Saturday, February 15, 2025
Dite a Vance che la libertà di parola nasce a sinistra
Monday, February 03, 2025
Beatles e Stones premiati ai Grammy. Stavolta il rock è davvero morto
Se infatti occorre assegnare premi postumi resuscitando John Lennon, autore di Now and Then, o premiare ultraottuagenari sgambettanti come Mick Jagger, non è più vero che il "rock and roll will never die", come cantava Neil Young
di Mauro Suttora
Huffingtonpost.it, 3 febbraio 2025
Beatles e Rolling Stones incredibilmente assieme dopo 60 anni. Hanno vinto il Grammy (l'Oscar della musica), i primi per la 'migliore performance rock' con Now and Then, i secondi per il 'miglior album rock' con Hackney Diamonds. Ma questi due trionfi sanciscono la morte del rock. Se infatti occorre assegnare premi postumi resuscitando John Lennon, autore di Now and Then, o premiare ultraottuagenari sgambettanti come Mick Jagger, non è più vero che il "rock and roll will never die", come cantava Neil Young.
Il rock è morto perché ormai esprime poco o nulla. In mancanza degli unici gruppi che avrebbero potuto rivaleggiare con i vecchi mostri sacri, U2 e Coldplay, i nominati infatti erano altri signori di mezza età su piazza da decenni: Green Day, Jack White, Pearl Jam, Black Crowes. Anche gli Idles sono +40. Gli unici giovani sono i Fontaines, ma anche loro con sei album alle spalle.
Così, per sopravvivere, il rock deve affidarsi a mummie come gli Stones che hanno appena cancellato il loro tour europeo, o a rifacimenti con l'intelligenza artificale di canzoncine tirate fuori dal cassetto di Yoko Ono, vedova Lennon.
Nessuno nega la loro grandezza, probabilmente Paul McCartney è stato il maggiore musicista del '900. Ma ormai è da un quarto di secolo che siamo entrati nel nuovo millennio, e continuare a premiare i Beatles è desolante. Se poi a tanto vecchiume aggiungiamo il (bellissimo) film sull'83enne Bob Dylan, 'A Complete Unknown', che fra tre settimane spazzolerà premi Oscar, lo stato comatoso del rock attuale è certificato definitivamente.
Già nel 1959 il giorno in cui morirono in un incidente aereo i protorocker Buddy Holly e Ritchie Valens fu definito "the day the music died". Oggi siamo in grado di confermarlo.
Tuesday, December 24, 2024
Vasco, Salvini e l’hashish: anche il principe dei libertari cede al perbenismo
di Mauro Suttora
Fumare e poi guidare: il rocker se la prende giustamente con il ministro: “E chi lo fa a scopo terapeutico?”, chiede. E chi lo fa – chiediamo noi – perché è una sua precisa libertà?
24 dicembre 2024
“No Vasco, io non ci casco", cantò Jovanotti a Sanremo 35 anni fa. E invece ora c'è cascato perfino lui, il principe dei libertari italiani. Ha ribadito le sue critiche al nuovo codice della strada che colpisce chi si è fumato una canna anche vari giorni prima di guidare, visto che le tracce (diversamente dall’alcol) rimangono a lungo nel sangue. Ma a Luca Valtorta che lo intervistava su Repubblica, Vasco Rossi ha precisato: “È un'ingiusta caccia a comportamenti perfettamente legali, come l’utilizzo della cannabis a scopo terapeutico”.
Quindi anche per lui gli spinelli vanno bene, ma solo quando il tetraidrocannabinolo è usato come analgesico.
E chi invece vuole fumarsi un po’ di marijuana in santa pace, solo perché gli piace, e dopo non è così fesso da mettersi subito in macchina? Possibile che la libertà in Italia debba sempre ammantarsi di perbenismo, per paura di non essere accettata? Se persino Vasco cede a questa ipocrisia, dolciastra quanto l’odore dell’hashish che mi avvolge ogni volta che passo davanti all’aperitivoteca sotto casa qui a Milano, siamo messi male.
Perché è da 60 anni che un giovane su due fuma canne. Bob Dylan fece scoprire il primo spinello ai Beatles quando lo andarono a trovare all’hotel Delmonico di New York nel 1964, e da allora le loro canzoni migliorarono nettamente.
