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Wednesday, November 04, 2020

Gli istinti primordiali dell'America di Trump

La pancia degli Usa stanotte ha di nuovo premiato The Donald, che vinca o perda per un pelo. New York e la California sono ancora un altro mondo

di Mauro Suttora

Huffington Post, 4 novembre 2020


La moglie del miliardario di Manhattan, per dimostrare che anche lei è alla mano, per una volta lascia tranquillo lo chauffeur della sua limousine personale e sale su un ‘crosstown’ bus, quelli che che attraverso Central Park collegano l’Upper East all’Upper West Side. Entra dalla porta anteriore, versa le monetine del biglietto sotto gli occhi dell’autista sudamericano e gli cinguetta democratica: “How are you today?”. Non paga, all’uscita gli sorride di nuovo augurandogli “Have a nice day”.

Ho assistito a questa scena agghiacciante nel 2002, all’inizio dei miei quattro anni di lavoro a New York, e ho capito due cose: l’ipocrisia del politicamente corretto, e la presidenza Trump. Allora c’era Bush junior, ma è lo stesso: la riccona aveva votato a sinistra, e l’autista del bus per il fascistone.

Può darsi che l’azienda di trasporti newyorkese paghi un’indennità ai conducenti per le molestie verbali finto-cordiali che subiscono, però poi quelli si vendicano nel segreto dell’urna. E lo hanno fatto anche ieri premiando di nuovo Trump, che o vince o perde per un pelo.

Ormai lo abbiamo stracapito. Esiste un confine invalicabile fra gli Stati Uniti dei soldi e dei cervelli, della California e di New York, di Silicon Valley, Hollywood e Wall Street, e tutto il resto: contadini dell’Iowa, simpatici burini texani, anticastristi in Florida, operai licenziati a Detroit, patrioti del New Jersey che esibiscono la bandiera a stelle e strisce sulla porta di casa.

Ma non solo. Ho conosciuto bene una trumpiana: la mia ex fidanzata americana. Colta (laurea su Derrida all’università Vanderbilt), cosmopolita (vacanze fra lago di Como e campi di golf inglesi), elegante (villa accanto a quella della famiglia di Grace Kelly, nei quartieri residenziali di Filadelfia).

Se Trump si è impossessato di nuovo della progredita Pennsylvania, deve ringraziare anche lei.

Nonostante il fisico etereo e l’aspetto angelico, era favorevole alla pena di morte: “You get what you give, ricevi quel che dai”, sentenziava biblica. Contraria alla sanità gratis: “Lavori e ti paghi l’assicurazione”. Pro guerra in Iraq: “Vendichiamo le torri gemelle”. Sussidi di disoccupazione? “Solo per qualche mese, poi muovi il culo”. Reddito di cittadinanza: “Are you kidding me, stai scherzando?”. I cinesi? “Bastardi, ci rubano il lavoro”.

L’amore rende ciechi, ma confesso che in fondo ero un po’ affascinato da questi sentimenti primordiali. Gli stessi che hanno conquistato di nuovo metà America stanotte.

Mauro Suttora

Saturday, August 09, 2003

Benjamin Franklin

BOOM DELLE BIOGRAFIE SUL PADRE DELLA NAZIONE

di Mauro Suttora

Il Foglio, 9 agosto 2003

New York. “Niente è sicuro nella vita, tranne la morte e le tasse”. Chi l’ha detto? Benjamin Franklin. Formidabile aforista, ma anche giornalista, editore, scienziato, imprenditore e soprattutto padre fondatore degli Stati Uniti. Assieme a Thomas Jefferson, George Washington e John Adams, certo, “ma lui è l’unico che 250 anni dopo ci sembra ancora in carne e ossa, e non di marmo”.
Parola di Walter Isaacson, presidente dell’Aspen Institute, già direttore della Cnn e del settimanale Time nonché fortunato autore dell’ultima biografia di Franklin (ne esce in media una all’anno), che è fulmineamente salita in sole cinque settimane al secondo posto dei bestseller Usa, superata solo da quella di Katharine Hepburn. Stracciata Hillary Clinton. 

