Thursday, March 31, 2022

Guardare i social di Salvini e scoprire che la guerra è finita



Dopo qualche figura barbina, il Capitano molla l'Ucraina e torna ai vecchi amori: immigrati e rom. E il taser è un'arma che gli piace

di Mauro Suttora 

HuffPost, 31 Marzo 2022

Per Matteo Salvini la guerra in Ucraina è finita. Da dieci giorni non ne parla più, non esiste. Cancellata. Su twitter e facebook, i suoi mezzi d'espressione preferiti e una volta pervasivi, si esprime su tutto tranne che sugli attacchi di Putin. Ultimo tweet, alle 11.30 di oggi: "Flat tax, semplificazione pagamento imposte, no a tasse su catasto e affitti, scongiurare la stangata sui titoli di stato". 

E a ritroso: solidarietà a Michele, rider sfregiato a Verona; campo rom da sgomberare in via Negrotto a Milano; anche a Firenze il taser funziona; nuovo stadio di San Siro da ricostruire in loco come vogliono Milan e Inter; disability card; ergastolo per marocchino killer di 84enne a bottigliate in testa; Mihajlovic guerriero campione; forza Fedez; sconti aerei per i sardi; preghiera per i bimbi massacrati a Varese; tre violentate a Milano in 24 ore; brava la regione leghista Marche che sanifica l'aria. L'ultimo accenno a Zelensky risale al 22 marzo: "Ho apprezzato il suo discorso alle Camere". Poi un generico "la Lega lavora per la pace". E basta.

Lontano da missili e carri armati, Salvini si tiene alla larga anche dalla questione del giorno: l'aumento delle spese militari. Si rifugia negli antichi amori come il no agli immigrati. Ma è ossessionato soprattutto da una nuova passione: il taser. Al pistolone che emette impulsi elettrici dedica lodi ogni giorno: "A Cagliari ha fermato un nigeriano violento". "Dobbiamo darlo anche ai 37mila agenti penitenziari". "L'avevo proposto da ministro degli Interni". 

Il problema è che il povero Matteo sull'Ucraina ha preso solo sberle. Dalla figuraccia col sindaco polacco che gli ha rinfacciato a tradimento la maglietta con il faccione di Putin, alle carrellate tv che ripercorrono impietosamente tutti i peana a quello che definiva "il più grande statista mondiale". Non dieci anni fa come Berlusconi, ma ancora nel 2020. Per non parlare degli abboccamenti a Mosca sui soldi ai leghisti. 
Risultato: la Lega negli ultimi sondaggi è precipitata al 16%. Meno della metà rispetto al 34% alle europee di soli tre anni fa. Pd e Fratelli d'Italia sono ormai lontani. Così, perfino i suoi prendono le distanze: "La guerra? Io mi occupo di turismo", scappa il ministro Garavaglia. 

Fugge anche Salvini. Come un rabdomante, cerca nuovi/antichi giacimenti di consenso. Si rifugia nelle polemiche sui rifugiati ucraini. Bonino lo attacca: "I profughi di colore più scuro sono falsi?". E lui: "Distinguiamo chi scappa davvero dalla guerra da chi la guerra la porta in Italia". Avverte che "122 subsahariani sono arrivati a Lampedusa in poche ore". Diventa gandhiano: "Il pugno all'Oscar dimostra che la violenza non risolve mai nulla". Accusa D'Alema mediatore per una vendita di armi alla Colombia. 

Insomma, qualsiasi cosa tranne la guerra in Ucraina. Su facebook esulta per il campionato cuochi a Rimini. E oggi pubblica il suo faccione felice assieme alla fidanzata Francesca Verdini: "Ultimo giorno di 'stato d'emergenza' covid, da domani bastaaa". Dura la vita del social media manager di Matteo.

Mauro Suttora 

Wednesday, March 30, 2022

M5s vs Draghi/ “Conte farà una sceneggiata sul riarmo, ma non può dire no”

www.ilsussidiario.net, 30 marzo 2022 

intervista a Mauro Suttora

Conte, riconfermato alla guida del M5s con il 94% dei consensi, promette battaglia. Ma sul no all’aumento delle spese militari non andrà oltre la sceneggiata 

“Gli iscritti del MoVimento 5 Stelle mi hanno riconfermato con un’indicazione forte e chiara. Un sostegno così importante è anche una grande responsabilità. Ora testa alta, ancor più coraggio e determinazione nelle nostre battaglie. Abbiamo un Paese da cambiare”. Così Giuseppe Conte ha accolto la sua riconferma alla guida del M5s dopo aver ricevuto 55.618 consensi, pari al 94,19% del totale, al termine della consultazione online sulla piattaforma SkyVote, che ha visto la partecipazione di 59.047 votanti pentastellati su 130.570 iscritti aventi diritto.

E i suoi primi passi sono stati tutti contro: prima contro Di Maio (“Le cose cambieranno, non posso accettare che ci sia chi rema contro”) e il giorno successivo, dopo l’incontro con il premier Draghi, contro il governo (“Il nostro è un no fermo al riarmo: il M5s si opporrà con tutta la sua forza parlamentare all’aumento sconsiderato delle spese militari”). Come sarà questa seconda leadership dell’ex premier? Che clima si respira all’interno del MoVimento? Quanto rischiano Draghi e il suo governo? Ne abbiamo parlato con Mauro Suttora, giornalista e scrittore, opinionista sull’HuffPost, nonché attento osservatore della caotica galassia a 5 Stelle. 

“Il problema non è Conte, ma tutti noi che prendiamo ancora sul serio queste farse con candidato unico che loro chiamano votazioni online. Le elezioni per essere democratiche devono offrire una libertà di scelta fra almeno due alternative”.

Altrimenti?

