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Friday, May 14, 2021

Israele - Hamas: Onu, il gigante di superpagati che se la prende comoda















Lenta risposta alla crisi di Gaza: riunione domenica, con calma, dove si dirà di far la pace

di Mauro Suttora



HuffPost, 14 maggio 2021 

Con comodo. Per affrontare l’ennesima guerra Israele-palestinese, il consiglio di sicurezza dell’Onu si riunirà “d’urgenza”. Cioè domenica: quando la guerra magari sarà già finita, con centinaia o migliaia di morti.

A che servono le Nazioni Unite? A poco. Forse a nulla, anche se è bello che nel grattacielo di Le Corbusier e Niemeyer a New York si faccia finta che ci sia un ‘governo mondiale’. 

Nessuna delle crisi e guerre degli ultimi decenni è stata risolta dall’Onu: Birmania, Siria, Libia, Somalia. Per non parlare dei bubboni fissi: Iraq, Afghanistan, Kosovo, Bosnia, Palestina. 

Uno stato pirata e assassino, quello dell’Isis, ha potuto prosperare addirittura per quattro anni senza che le Nazioni Unite riuscissero a coordinare la reazione di Russia, Siria e dei poveri curdi, spazzati via dalla Turchia dopo averci liberati dal flagello islamista.

Ma cos’è l’Onu, in realtà? Un gigante gogoliano con 115mila dipendenti e un bilancio annuo astronomico di 17 miliardi, pieno di burocrati pigri, incompetenti e superpagati, posseduti dall’irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.

Intendiamoci, la sua inefficienza non è maggiore di quella di apparati pubblici a qualsiasi livello: statale, regionale, comunale. Solo che i nostri inutili consiglieri di zona ci costano appena qualche gettone di presenza, mentre i funzionari onusiani incassano stipendi anche da 200mila dollari nelle loro comode sedi di Manhattan, Ginevra o Vienna (diverso è il discorso degli inviati sul campo di agenzie come il Pam, Programma alimentare mondiale, fondamentale per alleviare le carestie).

A volte poi i dirigenti Onu non sono inutili, ma dannosi: come quello dell’Oms che ha censurato un rapporto sul covid perché poteva “rovinare i rapporti” col nostro governo.

Ecco, sono i governi nazionali la rovina delle Nazioni Unite (così come dell’Unione europea, peraltro). Quelli di dittature come la Cina che bloccano ogni risoluzione contro regimi loro alleati (Birmania, Corea del Nord). 

Ma anche quelli corrotti di Paesi in via di sviluppo, che mandano a New York ambasciatori inetti, spesso amici o parenti del dittatorello locale, per fare la bella vita con le loro mogli: quella poltrona in alcuni stati è più ambita perfino di quella di ministro degli Esteri o premier.

Sono stato quattro anni corrispondente a New York, giornalista accreditato al Palazzo di Vetro. Ne ho viste di tutti i colori, da Powell che giurava sull’atomica di Saddam ai diplomatici Onu che parcheggiano ovunque in divieto di sosta perché la loro immunità li esenta dalle multe

Ma è nel Terzo mondo che le Nazioni Unite combinano i guai peggiori. Tiziano Terzani si scagliò contro le tangenti della missione in Cambogia. E negli interventi di peacekeeping e nation building bisogna pregare che i caschi blu non rimangano coinvolti in traffici sessuali, o non si voltino dall’altra parte come nelle stragi di Srebrenica e Ruanda.

Perché in realtà la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, e l’Ufficio antidroga che vorrebbe comicamente estirpare i papaveri afghani), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l’Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program).

Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c’è l’Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l’Upu (Unione postale universale), a Londra l’Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l’Icao (International Civil Aviation Organization).


Tutte queste simpatiche organizzazioni, prima della pandemia, passavano il tempo soprattutto apparecchiando conferenze leggendarie per spreco di risorse: si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo.

E’ normale che i dirigenti pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All’Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungevano l′80% del bilancio, i dipendenti si misero in sciopero della fame contro il nuovo segretario che voleva tagliare gli sprechi.


Ma i più abili, visto che stiamo parlando di Palestina, sono i dirigenti dell’Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l’Agenzia che da ben 72 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono oltre cinque milioni. 

Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 300 mila profughi istriani e dalmati (fra i quali mio padre) dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese, al massimo pochissimi anni, e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza Onu. 

Quattro generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l’assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l’economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall’Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi (ha 30mila dipendenti).

