Tuesday, October 30, 2007

Abbiamo gli stipendi più bassi d'Europa

Solo spagnoli, greci e portoghesi guadagnano meno degli italiani

di Mauro Suttora

Roma, 24 ottobre 2007

C’è un malessere generale in Italia. Molti, moltissimi, hanno la sensazione che il loro lavoro non venga compensato adeguatamente. La scorsa estate un’indagine della Od&m su 5.600 dipendenti ha rivelato che l’80 per cento ritiene troppo basso il proprio stipendio rispetto al ruolo e all’esperienza accumulata.

Ancora peggio la valutazione rispetto all’impegno profuso: l’87 per cento si dichiara insoddisfatto. E non sono le solite lamentele, perché la rabbia aumenta guardando ai risultati delle aziende in cui si lavora: quasi tutte hanno ottenuto ottimi risultati, accumulando decine di milioni di profitti per gli azionisti. Insomma, l’economia va a gonfie vele, ma il ricco bottino non viene diviso equamente.

«È una situazione insostenibile», dichiara a Oggi Raffaele Bonanni, segretario Cisl, «che rischia di rompere il patto sociale di equità previsto dalla nostra Costituzione. Per questo il sindacato a metà novembre adotterà un’iniziativa molto forte». Scioperi? Rivendicazioni salariali? Richieste d’aumento ai padroni? No, precisa Bonanni: «Dobbiamo convincere il governo ad abbassare le aliquote dei lavoratori. In Italia sul lavoro dipendente pesa l’80 per cento dell’intero carico fiscale. Si tratterà di una vera e propria battaglia per l’equità».

Insomma, inutile chiedere aumenti se poi, ogni cento euro ottenuti, oltre la metà se ne va fra Irpef (che ora si chiama Ire, Imposta sul reddito) e contributi pensionistici, i quali però servono a pagare le pensioni di oggi: poco viene accantonato per quelle di domani. E non è finita qui, perché sui 40-50 euro rimanenti dobbiamo pagare un’Iva media del venti per cento ogni volta che compriamo qualcosa: le imposte sui consumi variano infatti dal quattro per cento su generi agevolati come alimentari e giornali, all’incredibile 65% della benzina (cominciò Mussolini a tassarla nel 1935, con la scusa che bisognava finanziare la guerra d’Etiopia).

Stretta nella tenaglia fra stipendi troppo bassi e tasse troppo alte, la classe media sta scomparendo. «Oggi in Italia, sempre di più, o si è ricchi o si è poveri», ha sintetizzato l’ultimo rapporto Censis. La fine del ceto medio: il titolo del libro scritto due anni fa da Massimo Gaggi ed Edoardo Narduzzi si è rivelato profetico. Guardate la tabella che pubblichiamo (qui accanto): professioni che fino a 20-30 anni fa garantivano una buona posizione sociale (professori, impiegati, bancari) sono pian piano scivolate in fondo alla classifica.

«Il malcontento che si registra tra i lavoratori dipendenti deriva dagli aumenti vertiginosi di prezzi al consumo e delle tariffe», spiega Bonanni, «con ricadute pesantissime sui bilanci familiari. Ma nessuno ha avuto la forza di contrastare i monopoli. Per questo vogliamo sgravi già in questa finanziaria per tutti i lavoratori dipendenti».

E pensare che molti lavoratori autonomi e tutti quelli precari invidiano chi ha comunque un posto fisso. Che vuol dire tranquillità psicologica, possibilità di programmare le spese, imposte e contributi Inps pagati dal datore di lavoro. Niente rischi, insomma, e lo stipendio garantito a fine mese.

«Ma ormai le buste paga sono ridotte a una miseria», denuncia Elio Lannutti dell’associazione consumatori Adusbef, «dopo la crisi innescata dall’euro. In questi sei anni, dal 2001 a oggi, si è verificata una speculazione senza precedenti da parte di chi ha potuto alzare indisturbato i prezzi, ai danni dei percettori di reddito fisso. Che quasi non se ne sono accorti, perché i commercianti hanno ottenuto di eliminare quasi subito i doppi prezzi in lire ed euro. Abbiamo calcolato in settanta miliardi di euro il trasferimento di ricchezza forzoso da questi ultimi ai primi».