Altrimenti si chiamano ratifiche di personaggi imposti dal vertice, plebisciti. Non certo elezioni. È l’abc. C’è più democrazia in un’assemblea di condominio, o di una società quotata in Borsa, che fra i grillini. Perfino i regimi comunisti permettevano una scelta fra più candidati, anche se gli oppositori erano posticci. Perfino Putin si candida contro concorrenti. Poi magari li incarcera o avvelena, ma almeno la forma è salva.

Rispetto alla prima elezione, però, Conte ha lasciato sul campo 7mila preferenze: ad agosto erano state 62mila, oggi sono diventate 55mila. E rispetto ai 130mila aventi diritto ha espresso il voto meno della metà degli iscritti. Che cosa significano questi numeri?

Intanto mettiamo in chiaro che non si tratta di iscritti. Iscriversi al Movimento 5 Stelle non costa nulla, quindi non vale nulla. Basta mandare per mail una foto della carta d’identità, e dopo sei mesi si può votare. Una farsa anche questa. Cosicché per misurare il vero grado di consenso di questi cosiddetti “capi”, prima Di Maio, ora Conte, i grillologi devono ridursi a contare gli astenuti.

L’ex premier ha subito lanciato il suo avvertimento: “Le cose cambieranno, non posso accettare che ci sia chi rema contro”. Ci sarà la resa dei conti con Di Maio? Chi la spunterà? E i Cinquestelle rischiano davvero la scissione?

Chiaramente Di Maio e Conte sono diventati incompatibili. Il primo è più forte fra i parlamentari, il secondo fra gli iscritti. Ma in realtà sono solo personalismi legati ai sondaggi. Finché Conte godeva di un consenso del 60% fra gli elettori, tutti i grillini gli andavano dietro, sperando che li salvasse dal naufragio, visto che il M5s è invece crollato dal 32 al 14-16%. Ma ora anche Conte è sceso al 40%. Che è comunque tanto. Probabilmente a Di Maio non conviene ancora rompere, anche se è facile prevedere una strage fra i suoi fedelissimi quando Conte compilerà le liste elettorali. Dovrà sfilarsi prima, o trovare un accordo.

In un tuo recente commento sul Movimento hai parlato di “senso putiniano della democrazia” tra candidato unico, intimidazioni e purghe. Che clima si respira in casa M5s?

Il clima all’interno dei grillini è mefitico. Si confrontano i parlamentari alla seconda legislatura, che dopo dieci anni con 12mila euro di stipendio dovrebbero tornarsene a casa, e quelli alla prima che vogliono essere rieletti. Ma se i “vecchi” pretendono di cambiare la regola sul tetto ai mandati occuperanno di nuovo i posti migliori nelle liste. E dato che gli eletti si ridurranno a un quarto, per il dimezzamento dei loro voti e il taglio ai parlamentari, la lotta è al coltello.

E Grillo? Cambierà qualcosa nei rapporti con Conte?

Grillo è la grande incognita. È logorato dal processo al figlio e stanco per le diatribe nel suo Movimento, diventato irriconoscibile rispetto agli esordi. Gli attivisti si sono trasformati in arrivisti, occupati in lotte personali di potere puro, senza più ideali. Lui stesso è indeciso fra movimentismo e governismo. D’istinto è ancora attirato dall’estremismo di un Di Battista, invece deve accontentarsi di due democristiani moderati come Di Maio e Conte.

“Il nostro è un no fermo al riarmo: il M5s si opporrà con tutta la sua forza parlamentare all’aumento sconsiderato delle spese militari”. Quanto i Cinquestelle potrebbero fibrillare la tenuta del governo?

Conte non ha alcuna intenzione di far cadere il governo Draghi. Si rischierebbe il voto anticipato, ma i grillini vogliono conservare lo stipendio fino all’ultimo, ancora per un anno. Il no all’aumento delle spese militari è una mossa intelligente, perché la maggioranza degli italiani è contro il riarmo. E i grillini sono gli unici a opporsi. Ma non andranno oltre le sceneggiate verbali.

Marco Tedesco

Monday, March 28, 2022

Casaleggio, Grillo, Conte: il senso putiniano della democrazia



Candidato unico, intimidazioni, purghe. Nei giorni del voto bis sulla leadership, osservazioni sulla vita interna dei 5 stelle, sul maestro Putin e su qualche influsso nord coreano

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 Marzo 2022 

"I parlamentari della Duma condividono in pieno il video di Putin e sono stanchi di una piccola minoranza che crea spaccature. Si osserva con attenzione chi condivide e chi non condivide il video di Putin. Ormai deve essere chiaro chi abbraccia il nuovo corso e chi no". 

È un comunicato che arriva da Mosca? Macché. Sostituite Duma con M5s, Putin con Conte, e assaggerete la minaccia che incombe in questi giorni sui parlamentari grillini. Una dichiarazione anonima avverte gli avversari interni dell'ex premier: se non mettete like e non condividete sui social l'ultimo video dell'ex premier, siete fuori. Democrazia nel tempo della Rete. Per l'ennesima volta gli iscritti pentastellati provano a votare il loro nuovo leader, e per l'ennesima volta dimostrano di essere digiuni di pluralismo.

Perché perfino Putin, o Erdogan o gli Ayatollah quando indicono elezioni hanno l'accortezza di non proporre un candidato unico e un partito unico. Lo facevano anche i furbi regimi sovietici. Oltre al partito comunista sulla scheda si poteva scegliere qualche altra formazione: il fronte degli agricoltori, addirittura finti partiti liberali come quello tedesco orientale, che prendeva regolarmente il 10% ed era alleato perpetuo nel Fronte popolare con la Sed, il partito del dittatore Honecker. E anche Putin permette a tutti di sfidarlo al voto, salvo incarcerare o avvelenare chi può impensierirlo, come Navalny.

