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Sunday, May 31, 2020

La sfida dei neri d'America

George Floyd è stato assassinato a Minneapolis per un biglietto di 20 dollari falso con cui aveva cercato di pagarsi un pacchetto di sigarette. L'America profonda, messa in ginocchio dal lockdown, stavolta vuole giustizia

di Mauro Suttora

Huffington Post

30 maggio 2020


“We gotta go” “Where?” “I don’t know, but we gotta go” (“Dobbiamo andare” “Dove?” “Non lo so, ma dobbiamo andare”). Questo è il cuore di Sulla strada, il romanzo di Jack Kerouak che da 63 anni è il cuore dell’America. Un Paese che per vivere deve muoversi. Se non si muove, muore.

Da due mesi gli Stati Uniti sono costretti a stare fermi. Per la prima volta nella loro storia. Non era mai successo, neanche nei momenti peggiori. La Grande depressione provocò migrazioni bibliche. Pearl Harbour, la mobilitazione generale. Il Vietnam, manifestazioni oceaniche. L’11 settembre, le invasioni disastrose di Afghanistan e Iraq. Qualcosa dovevano fare, da qualche parte dovevano andare.

Contro il virus invece non si può reagire. Bisogna soltanto star fermi. Chiusi nelle proprie scatole: le villette piccoloborghesi dei suburbs, i bilocali soffocanti delle città. Impotenti. Si accumula tanta frustrazione. Si perde il lavoro, la sicurezza, i soldi. Si perde la testa. I disoccupati arrivano a 40 milioni. I miliardari di Manhattan sono volati sugli aerei privati a trascorrere il lockdown nelle loro residenze in Florida o agli Hamptons. Invece i neri e gli ispanici sono ridotti a sopravvivere con il cibo fornito dai food stamps, i coupon della carità statale. Aspettano lo sfratto per gli affitti non pagati. Muoiono più dei bianchi per il virus, chissà perché. E adesso la violenza esplode.

I governanti sono sbigottiti. Non capiscono. “Something is happening here, but you don’t know what it is” (“Qualcosa sta succedendo, ma non sai cos’è”): il Nobel Bob Dylan ha appena compiuto 79 anni, ma già mezzo secolo fa spiegava lo sbigottimento di politici e perbenisti davanti alla violenza di strada. Anche negli anni 60 si scatenarono i neri, nel loro ghetto di Watts a Los Angeles: 34 morti, mille feriti, 4mila arresti. Poi negli anni 90, sempre la favolosa L.A. a ferro e a fuoco: 63 morti, duemila feriti, 12mila arresti. Ma nel 1965 bastò l’arresto di un afroamericano per provocare i vandalismi. Nel 1992 Rodney King fu ‘soltanto’ picchiato.

Ultimamente invece i neri vengono ammazzati. Preferibilmente adolescenti. Nel 2012 il 17enne Trayvon Martin in Florida. Due anni dopo il 18enne Michael Brown a Ferguson, Missouri. I poliziotti assassini sono assolti, scoppiano rivolte razziali, arriva la Guardia nazionale e i ghetti sono sottoposti a coprifuoco. Nel frattempo un nero è diventato presidente, ma per certi bianchi questa è più una provocazione che una conquista.

Ora è la volta di George Floyd. Lo soffoca in otto minuti e 46 secondi premendogli il ginocchio sul collo un poliziotto bianco suo ex collega di lavoro: facevano assieme i buttafuori in un nightclub. L’agente è subito licenziato, ma viene accusato solo di omicidio colposo. Dinamite, per i teppisti nullafacenti di colore scesi nelle strade di Minneapolis.

“Rodney King, Brown, Floyd: i nomi cambiano, il colore no. È sempre la stessa storia, da decenni”, dice sconsolato Andrew Cuomo, governatore di New York. “Io sto con chi protesta. Ma la violenza, mai. Martin Luther King ci ha insegnato che non funziona. Perché la reazione cancella l’azione che l’ha causata”.
Meno gandhiano Donald Trump: “When the looting starts, the shooting starts (quando inizia il saccheggio, inizia la sparatoria)”, ha twittato. C’è ricascato. Come il giorno prima, quando il presidente aveva scritto che il voto per corrispondenza è truffaldino, Twitter ha aggiunto un avvertimento al suo bellicoso cinguettio: “Questo messaggio viola le nostre regole contro l’esaltazione della violenza. Tuttavia può essere di interesse pubblico che rimanga accessibile”. Peggio di così. Fra cinque mesi si vota, sarà l’inferno per i rapporti con i (social) media.