È uno stillicidio che prosegue anche in queste settimane. Chiunque di noi, andando a fare la spesa, si accorge dei nuovi aumenti. Che ci costerano in media 700 euro all’anno, hanno calcolato le associazioni dei consumatori: dai venti euro in più per la revisione obbligatoria dell’auto (passata da 40 a 60 euro), all’aumento del bollo anche per auto piccole come la Panda (15 euro), fino al raddoppio per la pasta. «Le speculazioni più odiose avvengono nella filiera agroalimentare e nelle banche», avverte Lannutti. «Le intermediazioni di trasportatori e grossisti, per esempio, fanno aumentare l’uva da tavola pugliese dai 35 centesimi al chilo pagati ai produttori ai due euro dei nostri negozi. Quanto alle banche, basta osservare i loro utili record per accorgersi di quanti soldi prelevano dai nostri conti correnti e mutui».

Che fare, allora? «Il governo Prodi deve abbassare le aliquote Irpef», dicono sia Bonanni che Lannutti, «e non limitarsi a diminuire il prelievo sulle imprese». Particolarmente odiosa risulta l’aliquota minima del 23 per cento, che colpisce quei due italiani su tre che guadagnano meno di 1.300 euro al mese, e perfino i pensionati da poche centinaia di euro al mese. Poi, non deve più allargarsi la disparità fra gli stipendi: come si legge nella tabella, oggi gli impiegati in media quadagnano un quarto rispetto ai dirigenti. Ma fino a sei anni fa la differenza era di un terzo: si è quindi verificato un crollo dei redditi più bassi.

«Ho avvertito i rappresentanti delle banche: “Vi correranno dietro con i forconi”», minaccia Lannutti, «quando scopriranno che nei vostri forzieri conservate decine di miliardi di euro di fondi dormienti. Sta aumentando l’insofferenza contro la casta, non solo dei politici, ma anche di banche, assicurazioni e aziende che ottengono dal governo gli sgravi fiscali su Ires e Irap negati ai comuni cittadini».

Le detrazioni previste dalla Finanziaria, infatti, sono minime. Per esempio, quelle tanto sbandierate per i ventenni che affittano una casa (i «bamboccioni» derisi dal ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa) si riducono a 40-80 euro al mese, a fronte di monolocali affittati a 500 euro e più al mese nelle grandi città. Giovani e studenti, come tutti, si aspettano misure più consistenti.

Mauro Suttora

Wednesday, October 17, 2007

Walter Veltroni

Una giornata con il nuovo segretario del Partito democratico

di Mauro Suttora

Roma, 10 ottobre 2007

Mattiniero com’è, li stende tutti. Il sindaco di Roma Walter Veltroni si alza presto per i ritmi romani. È ancora un po’ buio quando esce dall’appartamento al primo piano dietro piazza Fiume dove vive con la moglie Flavia (figlia di un’ex senatrice del Pci) e le due figlie teenager Vittoria e Martina. Passa a prenderlo l’auto del Comune, e a quell’ora non c’è bisogno di sirene per farsi largo nel traffico.

Come Giulio Andreotti, ha il vezzo di dare appuntamenti anche prima delle otto a chi gli chiede udienza. «Ora poi il lavoro è raddoppiato: oltre che sindaco è anche candidato segretario del partito democratico», spiega un suo stretto collaboratore, «quindi non c’è altro modo per sbrigare tutti gli impegni».

Sperimentiamo anche noi un’alba frizzantina veltroniana quando, dopo aver chiesto di seguirlo per una giornata-tipo, ci propongono di trovarci alle otto sotto il Vittoriano. L’appuntamento sarebbe per le nove all’università Tor Vergata. Ma l’ufficio stampa offre ai giornalisti una navetta dal centro, perché il campus è all’estrema periferia sud, oltre il raccordo anulare, e il traffico è tremendo.