Bando alle ipocrisie: l'imprinting nordcoreano grillino non necessita di trucchi come avversari posticci. L'unica scelta permessa è fra il sì e il no al candidato unico imposto dal vertice. Perciò ai grillologhi, per misurare il suo reale consenso, non resta che contare gli astenuti. È sempre stato così, anche prima di Conte. I grillini nascono consustanzialmente totalitari, anche se questo aggettivo è comico per il partito di un comico. 

Ricordo i primi meetup nel 2006-2007, subito squassati da furibonde liti interne. A Milano c'era una spia che riferiva ogni parola ai Casaleggio, e questi facevano terra bruciata attorno ai dissidenti. A Roma tre dei quattro eletti nel 2008 nei municipi dopo pochi mesi passarono ad altri partiti, uno all'Udc di Cesa e Casini. Perfino la fedelissima Roberta Lombardi tradì come l'apostolo Pietro: osò borbottare contro i metodi antidemocratici del Movimento, poi si pentì e fu riaccolta. 

Da allora periodiche purghe staliniane hanno sempre devastato i grillini. Al posto della Siberia ci sono le shitstorm online per segare i nervi ai dissenzienti; l'olio di ricino viene somministrato con espulsioni sommarie e accuse paranoidi ("Vuoi allearti col Pd" era la più in voga prima di allearsi col Pd), senza possibilità di contraddittorio. Temendo delazioni, gli eletti si sono rifugiati in chat private sempre più segrete, prima su WhatsApp, ora su Telegram. Gli organi dirigenti interni sono sempre stati decisi da Grillo e Casaleggio, fin dal primo direttorio del 2014 con Di Maio e Di Battista da votare in blocco, prendere o lasciare. 

Ciononostante, anche in questa legislatura su oltre 300 eletti ne sono rimasti solo 200. Anche perché il principale epurato ora è lo stesso Casaleggio junior, che un anno fa ha fatto la fine di Trotsky e oggi reclama invano da Conte il saldo di 450mila euro di debiti. Ecco, così è finito il Movimento nato per portare trasparenza e pulizia in politica: nel suo esatto opposto, con plebisciti al posto dei referendum e ratifiche al posto delle elezioni. C'è più democrazia in una società quotata in borsa o in un condominio, che fra i grillini. Ma ormai tutti sembrano essersi abituati, e ci pare normale che Conte venga eletto capo senza concorrenti.

Mauro Suttora 

 

Friday, March 25, 2022

Segre e Smuraglia, partigiani veri: loro c'erano e quindi non sono equidistanti

Il ricambio generazionale dell'Anpi ha portato al disastro attuale: gli autoproclamati eredi antifascisti dei partigiani che non riescono a riconoscere i partigiani di oggi, in lotta concreta, coraggiosa e sanguinosa per la democrazia, la libertà e l'autodeterminazione dei popoli. Non ci resta che ascoltare i nonni della resistenza vera

di Mauro Suttora

HuffPost, 25 Marzo 2022

Carlo Smuraglia compirà 99 anni in agosto. È stato molte cose: professore universitario di diritto del lavoro, avvocato (parte civile per i morti di Reggio Emilia 1960, Pinelli, Seveso), consigliere regionale Pci e presidente del Consiglio in Lombardia dal 1970, consigliere Csm, senatore Pds. Un monumento vivente della sinistra. E soprattutto partigiano nelle sue Marche e presidente dell'Anpi.

 L'Associazione nazionale partigiani italiani ha sentito il bisogno di esprimersi contro l'invio di armi agli attuali partigiani, quelli ucraini che resistono all'invasione di Putin. Ma Smuraglia li ha fulminati: "Quella dell'Ucraina è Resistenza, e va aiutata anche con le armi".

Un'altra novantenne venerata dall'Anpi è la senatrice a vita Liliana Segre. Non ha bisogno di presentazioni. Anche lei ha bacchettato l'Anpi nel suo discorso al congresso in corso a Riccione: "La resistenza del popolo invaso rappresenta l'esercizio del diritto fondamentale di difendere la propria patria. Non è concepibile nessuna equidistanza. Se vogliamo essere fedeli ai nostri valori dobbiamo sostenere il popolo ucraino".

Cosa accomuna Smuraglia e Segre? L'età. Entrambi hanno vissuto personalmente l'esperienza della guerra, dell'invasione nazista, della deportazione e della lotta per la liberazione. Per ragioni anagrafiche, invece, il 98% degli attuali iscritti all'Anpi non è stato partigiano. La più giovane staffetta che avesse avuto 13 anni nel 1945 oggi è novantenne. 

È curioso che chi ha avuto a che fare direttamente con un'aggressione sia più solidale con l'Ucraina attaccata da Putin? No. A volte è proprio l'età a rappresentare uno spartiacque, in politica. "Don't trust anybody over thirty", non fidarti di nessuno che abbia più di trent'anni, dicevano i primi universitari contestatori a Berkeley nel 1964. 

Oggi, viceversa, nessuno si fidi di chi ha meno di 90 anni, ma pretenda di parlare a nome di una resistenza mai fatta. "Non ho l'età", cantava Gigliola Cinquetti, e neanche l'attuale presidente Anpi Gianfranco Pagliarulo, già ottimo funzionario del Pci milanese e poi senatore di Rifondazione comunista, ce l'ha. È un giovanotto 72enne che non attese le armi paracadutate dagli Alleati, con cui i partigiani si opponevano ai nazifascisti.

"Questa mattina mi son svegliato, e ho trovato l'invasor": sono gli ucraini oggi a cantare Bella Ciao. Anzi, il "glorioso popolo ucraino che resiste", come l'Anpi ha definito tutti i movimenti di liberazione degli ultimi 75 anni, e ai quali ha inviato aiuti, raccolto soldi con collette, organizzato manifestazioni. 

