Nel 1990 la signora della nonviolenza vinse le elezioni in Birmania con l’82 per cento. Finì agli arresti, isolata per 21 anni. Ma ora è libera, e il nuovo presidente promette un nuovo voto entro giugno
di Mauro Suttora
Rangoon, 4 gennaio 2012
Nelson Mandela è rimasto in prigione 27 anni. Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, è arrivata a 21 (seppure agli arresti domiciliari). I dittatori birmani la arrestarono nel 1990, dopo che vinse le prime elezioni libere conquistando l’82 per cento dei seggi. Lei non ha più potuto riabbracciare neppure il marito inglese, morto a Londra nel 1999.
Da qualche mese, però, le cose in Birmania sembrano cambiate. C’è una specie di Gorbaciov, il generale Thein Sein, presidente dallo scorso marzo, che sta liberalizzando il regime. Ha promesso nuove elezioni per il 2012. La signora Suu Kyi ha riacquistato la libertà, e questa volta il suo partito parteciperà al voto. Tutto sembra cambiato rispetto alle sanguinose proteste del 2007 guidate dai monaci buddisti, che emozionarono il mondo intero.
La signora è figlia del Garibaldi birmano: Aung San combattè contro inglesi e giapponesi, finì in prigione e, proprio come Gandhi in India, fu assassinato da alcuni compatrioti quando il suo Paese divenne indipendente nel 1947. Aung San Suu Kyi allora aveva due anni. «Però mio padre lo ricordo bene, anche perché fino al 1988 la sua faccia campeggiava sulle banconote birmane», ha detto, con humour britannico.
Lei andò in esilio con la famiglia nel ’62, quando i generali si impadronirono di questo stupendo Paese di 50 milioni di abitanti Tornò nell’88 a Rangoon solo perché sua madre stava morendo. Ma i democratici la scelsero subito all’unanimità come loro leader.
I generali non l’hanno liberata neanche dopo il 1991, quando le diedero il Nobel per la pace. La dittatura birmana sta in piedi solo grazie all’appoggio della vicina Cina, che importa petrolio ed esporta le armi. Poi c’è la Russia, che si è sempre opposta a sanzioni dell’Onu, e perfino la democratica India, che trova conveniente commerciare con la Birmania.
Ma adesso i generali cominciano a temere lo strapotere della Cina, e per la prima volta dal 1955 hanno invitato un segretario di Stato statunitense (Hillary Clinton) in visita ufficiale.
Mai una parola di odio
Restano ancora in prigione un migliaio di prigionieri politici, ma il clima è migliorato e Aung San Suu Kyi ha accettato di partecipare alle prossime elezioni. Lei da 22 anni ripete la stessa mite parola: «Dialogo». Mai un appello alla rivolta e all’odio è uscito dalla sua bocca: «Dobbiamo promuovere la riconciliazione del nostro popolo», è il suo ritornello.
Anche dopo quel tremendo giorno del 2003, quando i militari le tesero un’imboscata e uccisero decine dei suoi sostenitori che la seguivano in auto durante uno dei suoi rarissimi momenti di semilibertà. Anche dopo che nel 2006 ha dovuto essere ricoverata d’urgenza in ospedale per diarrea ed estrema debolezza.
Gli U2 nel 2001 le hanno dedicato la canzone Walk On (Continua a camminare). Poi nel 2004 le hanno offerto un intero disco (For the Lady), chiamando a registrarlo tutti i principali divi del rock: dai Coldplay ai R.E.M, da McCartney a Clapton e Sting. Il 2012 potrebbe essere l’anno della svolta.
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Wednesday, January 11, 2012
Tuesday, February 17, 2009
Coldplay verso Udine
Coldplay in mutande
"Che noia essere il signor Paltrow"
Libero, sabato 14 febbraio 2009
Stasera e domani i Coldplay suonano a Osaka in Giappone. Mercoledi saranno a Londra, poi da fine febbraio in Australia per mezzo mese, quindi Hong Kong, Singapore, Abu Dhabi… Fino a Udine il 31 agosto, stadio Friuli, unico concerto italiano del loro tour mondiale. Tutto esaurito, anche perché i loro prezzi sono onesti: 40-50 euro a biglietto contro i vergognosi 100-200 per gli U2 a San Siro in luglio.
«Se siamo la rock band più importante del mondo?», si schermisce il loro leader, cantante, chitarrista e pianista Chris Martin. «Non so se lo siamo mai stati, ma ora tornano gli U2 con il loro nuovo disco… Siamo solo stati i supplenti, occupando il loro posto per un po’».
