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Sunday, August 09, 2020

Siamo tutti libanizzati

In Libano, dove la folla scende in piazza chiedendo la forca per i responsabili dell'esplosione, non ci sono politici, ma capi fazione. Una deriva che stiamo iniziando a conoscere bene anche in Italia


di Mauro Suttora

Huffington Post, 8 agosto 2020 

 
In Libano non c’è democrazia. Il che è normale, in Medio Oriente. Però c’è più libertà che in tutti i Paesi vicini, tranne Israele. Solo che è una libertà a coriandoli: ciascuno è libero, basta che sia protetto da una cosca, una setta, una milizia.

I deputati sono divisi per religione: metà ai musulmani e metà ai cristiani. Le percentuali sono fisse, così come le più alte cariche statali: premier sunnita, presidente cristiano, presidente del Parlamento sciita. In realtà è un regalo ai cristiani, che non superano il 35%. Sunniti e sciiti hanno il 30% ciascuno, ai drusi il restante 5%.

Si chiama “libanizzazione”. Così la definisce il dizionario Garzanti: “Condizione di estrema disgregazione della vita politica, nella quale, essendo del tutto assente il potere dello stato, il controllo del paese è affidato allo scontro di fazioni armate”. Etimologia: “Situazione determinatasi in Libano negli anni ’70-’80 del ’900”.

In questo senso ha ragione il sottosegretario grillino agli Esteri, Manlio Di Stefano, che ha confuso il Libano con la Libia (chissà se conosce la Liberia). A Beirut come a Bengasi, e a Tripoli come a Tripoli (ce n’è una in Libia e una in Libano, a parziale discolpa dell’apprendista geografo Manlio), comandano le milizie.

In Libano non esistono politici. Gli ultimi degni di tal nome sono stati fatti saltare in aria, com’è normale a quelle latitudini: nel 1982 Bashir Gemayel, presidente cristiano; nel 1987 Rashid Karame e nel 2005 Rafiq Hariri, entrambi premier sunniti. Pierre Gemayel, nipote di Bashir, è stato mitragliato a morte nel 2006.

Gli altri sono soltanto capi fazione, la cui autorità non va oltre l’ambito del proprio gruppo religioso. Anche perché ormai il Libano è un gerontocomio: il presidente Michel Aoun ha 85 anni, quello del Parlamento Nabih Berri 82. Il premier 60enne Hassan Diab è un virgulto al confronto, ma è in carica soltanto dal gennaio di quest’anno. Ha sostituito Saad Hariri, figlio del miliardario Rafiq (4 miliardi di patrimonio personale), travolto dalle proteste di strada poi bloccate dal virus.

Ora le dimostrazioni di piazza riprendono, con disperata genericità sardino-pentastellata: “Via i politici corrotti e incompetenti!” “Forca per i responsabili dell’esplosione al porto!”

Può darsi che si spengano nel nulla, oppure che provochino un bagno di sangue. O che questa volta abbiano successo, innescando perfino reazioni a catena come nove anni fa le primavere arabe partite dalla Tunisia ed esportate in Libia (giù Gheddafi), Egitto (giù Mubarak) e Siria, dove invece Assad ha resistito al prezzo di quasi mezzo milione di morti e sei milioni di profughi.

Ma attenzione, perché qui comincia un perverso giro dell’oca che rischia di replicare una tragedia storica. Un milione e mezzo di profughi siriani, infatti, sono sfollati in Libano, ripetendo il disastro dell’esodo palestinese. Mezzo secolo fa centinaia di migliaia di palestinesi scapparono a Beirut dalla Giordania dopo la strage del Settembre nero 1970. 
Allora il Libano era lo stato più ricco, sofisticato e cosmopolita del Medio Oriente, e Beirut la sua Monte Carlo. Dubai e Abu Dhabi erano ancora villaggi di poveri pescatori. Ma l’arrivo dell’Olp di Arafat sconvolse il fragile equilibrio del Libano, e provocò la guerra civile più lunga della storia: 15 anni, 150mila morti, diaspora di sei milioni di libanesi (chi se l’è potuto permettere, quindi i benestanti sunniti e cristiani maroniti riparati a Londra e Parigi, in esilio di lusso).

Nel 1990 ha preso il potere il generale cristiano Aoun. Non l’ha più mollato, prima appoggiandosi ai siriani e poi sfruttando la rivalità sunnita/sciita. Intanto i diseredati sciiti delle periferie di Beirut e del Libano meridionale hanno trovato conveniente e naturale appoggiarsi alle milizie di Hezbollah finanziate dall’Iran. Che procura non solo armi, ma anche sussidi per i disoccupati.