Cosicché domenica, quando con calma si riunirà il Consiglio di sicurezza, come sempre l’Onu farà finta che i suoi 50 eterni campi profughi non siano caduti in mano da decenni a Hamas ed Hezbollah, che predicano la distruzione di Israele, e inviterà entrambe le parti a deporre le armi. Salomonicamente. Anzi no: Salomone era ebreo, quindi innominabile come Israele sulle cartine geografiche arabe.

Mauro Suttora 

Sunday, August 09, 2020

Siamo tutti libanizzati

In Libano, dove la folla scende in piazza chiedendo la forca per i responsabili dell'esplosione, non ci sono politici, ma capi fazione. Una deriva che stiamo iniziando a conoscere bene anche in Italia


di Mauro Suttora

Huffington Post, 8 agosto 2020 

 
In Libano non c’è democrazia. Il che è normale, in Medio Oriente. Però c’è più libertà che in tutti i Paesi vicini, tranne Israele. Solo che è una libertà a coriandoli: ciascuno è libero, basta che sia protetto da una cosca, una setta, una milizia.

I deputati sono divisi per religione: metà ai musulmani e metà ai cristiani. Le percentuali sono fisse, così come le più alte cariche statali: premier sunnita, presidente cristiano, presidente del Parlamento sciita. In realtà è un regalo ai cristiani, che non superano il 35%. Sunniti e sciiti hanno il 30% ciascuno, ai drusi il restante 5%.

Si chiama “libanizzazione”. Così la definisce il dizionario Garzanti: “Condizione di estrema disgregazione della vita politica, nella quale, essendo del tutto assente il potere dello stato, il controllo del paese è affidato allo scontro di fazioni armate”. Etimologia: “Situazione determinatasi in Libano negli anni ’70-’80 del ’900”.

In questo senso ha ragione il sottosegretario grillino agli Esteri, Manlio Di Stefano, che ha confuso il Libano con la Libia (chissà se conosce la Liberia). A Beirut come a Bengasi, e a Tripoli come a Tripoli (ce n’è una in Libia e una in Libano, a parziale discolpa dell’apprendista geografo Manlio), comandano le milizie.

In Libano non esistono politici. Gli ultimi degni di tal nome sono stati fatti saltare in aria, com’è normale a quelle latitudini: nel 1982 Bashir Gemayel, presidente cristiano; nel 1987 Rashid Karame e nel 2005 Rafiq Hariri, entrambi premier sunniti. Pierre Gemayel, nipote di Bashir, è stato mitragliato a morte nel 2006.

Gli altri sono soltanto capi fazione, la cui autorità non va oltre l’ambito del proprio gruppo religioso. Anche perché ormai il Libano è un gerontocomio: il presidente Michel Aoun ha 85 anni, quello del Parlamento Nabih Berri 82. Il premier 60enne Hassan Diab è un virgulto al confronto, ma è in carica soltanto dal gennaio di quest’anno. Ha sostituito Saad Hariri, figlio del miliardario Rafiq (4 miliardi di patrimonio personale), travolto dalle proteste di strada poi bloccate dal virus.

Ora le dimostrazioni di piazza riprendono, con disperata genericità sardino-pentastellata: “Via i politici corrotti e incompetenti!” “Forca per i responsabili dell’esplosione al porto!”

Può darsi che si spengano nel nulla, oppure che provochino un bagno di sangue. O che questa volta abbiano successo, innescando perfino reazioni a catena come nove anni fa le primavere arabe partite dalla Tunisia ed esportate in Libia (giù Gheddafi), Egitto (giù Mubarak) e Siria, dove invece Assad ha resistito al prezzo di quasi mezzo milione di morti e sei milioni di profughi.

Ma attenzione, perché qui comincia un perverso giro dell’oca che rischia di replicare una tragedia storica. Un milione e mezzo di profughi siriani, infatti, sono sfollati in Libano, ripetendo il disastro dell’esodo palestinese. Mezzo secolo fa centinaia di migliaia di palestinesi scapparono a Beirut dalla Giordania dopo la strage del Settembre nero 1970. 
Allora il Libano era lo stato più ricco, sofisticato e cosmopolita del Medio Oriente, e Beirut la sua Monte Carlo. Dubai e Abu Dhabi erano ancora villaggi di poveri pescatori. Ma l’arrivo dell’Olp di Arafat sconvolse il fragile equilibrio del Libano, e provocò la guerra civile più lunga della storia: 15 anni, 150mila morti, diaspora di sei milioni di libanesi (chi se l’è potuto permettere, quindi i benestanti sunniti e cristiani maroniti riparati a Londra e Parigi, in esilio di lusso).