Così risponde Martin a ‘60 Minutes’ sulla Cbs, il programma tv più prestigioso d’America. Che lo ha appena intervistato in coincidenza dell’ennesimo exploit: sette nomination e tre Grammy award (gli Oscar della musica) per il miglior disco rock del 2008 (‘Viva la Vida’, sette milioni di copie vendute in otto mesi), la migliore canzone e il migliore gruppo.
«Ma ci affidiamo più all’entusiasmo che alle nostre effettive capacità», confessa Martin. «Qualsiasi cosa si faccia, se lo si fa con entusiasmo alla gente piace di più. Io non so ballare come Usher, non so cantare come Beyonce, non so scrivere canzoni come Elton John. Ma cerchiamo di fare il massimo con quello che abbiamo».
Umili e riservati, ma anche gentili e pieni di senso dell’humour, appaiono i quattro moschettieri del rock del terzo millennio (unica novità di questi anni Zero, Rem e Oasis c’erano già da prima). Hanno trent’anni, stanno insieme da dodici, continuano a firmare democraticamente le loro canzoni con i nomi di tutti, anche se tutti sanno che la mente è Martin. Non hanno mai sbagliato un colpo: tutti i loro quattro dischi, da ‘Parachutes’ del 2000 in poi, hanno conquistato platini planetari.
Il loro segreto? «Uno solo: c’impegniamo molto, molto duramente», dice a ’60 Minutes’ il chitarrista Johnny Buckland. Tutti figli di professori, media borghesia, hanno cominciato nel quartiere di Camden a Londra. Laurea (Martin con lode in greco e latino, Buckland in matematica, il batterista Will Champion in antropologia), e firma del loro primo contratto discografico. Più facile di così…
Nei concerti suonano meticolosamente tutti i loro successi, da ‘Yellow’ in poi. Non si stancano, non fanno le bizze come certe rockstar che si rifiutano di eseguire alcuni pezzi, con la scusa che «non vogliono rimanere prigionieri di una sola canzone». «Alcune non le farei, perché non ci piacciono più particolarmente, ma gli spettatori hanno pagato caro il biglietto, sono venuti per ascoltare proprio quelle, e quindi le suoniamo». Michael Stipe dei Rem ha anche consigliato ai Coldplay di non variare troppo i brani live rispetto alla versione su disco, perché i fans sono abituati a quelle.
Martin spiega, scherzando ma non troppo, di utilizzare un particolare rilevatore di «customer satisfaction», soddisfazione del cliente: «Quando siamo sul palco non riusciamo a osservare molto la gente, però vediamo da lontano le luci dei corridoi di uscita. Così all’inizio di una tournée, per capire quali canzoni funzionano e quali no, se notiamo molte silhouettes di persone che ingombrano le uscite, vuol dire che la canzone che stiamo suonando probabilmente non è quella giusta, perché la gente preferisce uscire per farsi un hot dog o qualcos’altro… Mentre so che tutto va bene se le uscite illuminate rimangono vuote. E’ il nostro modo di giudicare, il “silhouette factor”…»
Martin non si sente la “rockstar” del nuovo millennio: «Rockstar, non mi piace questa parola. E poi non indosso i pantaloni giusti per essere una rockstar». Il bassista Guy Berryman però è felice, come gli altri, che sia Martin a catturare tutta l’attenzione dei paparazzi, anche per il suo matrimonio con l’attrice Gwyneth Paltrow: «Non riuscirei mai a uscire di casa con tutti quei fotografi!» «E’ una benedizione stare in questa band senza essere il cantante», sorride Champion.
«Invece io», ribatte Martin, «sogno il momento in cui tu, Will, improvvisamente ci dirai: “Ho deciso di diventare uno sgargiante batterista omosessuale, mi metterò vestiti incredibili e dirò cose pazzesche”. Mi sarebbe veramente d’aiuto per alleggerire la pressione e conquistare un po’ di tranquillità».
Ne avrebbe bisogno, Martin, per evitare le scenate un po’ penose cui lui, gentleman britannico, talvolta si abbandona aggredendo i fotografi per strada. Di solito accade quando è con Gwyneth, e anche con ’60 Minutes’ quando si affronta l’argomento Paltrow si chiude a riccio: «Per certi giornali divorzieremmo ogni settimana, e la settimana dopo i Coldplay si scioglierebbero. Come diceva Bob Dylan: “Sono contento che quello non sono io”».