Ormai – si sperava – il fascino della trasgressione è evaporato. Resta solo il fascismo ebete dei convinti che il “male” si combatta proibendolo, cedendo all’illusione di un riflesso autoritario solo apparentemente buonsensista. Con l’unico risultato di regalare miliardi alle mafie, e di legare lo spaccio della marihuana a quello di altre sostanze più pericolose.
Invece anche il povero Vasco è costretto, 72enne, a fingersi timido piccolo-borghese:
“Ho voluto provocare il dibattito e attirare l’attenzione sperando che il ministro ci ripensi e rinunci a quella assurda, propagandistica modifica della vecchia legge che prevedeva già il ritiro della patente per chi guida sotto l’effetto di cannabis. Ma dopo una settimana si guida perfettamente lucidi. È una cosa inaccettabile che dovrebbe essere evidente a chiunque! Qui non si salvano vite, ma se ne rovinano molte altre”.
Tutto giusto. Perfetto. Tranne che subito dopo ha sentito il bisogno di limitare il lecito alla canna come medicina, forse per accattivarsi i bigotti.
Eppure da nove mesi l’hashish è libero perfino nella seria e severa Germania. Anche “a scopo ricreativo”, come dicono i burocrati. Se fosse vivo, l’altro sommo libertario Marco Pannella tirerebbe le orecchie al suo amico Vasco, perennemente iscritto al partito radicale. Farebbe leggere a lui e a Matteo Salvini Fuga dalla libertà di Erich Fromm. E ascoltare Ma liberté di Georges Moustaki, tradotta dal liberale Bruno Lauzi: “Oh, libertà, ti ho conservata a lungo, come una perla rara”.
Sunday, December 31, 2023
Per Bob Dylan Israele è il "bullo del quartiere"
di Mauro Suttora
Il premio Nobel compone la canzone 'Neighborhood Bully' dopo l'invasione israeliana del Libano e l'occupazione di Beirut, durante la quale avviene la strage di Sabra e Chatila. Anche allora, come oggi, Israele è criticato dal mondo intero per i suoi metodi violenti e sbrigativi
31 dicembre 2023
"Il bullo del quartiere è solo contro un milione. I suoi nemici dicono che occupa la loro terra, lo sovrastano di numero, lui non ha alcun posto dove scappare".
Una delle migliori descrizioni di Israele è quella cantata dall'ebreo americano Bob Dylan 40 anni fa, nel 1983. Il premio Nobel compone la canzone 'Neighborhood Bully' dopo l'invasione israeliana del Libano e l'occupazione di Beirut, durante la quale avviene la strage di Sabra e Chatila. Anche allora, come oggi, Israele è criticato dal mondo intero per i suoi metodi violenti e sbrigativi.
È la prima volta che Dylan torna alla canzone politica dopo 'Hurricane' del 1975. Ma l'autore dei principali inni antimilitaristi e nonviolenti degli anni '60 ora è schierato completamente dalla parte di Israele.
"Il bullo del quartiere vive solo per sopravvivere, viene condannato perché è ancora in vita.
Dicono che non dovrebbe rispondere agli attacchi, che con la sua pelle dura dovrebbe lasciarsi uccidere quando gli sfondano la porta.
È stato cacciato da ogni terra, ha vagato in esilio per il mondo.
Ha visto disperdere la sua famiglia, la sua gente perseguitata e fatta a pezzi, ma è sempre sotto processo per il solo fatto di essere nato.
Ha eliminato la folla che voleva linciarlo, ma dicono che deve scusarsi.
Poi ha distrutto una fabbrica di bombe, le bombe erano per lui, ma avrebbe dovuto sentirsi colpevole.
La sorte gli è avversa, le probabilità che viva secondo le regole che il mondo crea per lui sono minime, perché ha un cappio al collo, un fucile alla schiena, e a qualsiasi fanatico viene concessa licenza di ucciderlo.
Non ha veri alleati, deve pagare per tutto, non gli danno niente per amore.
Gli permettono di comprare armi obsolete, ma nessuno combatte anima e corpo al suo fianco.