Quando arriviamo Veltroni è già lì, di fronte a un immenso buco fra i prati. «Qui fra due anni sorgerà la Città dello sport progettata dall’architetto Santiago Calatrava, con un nuovo palasport e lo stadio del nuoto per i mondiali del 2009», dice raggiante. «L’arco di Calatrava si vedrà dalle autostrade, sarà più alto del Colosseo, diventerà un nuovo simbolo di Roma. È l’intervento urbanistico più importante dai tempi dell’Eur».

Arriva trafelato in ritardo Giovanni Malagò, capo del comitato organizzatore dei mondiali (più famoso come padre delle figlie di Lucrezia Lante della Rovere): non ce l’ha fatta a rispettare il ritmo mattiniero di SuperWalter.

Più che una conferenza stampa è una chiacchierata fra amici, Veltroni distribuisce sorrisi e pacche sulle spalle a tutti. Nessun politico in Italia ha un rapporto migliore con i media, anche perché Walter ha una lunga dimestichezza personale con i giornalisti: nel 1984 divenne capo dell’ufficio stampa del Pci, e poi per quattro anni diresse il quotidiano del partito, L’Unità.

Ma si può dire che Veltroni sia nato in Rai, perché suo padre fu nel ’55 il primo direttore del Tg (una curiosità: nel ’38 curò la radiocronaca della visita di Hitler a Roma, quella del film Una giornata particolare con Sophia Loren e Marcello Mastroianni).

Purtroppo Vittorio Veltroni lascia orfano Walter ad appena un anno. La madre Ivanka, che era figlia dell’ambasciatore jugoslavo presso il Vaticano, divenne pure lei funzionaria Rai. E fu Walter, vent’anni fa, ad aprire la Rai al Pci, con l’assegnazione ai comunisti di Raitre, in cambio del via libera definitivo ai tre canali di Silvio Berlusconi patrocinati da Bettino Craxi.

Dopo la Città dello sport di Tor Vergata, che costerà 300 milioni, una puntatina nella vicina Tor Spaccata, dove il sindaco inaugura una casa per malati in «stato vegetativo persistente» (ovvero in coma), che grazie ad alcuni benefattori privati non costa nulla. E qui Veltroni, che ha scelto come motto l’I care (mi prendo a cuore) di don Milani, che va ogni anno a portare aiuti all’Africa (anzi, per la verità aveva improvvidamente annunciato che si sarebbe trasferito come volontario in quel continente dopo il mandato da sindaco), che ha fatto della solidarietà il suo distintivo e della mitezza il suo stile, si trova a suo agio fra la folla festante: «È importante che questo tipo di malati non debbano stare in ospedale, ma in una struttura dove possano essere accuditi dalle famiglie», dice.

Torniamo in Campidoglio, nel palazzo del Comune. Che si trova in posizione splendida, e infatti tutti gli ospiti internazionali di Veltroni spalancano gli occhi davanti alla vista del Foro Romano e del Colosseo.

Saliamo i gradini che portano alla piazza progettata da Michelangelo, passiamo davanti alla statua dell’imperatore-filosofo Marco Aurelio, pensiamo che questo era il colle più sacro della città più carica di storia della Terra, e capiamo perché il sindaco di Roma non possa che aspirare a cariche più alte.

Come quella di segretario del Partito democratico, fusione di Ds e Margherita, che contenderà a Forza Italia di Berlusconi la palma di primo partito italiano. Domenica 14 ottobre si svolgono le primarie, e tutti i sondaggi danno certa l’elezione di Veltroni. Le uniche due incognite sono il numero dei votanti (due anni fa Romano Prodi fu plebiscitato da quattro milioni di ulivisti, ora i democratici si accontenterebbero di un milione) e la percentuale che otterrà Walter (attorno al 70 per cento, si prevede). Tra gli altri candidati, i maggiori contendenti sono accreditati del 15 per cento (Rosy Bindi) e dell’8 per cento (Enrico Letta, nipote di Gianni).