Nel 1990 ha preso il potere il generale cristiano Aoun. Non l’ha più mollato, prima appoggiandosi ai siriani e poi sfruttando la rivalità sunnita/sciita. Intanto i diseredati sciiti delle periferie di Beirut e del Libano meridionale hanno trovato conveniente e naturale appoggiarsi alle milizie di Hezbollah finanziate dall’Iran. Che procura non solo armi, ma anche sussidi per i disoccupati.

Per dare l’idea del problema Libano: su sei milioni di abitanti, due milioni sono profughi. Ricevono gli aiuti Onu, ma sarebbe come se l’Italia ne avesse 20 milioni. Ammassati in una superficie più piccola dell’Abruzzo. 
Eppure il Libano non è l’inferno. È un paradiso. Il cielo è più azzurro che a Napoli, i tramonti più rosa che a Roma. Basta salire da Beirut sui monti retrostanti, e le foreste dei cedri profumano più dei pini di Cortina. Basta andare a cenare nella baia di Jounieh, e le serate mediterranee sono più dolci che in Costa Smeralda o Azzurra. La valle della Beqaa, che porta in un attimo a Damasco, è più verde della campagna toscana.

Fino al 1975 le estreme diversità del Libano formavano un mosaico prezioso. Dopo, bombe e mitra hanno rovinato tutto. Eppure i libanesi continuano a rinascere. Negli anni ’90, dopo la guerra civile, i traffici sono ripresi, i soldi sono tornati, lo splendido lungomare di Beirut è stato ricostruito e la vita è ricominciata. Idem dopo la ritirata degli occupanti siriani, nel 2005. Ultimamente, prima della bancarotta statale che ha fatto crollare la lira (ha perso il 70% da ottobre), il Libano era tornato nonostante tutto a essere un centro finanziario e una meta turistica.

Ma attenti, Beirut non è lontana dall’Italia. Ci stiamo “libanizzando” pure noi. Ciascuno rinchiuso nella propria cerchia di amici, reali o Facebook. Banniamo quelli che ci contraddicono, fingiamo che non esistano. Esattamente come i ricchi cristiani maroniti rinchiusi nelle loro ville di Beirut nord-est ignorano il terzo mondo dei ghetti sciiti e dei campi profughi di Beirut sud-ovest. A Sabra e Chatila nel 1982 i fascisti falangisti cristiani massacrarono i palestinesi nell’indifferenza degli israeliani di Sharon. Oggi in quei vicoli si sono aggiunti gli sfollati poveri siriani.

Il distanziamento sociale del virus ha solo confermato la distanza fra i coriandoli di Beirut: nel golf club vicino all’aeroporto sembra di essere a Beverly Hills, ma dall’altra parte della superstrada Hafez Assad, a 200 metri, c’è la bidonville di Bourj-el-Barajneh, con la bomba sociale di sciiti e profughi. Ogni tanto in Libano le bombe esplodono, apposta o per sbaglio, e fanno 160 morti.
Mauro Suttora

Friday, April 14, 1989

Guerre senza fine: la violenza torna a divampare a Beirut

L’ultima crociata


“Liberare il Libano dai siriani”: è lo slogan di Michel Aoun, premier cristiano della zona est della città. Ma nasconde anche uno dei tanti regolamenti di conti tra opposte fazioni. E intanto nel tiro incrociato finiscono i civili


dall’inviato a Beirut Mauro Suttora


Europeo, 14 aprile 1989

 

“Cosa pensano di noi i cristiani d'Europa?", mi domanda Bassam Kafrouni, 23 anni, sottotenente delle forze libanesi, gli occhi azzurri assetati di solidarietà internazionale. "Assolutamente nulla", gli rispondo sincero, "indifferenza totale. L'unica cosa che si pensa è che forse siete un po' tutti stufi di farvi guerra in Libano dopo 14 anni, no?" I baffetti neri di Bassam si irrigidiscono sulla bocca chiusa. 