È circondato da pacifisti, tutti vogliono la pace.
Pregano che cessi lo spargimento di sangue, non farebbero male a una mosca, piangerebbero nel farlo.
Aspettano seduti che il bullo si addormenti.
Ogni impero che l'ha fatto schiavo è scomparso: Egitto, Roma, anche Babilonia.
Ha trasformato la sabbia del deserto in un giardino paradisiaco.
Non va a letto con nessuno, nessuno lo comanda.
I suoi libri più sacri sono calpestati, nessun contratto che ha firmato vale la carta su cui è scritto.
Ha preso le briciole del mondo e le ha tramutate in ricchezza, le malattie in salute.
Qualcuno è in debito con lui? Nessuno, dicono.
Gli piace causare guerre, orgoglio, pregiudizi, superstizioni.
Aspettano il bullo come un cane aspetta il cibo.
Cos'ha fatto per avere così tante cicatrici?
Cambia il corso dei fiumi, inquina la luna e le stelle?
Il bullo del quartiere sta sulla collina, l'orologio si esaurisce.
Il tempo è immobile".
Wednesday, December 06, 2023
In sessanta giorni, Israele non ne ha azzeccata una
Il 7 ottobre è stato un dramma, il seguito pure: l’azione militare non è servita a liberare un ostaggio, a catturare un terrorista. Le bombe su Gaza paiono una vendetta furiosa condotta alla cieca. Che fine hanno fatto i leggendari servizi segreti israeliani? Domande sul futuro.
di Mauro Suttora
Huffingtonpost.it, 6 dicembre 2023
Diciamoci la verità: è in corso un secondo dramma per gli israeliani, dopo la strage del 7 ottobre. In questi due mesi non sono riusciti a liberare un solo ostaggio, a catturare un solo terrorista fra quelli individuati nei video della mattanza, a scoprire il quartier generale di Hamas, che non era sotto l’ospedale Shifa. E neppure a fermare i lanci di razzi palestinesi da Gaza, che costringono ancora centinaia di migliaia di israeliani a nascondersi nei rifugi di giorno e di notte.
Per non parlare del crollo di reputazione provocato dai 15mila palestinesi ammazzati a Gaza: anche togliendo uno zero alla cifra sparata dalla propaganda Hamas, si insinua l'impressione di un disperato replay del “Muoia Sansone con tutti i filistei!” antico tre millenni: una vendetta furiosa condotta abbastanza alla cieca, lontana dall’abituale precisione chirurgica israeliana che minimizzava i “danni collaterali”.
Per ironia della sorte, i philistin del 2000 a.C. abitavano proprio la zona di Gaza. Oggi le immagini della Striscia rasa al suolo si sovrappongono fatalmente a quelle degli sgozzamenti medievali nei kibbutz, facendole sbiadire.
Insomma, in questi 60 giorni Mossad e Shin Bet hanno continuato a perdere la loro leggendaria aura di servizi segreti più efficienti del mondo: un’ulteriore drammatica sconfitta, dopo quella del 7 ottobre. I loro informatori palestinesi vengono torturati, uccisi e appesi ai lampioni se scoperti o anche solo sospettati da Hamas, Jihad o Hezbollah. La rete di spie arabe non può più garantire l’invincibilità di Israele.
Perciò ora la domanda cruciale è: questo nuovo, inedito senso di insicurezza che gli israeliani provano per la prima volta dal 1948 provocherà un loro indurimento o ammorbidimento? Di solito soltanto i vincitori possono permettersi di essere magnanimi e generosi, mentre gli sconfitti covano frustrazione e voglia di vendetta. Ma la forza può anche trasformarsi in arroganza, mentre una consapevole debolezza spinge a compromessi.
Quindi, prosaicamente: alle prossime elezioni vinceranno i falchi o le colombe, la destra o la sinistra? Israele continuerà a imbottire la Cisgiordania di propri coloni che vaneggiano di Giudea e Samaria, o permetterà sul serio, 30 anni dopo Oslo, uno stato di Palestina indipendente, e quindi non à pois?