Ma SuperWalter alle maggioranze assolute è abituato: nel 2001 fu eletto sindaco con il 53 per cento, l’anno scorso è stato confermato con il 61. Per lui ha votato un vastissimo arco di forze, dagli estremisti di sinistra dei centri sociali ai moderatissimi cattolici di Alberto Michelini.

Pochi ricordano che il termine «buonismo» è stato inventato da Ernesto Galli della Loggia, ma tutti oggi associano questa filosofia a Veltroni. Che vorrebbe andare sempre d’accordo con tutti: era comunista ma gli piacevano i Kennedy, e ora è di sinistra ma si fonde con i democristiani, avversari per mezzo secolo. Unica resistenza, la vita privata. «Per favore lasciate fuori la mia famiglia», ci prega. Sta andando a pranzo al ristorante con una figlia, ma non ci concede neanche una foto di famiglia.

Nel pomeriggio Walter abbandona la casacca da sindaco e va nel Nord Italia per un comizio come candidato democratico. Prende la macchina, ci invita con lui. Decliniamo: sappiamo che passa i viaggi in auto ininterrottamente al telefono. Perché SuperWalter arriva dappertutto, di persona o con uno squillo. Presenzialista sempre.

Mauro Suttora

Tuesday, October 16, 2007

SuperWalter

Veltroni: venti libri, quattro film

Il primo libro risale a trent’anni fa. Titolo: 1977, il Pci e la questione giovanile. Allora Veltroni aveva 22 anni, era appena stato eletto consigliere comunale a Roma, ma era iscritto ai giovani del Pci già dal ’70, si era messo con l’attuale compagna Flavia già da tre anni, era gà diventato segretario provinciale dei giovani comunisti sotto Massimo D’Alema, che era segretario nazionale.

Romanzi e saggi.
Dopo il primo, sono seguiti altri 19 titoli, fra saggi e romanzi. Ora quattro di loro diventano film. È appena uscito Piano, Solo con Kim Rossi Stuart, Jasmine Trinca, Michele Placido e Paola Cortellesi. Poi Gianni Amelio porterà nelle sale Senza Patricio, scritto da Veltroni dopo un viaggio in America Latina. Seguiranno Forse Dio è malato, diario di un viaggio in Africa, e La scoperta dell’alba, che Walter ha dedicato alla madre Ivanka.

Lo sport.
Il futuro segretario Pd un anno fa è stato eletto anche presidente della Lega basket.

Wednesday, October 10, 2007

Aung San Suu Kyi

CHI E' LA DONNA CHE FA TREMARE I GENERALI BIRMANI

di Mauro Suttora

Rangoon (Birmania), 10 ottobre 2007

Il fratello di suo bisnonno capeggiò gli oppositori degli inglesi, che nel 1886 annessero la Birmania al loro impero. Suo padre Aung San è il padre della Birmania libera: combattè contro inglesi e giapponesi, finì in prigione e, proprio come Gandhi in India, fu assassinato da alcuni compatrioti quando il suo Paese divenne indipendente nel 1947.

Aung San Suu Kyi allora aveva due anni. «Però mio padre lo ricordo bene, se non altro perché fino al 1988 la sua faccia campeggiava sulle banconote birmane», ha detto, con humour britannico.
Se la parola «eroe» si potesse pronunciare al femminile senza diventare diminutivamente «eroina», la si potrebbe chiamare così. Dimenticando che quella parola è anche il nome del prodotto più contrabbandato dai generali birmani che opprimono il Paese.

La signora Suu Kyi è viva. Questa è l’unica buona notizia arrivata dalla Birmania nell’ultima settimana. L’ha incontrata l’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari. Da anni soltanto lui può vederla. La signora è infatti in prigione o agli arresti domiciliari dal 1990, quando vinse le elezioni con l’82 per cento dei voti. L’ultima volta si erano incontrati a casa della Suu Kyi nel novembre 2006. Non si sa cosa si siano detti: il segreto è una delle condizioni che i dittatori impongono per autorizzare questi colloqui.