Per dare l’idea del problema Libano: su sei milioni di abitanti, due milioni sono profughi. Ricevono gli aiuti Onu, ma sarebbe come se l’Italia ne avesse 20 milioni. Ammassati in una superficie più piccola dell’Abruzzo. 
Eppure il Libano non è l’inferno. È un paradiso. Il cielo è più azzurro che a Napoli, i tramonti più rosa che a Roma. Basta salire da Beirut sui monti retrostanti, e le foreste dei cedri profumano più dei pini di Cortina. Basta andare a cenare nella baia di Jounieh, e le serate mediterranee sono più dolci che in Costa Smeralda o Azzurra. La valle della Beqaa, che porta in un attimo a Damasco, è più verde della campagna toscana.

Fino al 1975 le estreme diversità del Libano formavano un mosaico prezioso. Dopo, bombe e mitra hanno rovinato tutto. Eppure i libanesi continuano a rinascere. Negli anni ’90, dopo la guerra civile, i traffici sono ripresi, i soldi sono tornati, lo splendido lungomare di Beirut è stato ricostruito e la vita è ricominciata. Idem dopo la ritirata degli occupanti siriani, nel 2005. Ultimamente, prima della bancarotta statale che ha fatto crollare la lira (ha perso il 70% da ottobre), il Libano era tornato nonostante tutto a essere un centro finanziario e una meta turistica.

Ma attenti, Beirut non è lontana dall’Italia. Ci stiamo “libanizzando” pure noi. Ciascuno rinchiuso nella propria cerchia di amici, reali o Facebook. Banniamo quelli che ci contraddicono, fingiamo che non esistano. Esattamente come i ricchi cristiani maroniti rinchiusi nelle loro ville di Beirut nord-est ignorano il terzo mondo dei ghetti sciiti e dei campi profughi di Beirut sud-ovest. A Sabra e Chatila nel 1982 i fascisti falangisti cristiani massacrarono i palestinesi nell’indifferenza degli israeliani di Sharon. Oggi in quei vicoli si sono aggiunti gli sfollati poveri siriani.

Il distanziamento sociale del virus ha solo confermato la distanza fra i coriandoli di Beirut: nel golf club vicino all’aeroporto sembra di essere a Beverly Hills, ma dall’altra parte della superstrada Hafez Assad, a 200 metri, c’è la bidonville di Bourj-el-Barajneh, con la bomba sociale di sciiti e profughi. Ogni tanto in Libano le bombe esplodono, apposta o per sbaglio, e fanno 160 morti.
Mauro Suttora

Friday, May 05, 1989

Nella Siria cacciata dal Libano

Perché Hafez Assad non vuole ritirarsi dal Libano

IL LEONE DI DAMASCO

Ha saputo giostrare contro 1000 avversari. Ha fatto della Siria la maggior caserma del Medio Oriente. Ma oggi che le sue folli spese militari hanno dissanguato il Paese, tutto il mondo arabo lo sta isolando. E l'Irak pensa già alla vendetta

dal nostro inviato a Damasco Mauro Suttora

Europeo, 5 maggio 1989

Il tassista ferma la sua grande e scassata Chrysler gialla anni Sessanta, si volta e sorride. Fa quel gesto, con le dita della mano riunite all'insù, che da noi significa "che vuoi?" e fra gli arabi "aspetta". Apre la portiera, esce dalla macchina e se ne va a contrattare il prezzo di due caschi di banane da un ambulante lungo la strada. 

Siamo a Chtaura, nella verde vallata libanese della Bekaa. Stiamo fuggendo da Beirut insanguinata in quattro, io e tre musulmani libanesi, su un taxi collettivo. Andiamo verso Damasco, verso un tetto sicuro, insieme a centinaia di altri profughi di Beirut ovest, stanchi della roulette russa dei bombardamenti. 

Anche Chtaura viene bombardata dai cannoni del generale cristiano Michel Aoun, che da un mese e mezzo osa sfidare i 40 mila soldati siriani in Libano. I missili e le bombe dei mortai da Beirut est, superato il monte Libano, piombano anche qui, nella speranza di colpire le postazioni siriane che da 13 anni controllano la grande vallata, la Bekaa di fatto annessa alla Siria: mezzo Libano. Chtaura ne porta i segni. Muri sfondati attraverso cui occhieggia il cielo, sacchetti di sabbia davanti alle vetrine, nastri di scotch che cercano di impedire che i vetri cadano a pezzi. 

Il tassista siriano torna indietro con le sue banane Dole, "product of Ecuador", molto più grosse delle banane locali. Forse le bananine mediorientali rimangono così rachitiche perché non sono trattate con tiabendazolo, come indicato sulle Dole. Fatto sta che queste ultime finiscono nel bagagliaio del taxi, confondendosi con i nostri bagagli. 