È Pasquetta. Sono le due del pomeriggio. Stiamo attraversando piazza dei Martiri. Era il centro di Beirut: negozi, uffici, ristoranti e sfavillanti night club. Adesso di colorato è rimasto solo lo scheletro di una grande pubblicità luminosa: orologi Orient. Tutto il resto sono solo palazzi abbandonati. Diroccati, bruciacchiati, forati soprattutto. Basta con il cedro: il nuovo simbolo del Libano anni Ottanta è il foro del proiettile. Sventagliate di mitra o colpi di fucile di cecchini isolati. E poi i buchi più grandi: quelli di bazooka, obici, cannoni. Dei missili. Non c’è casa a Beirut, anche nei quartieri residenziali più chic, che non esibisca qualche foro sui muri.

"Sono come le cuvées", scherza il fotografo Karim Daher. "Si possono riconoscere le annate. Queste sono le tracce dei combattimenti del '76 , queste dell'82 , queste dell'86… I più esperti riescono perfino a distinguere i buchi fatti dai vari eserciti: siriani, israeliani, palestinesi, falangisti, sciiti…” 


Pasqua a Beirut. La guerra del Libano compie 14 anni. Fu una scaramuccia fra i palestinesi e la scorta del presidente cristiano ad accendere la miccia, nell'aprile 1975. In quegli stessi giorni i nordvietnamiti conquistavano Saigon. Beirut invece era la "Parigi del Medio Oriente": la città più ricca, elegante e cosmopolita del Mediterraneo. Nessuno poteva immaginare che il Libano proprio in quel momento stesse ereditando dal Vietnam l'orrendo ruolo di guerra più lunga ed estenuante del secolo.

Da allora, nell'unica democrazia del mondo arabo sono morti in 120 mila. Calcolando che il Libano ha appena tre milioni di abitanti, in proporzione sarebbe come se in Italia una guerra facesse due milioni e mezzo di vittime. E la mattanza continua. 

In marzo a Beirut è scoppiata la terza guerra del 1989. Quest'anno il ritmo è infernale: ogni mese una nuova guerra. In gennaio c’è stato il conflitto fra sciiti prosiriani del partito Amal, "Speranza" in arabo, e quelli pro iraniani di Hezbollah, il "partito di Dio". In febbraio, a san Valentino, un rapido ma sanguinoso regolamento di conti in campo cristiano: le forze libanesi del falangista Samir Geagea contro l'esercito regolare libanese del generale Michel Aoun. Il quale poi, arrivata la primavera, ha lanciato l'ultima, temeraria sfida: "Comincia la guerra di liberazione, via gli invasori siriani dal Libano". 


Ci sono 30mila soldati siriani attualmente in Libano. Occupano i due terzi del paese: la valle della Bekaa, il nord, tutto il sud tranne la striscia dei filo israeliani e quella dell'Onu. E Beirut ovest, quella prevalentemente musulmana. Ai libanesi cristiani rimangono solo 1.500 chilometri quadrati, una striscia costiera lunga una cinquantina di chilometri e larga 30 che si stende da Beirut est su verso il nord. Niente di più. 

Da sette mesi, ormai, il paese non è più unito. Neanche formalmente. Alla scadenza del mandato del presidente Amin Gemayel, infatti, si sono formati due governi. A Beirut est c’è quello guidato dal capo dell'esercito Aoun. L'altro, a Beirut ovest e nel Libano occupato dalla Siria, è presieduto dall'ex premier musulmano Selim Hoss. I libanesi cristiani però sottolineano che la guerra d’indipendenza è rivolta solo ed esclusivamente contro gli invasori siriani . E che non si può quindi parlare di "guerra civile fra libanesi". Nessuna accusa di collaborazionismo sfugge mai contro Hoss, gli sciiti, i sunniti o i drusi. 

Fatto sta che i cannoni di Beirut est stanno bombardando le case dei civili a Beirut ovest, e viceversa.


Anche i pretesti, naturalmente, sono simmetrici ed equivalenti. "Colpiamo solo le postazioni siriane. Sono loro, per proteggersi, che si mettono in mezzo ai civili", dice il generale Aoun. "Colpiamo solo obiettivi strategici come la sede presidenziale dove Aoun si è installato illegalmente", si giustificano dall'altra parte. Anzi, a Beirut ovest nessuno si giustifica, perché ufficialmente nessuno spara . Però, chissà come, ogni giorno dalle quattro del pomeriggio alle due di notte anche da lì piovono bombe. 