Nessuno saprà mai neanche quanti siano i morti della rivolta nonviolenta in corso in Birmania. Poche decine, come afferma la giunta militare? O centinaia, come dicono i dissidenti? L’ultima volta che i birmani si ribellarono ai propri soldati furono tremila. Per scendere in strada avevano scelto una data che pensavano beneaugurante: l’8/8/88. Invece quell’8 agosto fu un bagno di sangue. Come ora. Eppure anche allora si presentarono a mani nude di fronte ai fucili.

La signora Suu Kyi era appena tornata dall’autoesilio di 26 anni che si era inflitta dopo che i generali avevano imposto la dittatura nel 1962. Ed era tornata a Rangoon soltanto perché sua madre stava morendo. Ma i democratici la scelsero subito all’unanimità come loro leader, perché in Birmania la signora ha lo stesso prestigio che potrebbe avere in Italia una figlia di Garibaldi.
Aung San Suu Kyi si può veramente definire, assieme a pochissimi altri personaggi viventi, un eroe del mondo moderno. Nelson Mandela in Sudafrica, Vaclav Havel in Cecoslovacchia... Anche il polacco Lech Walesa e il russo Michail Gorbaciov hanno vinto il premio Nobel per la Pace - come la Suu Kyi nel ’91 - per avere acceso rivoluzioni nonviolente, ma sui loro nomi già si accende qualche discussione. Sulla signora birmana, invece, regna l’unanimità: è considerata un’apostola della libertà.

Ce la farà, o dovrà arrivare ai 26 anni di carcere di Mandela? Ce la faranno i ragazzi e i monaci di Rangoon, oppure finiranno come i giovani di piazza Tien An Men, falciati dai gerarchi comunisti cinesi nel 1989? Anche oggi la Cina c’entra, e molto, con la repressione orrenda degli inermi. La dittatura birmana infatti sta in piedi soltanto grazie all’appoggio di Pechino, che importa petrolio ed esporta le armi. Poi c’è la Russia, che si oppone a sanzioni economiche dell’Onu, e perfino la democratica India ha appena firmato un accordo commerciale con Than Shwe, il 69enne capo dei generali birmani.

Aung San Suu Kyi da 18 anni ripete la stessa mite parola: «Dialogo». Mai un appello alla rivolta e all’odio è uscito dalla sua bocca durante le rare interviste che ha potuto concedere. «Dobbiamo promuovere la riconciliazione del nostro popolo», è il suo ritornello. Anche dopo quel tremendo giorno del 2003, quando i militari le tesero un’imboscata e uccisero decine dei suoi sostenitori che la seguivano in auto durante uno dei suoi rarissimi momenti di semilibertà. Anche dopo che il 9 giugno 2006 ha dovuto essere ricoverata d’urgenza in ospedale per diarrea ed estrema debolezza.

Allora si era temuto il peggio.

Come nel ’99, quando Suu Kyi perse l’amato marito inglese Michael Aris: si era ammalato di cancro alla prostata tre anni prima, ma i militari non gli avevano mai dato il permesso di visitare per l’ultima volta sua moglie. Lei avrebbe potuto raggiungerlo a Londra, ma sapeva che se avesse lasciato la Birmania non avrebbe più potuto tornare. E fra l’amore per il proprio Paese e quello per il marito morente ha scelto il primo.

Si erano conosciuti all’università di Oxford nel ’67, l’allora 22enne bellissima Suu Kyi e Michael, studente buddhista di Storia asiatica. Era l’epoca dei Beatles e il buddhismo andava di moda, ma per lui era una cosa seria. Divenne professore delle stesse materie, e andò in Bhutan come istitutore del figlio del re. La sua giovane moglie fu felice di seguirlo, così come era stata felice di seguire la madre nel ’60 quando venne nominata ambasciatrice in India.

Speravano che prima o poi le cose in Birmania sarebbero migliorate, che la libertà sarebbe tornata e quindi anche loro sarebbero tornati. Invece niente. Così Suu Kyi tornò mestamente a Oxford con Michael, si sposarono nel ’72, ebbero due figli (Alexander, oggi 34 anni, e Kim, 30). Lei per due anni andò a lavorare all’Onu a New York. Poi tornò a Londra, una vita tranquilla con l’unico stipendio da professore del marito.