Prima della frontiera, nello spazio di 20 chilometri, il tassista ci pregherà di aspettare altre quattro volte: per comprare due taniche metalliche d'olio, una confezione gigante di fazzoletti di carta, altre banane, una stecca di sigarette. Smette solo quando nel bagagliaio non sta più neppure uno spillo. Proprio questa sua spesa forsennata spiega molte cose: le ragioni per cui la Siria si è impadronita del Libano (il 70 per cento del territorio e tutte le città più importanti: Beirut ovest, Tripoli, Tiro, Sidone), come mai non voglia andarsene e anche perché sia in perenne crisi economica. I beni di consumo che il tassista si è assicurato, infatti, sono un po' un simbolo: quello di una Siria per cui era insopportabile avere, tra sé e il mare, un paese piccolo, libero e ricco come il Libano. 

I soldati siriani, calati dalle montagne del Jebel Ansarié (la patria alauita del dittatore di Damasco , Hafez Assad), o arruolati fra i beduini del deserto, si sono impadroniti del raffinato Libano con la stessa fame, la stessa rabbia, lo stesso complesso di inferiorità di un barbaro di fronte a Roma. Beirut, ex emporio miliardario, dopo 14 anni di martirio riesce ancora ad offrire ben più della Siria. 

Una conferma mi verrà, arrivato a Damasco, da una visita al suk nella città vecchia. Quello che un tempo era il bazar più ricco e sfavillante del Medio Oriente dopo il Gran Bazar di Istanbul è ridotto a due misere gallerie maleodoranti. Poca e povera la merce esposta. Solo i tessuti di cotone e gli abiti tradizionali vi portano una nota multicolore. Già: è grazie all'industria tessile che la Siria può assicurarsi ancora le forniture di armi sovietiche; Mosca gliele dà in cambio di prodotti di cotone, mentre considera la valuta siriana carta straccia. Come il resto del mondo. 

Nella galleria principale del suk, quella che porta alla grande moschea degli Ommayadi, i commercianti disponibili a scambiare quattro chiacchiere sono pochi. La polizia politica di Assad è assai occhiuta, i militari sono dappertutto. Il regime non tollera critiche e lamentele. Ha dovuto risparmiare di malavoglia il comico Duraid Laham che lo mette alla berlina, perché è protetto da una popolarità a prova di bomba. Finalmente, mentre compro di che radermi in una misera bottega di chincaglieria, il negoziante sibila in francese: "Il nostro problema? Che buttiamo il 65 per cento delle spese di bilancio nella difesa". 

Sono forze armate ipertrofiche, quelle siriane: mezzo milione di soldati su nove milioni di abitanti. Un modo per impiegare disoccupati che sarebbero cronici, ma anche un grande serbatoio di popolarità e un cuscinetto di sicurezza per Assad. "Questa gente", spiega un diplomatico occidentale, "Assad doveva pure impiegarla. Non potendo farlo contro Israele, dopo le batoste del '67 e dell'82, ha pensato bene di offrire 'un aiuto fraterno' al Libano".

La Siria ha sempre considerato il Libano parte della "Grande Siria": non ha mai aperto ambasciate a Beirut, né richiesto passaporti per passare la frontiera. Lo stesso Assad ha goduto dell'ospitalità libanese ai tempi in cui era un giovane militante del partito Baas che complottava per impadronirsi del potere a Damasco. All'indomani del golpe fallito, nel marzo del '62, fu però arrestato a Tripoli, tenuto in prigione 9 giorni e infine estradato.

C'è chi dice che questa disavventura gli abbia messo in corpo il desiderio di vendetta. Ma sono voci, interpretazioni che filtrano attraverso la pesante cortina di un culto della personalità da antico satrapo d'Oriente. "In realtà", lo descrive Karim Pakraduni, un dirigente libanese che ha negoziato a lungo con lui, "Assad è molto razionale. Da buon pilota militare abbraccia le cose dall'alto: con un colpo d'occhio individua dettagli e bersagli. E dopo aver colpito, si ferma a riflettere, negoziare, esplorare. Fino al colpo successivo". 

Proprio grazie a questa tecnica, otto secoli dopo Saladino, Damasco ha ritrovato un padrone assoluto. Nato nel 1928 sulle aride montagne della regione alauita, allora autonoma dalla Siria e governata dai francesi, Assad scende a studiare sulla costa, a Latachia. A 24 anni, come molti altri membri della minoranza alauita, fulcro dell'esercito siriano, entra all'accademia militare di Homs. Stages in Urss, espulsione dall'esercito, esilio al Cairo dove vive il suo idolo, Nasser. 

Nel '66, dopo un colpo di Stato, torna e viene nominato ministro della Difesa. E nel 1970, "grazie" ai palestinesi, diventa presidente: rifiuta infatti di difendere i fedayn sterminati dalla Giordania durante il Settembre Nero, e ciò offre al presidente Salah Jedid il destro di sostituirlo; ma Assad è più rapido e sostituisce lui il presidente. 