Oggi invece i suoi cortei e appelli sono "per la pace", indistintamente, anonimamente, e non più in concreto per il Vietnam o il Salvador o il Nicaragua. Zelensky, il Che Guevara di Kiev, è sbeffeggiato come un Grillo qualsiasi, un ex comico di Ballando con le stelle magari anche un po' vagamente nazistoide e imboccato dalla Cia.

Insomma, "questa mattina mi son svegliato e ho trovato il putinista". Anche perché negli ultimi vent'anni tutta l'area antagonista della sinistra estrema e dei centri sociali ha praticato con l'Anpi una vecchia tecnica staliniana: l'entrismo. Ovvero iscriversi in massa a un'associazione per impadronirsene. 

Cosicché il ricambio generazionale ha portato al disastro attuale: gli autoproclamati eredi antifascisti dei partigiani che non riescono a riconoscere i partigiani di oggi, in lotta concreta, coraggiosa e sanguinosa per la democrazia, la libertà e l'autodeterminazione dei popoli. Non ci resta che ascoltare i nonni della resistenza vera.

Mauro Suttora 

Monday, March 21, 2022

Mariupol tornerà Ždanov?



Chissà se Putin ribattezzerà la città ucraina, dopo averla rasa al suolo, restituendola al nome del feroce ministro simbolo della propaganda comunista e della sottomissione culturale alla linea del partito

di Mauro Suttora

HuffPost, 21 Marzo 2022 

Chissà se Putin ribattezzerà Ždanov la città di Mariupol, dopo averla rasa al suolo. 

Il porto martire sul Mar d'Azov, con le sue migliaia di bambini, donne e civili uccisi dall'armata russa, si è chiamata infatti Ždanov per volere di Stalin dal 1948 al 1989. Il dittatore sovietico la dedicò al proprio fedele e feroce ministro della Cultura, nato a Mariupol nel 1896, subito dopo la sua morte precoce per infarto, obesità ed etilismo. Da allora l'antonomasia ha trasformato il cognome di Andrei Ždanov nel simbolo della propaganda comunista e della sottomissione di ogni artista e intellettuale alla linea del partito.

Così 'Zdanovismo' rimane ancor oggi la definizione più sintetica e tremenda della politica culturale sovietica al tempo delle purghe staliniane negli anni '30, quando bastava un sospetto di deviazione per essere spedito a morire in un gulag siberiano.

Ždanov, il Goebbels di Stalin, fu anche l'inventore della parola 'agit-prop': inventò infatti il Dipartimento per l'agitazione e propaganda del partito comunista sovietico, di cui fu il primo commissario fino alla morte. Ente efficacissimo, visto che riuscì per decenni a turlupinare filosofi, giornalisti e scrittori di tutto il mondo, da Sartre in giù, convincendoli che l'Urss era il paradiso in terra. 

È Zdanov il vero inventore delle fake news. Solo qualche sprovveduto complottista può credere che la disinformazione sia nata con internet: in realtà per ben 72 anni, fino al suo suicidio nel 1989, il comunismo si è retto sulla sistematica falsificazione della realtà. Chi osava mettere in dubbio la versione ufficiale del partito, dentro e fuori l'Urss, veniva immediatamente liquidato da Zdanov come "feccia nemica della classe lavoratrice" secondo la sua famosa definizione al congresso del Pcus nel 1939.

È stata appunto la lingua russa a regalarci il termine "disinformazia", ovvero la scientifica distorsione governativa dei fatti. Ma quel che è grave è che da Solgenitsin a Sacharov, da Trotsky a Navalny, da Bucharin alla Politkovskaya, nulla sembra essere cambiato a Mosca. Il Muro può anche essere crollato un terzo di secolo fa, ma con la garanzia del kgb Putin lo zdanovismo sopravvive ancor oggi.

Quindi sarebbe giusto che Mariupol tornasse a chiamarsi Ždanov. Perché sulle rovine della città distrutta continuano a danzare le menzogne della propaganda: Putin, dopo aver vietato la parola "guerra", sarebbe capace di sostenere che i suoi palazzi sono stati rasi al suolo dagli stessi abitanti, per poter incolpare i militari russi.
Molti gli crederebbero, anche in Italia.