Ne hanno fatto le spese soprattutto i quartieri residenziali attorno al palazzo del presidente Aoun, a Baabda. Ma anche piazza Sassine, nel cuore del quartiere cristiano di Achrafie, zona considerata sicurissima, ha ricevuto la sua dose di obici da 155 a 240 millimetri che hanno perforato i muri dei condomini, entrando ed esplodendo in piena notte nelle camere da letto. Il risultato finale è sempre lo stesso, da 14 anni: per ogni soldato morto, da una parte o dall'altra, venti sono i civili innocenti ammazzati.


L'immoralità delle guerre moderne, bomba atomica o no, è contenuta tutta in questo semplice ma tragico rapporto di proporzione: uno a venti. Fino alla prima guerra mondiale erano soprattutto i soldati a morire in battaglia. Adesso invece i militari sparano e i civili muoiono. In Libano è successo tante di quelle volte: a Tall El Zatar nel '76 i soldati siriani massacrarono donne e bimbi palestinesi perché nei sotterranei del campo profughi i fedayn avevano nascosto i loro carri armati; lo stesso fecero i falangisti a Sabra e Chatila nell'82; o gli sciiti nel campo di Bourj El Barainj nell'87; o i palestinesi filosiriani di Abu Mussa contro altri palestinesi nell'estate ' 88 . Eccetera.

Ma almeno questi nomi di stragi rimarranno in qualche modo nella storia degli orrori libanesi. Chi si ricorderà, invece, dei signori Tanios Dumit, Elias Dumit o Suad Kassaifi, tre delle vittime dei bombardamenti di questa Pasquetta '89, colpiti solo perché la loro casa era troppo vicina al palazzo presidenziale di Baabda?

A Beirut non ci sono più giornalisti. Sette anni fa erano in duemila ad affollare gli alberghi; oggi siamo in tre ad aggirarci nell'atrio vuoto dell'hotel Alexandre. Peccato, generale libanese Michel Aoun, la tua guerra di liberazione contro gli invasori siriani non interessa il mondo: eppure l'hai sparata grossa venerdì santo, quando hai dichiarato: "Se per liberare il Libano Beirut dovrà essere distrutta, che lo sia: è già stata ricostruita otto volte nella sua storia, la ricostruiremo ancora".

E il giorno dopo hai rischiato grosso: mentre ti intervistava un giornalista di Zurigo, nel tuo studio sotterraneo, è caduta una pioggia di obici sul palazzo di Baabda, dove lo scorso settembre l'ultimo presidente Amin Gemayel ti nominò presidente del Consiglio solo tre minuti prima che gli scadesse il mandato, dopo averti odiato per anni. Il tassista del giornalista zurighese, che aspettava nel parcheggio, si è preso le schegge. Ma tu, presidente, saresti morto se fossi stato alla tua scrivania normale: un missile si è piantato proprio in mezzo alla sedia.


"Nous tiendrons jusqu'au bout", grida durante la messa di Pasqua una donna dal fondo della chiesa cattolica di Nostra Signora dell'Assunzione. "Resisteremo fino in fondo": se lo giurano in molti, fra il milione di cristiani assediati nell'enclave libanese. Di mattina i bombardamenti cessano, e così a Pasqua a Beirut est tutte le chiese erano piene zeppe. In quella di Nostra Signora dell'Assunzione vengo coinvolto in una scena incredibile assieme al fotografo francese Alain Nogués, fondatore dell’agenzia Sygma. È in corso la messa, in arabo. Diciamo al sacrestano che alla fine vorremmo parlare con il prete. Ma questi, avvertito immediatamente della presenza di due giornalisti europei, ci convoca sull'altare in piena messa. Ci bisbiglia in francese: "Dopo la predica dirò qualcosa su di voi". Lo farà, rivolto ai fedeli: "Fratelli, sono fra noi due rappresentanti dell'opinione pubblica cristiana europea. Che Dio li illumini e possa far descrivere loro la nostra situazione e la nostra continua lotta in difesa della cristianità”.

Alé, abili e arruolati sul campo, mille anni dopo la partenza della prima crociata contro gli infedeli! Ma è esattamente questo il clima in cui vivono centinaia di migliaia di cristiani libanesi oggi. E non capiscono perche', invece di aiutarli a cacciare via i siriani dal Libano, il presidente francese Francois Mitterrand abbia accolto proprio durante la settimana santa il ministro degli Esteri siriano a Parigi. E si sia addirittura impegnato a incontrare presto il presidente della Siria Hafez Assad.