"C'e' da stupirsi?", si chiede il diplomatico con cui parliamo di tutto ciò. "Il Medio Oriente abbonda di questi colpi di scena… Certo, nella vita di Assad ce ne sono più che nella media. Basta pensare allo scherzo che il destino ha fatto al Libano, dove nel 1976 furono i cristiani a chiamare Assad perché eliminasse i fortini costruiti dall'Olp intorno a Beirut, dopo l'espulsione dalla Giordania. Assad distrusse il campo profughi palestinese di Tall el Zataar, ma subito dopo tradì i cristiani libanesi. Fece anche eliminare il capo dei drusi, Kamal Jumblatt. E non è vero che oggi il figlio di Kamal, Walid, è il miglior alleato di Assad? Assad vuol dire leone in arabo".

La parte del leone si attaglia perfettamente alla Siria, che è oggi, dopo la dichiarata intenzione del Vietnam di andarsene dalla Cambogia, l'unico Paese al mondo ad occupare un altro Paese: appunto il Libano, preda che non intende mollare. Naturalmente questo ha isolato la Siria anche nel contesto arabo. 

Se si considerano i complicati rituali che regolano la cosiddetta "nazione araba", non è senza significato che Damasco non faccia parte di alcuna organizzazione economica. Passi per il Magreb, per cui valgono considerazioni territoriali (ne fanno parte Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e Mauritania) e passi, per analoghe ragioni, il Consiglio di cooperazione del Golfo nato nel 1980 (Arabia Saudita, Kuwait, Oman, Bahrein, Emirati e Qatar). Ma la Siria non è stata neppure chiamata a far parte del Mashrek , l'organizzazione nata nel febbraio 1989 tra Irak, Egitto, Giordania e Yemen del Nord. 

L'accordo di formazione è stato siglato a Bagdad e si dice che l'Irak l'abbia condizionato alla non partecipazione della Siria. Il che è comprensibile, data l'inimicizia tra i due partiti Baas. Ma è abbastanza grave per il regime di Assad (ormai legato solo all'Iran, musulmano ma non arabo e di volubili alleanze). Infatti, attraverso le anodine alleanze economiche passano sotterranee correnti politiche: per esempio l'Irak ha fornito alla Giordania 150 carri armati per mantenere l'ordine interno, e dire Giordania vuol dire Arabia Saudita. Non solo: sempre in Irak ci sono molti campi militari di Fatah, la corrente dell'Olp che fa capo ad Arafat. Il che vuol dire, per Assad, trovarsi contro anche l'Egitto. 

Ma il regime non sembra preoccuparsene. Damasco, dopo l'inferno di Beirut, è un'oasi di calma. Passeggiare per i suoi verdi giardini è un piacere. All'Hadykat Zanoubie, sulla riva del laghetto nel parco, un gruppo di soldatesse scherza. Altre ragazze, nessuna porta il chador in un momento di fervore islamico, camminano a braccetto. Sono un altro indice dell'abilità di Assad: qui la donna ha gli stessi diritti, almeno sulla carta, dell'uomo.

I radicali musulmani sono solo un ricordo (Assad provvide a farne eliminare migliaia in una sanguinosa purga ad Hama, nel 1982). La libertà di culto è assicurata. Perfino la minoranza cristiana, il 12% della popolazione, vive in pace. Tanto che quando vado, di domenica, a cercare un funzionario cristiano amico al ministero degli Esteri, sicuro di trovarlo (la giornata di festa canonica dei musulmani è il venerdi), mi dicono che non c'è: è a messa. 

Parlo con un suo collega musulmano e gli chiedo provocatoriamente come mai dappertutto a Damasco si incontrino militari. "È solo perché siamo in zona di confine", mi spiega un po' confuso. Comunque è vero. Israele è lì, sul Golan occupato dal 1967 e annesso nel 1981, ad appena 90 chilometri. Nel 1982 ha distrutto in pochi minuti tutte le postazioni di missili sovietici installate dai siriani nella Bekaa. E ancor oggi lancia indisturbato, ogni due-tre settimane, raid chirurgici punitivi contro le basi militari palestinesi che i siriani tollerano nel Libano del sud. "Da qui", mi dice un cameriere in un bar sul monte Cassiun che domina Damasco (dove Assad vorrebbe farsi costruire un faraonico palazzo presidenziale, bloccato dall'86 per mancanza di fondi), "ogni tanto si vedono bagliori lontani. I razzi israeliani". 

Sono 41 anni che la Siria combatte Israele. E questo perfino per uno Stato caserma, privo degli elementari diritti civili (parola, stampa, riunione, associazione, da tutte le copie dei giornali stranieri venduti negli hotel vengono sforbiciati gli articoli sulla Siria), è troppo. "Se non fossimo in guerra con Israele", s'era lasciato sfuggire al ministero degli Esteri il funzionario musulmano, "il mio stipendio sarebbe cinque volte superiore". 