Mauro Suttora
"Che noia essere il signor Paltrow"
Libero, sabato 14 febbraio 2009
Stasera e domani i Coldplay suonano a Osaka in Giappone. Mercoledi saranno a Londra, poi da fine febbraio in Australia per mezzo mese, quindi Hong Kong, Singapore, Abu Dhabi… Fino a Udine il 31 agosto, stadio Friuli, unico concerto italiano del loro tour mondiale. Tutto esaurito, anche perché i loro prezzi sono onesti: 40-50 euro a biglietto contro i vergognosi 100-200 per gli U2 a San Siro in luglio.
«Se siamo la rock band più importante del mondo?», si schermisce il loro leader, cantante, chitarrista e pianista Chris Martin. «Non so se lo siamo mai stati, ma ora tornano gli U2 con il loro nuovo disco… Siamo solo stati i supplenti, occupando il loro posto per un po’».
Così risponde Martin a ‘60 Minutes’ sulla Cbs, il programma tv più prestigioso d’America. Che lo ha appena intervistato in coincidenza dell’ennesimo exploit: sette nomination e tre Grammy award (gli Oscar della musica) per il miglior disco rock del 2008 (‘Viva la Vida’, sette milioni di copie vendute in otto mesi), la migliore canzone e il migliore gruppo.
«Ma ci affidiamo più all’entusiasmo che alle nostre effettive capacità», confessa Martin. «Qualsiasi cosa si faccia, se lo si fa con entusiasmo alla gente piace di più. Io non so ballare come Usher, non so cantare come Beyonce, non so scrivere canzoni come Elton John. Ma cerchiamo di fare il massimo con quello che abbiamo».
Umili e riservati, ma anche gentili e pieni di senso dell’humour, appaiono i quattro moschettieri del rock del terzo millennio (unica novità di questi anni Zero, Rem e Oasis c’erano già da prima). Hanno trent’anni, stanno insieme da dodici, continuano a firmare democraticamente le loro canzoni con i nomi di tutti, anche se tutti sanno che la mente è Martin. Non hanno mai sbagliato un colpo: tutti i loro quattro dischi, da ‘Parachutes’ del 2000 in poi, hanno conquistato platini planetari.
Il loro segreto? «Uno solo: c’impegniamo molto, molto duramente», dice a ’60 Minutes’ il chitarrista Johnny Buckland. Tutti figli di professori, media borghesia, hanno cominciato nel quartiere di Camden a Londra. Laurea (Martin con lode in greco e latino, Buckland in matematica, il batterista Will Champion in antropologia), e firma del loro primo contratto discografico. Più facile di così…
Nei concerti suonano meticolosamente tutti i loro successi, da ‘Yellow’ in poi. Non si stancano, non fanno le bizze come certe rockstar che si rifiutano di eseguire alcuni pezzi, con la scusa che «non vogliono rimanere prigionieri di una sola canzone». «Alcune non le farei, perché non ci piacciono più particolarmente, ma gli spettatori hanno pagato caro il biglietto, sono venuti per ascoltare proprio quelle, e quindi le suoniamo». Michael Stipe dei Rem ha anche consigliato ai Coldplay di non variare troppo i brani live rispetto alla versione su disco, perché i fans sono abituati a quelle.
Martin spiega, scherzando ma non troppo, di utilizzare un particolare rilevatore di «customer satisfaction», soddisfazione del cliente: «Quando siamo sul palco non riusciamo a osservare molto la gente, però vediamo da lontano le luci dei corridoi di uscita. Così all’inizio di una tournée, per capire quali canzoni funzionano e quali no, se notiamo molte silhouettes di persone che ingombrano le uscite, vuol dire che la canzone che stiamo suonando probabilmente non è quella giusta, perché la gente preferisce uscire per farsi un hot dog o qualcos’altro… Mentre so che tutto va bene se le uscite illuminate rimangono vuote. E’ il nostro modo di giudicare, il “silhouette factor”…»
Martin non si sente la “rockstar” del nuovo millennio: «Rockstar, non mi piace questa parola. E poi non indosso i pantaloni giusti per essere una rockstar». Il bassista Guy Berryman però è felice, come gli altri, che sia Martin a catturare tutta l’attenzione dei paparazzi, anche per il suo matrimonio con l’attrice Gwyneth Paltrow: «Non riuscirei mai a uscire di casa con tutti quei fotografi!» «E’ una benedizione stare in questa band senza essere il cantante», sorride Champion.