Insomma, come spesso accade, gli eroi diventano tali controvoglia. Non c’era e non c’è nulla nella signora Suu Kyi che possa infiammare gli animi. Nei suoi discorsi in pubblico non ha mai alzato la voce. Ha sempre predicato l’amore, la legalità, il rispetto. Una rivoluzionaria tranquilla.

Gli U2 nel 2001 le hanno dedicato la canzone "Walk On" (Continua a camminare). Poi nel 2004 le hanno offerto un intero disco ("For the Lady"), chiamando a registrarlo tutti i principali divi del rock: dai Coldplay ai R.E.M, da McCartney a Clapton e Sting.

Speriamo che la Lady prima o poi ce la faccia. Dolce e paziente, è il simbolo di tutte le donne della Terra. E i monaci e gli studenti che s’immolano per lei ci appaiono più forti e coraggiosi dei coetanei soldati che li uccidono tremando.

Mauro Suttora

Mostra di Gauguin a Roma

UN MILIARDARIO CALIFORNIANO ESPONE I GIOIELLI DELLA SUA COLLEZIONE

Santa Monica (Stati Uniti), 10 ottobre 2007

Il miliardario Richard Kelton guarda l’Oceano Pacifico dalla vetrata di casa sua, sul lungomare californiano di Santa Monica. «La vede quella barca attraccata laggiù? È la mia. Con lei ho attraversato questo oceano due volte, e l’Atlantico una dozzina. In tutto, negli ultimi vent’anni, ho navigato per settantamila miglia. E grazie a questa barca mi sono innamorato di Paul Gauguin».

Kelton, 77 anni, è il magnate di una delle maggiori imprese di costruzione d’America: la Bollenbacher & Kelton, fondata da suo padre nel 1937. «Avremo costruito 15 mila fra case e appartamenti, e decine di centri commerciali», racconta.

Negli anni Ottanta ha deciso di mollare un po’ gli affari, lasciandoli al figlio, per dedicarsi al suo hobby: la barca a vela. Regate, ma anche viaggi interminabili in mari perigliosi. «Abbiamo raggiunto isole remote della Polinesia, atolli dove gli aerei non possono atterrare, arcipelaghi come quelli della Società e delle isole Marchesi. Durante una di queste spedizioni, mentre passeggiavo per una strada vicina al porto di Papeete, sono entrato in un negozio di antiquariato. C’era una statua che mi piaceva, l’ho comprata per poche centinaia di dollari. Solo dopo qualche anno e parecchi studi sono giunto alla conclusione che è un lavoro di Gauguin».

A quell’acquisto fortuito ne sono seguiti molti altri. Oggi la Fondazione Kelton possiede la più grande collezione di arte aborigena australiana negli Stati Uniti. Ma, accanto a questa predilezione, Richard Kelton ne ha pure coltivata un’altra: quella per Gauguin, il genio che con Van Gogh e Cézanne traghettò la pittura dal XIX al XX secolo, dall’impressionismo alla modernità. «Ora ho una cinquantina di lavori di Gauguin. Quello che preferisco? Difficile dirlo». Kelton medita a lungo, come se gli avessimo chiesto quale dei suoi figli predilige. Poi si decide: «Le oche in stile giapponese del 1889, un olio su tela. È quello che attualmente campeggia qui, in mezzo alla mia sala».

Non più. Almeno fino al prossimo 3 febbraio. Kelton, infatti, ha deciso di concedere una trentina delle opere del pittore francese in suo possesso alla grande mostra che si apre a Roma sabato 6 ottobre, nelle sale del Vittoriano: Paul Gauguin. Artista di mito e sogno (150 tra oli, disegni, sculture e ceramiche, catalogo Skira). L’aveva fatto solo un’altra volta, due anni fa, prestando alcune opere a un museo danese: «Ma erano solo cinque», precisa. Questa volta, invece, è il meglio dell’intera collezione Kelton a varcare l’Atlantico.