È un altro elemento per capire la determinazione della Siria a non andarsene dal Libano, pompa d'ossigeno per dare un po' di respiro a un moribondo economico. "S'e' mai chiesto", mi domanda un diplomatico francese, "come mai la causa scatenante dell'ultima guerra in Libano, l'8 marzo, sia stato il tentativo di Aoun di ripristinare il controllo statale sui porti? Significava il blocco del contrabbando, dell'import-export illegale. Ha fatto infuriare un po' tutti, ma specialmente drusi e siriani. Probabilmente perché sono proprio loro ad esercitare il traffico di droga e armi. Secondo la polizia inglese, i due terzi della droga sequestrata in Gran Bretagna vengono dai porti turco ciprioti, proprio di fronte a Tripoli, controllata dai siriani. Del resto, a fine marzo è stata sequestrata in Mediterraneo una nave siriana carica di stupefacenti. Veniva dal Libano? Sa, la Bekaa è piena di coltivazioni di hashish e papavero". 

Una storiaccia. Non peggiore, però, di tante altre che circolano qui a Damasco. Dove si è addirittura calcolato che la metà della produzione annuale di grano siriana viene venduta illegalmente in Turchia, invece di affluire nei magazzini dello Stato "socialista". La gente così fa la coda per accaparrarsi beni di consumo primario e la valuta al mercato nero ha valore di un quarto rispetto al cambio ufficiale. 

Per soffocare il malcontento, lo spettro del grande nemico, Israele, serve a meraviglia. Perfino ad Assad, che non viene certo da una famiglia antisionista. Ecco infatti quel che scriveva il nonno di Assad, Solimano, il 15 giugno 1936 in un appello al premier francese Leon Blum: "I bravi ebrei hanno portato civiltà e pace agli arabi musulmani". 

Solimano cercava di convincere i francesi a proteggere le minoranze presenti in Siria e Palestina sotto l'occupazione franco-inglese. E fra le minoranze, oltre agli ebrei, c'era allora anche la famiglia del piccolo Assad: gli alauiti, l' 11 per cento dei siriani, che avrebbero voluto anche loro l'indipendenza dalla Siria o, al massimo, l'inclusione nel Libano. Ma in questo modo la Siria avrebbe perso ogni sbocco al mare. 

Dispute storiche che gettano la propria ombra anche sulle vicende di oggi. Per quanto tempo la minoranza alauita di Assad riuscirà a tenere in pugno la Siria con la sua maggioranza sunnita? L'uomo forte di Damasco è al potere da 19 anni, ma oggi tutto sembra congiurare contro di lui: il mondo intero si commuove alla tragedia di Beirut, la diplomazia è in movimento, perfino la Lega araba sembra rinnegare Damasco. 

E la Siria, per di più, appoggia gruppi palestinesi come quello di Ahmed Jibril sospettato di aver fatto esplodere l'aereo Pan Am a Natale. I rapporti con la Gran Bretagna sono ancora interrotti dopo l'"affare Hindaui" dell' 86 (attentato fallito contro un aereo El Al a Londra, commissionato dal capo dei servizi segreti siriani). Soprattutto, adesso a Mosca c'è Gorbaciov. E se i sovietici hanno bisogno della base navale siriana di Tortosa (Tartus), non è detto che vogliano continuare per sempre ad armare la caserma più bellicosa del Medio Oriente. 

Nella hall del mio albergo, lo Sham, c'è una carta geografica. Il nome di Israele non compare neppure. Vi compare invece quello dell'Irak, con il quale è molto più probabile che la Siria si trovi a fare presto i conti. Saddam Hussein non ha dimenticato che Assad è stato l'unico alleato arabo dell'Iran nella guerra del Golfo, né che tra l'80 e l'81 una decina di diplomatici iracheni nella zona musulmana di Beirut hanno subito attentati; il 15 dicembre '81 veniva addirittura ucciso l'ambasciatore Razzak Lafta. 