«Invece io», ribatte Martin, «sogno il momento in cui tu, Will, improvvisamente ci dirai: “Ho deciso di diventare uno sgargiante batterista omosessuale, mi metterò vestiti incredibili e dirò cose pazzesche”. Mi sarebbe veramente d’aiuto per alleggerire la pressione e conquistare un po’ di tranquillità».
Ne avrebbe bisogno, Martin, per evitare le scenate un po’ penose cui lui, gentleman britannico, talvolta si abbandona aggredendo i fotografi per strada. Di solito accade quando è con Gwyneth, e anche con ’60 Minutes’ quando si affronta l’argomento Paltrow si chiude a riccio: «Per certi giornali divorzieremmo ogni settimana, e la settimana dopo i Coldplay si scioglierebbero. Come diceva Bob Dylan: “Sono contento che quello non sono io”».
Mauro Suttora
Wednesday, October 10, 2007
Aung San Suu Kyi
CHI E' LA DONNA CHE FA TREMARE I GENERALI BIRMANI
di Mauro Suttora
Rangoon (Birmania), 10 ottobre 2007
Il fratello di suo bisnonno capeggiò gli oppositori degli inglesi, che nel 1886 annessero la Birmania al loro impero. Suo padre Aung San è il padre della Birmania libera: combattè contro inglesi e giapponesi, finì in prigione e, proprio come Gandhi in India, fu assassinato da alcuni compatrioti quando il suo Paese divenne indipendente nel 1947.
Aung San Suu Kyi allora aveva due anni. «Però mio padre lo ricordo bene, se non altro perché fino al 1988 la sua faccia campeggiava sulle banconote birmane», ha detto, con humour britannico.
Se la parola «eroe» si potesse pronunciare al femminile senza diventare diminutivamente «eroina», la si potrebbe chiamare così. Dimenticando che quella parola è anche il nome del prodotto più contrabbandato dai generali birmani che opprimono il Paese.
La signora Suu Kyi è viva. Questa è l’unica buona notizia arrivata dalla Birmania nell’ultima settimana. L’ha incontrata l’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari. Da anni soltanto lui può vederla. La signora è infatti in prigione o agli arresti domiciliari dal 1990, quando vinse le elezioni con l’82 per cento dei voti. L’ultima volta si erano incontrati a casa della Suu Kyi nel novembre 2006. Non si sa cosa si siano detti: il segreto è una delle condizioni che i dittatori impongono per autorizzare questi colloqui.
Nessuno saprà mai neanche quanti siano i morti della rivolta nonviolenta in corso in Birmania. Poche decine, come afferma la giunta militare? O centinaia, come dicono i dissidenti? L’ultima volta che i birmani si ribellarono ai propri soldati furono tremila. Per scendere in strada avevano scelto una data che pensavano beneaugurante: l’8/8/88. Invece quell’8 agosto fu un bagno di sangue. Come ora. Eppure anche allora si presentarono a mani nude di fronte ai fucili.
La signora Suu Kyi era appena tornata dall’autoesilio di 26 anni che si era inflitta dopo che i generali avevano imposto la dittatura nel 1962. Ed era tornata a Rangoon soltanto perché sua madre stava morendo. Ma i democratici la scelsero subito all’unanimità come loro leader, perché in Birmania la signora ha lo stesso prestigio che potrebbe avere in Italia una figlia di Garibaldi.
Aung San Suu Kyi si può veramente definire, assieme a pochissimi altri personaggi viventi, un eroe del mondo moderno. Nelson Mandela in Sudafrica, Vaclav Havel in Cecoslovacchia... Anche il polacco Lech Walesa e il russo Michail Gorbaciov hanno vinto il premio Nobel per la Pace - come la Suu Kyi nel ’91 - per avere acceso rivoluzioni nonviolente, ma sui loro nomi già si accende qualche discussione. Sulla signora birmana, invece, regna l’unanimità: è considerata un’apostola della libertà.
Ce la farà, o dovrà arrivare ai 26 anni di carcere di Mandela? Ce la faranno i ragazzi e i monaci di Rangoon, oppure finiranno come i giovani di piazza Tien An Men, falciati dai gerarchi comunisti cinesi nel 1989? Anche oggi la Cina c’entra, e molto, con la repressione orrenda degli inermi. La dittatura birmana infatti sta in piedi soltanto grazie all’appoggio di Pechino, che importa petrolio ed esporta le armi. Poi c’è la Russia, che si oppone a sanzioni economiche dell’Onu, e perfino la democratica India ha appena firmato un accordo commerciale con Than Shwe, il 69enne capo dei generali birmani.