Mauro Suttora 

Thursday, March 17, 2022

Mio articolo dall'Ucraina del 2009

MIO ARTICOLO DALL'UCRAINA

di Mauro Suttora

ottobre 2009

I biglietti per il concerto di Christina Aguilera il 21 ottobre al Palast di Kiev costavano molto: da 250 a 9.500 grivnie, cioè 35-1.300 euro. Ma per i figli dei nuovi ricchi ucraini non è stato un problema: qui in città i soldi girano, il Pil aumenta del 7% ogni anno, e all’Arena City hanno aperto un centro commerciale di sei piani con sessanta negozi di lusso.
Per i nostalgici dell’hard rock l’autunno ucraino offre anche concerti dei Nazareth e dei Deep Purple, mentre l’ultimo film di Wim Wenders, ‘Palermo Shooting’ con la nostra Vittoria Mezzogiorno, è uscito in Ucraina addirittura un mese prima che in Italia.
Il ristorante italiano Fellini di via Gorodestkogo, nella città vecchia, è il fulcro della dolce vita ucraina. Qui non ci si accorge delle furibonde liti politiche, delle elezioni anticipate (le quarte in quattro anni) fissate per il 7 dicembre, delle divisioni fra filorussi e filoccidentali.
Davanti all’entrata ciondolano fumando gruppi di giovani con stupende ragazze bionde che non hanno più bisogno di emigrare (modelle o colf), come capitava dieci anni fa: «Ora a Kiev si sta bene, non manca nulla, ci divertiamo, al massimo prendiamo l’aereo per fare una scappata a New York o a Londra».
Questo è il posto preferito di Eugenia Timoshenko, 28 anni, la figlia della premier Yulia che ha sposato il cantante rock inglese Sean Carr. «Ogni tanto veniva anche Andrei Yushcenko, il figlio del presidente, a sfoggiare la sua Bmw da 130 mila euro, ma è da un po’ che non si vede», ci dice un ragazzo.
E certo, con tutte le polemiche contro i figli di papà che hanno infiammato per mesi i vivacissimi giornali ucraini. Altro che Mosca, dove i giornalisti scomodi li ammazzano: qui a Kiev i media sono totalmente liberi, e riempiono le pagine scorticando gli avversari politici.
Da quattro anni, tutta la vita politica ucraina ruota attorno a un triangolo: Yulia Timoshenko, 48 anni, la bella premier con il treccione biondo (tinto) ad aureola sulla nuca, il suo ex alleato nella rivoluzione «arancione» Victor Yushcenko, 54, presidente filo-Usa, e l’oppositore filo-russo Victor Yanukovich, 58, sconfitto dai cortei del 2004 ma sempre pronto alla rivincita con il suo partito fortissimo nelle regioni orientali dell’industria pesante.
La guerra Russia-Georgia dello scorso agosto ha fatto venire i brividi all’Ucraina. La nuova aggressività di Vladimir Putin, infatti, non ha preso di mira soltanto Ossezia e Abkazia, ma tutte le minoranze russe rimaste fuori dai confini dopo la caduta dell’impero sovietico. E con i suoi otto milioni di russi su 45 milioni di abitanti, l’Ucraina è la principale candidata a diventare la prossima Georgia.
A Kiev per ora non si percepiscono grandi tensioni. I maschi ucraini sono contenti che la Dinamo sia riuscita a pareggiare con l’Arsenal in Champions League. L’unica aspirazione politica che affratella tutti è entrare in Europa non solo nel calcio, ma anche nell’Unione dei 27 di Bruxelles.
Sarà dura, perché nonostante il boom economico l’inflazione è al 20% e il deficit annuo al sei, cioè il doppio dei limiti di Maastricht. Germania, Belgio e Olanda si sono opposti perfino a inserire l’Ucraina nel gruppo dei Paesi candidati, assieme alla Croazia (che entrerà nel 2010) e agli altri balcanici (Macedonia, Albania, Montenegro) che prima o poi seguiranno.
Nonostante le pressioni di Polonia e Svezia, che vogliono ammettere l’Ucraina nella Ue al più presto per sottrarla all’influenza russa, Kiev per ora rimane indietro perfino rispetto a Serbia, Bosnia e Turchia. L’hanno inserita solo negli “accordi di associazione”, assieme ai Paesi arabi rivieraschi del Mediterraneo e Israele, senza alcuna speranza di entrare.
«Certo che se battiamo i turchi del Fenerbahce di Istanbul ed entriamo negli ottavi di Champions sarà una bella rivincita», si consolano i tifosi.
Un’istituzione occidentale disposta ad aprire subito le porte ci sarebbe: la Nato. Ma l’alleanza militare è bassa nei sondaggi. In caso di adesione il partito filorusso chiederebbe un referendum e vincerebbe a man bassa. Perché, d’altra parte, provocare l’orso sovietico collaborando con gli eserciti occidentali, invece di collaborare con tutti commerciando e facendo quattrini?
E’ il ragionamento che ha preferito la Timoshenko dopo la guerra di Georgia, prendendosi della «traditrice filorussa» da Yushcenko. Eppure entrambi sono stati fra i primi ad accorrere a Tbilisi in solidarietà al presidente Michail Saakashvili, e non è un mistero che i carri armati georgiani siano stati rimessi a nuovo proprio dall’Ucraina.
Subito dopo a Kiev nel 2008 è arrivato il vicepresidente Usa Dick Cheney, in uno dei suoi rarissimi viaggi all’estero, e ha chiesto ai due ex alleati della rivoluzione arancione di smettere di litigare. I sondaggi, infatti, danno la Timoshenko prima con il 25%, ma subito dopo c’è il filorusso Yanukovich. E Yushcenko non arriva al 10%.
Vedremo cosa succederà il 7 dicembre. Il problema è che Yulia e Victor, dopo le settimane eroiche dell’autunno 2004 (ricordate? Yushcenko aveva la faccia sfigurata dall’herpes zoster, e accusò il Kgb di averlo avvelenato), non si sopportano più.
Lui l’aveva presa sotto le sue ali, nominandola premier, ma ben presto lei superò il maestro, si rese indipendente e si ribellò. Lui non ci pensò due volte a sostituirla con il rivale Yanukovich, formando una spregiudicata “grosse koalition” con i filorussi. Ma nel voto anticipato del 2007 Yulia presentò un nuovo partito col proprio nome e vinse.
Adesso è la Timoshenko ad appoggiarsi a Yanukovich per limare le unghie al presidente. Vuole una nuova legge che ne limiti i poteri. Dopo la guerra in Georgia con un bel giro di walzer si è messa a flirtare con i filo-russi.
Curioso destino, per una che ancora nel maggio 2007 fece impazzire di rabbia Putin con un suo saggio sulla rivista statunitense ‘Foreign Affairs’, bibbia della politica estera americana, titolato “Containing Russia”. La dottrina del “containement” fu quella coniata alla fine degli anni Quaranta dagli Usa per affrontare la Guerra fredda contro l’Urss, e che dopo quattro decenni gliela fece vincere. Insomma, l’esatto contrario dell’attuale appeasement.
Al povero Yushcenko non è restato che volare a Washington per farsi ricevere da Bush a fine settembre. Sfortuna delle sfortune, proprio quel giorno il Congresso aveva bocciato il famoso piano per il salvataggio della Borsa Usa, e quindi si può immaginare dove fosse l’attenzione del presidente americano. In ogni caso, con il cambio di inquilino alla Casa Bianca non è detto che Yushcenko resti nelle grazie di Washington. Anche il bellicoso georgiano Saakashvili è finito un po’ in disgrazia dopo il passo falso dell’8 agosto, quando ha attaccato per primo l’Ossezia cadendo nella provocazione russa.
Ma per capire meglio i rischi che sta correndo l’Ucraina, bisogna andare 900 chilometri a sud di Kiev. A Sebastopoli, capitale della Crimea. Regione dove la minoranza russa è maggioranza, e che quindi viene rivendicata da Mosca esattamente come l’Ossezia. Anche perché fino al 1954 faceva parte della Russia: fu Nikita Kruscev a regalarla all’Ucraina dopo la morte di Stalin.
Mosca ha già distribuito centinaia di migliaia di passaporti agli ucraini russofoni. Ma Sebastopoli è cara alla Russia soprattutto perché la sua flotta militare del mar Nero è ospitata in quel porto. Dopo lunghe trattative, nel ’97 l’Ucraina accettò di affittare il porto militare a Mosca fino al 2017, al prezzo di cento milioni di dollari l’anno.
«Niente, in confronto al debito di un miliardo e mezzo di dollari che l’Ucraina ha accumulato in questi anni con la Russia per le bollette non pagate di gas e petrolio», accusa Rinat Akhmetov, miliardario ucraino di etnia russa, gran finanziatore del Partito delle Regioni di Yanukovich.
In questo intrico di truffe, trucchi e patti firmati ma non rispettati rischia di farsi del male anche l’Europa, perché l’80 per cento del gas che importiamo dalla Russia passa attraverso l’Ucraina.
Nel 2006 i russi accusarono gli ucraini di rubare letteralmente il gas dai tubi, e chiusero il rubinetto destinato all’intero continente.
Pochi chilometri a sud di Sebastopoli, verso Jalta, scorre il fiumiciattolo Cernaia. Quello che dà il nome alla via di tante nostre città, dove nel 1855 piemontesi e francesi sconfissero i russi nella guerra di Crimea.
Morirono solo 36 piemontesi, contro 1.200 vittime francesi e 2.200 russe. Il che dimostra la furbizia di Cavour: col minimo sforzo diventò creditore dei francesi, e quattro anni dopo fece liberar loro la Lombardia dagli austriaci.
Le stesse complicate alchimie diplomatiche condiscono oggi i rapporti Europa-Ucraina-Usa-Russia: containement o appeasement? Faccia feroce o collaborazione?
Passati 150 anni, oggi i legami italo-ucraini sono stretti come non mai, grazie alle centomila badanti e ucraine che lavorano da noi, e agli altri immigrati.
Il viavai è incessante. In ottobre la compagnia Onair ha inaugurato il volo diretto Bologna-Leopoli: solo cento euro per arrivare nella leggendaria capitale della Galizia asburgica, Lvov per i polacchi, Lviv per gli ucraini. Un fantastico crocevia di popoli, tradizioni, cibi, visi, culture, minoranze. Se solo i politici non usassero le minoranze per fare le guerre…
Mauro Suttora