"Allora", mi ha detto a Beirut un comandante cristiano, "Saddam Hussein era impelagato nella guerra del Golfo. Oggi non più. E ha già cominciato a saldare i conti mandando ai falangisti cristiani di Samir Geagea un centinaio di carri sottratti agli iraniani". "Se i siriani non se ne andranno, chiameremo gli iracheni", aveva avvertito il generale Aoun. C'è da chiedersi se la questione libanese non verrà regolata da Bagdad dall'altro "ragazzo terribile" del Baas, capo di un'altra grande caserma del Medio Oriente.
Mauro Suttora

Friday, April 14, 1989

Guerre senza fine: la violenza torna a divampare a Beirut

L’ultima crociata


“Liberare il Libano dai siriani”: è lo slogan di Michel Aoun, premier cristiano della zona est della città. Ma nasconde anche uno dei tanti regolamenti di conti tra opposte fazioni. E intanto nel tiro incrociato finiscono i civili


dall’inviato a Beirut Mauro Suttora


Europeo, 14 aprile 1989

 

“Cosa pensano di noi i cristiani d'Europa?", mi domanda Bassam Kafrouni, 23 anni, sottotenente delle forze libanesi, gli occhi azzurri assetati di solidarietà internazionale. "Assolutamente nulla", gli rispondo sincero, "indifferenza totale. L'unica cosa che si pensa è che forse siete un po' tutti stufi di farvi guerra in Libano dopo 14 anni, no?" I baffetti neri di Bassam si irrigidiscono sulla bocca chiusa. 

È Pasquetta. Sono le due del pomeriggio. Stiamo attraversando piazza dei Martiri. Era il centro di Beirut: negozi, uffici, ristoranti e sfavillanti night club. Adesso di colorato è rimasto solo lo scheletro di una grande pubblicità luminosa: orologi Orient. Tutto il resto sono solo palazzi abbandonati. Diroccati, bruciacchiati, forati soprattutto. Basta con il cedro: il nuovo simbolo del Libano anni Ottanta è il foro del proiettile. Sventagliate di mitra o colpi di fucile di cecchini isolati. E poi i buchi più grandi: quelli di bazooka, obici, cannoni. Dei missili. Non c’è casa a Beirut, anche nei quartieri residenziali più chic, che non esibisca qualche foro sui muri.

"Sono come le cuvées", scherza il fotografo Karim Daher. "Si possono riconoscere le annate. Queste sono le tracce dei combattimenti del '76 , queste dell'82 , queste dell'86… I più esperti riescono perfino a distinguere i buchi fatti dai vari eserciti: siriani, israeliani, palestinesi, falangisti, sciiti…” 


Pasqua a Beirut. La guerra del Libano compie 14 anni. Fu una scaramuccia fra i palestinesi e la scorta del presidente cristiano ad accendere la miccia, nell'aprile 1975. In quegli stessi giorni i nordvietnamiti conquistavano Saigon. Beirut invece era la "Parigi del Medio Oriente": la città più ricca, elegante e cosmopolita del Mediterraneo. Nessuno poteva immaginare che il Libano proprio in quel momento stesse ereditando dal Vietnam l'orrendo ruolo di guerra più lunga ed estenuante del secolo.

Da allora, nell'unica democrazia del mondo arabo sono morti in 120 mila. Calcolando che il Libano ha appena tre milioni di abitanti, in proporzione sarebbe come se in Italia una guerra facesse due milioni e mezzo di vittime. E la mattanza continua. 

In marzo a Beirut è scoppiata la terza guerra del 1989. Quest'anno il ritmo è infernale: ogni mese una nuova guerra. In gennaio c’è stato il conflitto fra sciiti prosiriani del partito Amal, "Speranza" in arabo, e quelli pro iraniani di Hezbollah, il "partito di Dio". In febbraio, a san Valentino, un rapido ma sanguinoso regolamento di conti in campo cristiano: le forze libanesi del falangista Samir Geagea contro l'esercito regolare libanese del generale Michel Aoun. Il quale poi, arrivata la primavera, ha lanciato l'ultima, temeraria sfida: "Comincia la guerra di liberazione, via gli invasori siriani dal Libano". 


Ci sono 30mila soldati siriani attualmente in Libano. Occupano i due terzi del paese: la valle della Bekaa, il nord, tutto il sud tranne la striscia dei filo israeliani e quella dell'Onu. E Beirut ovest, quella prevalentemente musulmana. Ai libanesi cristiani rimangono solo 1.500 chilometri quadrati, una striscia costiera lunga una cinquantina di chilometri e larga 30 che si stende da Beirut est su verso il nord. Niente di più. 

Da sette mesi, ormai, il paese non è più unito. Neanche formalmente. Alla scadenza del mandato del presidente Amin Gemayel, infatti, si sono formati due governi. A Beirut est c’è quello guidato dal capo dell'esercito Aoun. L'altro, a Beirut ovest e nel Libano occupato dalla Siria, è presieduto dall'ex premier musulmano Selim Hoss. I libanesi cristiani però sottolineano che la guerra d’indipendenza è rivolta solo ed esclusivamente contro gli invasori siriani . E che non si può quindi parlare di "guerra civile fra libanesi". Nessuna accusa di collaborazionismo sfugge mai contro Hoss, gli sciiti, i sunniti o i drusi. 

Fatto sta che i cannoni di Beirut est stanno bombardando le case dei civili a Beirut ovest, e viceversa.