Aung San Suu Kyi da 18 anni ripete la stessa mite parola: «Dialogo». Mai un appello alla rivolta e all’odio è uscito dalla sua bocca durante le rare interviste che ha potuto concedere. «Dobbiamo promuovere la riconciliazione del nostro popolo», è il suo ritornello. Anche dopo quel tremendo giorno del 2003, quando i militari le tesero un’imboscata e uccisero decine dei suoi sostenitori che la seguivano in auto durante uno dei suoi rarissimi momenti di semilibertà. Anche dopo che il 9 giugno 2006 ha dovuto essere ricoverata d’urgenza in ospedale per diarrea ed estrema debolezza.
Allora si era temuto il peggio.
Come nel ’99, quando Suu Kyi perse l’amato marito inglese Michael Aris: si era ammalato di cancro alla prostata tre anni prima, ma i militari non gli avevano mai dato il permesso di visitare per l’ultima volta sua moglie. Lei avrebbe potuto raggiungerlo a Londra, ma sapeva che se avesse lasciato la Birmania non avrebbe più potuto tornare. E fra l’amore per il proprio Paese e quello per il marito morente ha scelto il primo.
Si erano conosciuti all’università di Oxford nel ’67, l’allora 22enne bellissima Suu Kyi e Michael, studente buddhista di Storia asiatica. Era l’epoca dei Beatles e il buddhismo andava di moda, ma per lui era una cosa seria. Divenne professore delle stesse materie, e andò in Bhutan come istitutore del figlio del re. La sua giovane moglie fu felice di seguirlo, così come era stata felice di seguire la madre nel ’60 quando venne nominata ambasciatrice in India.
Speravano che prima o poi le cose in Birmania sarebbero migliorate, che la libertà sarebbe tornata e quindi anche loro sarebbero tornati. Invece niente. Così Suu Kyi tornò mestamente a Oxford con Michael, si sposarono nel ’72, ebbero due figli (Alexander, oggi 34 anni, e Kim, 30). Lei per due anni andò a lavorare all’Onu a New York. Poi tornò a Londra, una vita tranquilla con l’unico stipendio da professore del marito.
Insomma, come spesso accade, gli eroi diventano tali controvoglia. Non c’era e non c’è nulla nella signora Suu Kyi che possa infiammare gli animi. Nei suoi discorsi in pubblico non ha mai alzato la voce. Ha sempre predicato l’amore, la legalità, il rispetto. Una rivoluzionaria tranquilla.
Gli U2 nel 2001 le hanno dedicato la canzone "Walk On" (Continua a camminare). Poi nel 2004 le hanno offerto un intero disco ("For the Lady"), chiamando a registrarlo tutti i principali divi del rock: dai Coldplay ai R.E.M, da McCartney a Clapton e Sting.
Speriamo che la Lady prima o poi ce la faccia. Dolce e paziente, è il simbolo di tutte le donne della Terra. E i monaci e gli studenti che s’immolano per lei ci appaiono più forti e coraggiosi dei coetanei soldati che li uccidono tremando.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Rangoon (Birmania), 10 ottobre 2007
Il fratello di suo bisnonno capeggiò gli oppositori degli inglesi, che nel 1886 annessero la Birmania al loro impero. Suo padre Aung San è il padre della Birmania libera: combattè contro inglesi e giapponesi, finì in prigione e, proprio come Gandhi in India, fu assassinato da alcuni compatrioti quando il suo Paese divenne indipendente nel 1947.
Aung San Suu Kyi allora aveva due anni. «Però mio padre lo ricordo bene, se non altro perché fino al 1988 la sua faccia campeggiava sulle banconote birmane», ha detto, con humour britannico.
Se la parola «eroe» si potesse pronunciare al femminile senza diventare diminutivamente «eroina», la si potrebbe chiamare così. Dimenticando che quella parola è anche il nome del prodotto più contrabbandato dai generali birmani che opprimono il Paese.
La signora Suu Kyi è viva. Questa è l’unica buona notizia arrivata dalla Birmania nell’ultima settimana. L’ha incontrata l’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari. Da anni soltanto lui può vederla. La signora è infatti in prigione o agli arresti domiciliari dal 1990, quando vinse le elezioni con l’82 per cento dei voti. L’ultima volta si erano incontrati a casa della Suu Kyi nel novembre 2006. Non si sa cosa si siano detti: il segreto è una delle condizioni che i dittatori impongono per autorizzare questi colloqui.