Saturday, March 12, 2022

Quanto spendiamo per difenderci? Tanto, ma male



Possibile che l'Europa, col suo tesoretto militare quintuplo rispetto al russo, si senta inferiore a Putin?

di Mauro Suttora

HuffPost, 12 Marzo 2022

Sorpresa: l'Europa, la vecchia imbelle Europa accusata di essere un gigante economico, un nano politico e un verme militare, spende per difendersi cinque volte più della Russia. Secondo i dati Sipri 2020, infatti, le spese per la difesa dei 32 Paesi europei (tutti tranne la neutrale Svizzera e le inaffidabili Turchia, Serbia e Bosnia) ammontano a ben 300 miliardi di dollari annui, contro i 62 dell'aggressivo Putin.

Gli Stati Uniti danno al Pentagono l'astronomica cifra di 778 miliardi. Ma, come dicono i generali, hanno una "proiezione globale" con decine di basi sull'intero pianeta e portaerei in perenne movimento su ogni oceano. Seconda è la Cina, con 252 miliardi. Più che la cifra in sé, impressiona il quasi raddoppio dei suoi stanziamenti bellici nell'ultimo decennio: erano 129 miliardi nel 2010. 

In Europa i tre stati più generosi con i propri generali sono il Regno Unito (59 miliardi, ai livelli russi) e, a pari merito, Francia e Germania con 53 miliardi. Seguono Italia (29), Spagna (17) e Olanda (12). I quattordici Paesi europei dell'Est spendono 32 miliardi. In testa la Polonia con 13, seguono Romania (5,7), Cechia (3,5) e Ungheria (2,4). Macedonia del Nord e Montenegro, gli ultimi arrivati nella Nato, se la cavano rispettivamente con 100 e 200 milioni annui.

E allora, possibile che l'Europa, col suo tesoretto difensivo quintuplo rispetto al russo, si senta inferiore a Putin? Il quale con i suoi 62 miliardi non solo deve difendere un territorio immenso, undici fusi orari da Kaliningrad allo stretto di Bering, ma si lancia in guerre (Ucraina, Siria, Georgia) e finanzia mercenari in Libia o Mali. 

Il vero problema delle forze armate europee non sono i soldi, ma lo spezzettamento. Paghiamo 32 eserciti separati, ciascuno con i propri stati maggiori, apparati burocratici e spese fisse, che non si traducono in "operatività". Scarso coordinamento nonostante la Nato, soldati che parlano lingue diverse, sistemi d'arma spesso non integrati.