Anche i pretesti, naturalmente, sono simmetrici ed equivalenti. "Colpiamo solo le postazioni siriane. Sono loro, per proteggersi, che si mettono in mezzo ai civili", dice il generale Aoun. "Colpiamo solo obiettivi strategici come la sede presidenziale dove Aoun si è installato illegalmente", si giustificano dall'altra parte. Anzi, a Beirut ovest nessuno si giustifica, perché ufficialmente nessuno spara . Però, chissà come, ogni giorno dalle quattro del pomeriggio alle due di notte anche da lì piovono bombe. 

Ne hanno fatto le spese soprattutto i quartieri residenziali attorno al palazzo del presidente Aoun, a Baabda. Ma anche piazza Sassine, nel cuore del quartiere cristiano di Achrafie, zona considerata sicurissima, ha ricevuto la sua dose di obici da 155 a 240 millimetri che hanno perforato i muri dei condomini, entrando ed esplodendo in piena notte nelle camere da letto. Il risultato finale è sempre lo stesso, da 14 anni: per ogni soldato morto, da una parte o dall'altra, venti sono i civili innocenti ammazzati.


L'immoralità delle guerre moderne, bomba atomica o no, è contenuta tutta in questo semplice ma tragico rapporto di proporzione: uno a venti. Fino alla prima guerra mondiale erano soprattutto i soldati a morire in battaglia. Adesso invece i militari sparano e i civili muoiono. In Libano è successo tante di quelle volte: a Tall El Zatar nel '76 i soldati siriani massacrarono donne e bimbi palestinesi perché nei sotterranei del campo profughi i fedayn avevano nascosto i loro carri armati; lo stesso fecero i falangisti a Sabra e Chatila nell'82; o gli sciiti nel campo di Bourj El Barainj nell'87; o i palestinesi filosiriani di Abu Mussa contro altri palestinesi nell'estate ' 88 . Eccetera.

Ma almeno questi nomi di stragi rimarranno in qualche modo nella storia degli orrori libanesi. Chi si ricorderà, invece, dei signori Tanios Dumit, Elias Dumit o Suad Kassaifi, tre delle vittime dei bombardamenti di questa Pasquetta '89, colpiti solo perché la loro casa era troppo vicina al palazzo presidenziale di Baabda?

A Beirut non ci sono più giornalisti. Sette anni fa erano in duemila ad affollare gli alberghi; oggi siamo in tre ad aggirarci nell'atrio vuoto dell'hotel Alexandre. Peccato, generale libanese Michel Aoun, la tua guerra di liberazione contro gli invasori siriani non interessa il mondo: eppure l'hai sparata grossa venerdì santo, quando hai dichiarato: "Se per liberare il Libano Beirut dovrà essere distrutta, che lo sia: è già stata ricostruita otto volte nella sua storia, la ricostruiremo ancora".

E il giorno dopo hai rischiato grosso: mentre ti intervistava un giornalista di Zurigo, nel tuo studio sotterraneo, è caduta una pioggia di obici sul palazzo di Baabda, dove lo scorso settembre l'ultimo presidente Amin Gemayel ti nominò presidente del Consiglio solo tre minuti prima che gli scadesse il mandato, dopo averti odiato per anni. Il tassista del giornalista zurighese, che aspettava nel parcheggio, si è preso le schegge. Ma tu, presidente, saresti morto se fossi stato alla tua scrivania normale: un missile si è piantato proprio in mezzo alla sedia.


"Nous tiendrons jusqu'au bout", grida durante la messa di Pasqua una donna dal fondo della chiesa cattolica di Nostra Signora dell'Assunzione. "Resisteremo fino in fondo": se lo giurano in molti, fra il milione di cristiani assediati nell'enclave libanese. Di mattina i bombardamenti cessano, e così a Pasqua a Beirut est tutte le chiese erano piene zeppe. In quella di Nostra Signora dell'Assunzione vengo coinvolto in una scena incredibile assieme al fotografo francese Alain Nogués, fondatore dell’agenzia Sygma. È in corso la messa, in arabo. Diciamo al sacrestano che alla fine vorremmo parlare con il prete. Ma questi, avvertito immediatamente della presenza di due giornalisti europei, ci convoca sull'altare in piena messa. Ci bisbiglia in francese: "Dopo la predica dirò qualcosa su di voi". Lo farà, rivolto ai fedeli: "Fratelli, sono fra noi due rappresentanti dell'opinione pubblica cristiana europea. Che Dio li illumini e possa far descrivere loro la nostra situazione e la nostra continua lotta in difesa della cristianità”.

