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Saturday, February 15, 2025

Dite a Vance che la libertà di parola nasce a sinistra

Il movimento per il Free speech nacque nel 1964, vent'anni prima di lui, nella California di sinistra detestata allora come oggi dai suoi simili, i populisti di destra

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it , 15 febbraio 2025 

Qualcuno spieghi al vicepresidente Usa J.D. Vance, autonominatosi apostolo della libertà di parola, che il movimento per il Free speech nacque nel 1964, vent'anni prima di lui, nella California di sinistra detestata allora come oggi dai suoi simili populisti di destra.
 
Cominciò infatti tutto il 2 dicembre di quell'anno a Berkeley: la contestazione studentesca e antimilitarista, il Free speech movement, la rivoluzione giovanile degli anni '60 con la musica pop-rock, gli hippies e l'amore libero. 
Merito fra l'altro di un italiano, il figlio di poveri immigrati Mario Savio che durante il primo sit-in di massa all'università nella baia di San Francisco salì su un'auto e pronunciò un discorso memorabile: "Non vogliamo essere solo rotelle del Sistema".

Poi arrivarono i poliziotti e arrestarono centinaia di giovani. Senza manganelli o scene alla 'Fragole e sangue': nonviolenti e disciplinati, gli studenti si fecero trascinar via cantando "We shall overcome", vinceremo. 
Molti di loro erano reduci dall'estate dei diritti civili: arrivati in bus negli stati meridionali degli Usa ancora razzisti, si sedettero assieme ai loro coetanei neri nei bar proibiti dall'apartheid, e li accompagnarono a farsi registrare per le elezioni. Nel Sud ci furono morti, cantati da Bob Dylan.
Ma ormai nel luglio '64 il presidente Lyndon Johnson aveva firmato la legge per i diritti civili. E il 28 agosto tutti a Washington per il discorso di Martin Luther King: "I have a dream". 

Con l'autunno gli attivisti antisegregazionisti tornarono nei campus, e aprirono i loro tavolini di propaganda nei viali davanti alle aule. Ma il rettore dall'università di Berkeley commise un errore: li proibì. Dimenticando che il Primo emendamento della costituzione americana garantisce la libertà di parola. Sacra. Così cominciarono le proteste, che culminarono in quel 2 dicembre.

Il Free speech movement californiano aveva già un suo martire-eroe: il comico Lenny Bruce. Ogni volta che si esibiva veniva arrestato, perché aveva l'insopprimibile tendenza a pronunciare la parola proibita: "Fuck". In quei mesi era finito addirittura in carcere per reato d'opinione.
 
Ricordate il film Woodstock? In una delle scene più famose il cantante Country Joe urla alla folla del concerto rock: "Give me an F, give me a U... What does it spell?" Nel 1969, cinque anni dopo Berkeley, quella parola era ancora tabù. Nel frattempo Lenny Bruce era morto, ma non nell'immaginario dei figli dei fiori: Grace Slick, cantante dei Jefferson Airplane, gli dedicò una canzone. E, soprattutto, nel 1974 risorse interpretato magistralmente da Dustin Hoffman nel film Lenny. 

La differenza è che negli anni '60 erano i bigotti di destra come Vance a punire parolacce e pareri dissenzienti. Mentre oggi è la sinistra del politicamente corretto a scandalizzarsi e proibire qualche termine considerato eccessivo. Permettendo così ai Vance e ai Trump di salire sulla cattedra della libertà, e di sentirsi perfino autorizzati a impartire lezioni a noi europei.

Wednesday, November 04, 2020

Gli istinti primordiali dell'America di Trump

La pancia degli Usa stanotte ha di nuovo premiato The Donald, che vinca o perda per un pelo. New York e la California sono ancora un altro mondo

di Mauro Suttora

Huffington Post, 4 novembre 2020


La moglie del miliardario di Manhattan, per dimostrare che anche lei è alla mano, per una volta lascia tranquillo lo chauffeur della sua limousine personale e sale su un ‘crosstown’ bus, quelli che che attraverso Central Park collegano l’Upper East all’Upper West Side. Entra dalla porta anteriore, versa le monetine del biglietto sotto gli occhi dell’autista sudamericano e gli cinguetta democratica: “How are you today?”. Non paga, all’uscita gli sorride di nuovo augurandogli “Have a nice day”.

Ho assistito a questa scena agghiacciante nel 2002, all’inizio dei miei quattro anni di lavoro a New York, e ho capito due cose: l’ipocrisia del politicamente corretto, e la presidenza Trump. Allora c’era Bush junior, ma è lo stesso: la riccona aveva votato a sinistra, e l’autista del bus per il fascistone.

Può darsi che l’azienda di trasporti newyorkese paghi un’indennità ai conducenti per le molestie verbali finto-cordiali che subiscono, però poi quelli si vendicano nel segreto dell’urna. E lo hanno fatto anche ieri premiando di nuovo Trump, che o vince o perde per un pelo.

Ormai lo abbiamo stracapito. Esiste un confine invalicabile fra gli Stati Uniti dei soldi e dei cervelli, della California e di New York, di Silicon Valley, Hollywood e Wall Street, e tutto il resto: contadini dell’Iowa, simpatici burini texani, anticastristi in Florida, operai licenziati a Detroit, patrioti del New Jersey che esibiscono la bandiera a stelle e strisce sulla porta di casa.

Ma non solo. Ho conosciuto bene una trumpiana: la mia ex fidanzata americana. Colta (laurea su Derrida all’università Vanderbilt), cosmopolita (vacanze fra lago di Como e campi di golf inglesi), elegante (villa accanto a quella della famiglia di Grace Kelly, nei quartieri residenziali di Filadelfia).

Se Trump si è impossessato di nuovo della progredita Pennsylvania, deve ringraziare anche lei.

Nonostante il fisico etereo e l’aspetto angelico, era favorevole alla pena di morte: “You get what you give, ricevi quel che dai”, sentenziava biblica. Contraria alla sanità gratis: “Lavori e ti paghi l’assicurazione”. Pro guerra in Iraq: “Vendichiamo le torri gemelle”. Sussidi di disoccupazione? “Solo per qualche mese, poi muovi il culo”. Reddito di cittadinanza: “Are you kidding me, stai scherzando?”. I cinesi? “Bastardi, ci rubano il lavoro”.

L’amore rende ciechi, ma confesso che in fondo ero un po’ affascinato da questi sentimenti primordiali. Gli stessi che hanno conquistato di nuovo metà America stanotte.

Mauro Suttora