Idem per i palestinesi. I massacri di Gaza li renderanno più aggressivi o ragionevoli? Le scene di giubilo bellicoso per la liberazione dei loro prigionieri in cambio degli ostaggi ebrei non promettono bene. I fanatici di Hamas si rafforzeranno, o prevarrà la ragionevolezza di Anp e Fatah?
La banale risposta è: come in ogni conflitto, gli estremisti di entrambe le parti sono i migliori alleati reciproci. Si rinforzano a vicenda, nel convincersi che gli avversari capiscano solo il linguaggio della violenza.
Due mesi di guerra in Israele/Palestina, e quasi due anni in Ucraina. Purtroppo le dinamiche psicologiche collettive sono simili. Senza voler parificare aggressori e aggrediti: i primi restano Putin e Hamas, nonostante le recriminazioni su torti veri o presunti che possono aver subìto in passato Russia e palestinesi, di cui queste due escrescenze cancerose si spacciano rappresentanti e paladini.
Ma il fallimento della troppo annunciata controffensiva ucraina risulta deprimente quanto il disastro israeliano di queste otto settimane. Ci aggrappiamo ancora alla speranza che Vladimir Putin e Hamas si logorino fino a spezzarsi. Ipotizziamo nuovi leader a Gaza, Ramallah, Gerusalemme, Mosca: dotati, se non della lungimiranza di un Nelson Mandela, almeno del realismo dei vari Sadat, Begin, Rabin, Peres, o degli ultimi Sharon e Arafat in versione illuminata.
Il palestinese Marwan Barghouti (lo incontrai 35 anni fa, grande carisma) e l’israeliano Benjamin Gantz sono coetanei, nati a tre giorni e 40 chilometri di distanza nel giugno 1959: riusciranno a vincere anch’essi un Nobel della pace fra qualche anno?
Forse è solo la speranza di un disperato. Ma, come canta l’artista ebreo più famoso al mondo, Bob Dylan: “L’ora più buia è proprio quella prima dell’alba”.
Thursday, July 29, 2021
Concerto per il Bangladesh: mezzo secolo di carità in musica
L’era dei grandi concerti rock di beneficenza inizia l′1 agosto 1971 con l'idea di George Harrison
di Mauro Suttora
HuffPost, 29 luglio 2021
È tutto cominciato 50 anni fa al Madison Square Garden di New York: l’era dei grandi concerti rock di beneficenza inizia l′1 agosto 1971 con quello per il Bangladesh organizzato da George Harrison.
Il più giovane e tranquillo dei Beatles era appassionato di India da quando, primo al mondo, inserì un sitar nella canzone ‘Norwegian Wood’. Poi l’infatuazione per il guru Maharishi, le inascoltabili nenie indiane piazzate nei dischi dei Fab Four e il pellegrinaggio collettivo sul Gange (dove fece gettare le sue ceneri nel 2001). L’atarassia raggiunta grazie all’induismo gli servì soprattutto per sopportare il tradimento della moglie Pattie Boyd col suo migliore amico, Eric Clapton.
Quando scoppia la guerra di indipendenza del Bangladesh contro il Pakistan, a ruota arriva una tremenda carestia. Il sitarista Ravi Shankar (poi padre di Norah Jones) prega Harrison di fare qualcosa. E in sole cinque settimane George organizza il concerto di raccolta fondi.
È la quinta grande storica esibizione rock dopo quelle di Monterey 1967 (con gli hippies di San Francisco), Woodstock 1969, Altamont con il morto durante il set degli Stones, e l’annuale kermesse europea dell’isola di Wight, dal 1968 al ’70.
Ma è il primo benefit concert. Un centinaio di milioni di dollari andarono agli affamati grazie agli incassi di biglietti, dischi e film. Però le liti col fisco Usa che non voleva applicare l’aliquota agevolata riconosciuta alle fondazioni (Harrison non pensò a costituirne una) si protrassero per dieci anni.
Musicalmente, il concerto fu un miracolo. Harrison riuscì a riportare Bob Dylan su un palco Usa dopo ben cinque anni. E se John Lennon avesse accettato di esibirsi senza Yoko, e Paul McCartney si fosse irrigidito per la presenza dell’odiato manager Allen Klein, si sarebbero riformati i Beatles.
