tentato, per salvarsi, di giocare d’anticipo proponendo a Mattarella un rimpasto. Servirà? Non è detto. A quel punto per scongiurare il voto ci sarebbe solo un’ultima chance: “fare un altro governo con la stessa maggioranza, ma cambiando il premier. Però potrebbe non bastare”. Nel frattempo, con l’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, la maggioranza crede di avere ottenuto una vittoria, invece è una sconfitta, secondo Suttora.

Salvini è spacciato?

No, anzi. Gli hanno fatto una pubblicità insperata.

Dovrà comparire in Procura a Palermo. Inizierà la trafila giudiziaria.

Sì, certo. Ma sono convinto che sia doppiamente fortunato. Non solo perché la maggioranza ha riaperto il suo campo di battaglia preferito, ma perché gli sbarchi sono di nuovo un’emergenza. 

Dunque è destinato a guadagnare consensi?

Io credo di sì. C’è una polarizzazione all’americana dell’elettorato. Ai leader di destra e sinistra non interessa convincere quelli che stanno al centro, i moderati, devono soprattutto mobilitare le proprie truppe in modo da convincere gli astenuti del proprio campo ad andare a votare. Chi riesce a convincere anche solo il 5 per cento dei propri elettori potenziali, vince le elezioni.

Non eravamo un sistema a tre poli? Non guardano tutti al centro?

Ormai prevalgono gli estremisti, a destra come a sinistra. Il terzo polo dei grillini è lacerato: Di Battista e l’ex M5s Paragone sono sovranisti e populisti, quindi di destra, mentre Grillo e Fico si aggrappano al Pd.

Quindi secondo te nel caso di Salvini il fattore consenso si imporrà su quello processuale.

Facciamo l’ipotesi peggiore: che sia condannato in primo grado, secondo grado e Cassazione, e gli succeda di essere cacciato dal Senato come fu per Berlusconi. 

In questo caso?

Sarebbe la sua apoteosi. Ci ricorda qualcosa la vicenda di Berlusconi dopo le rivelazioni del giudice di Cassazione?

Sdoganato a tutto campo. È più forte di prima.

Appunto.

L’ex ministro Giovanni Tria ha detto che la decisione era collegiale.

Ma certo, nessuno nel governo obiettò. E comunque sono decisioni politiche in cui i magistrati non devono assolutamente entrare.

È il Parlamento che ha votato l’autorizzazione a procedere.

Infatti. Proprio per questo io l’avrei negata. I senatori avrebbero dovuto difendere l’autonomia della politica rispetto alla magistratura. Ripeto, a Salvini è stata apparecchiata una torta. E poi: viene mandato a processo nel giorno in cui vengono trovati positivi 129 migranti in un centro di accoglienza nel trevigiano? Siamo a posto.

I giornali hanno ritratto un Salvini deluso, quasi si aspettasse di avere da Renzi un aiuto che non è arrivato. 

Può darsi. Anche perché non si capisce che cosa è cambiato dalla Commissione all’Aula in questi mesi. Non c’è alcun fatto nuovo: o Renzi aveva ragione prima (in Commissione Iv votò no al processo, ndr) o ha ragione adesso, non può aver ragione entrambe le volte. 

Come commenti invece la linea di M5s? 

È puro trasformismo. Durante il governo giallo-verde tiravano dalla parte del buonismo, giocando a quelli che moderavano Salvini. Adesso fanno i cattivisti con i buonisti del Pd. Durante il Conte 1 c’era il famigerato “inferno libico”: adesso non c’è più? Sicuramente c’è chi viene dalla Tunisia con zainetto e barboncino.

Sul Mes cosa faranno?

A settembre-ottobre, quando non ci saranno più i soldi per pagare stipendi e pensioni, il Mes verrà votato in due ore e nessuno nei 5 Stelle dirà nulla. Sarà, temo, una situazione come quella delle ultime settimane di Berlusconi nel 2011, prima dell’arrivo di Monti.

I Cinquestelle sono contrari. Come ne usciranno?

Rinviando il dibattito sul Mes a dopo le regionali. Cambieranno idea. Lo stesso Speranza, nemico dei cosiddetti poteri forti e della troika, non vede l’ora di disporre di quei soldi, che obiettivamente ci servono.

Ci servono, ma dovremo restituirli.

Quello è un altro capitolo. Per dirne una: con l’arrivo dell’influenza in autunno dovremo decuplicare i tamponi, ci vorranno operazioni di screening su vasta scala. Come fare per sapere se i 38 gradi di febbre degli italiani sono Covid o normale influenza? Chi farà questi tamponi? Ancora: il Policlinico di Milano attende l’ammodernamento da vent’anni.

Dunque il governo non è pronto?

Non pare. Passa il tempo a discutere di quali banchi comprare per le scuole.

Nella lunga partita a scacchi per le presidenze delle commissioni, Forza Italia ha aiutato il governo. Sembra che al suo interno sia guerra per bande.

Di certo dipende da quello che dice Berlusconi. L’appoggio esterno arriverà al momento del Mes. Lo abbiamo già visto in settimana, con il sì al prolungamento dello stato di emergenza. Le assenze di una trentina di forzisti sono state strategiche.

Il governo è all’altezza dello stato di emergenza o potrebbe venire soverchiato dagli avvenimenti?

Non è all’altezza nemmeno dell’ordinaria amministrazione, basti il fatto che l’Azzolina è ancora al governo. Quella dell’emergenza sarà una parentesi utile per “sburocratizzare” – cioè buttare soldi in banchi scolastici e altro senza gare d’appalto – o per intervenire ancora sulle attività economiche, vedi la chiusura delle fiere.

A proposito di Azzolina. Le voci di un possibile rimpasto non sono morte del tutto. Lo escludi?

Al contrario. Potrebbe essere un modo furbo di Conte per prevenire una crisi vera e quindi un suo esautoramento. Alle regionali del 20 settembre M5s e Pd potrebbero prendere una tale batosta che la situazione sarà insostenibile. Meglio anticipare le mosse.

Intanto il Pil ha fatto segnare la peggior contrazione di sempre: -12,4% nel secondo trimestre.

È solo un antipasto della tragedia economica che arriva in autunno. La gestione dell’economia è stata disastrosa. Se un datore di lavoro con due dipendenti incassa il 30 per cento in meno, non può licenziare fino al 31 dicembre. È sbagliato: bisogna proteggere il lavoratore, non il posto di lavoro.

Come?

Permettendo i licenziamenti, ma  varando contemporaneamente sussidi di disoccupazione seri. In certi Stati degli Usa chi guadagnava 3mila dollari ha un sussidio di disoccupazione di 2.500, non di 1.200. I questo modo si alimentano i consumi e si mantiene attivo il mercato del lavoro. Non si possono legare i dipendenti a posti di lavoro che non ci sono più, come stanno facendo Gualtieri e Conte. 

Dopotutto, per restare in sella il governo Conte 2 e la maggioranza che lo sostiene devono solo raggiungere l’agognato inizio del semestre bianco, 1° agosto 2021. 

Non so se ci arrivano. Sicuramente, per scongiurare il voto la prima mossa è quella di fare un altro governo con la stessa maggioranza, ma cambiando il premier. Però potrebbe non bastare.
Federico Ferraù