Comunque Trump è stato accontentato. A Oakland (California) hanno cominciato a sparare nella notte da un’auto misteriosa. Una guardia giurata è stata uccisa. Ad Atlanta hanno assaltato la sede della Cnn poche ore dopo che a Minneapolis un giornalista nero della Cnn è stato arrestato da poliziotti bianchi. Stava facendo il suo lavoro per strada con il suo cameraman, documentava l’incendio dei neri al commissariato bianco. Disperata la sindaca (nera) di Atlanta subito intervistata dalla Cnn: “Figli miei, rimanete a casa”.

Stay home? Ancora? Dopo nove settimane e mezzo di asettica quarantena, i giovanotti di colore ora dovrebbero cominciarne un’altra, politicamente corretta? I neri scendono spontaneamente in strada in tutte le città degli Stati Uniti, e a Filadelfia rispettano perfino la distanza sociale. Qualcuno obietta: “Però non portano le mascherine”. Dimenticano che è vietato manifestare con la faccia nascosta dai tempi del Ku Klux Klan. E che i ragazzi di Occupy Wall Street dieci anni fa venivano incarcerati se osavano coprirsi il viso con la maschera di Guy Fawkes, del film V per Vendetta.

George Floyd è stato assassinato per un biglietto di 20 dollari falso con cui aveva cercato di pagarsi un pacchetto di sigarette. Reato che nel tranquillo Minnesota è considerato così grave da prevedere l’intervento di una squadra con quattro poliziotti e l’immediato arresto del pericoloso criminale.

Il Minnesota, stato freddissimo, la neve si è sciolta da poco, vicino al Canada, in mezzo al nulla.
Lo stato più democratico degli Usa: non ha mai votato un presidente repubblicano dai tempi di Nixon, l’unico (con il District of Columbia della capitale Washington) che resistette perfino alla valanga reaganiana del 1984. Il governatore dello stato (un ex militare) e il sindaco di Minneapolis sono democratici. Trump gode.
Minneapolis, città attraente soltanto per Jonathan Franzen, che ci ha ambientato il romanzo Libertà con i suoi anemici personaggi. In Minnesota è nato Bob Dylan. A 18 anni è scappato. Mai tornato. E non è un posto neanche per neri.
Mauro Suttora

Wednesday, May 27, 2020

Gli Usa come Milano: milioni per ospedali vuoti. Ma niente proteste

OSPEDALI IN FIERA: 21 MILIONI A MILANO, 761 NEGLI USA. "NON SONO SERVITI, MA SIAMO STATI PREVIDENTI"

di Mauro Suttora

Huffington Post, 26 maggio 2020

https://www.huffingtonpost.it/entry/gli-usa-come-milano-milioni-di-dollari-per-ospedali-demergenza-vuoti-pero-nessuno-protesta_it_5ecced0dc5b6d5ebfe87cbed


La Lombardia ha speso 21 milioni per l’ospedale covid nella fiera di Milano. Gli Stati Uniti ne hanno buttati trentasei volte tanti (830 milioni di dollari, 761 milioni di euro) per 19 ospedali di emergenza, 13 dei quali mai entrati in funzione. Negli Usa, come in Italia, la curva dei ricoverati si è abbassata. Non c’è stata la temuta valanga di ricoveri. Cosicché ora anche gli unici sei ospedali aperti per un mese sono stati chiusi. Però nessuno protesta.

Anche New York per l’ospedale ha scelto un padiglione fieristico: il Javits Center, in pieno centro a Manhattan. È costato 11 milioni, relativamente poco perché lo hanno realizzato gli ingegneri dell’esercito. E perché i 1.900 posti letto previsti non erano di terapia intensiva: si trattava solo di un maxi reparto di alleggerimento dove trasferire dagli ospedali i malati normali, per far posto a quelli covid. Dopo aver ricoverato un migliaio di pazienti, lo hanno smantellato a inizio maggio.