Nessuno saprà mai neanche quanti siano i morti della rivolta nonviolenta in corso in Birmania. Poche decine, come afferma la giunta militare? O centinaia, come dicono i dissidenti? L’ultima volta che i birmani si ribellarono ai propri soldati furono tremila. Per scendere in strada avevano scelto una data che pensavano beneaugurante: l’8/8/88. Invece quell’8 agosto fu un bagno di sangue. Come ora. Eppure anche allora si presentarono a mani nude di fronte ai fucili.
La signora Suu Kyi era appena tornata dall’autoesilio di 26 anni che si era inflitta dopo che i generali avevano imposto la dittatura nel 1962. Ed era tornata a Rangoon soltanto perché sua madre stava morendo. Ma i democratici la scelsero subito all’unanimità come loro leader, perché in Birmania la signora ha lo stesso prestigio che potrebbe avere in Italia una figlia di Garibaldi.
Aung San Suu Kyi si può veramente definire, assieme a pochissimi altri personaggi viventi, un eroe del mondo moderno. Nelson Mandela in Sudafrica, Vaclav Havel in Cecoslovacchia... Anche il polacco Lech Walesa e il russo Michail Gorbaciov hanno vinto il premio Nobel per la Pace - come la Suu Kyi nel ’91 - per avere acceso rivoluzioni nonviolente, ma sui loro nomi già si accende qualche discussione. Sulla signora birmana, invece, regna l’unanimità: è considerata un’apostola della libertà.
Ce la farà, o dovrà arrivare ai 26 anni di carcere di Mandela? Ce la faranno i ragazzi e i monaci di Rangoon, oppure finiranno come i giovani di piazza Tien An Men, falciati dai gerarchi comunisti cinesi nel 1989? Anche oggi la Cina c’entra, e molto, con la repressione orrenda degli inermi. La dittatura birmana infatti sta in piedi soltanto grazie all’appoggio di Pechino, che importa petrolio ed esporta le armi. Poi c’è la Russia, che si oppone a sanzioni economiche dell’Onu, e perfino la democratica India ha appena firmato un accordo commerciale con Than Shwe, il 69enne capo dei generali birmani.
Aung San Suu Kyi da 18 anni ripete la stessa mite parola: «Dialogo». Mai un appello alla rivolta e all’odio è uscito dalla sua bocca durante le rare interviste che ha potuto concedere. «Dobbiamo promuovere la riconciliazione del nostro popolo», è il suo ritornello. Anche dopo quel tremendo giorno del 2003, quando i militari le tesero un’imboscata e uccisero decine dei suoi sostenitori che la seguivano in auto durante uno dei suoi rarissimi momenti di semilibertà. Anche dopo che il 9 giugno 2006 ha dovuto essere ricoverata d’urgenza in ospedale per diarrea ed estrema debolezza.
Allora si era temuto il peggio.
Come nel ’99, quando Suu Kyi perse l’amato marito inglese Michael Aris: si era ammalato di cancro alla prostata tre anni prima, ma i militari non gli avevano mai dato il permesso di visitare per l’ultima volta sua moglie. Lei avrebbe potuto raggiungerlo a Londra, ma sapeva che se avesse lasciato la Birmania non avrebbe più potuto tornare. E fra l’amore per il proprio Paese e quello per il marito morente ha scelto il primo.
Si erano conosciuti all’università di Oxford nel ’67, l’allora 22enne bellissima Suu Kyi e Michael, studente buddhista di Storia asiatica. Era l’epoca dei Beatles e il buddhismo andava di moda, ma per lui era una cosa seria. Divenne professore delle stesse materie, e andò in Bhutan come istitutore del figlio del re. La sua giovane moglie fu felice di seguirlo, così come era stata felice di seguire la madre nel ’60 quando venne nominata ambasciatrice in India.
Speravano che prima o poi le cose in Birmania sarebbero migliorate, che la libertà sarebbe tornata e quindi anche loro sarebbero tornati. Invece niente. Così Suu Kyi tornò mestamente a Oxford con Michael, si sposarono nel ’72, ebbero due figli (Alexander, oggi 34 anni, e Kim, 30). Lei per due anni andò a lavorare all’Onu a New York. Poi tornò a Londra, una vita tranquilla con l’unico stipendio da professore del marito.
Insomma, come spesso accade, gli eroi diventano tali controvoglia. Non c’era e non c’è nulla nella signora Suu Kyi che possa infiammare gli animi. Nei suoi discorsi in pubblico non ha mai alzato la voce. Ha sempre predicato l’amore, la legalità, il rispetto. Una rivoluzionaria tranquilla.