Alé, abili e arruolati sul campo, mille anni dopo la partenza della prima crociata contro gli infedeli! Ma è esattamente questo il clima in cui vivono centinaia di migliaia di cristiani libanesi oggi. E non capiscono perche', invece di aiutarli a cacciare via i siriani dal Libano, il presidente francese Francois Mitterrand abbia accolto proprio durante la settimana santa il ministro degli Esteri siriano a Parigi. E si sia addirittura impegnato a incontrare presto il presidente della Siria Hafez Assad.

 

Esattamente come i Pieds Noirs algerini trent'anni fa, i cristiani di Beirut, tutti arabi ma francofoni, considerano la Francia la loro protettrice e madrepatria. Anche gli armeni cilici di Antelias, sulla strada verso il porto di Junie, discutono e commentano i bombardamenti che non li hanno fatti dormire la notte precedente. Sotto la cipria, profonde occhiaie: siamo andati nei rifugi, ci siamo addormentati solo verso le tre, si lamentano le mamme.

A ogni incrocio di Beirut est c’è un altarino alla Madonna. Ogni due incroci, un murale con il ritratto del vecchio Pierre Gemayel. Ogni tre, quello del figlio Bechir, il leader della falange fatto saltare in aria poco dopo essere stato eletto presidente nell'82. Il fratello Amin, che ne ha preso il posto ed è sopravvissuto per sei anni, invece non è più popolare: "Troppi compromessi con i siriani", gli rimproverano. 

Anche Amin, assieme ad altri sei ex presidenti e primi ministri del Libano (la costituzione lasciata nel '43 dai francesi stabilisce che i presidenti siano cristiani e i primi ministri musulmani), è volato a Tunisi la scorsa settimana per i negoziati condotti, in nome della Lega Araba, dall'ambasciatore del Kuwait in Siria. Ma diversi cristiani accusano l'ultimo dei Gemayel di essersi arricchito illecitamente durante la presidenza. E poi ormai vive a Parigi, ha chiesto il divorzio dalla moglie, convive con un'amante… e i maroniti storcono il naso.


Riuscirà il generale Aoun a diventare il nuovo eroe nazionale dei cristiani del Libano? Sta facendo del suo meglio. A nord dell'enclave il territorio controllato dal cristiano Suleiman Frangie, ottuagenario ex presidente, è sotto dominio siriano. Anche Pierre Hobeika, capo dei falangisti fino al 1986 e tristemente famoso per la strage di Sabra e Chatila, è passato con Damasco. Ma, a parte questi due "Giuda", il fronte cristiano ha ritrovato la sua compattezza contro la Siria. I due risultati più concreti degli scontri intercristiani di febbraio sono stati il ritorno del controllo dell'intero porto di Beirut nelle mani dell'esercito regolare, quindi dello Stato, e la chiusura del quotidiano Le Reveil. Era l'organo delle forze libanesi (falangisti più i liberali di Eddy Chamoun più i Guardiani del Cedro) e ha sospeso le pubblicazioni per un motivo molto semplice: l'edificio dove veniva stampato è passato sotto il controllo fisico dell'esercito.

Una disavventura simile, del resto, è toccata anche al principale quotidiano libanese scritto in francese, L'Orient Le Jour: ha la redazione a Beirut est, ma la tipografia all'ovest. Così, per essere venduto anche nell'enclave cristiana, viene spedito via telefax ogni notte.


Ma le Forze libanesi continuano a essere un potentissimo stato nello stato , nel Libano cristiano. Il traghetto che collega di notte Cipro al Libano (unico modo di arrivare a Beirut se l'aeroporto è chiuso) è di loro proprietà. Appena salito a bordo, sabato santo, mi sono accorto che il potere anche nel Libano cristiano è diviso in due: accanto al funzionario statale che controllava i passaporti c'era quello delle Forze Libanesi. 

Il traghetto viene spesso bombardato da drusi e siriani quando arriva al porto di Junie, 15 km a nord di Beirut, ma rimane l'unico contatto dell'enclave cristiana col mondo esterno. Infatti i siriani dal 20 marzo hanno bloccato tutti i passaggi fra Beirut est ed ovest. La linea verde, il confine fra le due Beirut, con quella specie di muro di Berlino improvvisato fatto di container che ostruiscono ogni via di accesso tranne i pochi passaggi ufficiali, è anch'essa spartita, dalla parte cristiana, fra esercito e miliziani delle Forze Libanesi. Queste ultime controllano la parte nord, vicina al mare. E qui, da 40 giorni ininterrottamente è stazionato il sottotenente Kafrouni. La milizia gli dà tutto: mangiare, dormire, vestiti e 200 dollari al mese. "Mi bastano, perchè non sono sposato". "Sei fidanzato?". "Sì". " E lei è contenta che non ritorni a casa da 40 giorni?". “È normale, è la guerra". " È più brutta questa guerra contro i siriani o quella del mese scorso contro l'esercito regolare?". "Con l'esercito c'è stato solo un piccolo problema. Con i siriani il problema è molto più profondo".