Infatti il batterista Ringo Starr era presente, anche se dimenticò le parole della sua canzone (‘It Don’t Come Easy’). Nel supergruppo brillavano Clapton alla chitarra solista e al piano Leon Russell, reduce da un trionfale tour mondiale con Joe Cocker.
Probabilmente la versione di ‘My Sweet Lord’ del concerto è migliore di quella con cui Harrison aveva appena dominato le hit parades del pianeta. Era lui il Beatle che, dopo lo scioglimento del 1970, aveva raccolto i maggiori successi. Lennon lo eguagliò pochi mesi dopo con ‘Imagine’. E McCartney solo nel 1973 con ‘My love’.
Dopo il concerto per il Bangladesh sono state tante le buone cause accoppiate a buona musica, fino all’ineguagliato exploit intercontinentale del 1985 con il Live Aid di Bob Geldof, e ai numerosi Pavarotti & Friends.
Dal No Nukes del 1979 al concerto per New York dopo l′11 settembre 2001, fino all’ultimo prima della pandemia, per le vittime degli incendi in Australia nel febbraio 2020, le rockstar si sono esibite spesso gratis.
A volte perfino troppo, quando hanno approfittato dei benefit concert per rinverdire fortune declinanti. Scherzò una volta Jackson Browne: “Cosa farebbero Crosby, Stills e Nash senza i charity?”
Mauro Suttora
Thursday, July 30, 2020
It's all too much, è tutto troppo
Sunday, May 31, 2020
La sfida dei neri d'America
Wednesday, February 08, 2017
Mamma Trump arrivò negli Usa con 50$
Thursday, December 01, 2016
Bob Dylan snobba la cerimonia del premio Nobel
niente conversazione / mentre salivo sul palco a ricevere la laurea /
Era tutto buio, puzza di tomba / volevo andarmene, faceva caldissimo/
al tipo vicino a me esplodeva la testa/ pregavo che i pezzi non mi finissero addosso/
Mi tolsi la toga, presi il diploma / scappai con la mia ragazza /
verso le colline del Dakota / felice di esserne uscito vivo".
Vita privata dei Trump
Wednesday, October 19, 2016
Premio Nobel a Bob Dylan
Wednesday, November 19, 2014
Eutanasia a Paradiso
dal nostro inviato Mauro Suttora
settimanale Oggi, 12 novembre 2014
Benvenuti in Paradiso. Qui, in questo ricco sobborgo a sud di Lugano, 15 chilometri dal confine con l’Italia, sta per aprire la prima clinica per l’eutanasia in Svizzera italiana. Un palazzone moderno in via delle Scuole. Nessuna targa all’entrata, potrebbe essere un ufficio qualunque. La gestirà Liberty Life, associazione che rispettando la legge elvetica offre la «dolce morte».
Qui sarebbe venuta Brittany Maynard, la 29enne americana ammalata di cancro al cervello terminale, se fosse stata italiana. «Anche lei, per ottenere l’eutanasia il primo novembre, ha dovuto trasferirsi», spiega Mina Welby, paladina della dolce morte, «perché negli Stati Uniti lo si può fare solo in Oregon». In Europa è legale in Svizzera, Olanda, Svezia, e da qualche mese anche in Belgio.
Sono una cinquantina gli italiani che negli ultimi tre anni hanno scelto la Svizzera per morire. Due al mese. Un caso famoso nel 2011: Lucio Magri, fondatore del movimento comunista Il Manifesto. Finora bisognava andare nei centri Dignitas a Zurigo o a Berna (quelli di Losanna, Ginevra e Basilea non sono aperti agli stranieri). Fra qualche settimana, con l’apertura dell’ambulatorio di Paradiso, per gli italiani sarà più semplice ed economico.
Mina Welby è vedova di Piergiorgio, il famoso malato di distrofia progressiva che si fece morire nel 2006. Un mese fa ha camminato per venti ore attorno alla Camera dei deputati. Sollecita la discussione della proposta di legge dell’associazione Coscioni, con 60 mila firme, che introduce l’eutanasia. Niente da fare. In Italia sono favorevoli solo i radicali, Sel, qualche grillino e rari parlamentari del Pd come Luigi Manconi, anche lui firmatario di una proposta.