Gli U2 nel 2001 le hanno dedicato la canzone "Walk On" (Continua a camminare). Poi nel 2004 le hanno offerto un intero disco ("For the Lady"), chiamando a registrarlo tutti i principali divi del rock: dai Coldplay ai R.E.M, da McCartney a Clapton e Sting.
Speriamo che la Lady prima o poi ce la faccia. Dolce e paziente, è il simbolo di tutte le donne della Terra. E i monaci e gli studenti che s’immolano per lei ci appaiono più forti e coraggiosi dei coetanei soldati che li uccidono tremando.
Mauro Suttora
Wednesday, November 10, 2004
Tristi per la vittoria di Bush
DISPERAZIONE A HOLLYWOOD
di Mauro Suttora
10 novembre 2004
MICHAEL MOORE
Il regista 50enne premiato con l’Oscar nel 2003 per il documentario Bowling for Columbine, e con la Palma d’oro a Cannes quest’anno per il film anti-Bush Fahrenheit 9/11, mastica amaro. La sua propaganda cinematografica e i 63 comizi che ha tenuto in un mese non hanno avuto effetto sull’elettorato.
A Moore resta la consolazione pecuniaria: Fahrenheit 9/11 è distribuito da un mese in cassette e dvd negli Stati Uniti, e vende benissimo. Sul suo sito internet Moore ha pubblicato una nuova cartina dell’America con le zone pro-Kerry annesse al Canada e quelle pro-Bush, soprannominate «Jesusland».
BARBRA STREISAND
La cantante e attrice 62enne è stata la più impegnata contro Bush. Già dal 2001 ha incitato i democratici a «cacciare l’impostore» dalla Casa Bianca, e fino all’ultimo si è impegnata allo spasimo, anche mettendo mano al portafogli: ha finanziato i democratici con vari milioni di dollari.
Ma tutto questo attivismo, che ricorda quello del personaggio da lei interpretato in Com’eravamo con Robert Redford, è risultato inutile. Anche per lei, però, una consolazione: a dicembre esce il film Meet the Fockers (Ti presento gli stronzi), in cui fa la madre di Ben Stiller, la moglie di Dustin Hoffman e la consuocera di Robert de Niro e di Blythe Danner (mamma di Gwyneth Paltrow) nel seguito di Ti presento i miei.
REM
Il concerto del 4 novembre al Madison Square Garden di New York avrebbe dovuto essere una festa per la vittoria del democratico John Kerry. Invece ha vinto George Bush, e per i Rem è stata una serata tristissima. «Oggi è un giorno molto strano», ha ammesso il cantante e leader 45enne del complesso, Michael Stipe.
I Rem si erano impegnati molto nella campagna presidenziale: tutta la loro tournée di ottobre è stata dedicata a convincere i fans al voto contro Bush. Resta la musica, bella come sempre per questa band in attività da ben 23 anni, e ancora considerata fra le migliori del mondo assieme a U2 e Coldplay.
CAMERON DIAZ
La bella attrice 32enne era addirittura scoppiata a piangere durante un’apparizione tv nel talk show pomeridiano di Oprah Winfrey (il più seguito d’America), quando ha supplicato i giovani ad andare a votare: «Se volete che lo stupro diventi legale, non andateci», ha detto, dando così a intendere che Bush sia favorevole a legalizzare lo stupro.
La fidanzata del cantante Justin Timberlake (di nove anni più giovane) è riuscita a convincere i 18-24enni statunitensi a votare, e secondo le speranze i giovani si sono espressi per Kerry 54 a 46. Ma tutto ciò non è bastato per battere Bush.
BRUCE SPRINGSTEEN
Ha organizzato una mobilitazione di cantanti senza precedenti per un candidato presidenziale: 37 concerti in 30 città a favore di Kerry. «L’America non ha sempre ragione», aveva detto il «Boss» 55enne, «questa è una favola per bambini, però l’America è sempre vera, ed è cercando questa verità che troviamo un patriottismo più profondo».
Ha convinto molti a suonare con lui, dai Pearl Jam a Jackson Browne, da James Taylor alle Dixie Chicks. Ma non è riuscito a convincere il 51 per cento degli elettori che ha confermato Bush.