Da vent'anni gli Usa chiedono agli alleati europei di spendere di più. Quella per il "burden sharing", la suddivisione dei costi, è la principale guerra combattuta nel quartier generale della Nato a Bruxelles. Guardiamo allora alla tanto declamata quota del 2% sul pil, che secondo Washington noi europei dovremmo raggiungere. Sempre secondo l'istituto di Stoccolma, l'Italia non è messa male: siamo già all'1,6. Superano la quota solo Grecia (2,8%, per fronteggiare la Turchia), Francia, Regno Unito, Portogallo. E all'Est, comprensibilmente, i baltici, Polonia e Romania. 

La più pacifista è l'Irlanda: la sua spesa militare nel 2020 è stata di appena lo 0,3% sul suo pil. Dovranno aumentare anche Austria (0,8%) e Slovenia (1,1%). La Germania ha già rimpolpato il bilancio bellico dall'1,1% del 2015 all'attuale 1,4%. I cento miliardi aggiuntivi annunciati dal cancelliere Scholz le faranno raggiungere il 2%. 

Gli Stati Uniti sono al 3,7%, la Russia al 4,3%, la Cina all'1,7%. Una curiosità: il Paese che spende di più al mondo rispetto alla propria ricchezza è l'Oman, con l'11%. E non ha mai fatto guerre. Come la neutrale Svizzera, che però stanzia appena lo 0,8% per le sue forze armate.

Mauro Suttora

Thursday, March 10, 2022

Putin non rade al suolo solo l'Ucraina, ma ogni regola di guerra

Non ha neanche dichiarato guerra. Quindi non si sente tenuto a rispettare i codici bellici. Come il non attaccare i civili in fuga

di Mauro Suttora

HuffPost, 10 Marzo 2022

Come molti milioni di italiani, ho partecipato a vari cortei per la pace nella mia vita. Eravamo un milione a Roma nel 1981 contro gli euromissili atomici, e di nuovo nell'83. Craxi ci rispose cinico: "Bene, vuol dire che gli altri 59 milioni sono favorevoli". Poi bastò il buon senso di un solo uomo, Gorbacev, per smantellarli in dieci minuti e accordarsi con Reagan. 

Noi nonviolenti eravamo gentilissimi. Non urlavamo "Yankee go home!" ai militari delle basi statunitensi in Italia, ma "Cari soldati Usa, lasciate l'esercito e restate con noi". Visitai Gesualdo Bufalino, scrittore di Comiso, il paese siciliano che doveva ospitare i missili Cruise. Gli chiesi di appoggiarci, ma lui mi rispose: "Voi pacifisti dovete andare anche nei Paesi comunisti a protestare contro le loro bombe nucleari".

Detto fatto: nel 1982 aiutai i radicali a volantinare nelle capitali dell'Est, preparai fogli e ciclostili alla loro partenza in treno da Milano. Tutti arrestati ed espulsi dopo venti minuti di dimostrazioni nelle piazze di Mosca, Berlino Est e Praga. Ma avevamo dato la prova di essere equidistanti, non filosovietici. 

Negli anni '90 altre marce antimilitariste, da Perugia ad Assisi, per Sarajevo martoriata dai serbi. Dopo la strage di Srebrenica la Nato bombardò Milosevic anche con i Cruise, e lì mi vennero i primi dubbi. Bastarono due settimane di raid su obiettivi militari per costringere il capo serbo a firmare la pace di Dayton, dopo quattro anni di guerra civile e centomila morti. Certo, ci furono 27 morti civili. Ma non capii le proteste pacifiste contro la Nato 'umanitaria'. "Quanno ce vo', ce vo'", dicono a Roma. Perfino Gandhi approvò gli indiani che si arruolarono contro Hitler.


Neanche oggi capisco i pacifisti. Come nel 1995 con il fasciocomunista Milosevic, è impossibile essere equidistanti. Quindi sarebbe ipocrita non aiutare gli ucraini aggrediti anche rifornendoli di armi. Putin sta violando ogni legge internazionale violabile. Fin dall'inizio: come ha detto il generale Angioni, non ha neanche dichiarato guerra all'Ucraina. Quindi non si sente tenuto a rispettare i codici di guerra. Come il non attaccare i civili in fuga.

Il trolley della famiglia sterminata a Irpin rimarrà il simbolo del suo porsi al di fuori del consorzio civile. Oppure l'ospedale dei bimbi di Mariupol, ieri. Quando è arrivata la notizia del bombardamento, ho pensato: "Ora qualche figlio di Putin in Italia dirà che gli ucraini si sono autocolpiti". Infatti: Facebook e Telegram zeppi di finti video e obiezioni tipo: "Se fosse vero, come mai 'solo' 17 feriti?". 

Questa volta i nostri  filorussi hanno superato perfino i russi: "Indagheremo", aveva infatti promesso in un primo tempo il portavoce Peskov, senza negare il misfatto. Poco dopo tuttavia, smentendo questo lampo di onestà, il ministro Lavrov ha goebbelsizzato: "In quell'ospedale si nascondevano i fascisti ucraini del battaglione Azov".

Sono tante, purtroppo, le stragi e le scuse assurde che ci aspettano nelle prossime settimane. Perché Putin ha deciso di non rispettare alcuna regola. E di negare ogni evidenza, grazie alla sua secolare esperienza Ceka-Kgb. Ormai abbiamo a che fare con un fuorilegge. 

Il problema siamo noi, se abbocchiamo. Perché non si possono mettere sullo stesso piano le inevitabili esagerazioni bellicose del democratico Zelenski e la gelida disinformazia dell'autocrate Putin. Anche cecoslovacchi e polacchi erano fastidiosi e petulanti nel 1938/39, prima di essere inghiottiti dai nazisti. Ma ottant'anni fa i nostri nonni credevano a Radio Londra e non all'Eiar fascista, che dava Mussolini vincente fino al 24 luglio 1943. Anche se ci volle il bombardamento del quartiere San Lorenzo per convincere qualche irriducibile romano che qualcosa non andava. 