Un successo incredibile, anche perchè non si stanno festeggiando particolari anniversari: l’inventore del parafulmine nacque nel 1706 e morì nel 1790. Pure nei paperbacks Franklin spopola: dopo appena tre settimane la biografia dell’anno scorso, scritta dal professore di storia di Yale Edmund Morgan, ha conquistato il settimo posto in edizione economica.

“Era il più moderno dei Founding fathers”: così spiega l’exploit lo storico Arthur Schlesinger. In un momento in cui l’America si interroga profondamente sul proprio ruolo e la propria essenza, a quasi due anni dall’11 settembre e dopo due guerre, la vita del “rivoluzionario riluttante” (come l’ha brillantemente definito Morgan) serve a capire l’attuale riluttanza a sobbarcarsi un ruolo imperiale. 

Perchè “Ben”, com’è familiarmente conosciuto Franklin, è stato soprattutto il portavoce della classe media: quella che nel 1770 era disposta a un onorevole compromesso con Londra invece di muoverle guerra, e che oggi si sente umiliata dal crollo delle pensioni della New economy, oltre che da quello delle due Torri. Osama, Saddam? Certo, pericolosi terroristi da eliminare. Ma, come ammoniva il filosofo pratico di Filadelfia, “un penny risparmiato è un penny guadagnato”. Perciò oggi l’impiegato, già nervoso perchè fatica a pagare l’università del figlio, comincia a irritarsi ascoltando le notizie dall’Iraq: un nostro ragazzo ammazzato ogni giorno, al costo di un miliardo di dollari ogni settimana.

Franklin è sempre stato schifato dai romantici, racconta Isaacson, per chè era il piccolo borghese fiero della propria aurea mediocrità che nel suo annuale “Almanacco del povero Richard” proclamava: “I grandi distruttori del genere umano sono tre: la peste, la carestia e l’eroe. Non eroi ma scienziati servono all’umanità”. 

Grande impresa, quella del calendario. Per ben 26 anni, fino al 1758, Franklin ne vendette diecimila all’anno. La Pennsylvania, dov’erano concentrati gli abbonati, aveva soltanto 50mila abitanti (600mila il totale delle colonie). Quindi, se si escludono gli schiavi e gli analfabeti (metà della popolazione), l’almanacco entrava in ogni famiglia, era letto da tutti, e si era imposto come il più importante strumento di (in)formazione in una società dove l’influenza della chiesa stava declinando.

Il geniale ventenne, che era anche editore-direttore della Pennsylvania Gazette, aveva insomma in mano l’opinione pubblica del proprio stato. E guadagnò tanti di quei soldi che a 42 anni si ritirò dagli affari per dedicare la seconda metà della propria vita alla scienza e alla politica. George Washington combattè la rivoluzione sui campi di battaglia, ma fu Franklin a permettergli di vincerrla andando a Parigi a farsi dare i soldi dai francesi. 
E fu anche l’unico a firmare tutti e quattro i documenti che segnarono la nascita degli Stati Uniti: la Dichiarazione d’indipendenza del 1776, l’alleanza con la Francia due anni dopo, il trattato di pace con l’Inghilterra nell’82 e la Costituzione nell’87.

Il figlio di poveri immigrati, costretto a crescere in due stanze con tredici fratelli, finì a pranzo con tutti i re d’Europa. Voltaire lo abbracciò da pari a pari (“Oggi di fronte all’Academie Royale è come se si fossero incontrati Solone e Sofocle”, annotò Condorcet). Ma il poliedrico Franklin diresse anche un ufficio postale, fondò i pompieri di Filadelfia, escogitò l’assicurazione antincendio, inventò gli occhiali bifocali, organizzò il primo servizio di vigilantes e propose l’ora legale. 

Noi prendiamo in giro Silvio Berlusconi perchè si preoccupa dei fiori durante i summit (Genova 2001), ma il perfezionista Ben a Parigi fece di peggio (o meglio): giocò a scacchi con un amico nel bagno di madame Helvetius mentre lei assisteva nuda nella vasca, per ingraziarsi la ‘haute’ e far fuori il rivale Adams. Inguaribile burlone, a 75 anni preparò uno studio scientifico sull’emissione dei gas intestinali per l’Accademia reale di Bruxelles. Morì vecchio e felice. Max Weber lo disprezzò: “La sua etica si riduce al come far soldi”. L’America invece lo adora, e compra tutti i libri su di lui.
Mauro Suttora