WHOOPI GOLDBERG
La simpatica attrice 49enne ha pagato di persona (e caro) il suo gioco di parole lo scorso luglio al Radio City Music Hall di New York, dove aveva fatto raccogliere sette milioni di dollari per i democratici durante un gala con Paul Newman, Meryl Streep, Jessica Lange e Jon Bon Jovi. Aveva preso in giro il cognome del presidente, associando «Bush» («cespuglio») a una zona intima del corpo. Subito la società Slim-Fast, con sede in Florida (stato governato da Jeb Bush, fratello di George), le ha tolto un contratto pubblicitario miliardario.
di Mauro Suttora
10 novembre 2004
MICHAEL MOORE
Il regista 50enne premiato con l’Oscar nel 2003 per il documentario Bowling for Columbine, e con la Palma d’oro a Cannes quest’anno per il film anti-Bush Fahrenheit 9/11, mastica amaro. La sua propaganda cinematografica e i 63 comizi che ha tenuto in un mese non hanno avuto effetto sull’elettorato.
A Moore resta la consolazione pecuniaria: Fahrenheit 9/11 è distribuito da un mese in cassette e dvd negli Stati Uniti, e vende benissimo. Sul suo sito internet Moore ha pubblicato una nuova cartina dell’America con le zone pro-Kerry annesse al Canada e quelle pro-Bush, soprannominate «Jesusland».
BARBRA STREISAND
La cantante e attrice 62enne è stata la più impegnata contro Bush. Già dal 2001 ha incitato i democratici a «cacciare l’impostore» dalla Casa Bianca, e fino all’ultimo si è impegnata allo spasimo, anche mettendo mano al portafogli: ha finanziato i democratici con vari milioni di dollari.
Ma tutto questo attivismo, che ricorda quello del personaggio da lei interpretato in Com’eravamo con Robert Redford, è risultato inutile. Anche per lei, però, una consolazione: a dicembre esce il film Meet the Fockers (Ti presento gli stronzi), in cui fa la madre di Ben Stiller, la moglie di Dustin Hoffman e la consuocera di Robert de Niro e di Blythe Danner (mamma di Gwyneth Paltrow) nel seguito di Ti presento i miei.
REM
Il concerto del 4 novembre al Madison Square Garden di New York avrebbe dovuto essere una festa per la vittoria del democratico John Kerry. Invece ha vinto George Bush, e per i Rem è stata una serata tristissima. «Oggi è un giorno molto strano», ha ammesso il cantante e leader 45enne del complesso, Michael Stipe.
I Rem si erano impegnati molto nella campagna presidenziale: tutta la loro tournée di ottobre è stata dedicata a convincere i fans al voto contro Bush. Resta la musica, bella come sempre per questa band in attività da ben 23 anni, e ancora considerata fra le migliori del mondo assieme a U2 e Coldplay.
CAMERON DIAZ
La bella attrice 32enne era addirittura scoppiata a piangere durante un’apparizione tv nel talk show pomeridiano di Oprah Winfrey (il più seguito d’America), quando ha supplicato i giovani ad andare a votare: «Se volete che lo stupro diventi legale, non andateci», ha detto, dando così a intendere che Bush sia favorevole a legalizzare lo stupro.
La fidanzata del cantante Justin Timberlake (di nove anni più giovane) è riuscita a convincere i 18-24enni statunitensi a votare, e secondo le speranze i giovani si sono espressi per Kerry 54 a 46. Ma tutto ciò non è bastato per battere Bush.
BRUCE SPRINGSTEEN
Ha organizzato una mobilitazione di cantanti senza precedenti per un candidato presidenziale: 37 concerti in 30 città a favore di Kerry. «L’America non ha sempre ragione», aveva detto il «Boss» 55enne, «questa è una favola per bambini, però l’America è sempre vera, ed è cercando questa verità che troviamo un patriottismo più profondo».
Ha convinto molti a suonare con lui, dai Pearl Jam a Jackson Browne, da James Taylor alle Dixie Chicks. Ma non è riuscito a convincere il 51 per cento degli elettori che ha confermato Bush.
WHOOPI GOLDBERG
La simpatica attrice 49enne ha pagato di persona (e caro) il suo gioco di parole lo scorso luglio al Radio City Music Hall di New York, dove aveva fatto raccogliere sette milioni di dollari per i democratici durante un gala con Paul Newman, Meryl Streep, Jessica Lange e Jon Bon Jovi. Aveva preso in giro il cognome del presidente, associando «Bush» («cespuglio») a una zona intima del corpo. Subito la società Slim-Fast, con sede in Florida (stato governato da Jeb Bush, fratello di George), le ha tolto un contratto pubblicitario miliardario.
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