A noi non è bastato il 24 febbraio 2022, replica esatta del 1 settembre 1939, per capire che Putin sta imitando Hitler? Lo ha già fatto vent'anni fa a Grozny in Cecenia, peraltro, e poi ad Aleppo in Siria. È questa l'unica autocritica che il mondo libero deve fare, non certo quella dell'allargamento Nato. Perché, obnubilati dal pericolo dei terroristi islamici, abbiamo lasciato Putin sterminare i civili ceceni e siriani. 

Perciò quando il mio amico Mao Valpiana, dirigente del Movimento Nonviolento, dopo l'invasione dell'Ucraina mi ha invitato a manifestare "per la pace e contro tutte le guerre", ho dovuto rispondergli: "Manca il nome del responsabile. E l'indirizzo dell'ambasciata o consolato russo davanti ai quali protestare".

Mauro Suttora

Tuesday, March 01, 2022

Non sarà facile trovare un Garibaldi nelle Brigate internazionali per Kiev

Per noi italiani, dopo 77 anni di pace, la guerra è diventata impensabile, impossibile, troglodita. Figurarsi crepare per patrie altrui

di Mauro Suttora

HuffPost, 1 Marzo 2022

È nobile che venga voglia di andare in Ucraina a combattere per la libertà. Ma non si illudano i ragazzotti vogliosi di imbracciare un kalashnikov: il governo di Kiev arruola volontari, tuttavia le sue ambasciate e consolati rifiutano chi non è già provvisto di una certa esperienza. Che manca alla quasi totalità dei giovani in Italia, dove la leva obbligatoria è stata abolita 17 anni fa. 

Le Brigate internazionali ucraine nasceranno comunque, e migliaia di stranieri si arruoleranno. Andranno a combattere una guerra sporca, perché in mancanza di una tregua già ora lo scenario è da guerriglia urbana. Non esistono fronti: i russi sono in movimento e hanno paracadutato i loro temibili spetsnaz, le forze speciali, anche dietro le linee nemiche.

Peggio ancora se riuscissero a occupare l'Ucraina, parzialmente o totalmente: gli stranieri dovrebbero aggregarsi a gruppi di partigiani clandestini, con problemi pratici terribili. Basti pensare al cirillico, l'alfabeto incomprensibile per cui risulta ostico perfino decifrare i cartelli stradali. O ai tagliagole ceceni, o ai russi travestiti con divise ucraine. 

Ma tutto ciò non bloccherà i nuovi internazionalisti, che già combattono da anni nel Donbass. Compreso qualche italiano, anche se con scelte comiche. I fascisti nostrani, infatti, non sanno bene da che parte stare: quelli di Forza Nuova danno manforte ai separatisti filorussi, mentre Casa Pound ha scelto gli ucraini. L'importante per molti è soltanto  menare le mani, a volte perfino per l'Isis, anche se nel caso dell'Ucraina aggredita l'afflato romantico è rispettabile.

D'altra parte, il poeta Byron andò a morire in Grecia 26enne, e anche il nostro carbonaro Santorre di Santarosa perse la vita per l'indipendenza ellenica. Fino ad allora le guerre le facevano i re, e gli stranieri che combattevano per bandiere non loro lo facevano di professione. Erano i mercenari, spesso inquadrati in compagnie d'arme, altre volte in solitaria, come il Barry Lindon del film di Kubrick. La stessa parola 'soldato', ignota nell'antichità, significa assoldato, al soldo, a pagamento. 

La figura del volontario idealista nasce nell'800, nutrita dalle guerre nazionaliste in Italia, Grecia, Polonia. Il primo internazionalismo fu quello di Mazzini, antecedente a Marx, e se si cantasse l'inno di Mameli fino alla quinta strofa ci si imbatterebbe nel gemellaggio fra "il sangue d'Italia e il sangue polacco" già allora "bevuti" dai perfidi cosacchi (russi) e austriaci.


Garibaldi è celebrato, con Che Guevara, come l'eroe internazionalista più leggendario del mondo. Ambedue con imprese intercontinentali al limite dell'autolesionismo: il capo delle nostre camicie rosse andò a combattere per la Francia a Digione nel 1870 nonostante questa gli avesse rubato la città natale Nizza dieci anni prima.

Ma oggi "Pulchrum est pro patria mori" è un proverbio desueto: per noi italiani, dopo 77 anni di pace, la guerra è diventata impensabile, impossibile, troglodita. Figurarsi crepare per patrie altrui. O per astratti ideali: "Morire per delle idee? Sì, ma di morte lenta", cantavano sarcastici i libertari antimilitaristi Brassens e De André. 

C'è da vergognarsi, pensando ai coraggiosi che andarono in Spagna nel 1936 per combattere il nazifascismo. Trovandosi però inquadrati sotto i comunisti, i quali non esitarono ad ammazzare, assieme ai nemici franchisti, anche i propri alleati anarchici. 

Insomma, è sempre complicato scegliere la parte giusta. Ancor più quando ci si avventura all'estero: si rischia di bombardare i vietnamiti per conto degli Usa, come fecero i piloti di vari Paesi Nato (Italia compresa) in missioni ancora coperte dal top secret dopo 60 anni. O di essere ammazzati in Mozambico, come capitò al povero giornalista militante Almerigo Grilz nel 1987.

Quindi, ai giovani in cerca di adrenalina non possiamo impedire di partire allo scopo di ottenere emozioni forti in Ucraina. Ma se torneranno mutilati o in bara diano un po' di colpa anche alla propria generosa avventatezza, oltre che a Putin.

Mauro Suttora