È arrivato anche lui a Roma: ha voluto seguire personalmente il disimballaggio dei preziosi manufatti: quadri, ma anche statue e oggetti, come il Sarcofago della Resurrezione, una cassapanca di mezzo metro intagliata in legno dall’artista nell’inverno 1884, che trascorse a Copenaghen assieme alla moglie danese Mette.

Kelton non è un semplice collezionista. È anche un appassionato d’arte: negli anni ha studiato molto, tanto che ora può permettersi perfino di scrivere saggi su Gauguin. E di recensire quelli dei massimi esperti dell’artista, come The symbolism of Paul Gauguin: Erotica and Exotica di Henri Dorra, pubblicato quest’anno dalla University of California Press. Alcuni li loda, come quello dello svizzero Dario Gamboni che insegna a Ginevra («Il suo Ambiguity and Indeterminacy in Modern Art del 2004 è eccezionale, offre interpretazioni profonde di opere che ci sono familiari»). Altri li castiga: Nancy Mathews, che nel 2001 osò scrivere che Gauguin era violento e picchiava moglie e figli («Scrive per partito preso e senza prove»).

Per il catalogo della mostra (che presenta anche opere di prestigiosi musei come l’Ermitage e la National Gallery), Kelton ha preparato un corposo saggio su Gauguin. La sua tesi è che «ogni minimo particolare della sua opera rifletteva lo stato d’animo del momento.

«Tutto aveva un significato, tanto che in ogni suo lavoro si possono rintracciare simboli che ci fanno risalire ad aspetti della sua vita in quel periodo». E poiché la vita di Gauguin fu turbolenta e infelice, questa interpretazione cozza contro il luogo comune che vede, soprattutto nei dipinti strabordanti di colori del periodo tahitiano, un’immagine di fiabesca e lussuriosa tranquillità esotica.

«Tutt’altro», s’infervora Kelton. «Per esempio, il piccolo sarcofago realizzato per la moglie Mette appartiene a una delle fasi più disperate della sua vita. Il crollo della Borsa di Parigi del 1882 aveva scaraventato il 34enne agente di cambio Gauguin sul lastrico. Improvvisamente, dopo una vita agiata con moglie e cinque figli, perde il lavoro. Cerca di fare di necessità virtù dedicandosi a tempo pieno alla sua vera vocazione, la pittura, ma non riesce a vendere un quadro. La moglie non sopporta le ristrettezze e torna a casa dei suoi in Danimarca. Alla fine, anche lui deve seguirli, sperando di mantenersi a Copenaghen come agente di una ditta parigina, oppure insegnando francese come la moglie, o vendendo i suoi quadri.

«Niente di tutto ciò accade, e anzi l’alta società frequentata da Mette disprezza i suoi modi e vestiti da bohémien. Lei arriva a nasconderlo in soffitta, tanto che Paul si lamenta scrivendo all’amico Camille Pissarro: “Ho esaurito ogni risorsa di coraggio. Solo la pittura mi trattiene dall’impiccarmi”. Ma mentre intaglia il sarcofago il cupo inverno nordico finisce, e così lui associa simbolicamente la resurrezione con il rinnovamento primaverile. Su un fianco riproduce una ballerina di Degas, si ispira al Seneca di Delacroix per la figura all’interno, e la Maria Maddalena, peccatrice perdonata, è il simbolo delle ballerine di Parigi, a quell’epoca considerate più o meno come simpatiche prostitute. Ma in tutta l’opera di Gauguin abbondano i simboli religiosi, retaggio dei suoi cinque anni in seminario a Orléans, prima di imbarcarsi diciassettenne come marinaio».

Potrebbe andare avanti per ore a raccontare minuziosamente la vita del genio Gauguin, dalle sei mostre collettive con gli impressionisti negli anni Ottanta dell’Ottocento, all’amicizia e le liti con Van Gogh, questo miliardario appassionato delle opere che compra. Le isole Marchesi, dove l’artista morì 55enne nel 1903, lui le conosce bene. E ha ripercorso palmo a palmo tutte le vicende dell’autoesilio finale a Tahiti, navigando sulla propria barca. Un gauguiniano perfetto, insomma.

Mauro Suttora