 

Esattamente come i Pieds Noirs algerini trent'anni fa, i cristiani di Beirut, tutti arabi ma francofoni, considerano la Francia la loro protettrice e madrepatria. Anche gli armeni cilici di Antelias, sulla strada verso il porto di Junie, discutono e commentano i bombardamenti che non li hanno fatti dormire la notte precedente. Sotto la cipria, profonde occhiaie: siamo andati nei rifugi, ci siamo addormentati solo verso le tre, si lamentano le mamme.

A ogni incrocio di Beirut est c’è un altarino alla Madonna. Ogni due incroci, un murale con il ritratto del vecchio Pierre Gemayel. Ogni tre, quello del figlio Bechir, il leader della falange fatto saltare in aria poco dopo essere stato eletto presidente nell'82. Il fratello Amin, che ne ha preso il posto ed è sopravvissuto per sei anni, invece non è più popolare: "Troppi compromessi con i siriani", gli rimproverano. 

Anche Amin, assieme ad altri sei ex presidenti e primi ministri del Libano (la costituzione lasciata nel '43 dai francesi stabilisce che i presidenti siano cristiani e i primi ministri musulmani), è volato a Tunisi la scorsa settimana per i negoziati condotti, in nome della Lega Araba, dall'ambasciatore del Kuwait in Siria. Ma diversi cristiani accusano l'ultimo dei Gemayel di essersi arricchito illecitamente durante la presidenza. E poi ormai vive a Parigi, ha chiesto il divorzio dalla moglie, convive con un'amante… e i maroniti storcono il naso.


Riuscirà il generale Aoun a diventare il nuovo eroe nazionale dei cristiani del Libano? Sta facendo del suo meglio. A nord dell'enclave il territorio controllato dal cristiano Suleiman Frangie, ottuagenario ex presidente, è sotto dominio siriano. Anche Pierre Hobeika, capo dei falangisti fino al 1986 e tristemente famoso per la strage di Sabra e Chatila, è passato con Damasco. Ma, a parte questi due "Giuda", il fronte cristiano ha ritrovato la sua compattezza contro la Siria. I due risultati più concreti degli scontri intercristiani di febbraio sono stati il ritorno del controllo dell'intero porto di Beirut nelle mani dell'esercito regolare, quindi dello Stato, e la chiusura del quotidiano Le Reveil. Era l'organo delle forze libanesi (falangisti più i liberali di Eddy Chamoun più i Guardiani del Cedro) e ha sospeso le pubblicazioni per un motivo molto semplice: l'edificio dove veniva stampato è passato sotto il controllo fisico dell'esercito.

Una disavventura simile, del resto, è toccata anche al principale quotidiano libanese scritto in francese, L'Orient Le Jour: ha la redazione a Beirut est, ma la tipografia all'ovest. Così, per essere venduto anche nell'enclave cristiana, viene spedito via telefax ogni notte.


Ma le Forze libanesi continuano a essere un potentissimo stato nello stato , nel Libano cristiano. Il traghetto che collega di notte Cipro al Libano (unico modo di arrivare a Beirut se l'aeroporto è chiuso) è di loro proprietà. Appena salito a bordo, sabato santo, mi sono accorto che il potere anche nel Libano cristiano è diviso in due: accanto al funzionario statale che controllava i passaporti c'era quello delle Forze Libanesi. 

Il traghetto viene spesso bombardato da drusi e siriani quando arriva al porto di Junie, 15 km a nord di Beirut, ma rimane l'unico contatto dell'enclave cristiana col mondo esterno. Infatti i siriani dal 20 marzo hanno bloccato tutti i passaggi fra Beirut est ed ovest. La linea verde, il confine fra le due Beirut, con quella specie di muro di Berlino improvvisato fatto di container che ostruiscono ogni via di accesso tranne i pochi passaggi ufficiali, è anch'essa spartita, dalla parte cristiana, fra esercito e miliziani delle Forze Libanesi. Queste ultime controllano la parte nord, vicina al mare. E qui, da 40 giorni ininterrottamente è stazionato il sottotenente Kafrouni. La milizia gli dà tutto: mangiare, dormire, vestiti e 200 dollari al mese. "Mi bastano, perchè non sono sposato". "Sei fidanzato?". "Sì". " E lei è contenta che non ritorni a casa da 40 giorni?". “È normale, è la guerra". " È più brutta questa guerra contro i siriani o quella del mese scorso contro l'esercito regolare?". "Con l'esercito c'è stato solo un piccolo problema. Con i siriani il problema è molto più profondo".