Wednesday, December 06, 2023

In sessanta giorni, Israele non ne ha azzeccata una





















Il 7 ottobre è stato un dramma, il seguito pure: l’azione militare non è servita a liberare un ostaggio, a catturare un terrorista. Le bombe su Gaza paiono una vendetta furiosa condotta alla cieca. Che fine hanno fatto i leggendari servizi segreti israeliani? Domande sul futuro.

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 6 dicembre 2023

Diciamoci la verità: è in corso un secondo dramma per gli israeliani, dopo la strage del 7 ottobre. In questi due mesi non sono riusciti a liberare un solo ostaggio, a catturare un solo terrorista fra quelli individuati nei video della mattanza, a scoprire il quartier generale di Hamas, che non era sotto l’ospedale Shifa. E neppure a fermare i lanci di razzi palestinesi da Gaza, che costringono ancora centinaia di migliaia di israeliani a nascondersi nei rifugi di giorno e di notte.

Per non parlare del crollo di reputazione provocato dai 15mila palestinesi ammazzati a Gaza: anche togliendo uno zero alla cifra sparata dalla propaganda Hamas, si insinua l'impressione di un disperato replay del “Muoia Sansone con tutti i filistei!” antico tre millenni: una vendetta furiosa condotta abbastanza alla cieca, lontana dall’abituale precisione chirurgica israeliana che minimizzava i “danni collaterali”. 

Per ironia della sorte, i philistin del 2000 a.C. abitavano proprio la zona di Gaza. Oggi le immagini della Striscia rasa al suolo si sovrappongono fatalmente a quelle degli sgozzamenti medievali nei kibbutz, facendole sbiadire.

Insomma, in questi 60 giorni Mossad e Shin Bet hanno continuato a perdere la loro leggendaria aura di servizi segreti più efficienti del mondo: un’ulteriore drammatica sconfitta, dopo quella del 7 ottobre. I loro informatori palestinesi vengono torturati, uccisi e appesi ai lampioni se scoperti o anche solo sospettati da Hamas, Jihad o Hezbollah. La rete di spie arabe non può più garantire l’invincibilità di Israele.

Perciò ora la domanda cruciale è: questo nuovo, inedito senso di insicurezza che gli israeliani provano per la prima volta dal 1948 provocherà un loro indurimento o ammorbidimento? Di solito soltanto i vincitori possono permettersi di essere magnanimi e generosi, mentre gli sconfitti covano frustrazione e voglia di vendetta. Ma la forza può anche trasformarsi in arroganza, mentre una consapevole debolezza spinge a compromessi.

Quindi, prosaicamente: alle prossime elezioni vinceranno i falchi o le colombe, la destra o la sinistra? Israele continuerà a imbottire la Cisgiordania di propri coloni che vaneggiano di Giudea e Samaria, o permetterà sul serio, 30 anni dopo Oslo, uno stato di Palestina indipendente, e quindi non à pois?

Idem per i palestinesi. I massacri di Gaza li renderanno più aggressivi o ragionevoli? Le scene di giubilo bellicoso per la liberazione dei loro prigionieri in cambio degli ostaggi ebrei non promettono bene. I fanatici di Hamas si rafforzeranno, o prevarrà la ragionevolezza di Anp e Fatah?

La banale risposta è: come in ogni conflitto, gli estremisti di entrambe le parti sono i migliori alleati reciproci. Si rinforzano a vicenda, nel convincersi che gli avversari capiscano solo il linguaggio della violenza.

Due mesi di guerra in Israele/Palestina, e quasi due anni in Ucraina. Purtroppo le dinamiche psicologiche collettive sono simili. Senza voler parificare aggressori e aggrediti: i primi restano Putin e Hamas, nonostante le recriminazioni su torti veri o presunti che possono aver subìto in passato Russia e palestinesi, di cui queste due escrescenze cancerose si spacciano rappresentanti e paladini.

Ma il fallimento della troppo annunciata controffensiva ucraina risulta deprimente quanto il disastro israeliano di queste otto settimane. Ci aggrappiamo ancora alla speranza che Vladimir Putin e Hamas si logorino fino a spezzarsi. Ipotizziamo nuovi leader a Gaza, Ramallah, Gerusalemme, Mosca: dotati, se non della lungimiranza di un Nelson Mandela, almeno del realismo dei vari Sadat, Begin, Rabin, Peres, o degli ultimi Sharon e Arafat in versione illuminata.

Il palestinese Marwan Barghouti (lo incontrai 35 anni fa, grande carisma) e l’israeliano Benjamin Gantz sono coetanei, nati a tre giorni e 40 chilometri di distanza nel giugno 1959: riusciranno a vincere anch’essi un Nobel della pace fra qualche anno?

Forse è solo la speranza di un disperato. Ma, come canta l’artista ebreo più famoso al mondo, Bob Dylan: “L’ora più buia è proprio quella prima dell’alba”. 

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