Eppure secondo i sondaggi sei italiani su dieci sono per l’eutanasia. «Che comunque è praticata di nascosto in tutti gli ospedali, come cessazione dell’accanimento terapeutico», dice Mina Welby. Lei è cattolica. Ma la Chiesa rifiutò i funerali a suo marito.
«Diceva Indro Montanelli: “Voglio essere io a decidere il come e il quando della mia morte”», spiega Emilio Coveri, presidente di Exit, l’associazione che indirizza i malati ai centri svizzeri: «Se la legge lo consentisse, aiuterei le persone a morire. Ma chi lo fa in Italia è imputabile di omicidio. Non possiamo neppure accompagnare al confine chi va in Svizzera».
Infatti gli articoli 579 e 580 del codice penale italiano puniscono sia l’omicidio del consenziente, sia l’aiuto al suicidio. «Eppure proponiamo una cosa paragonabile alla legalizzazione dell’aborto e del divorzio. Una conquista sociale».
Anche per Coveri, come per Mina Welby, c’è stata un’esperienza personale drammatica: «Ho deciso che mi sarei impegnato per l’eutanasia quando vidi mio padre morire dopo mesi di atroci sofferenze».
Ma come funziona, nei centri svizzeri? Basta la ricetta di un qualsiasi dottore per ottenere un flacone del micidiale Nap (Natrium Pentobarbital) che, bevuto con un sonnifero, provoca la morte indolore in pochi minuti. C’è però la distinzione fra «aiuto al suicidio», permesso in Svizzera, e l’eutanasia, proibita anche qui.
Perciò è lo stesso suicida che deve portare alla bocca con le proprie mani il bicchiere con il farmaco letale. Se lo fa un altro, è omicidio. Per dimostrare che la legge viene rispettata, tutte le fasi dell’operazione vengono filmate.
La procedura è rigorosa. All’inizio c’è l’incontro col medico per un colloquio preliminare, la presentazione della cartella clinica e la prescrizione della ricetta. La malattia incurabile dev’essere accertata da tre dottori, che verificano anche se il malato è in pieno possesso delle sue facoltà mentali.
I medici hanno l’obbligo di convincere gli aspiranti suicidi a recedere dal loro proposito. E nella maggioranza dei casi ci riescono. Dignitas non accetta casi di semplice depressione. La legge svizzera non lo proibisce, ma non si è mai trovato uno psichiatra che la certificasse come «malattia terminale».
Poi inizia la fase finale. Quasi sempre il malato è accompagnato da un familiare o un amico. Può scegliere come colonna sonora per il congedo fra varie canzoni. Le preferite: God only Knows (Solo il Signore sa) dei Beach Boys, How Can I Tell You di Cat Stevens e For My Lady dei Moody Blues. Può sembrare agghiacciante addentrarsi in particolari musicali. Invece le canzoni sono importanti per affrontare questi momenti tremendi. Welby scelse un brano di Bob Dylan.
Poi il malato lascia gli accompagnatori ed entra in una seconda stanza, dove alla presenza di un medico legale si procede. Gli si domanda ancora se è convinto della sua decisione. Si somministra un antiemetico per evitare il vomito.
Dopo mezz’ora, sempre che il suicida non abbia cambiato idea in extremis, gli viene portato il cocktail letale sciolto in acqua o succo di frutta. Per berlo può usare anche una cannuccia. Dopo pochi minuti si addormenta, all’anestesia subentra il coma, infine entro 20-30 minuti sopraggiunge l’arresto cardiaco o respiratorio.
Il costo è 3 mila euro, che aumentano fino a 7-8 mila se si arriva fino alle urne con le ceneri spedite a domicilio all’estero. In Svizzera sono pratici, niente dibattiti ideologici sul diritto alla vita e alla morte. Nel 2011 il cantone di Zurigo ha votato sull’eutanasia per gli stranieri. Ha votato soltanto il 30 per cento, e 80 su cento hanno confermato il sì. Ma più che altro qualcuno voleva far pagare una tassa ai «turisti del suicidio».
Mauro Suttora