Altri tre ospedali non covid da campo sono sorti vicino a New York, ma con costi astronomici perché costruiti non dal Genio militare, ma da contractor privati. Uno nella contea di Westchester, cento posti per 47 milioni di dollari. Due nei campus di Long Island dell’università statale Suny: duemila letti per un totale di 274 milioni. Neanche un paziente è entrato in questi tre ospedali. 
“Ma li terremo per un’eventuale seconda ondata in autunno”, dice il governatore di New York Andrew Cuomo. Il presidente Trump lo ha attaccato, lui ha risposto: “Prepararsi al peggio, sperare nel meglio. A marzo secondo le proiezioni a New York avremmo avuto bisogno di 110mila posti letto. Per fortuna non è stato così”.

Anche nel resto degli Usa ci sono stati sprechi immensi. L’ospedale aperto il 3 aprile nella fiera di Chicago è costato 65 milioni. Doveva avere 3mila posti letto, poi ridotti a 500, ma ha curato solo 29 pazienti prima di chiudere.

Nella fiera di Detroit i malati sono stati 39, tuttavia il sindaco Mike Duggan non è pentito per i dieci milioni spesi: “Averlo usato poco è stato un grande successo” E lo ha chiuso il 6 maggio.

Filadelfia ha speso ‘soltanto’ cinque milioni per mettere 200 letti nel palasport della Temple University, che però non ha mai curato più di sei pazienti contemporaneamente, per un totale di 14.

Il centro congressi di New Orleans dove 15 anni fa si rifugiarono gli scampati all’uragano Katrina è stato anch’esso convertito in ospedale per l’incredibile cifra di 165 milioni. Ma ha avuto solo 200 pazienti.
Il sesto e ultimo ospedale utilizzato, nel Michigan, ha avuto appena sei pazienti per dodici milioni di dollari: ognuno è costato due milioni.

L’11 maggio è stato inaugurato l’ospedale da 443 posti nella fiera di Washington. Troppo tardi: è rimasto vuoto nonostante i 31 milioni spesi. Stessi buchi nelle fiere di Denver (34 milioni), Memphis e Miami (entrambi 26 milioni) e in altri cinque ospedali d’emergenza con zero pazienti.

Il tredicesimo fallimento (o successo, a seconda dei punti di vista) è quello di una vecchia ala ristrutturata nell’ospedale di East Orange, New Jersey: undici milioni per 250 letti, mai usati. Anche in Lombardia qualcuno avrebbe preferito ripristinare vecchi reparti a Legnano o Vimercate invece dell’ospedale in fiera. Ma negli Usa neppure il restauro ha scongiurato il vuoto.
Mauro Suttora

Wednesday, November 20, 2013

Italiani a New York

Bill de Blasio sindaco, ma i nostri connazionali sono ancora discriminati. Adesso i figli dei nostri emigrati sono sia al vertice della città sia dello stato, con Andrew Cuomo. Eppure l’invisibile apartheid sociale di Manhattan colpisce ancora gli italoamericani. Ecco come

di Mauro Suttora per il settimanale Oggi


New York (Stati Uniti), 13 novembre 2013
Potrebbe perfino diventare presidente degli Stati Uniti, un giorno. Bill de Blasio da Sant’Agata dei Goti (Benevento), nuovo sindaco di New York, ha avuto tanti di quei voti che fra otto o 12 anni nulla gli vieterebbe di ambire alla poltrona più importante del mondo. Come fu già per Rudy Giuliani, altro sindaco italoamericano fino al 2001 e candidato alle primarie presidenziali nel 2008.

Ma cosa vuol dire essere italoamericani oggi a New York? Molti ignorano che nella città apparentemente più aperta e democratica del mondo, incredibilmente, esiste ancora l’apartheid. Nessun italiano può abitare in un palazzo/zona di ebrei o wasp (acronimo che significa white, anglosaxon protestant, cioè bianchi, anglosassoni protestanti) o irlandesi o neri. E viceversa.

I miliardari di Park avenue

Perfino a Park Avenue uno come Gianni Agnelli aveva trovato posto in un bulding «international», ovvero riservato ai miliardari stranieri, mentre i palazzi vicini sono totalmente ebrei o wasp. Quasi mai misti.

Ugualmente, nelle decine di feste di gala che accendono ogni notte Manhattan, dal Waldorf Astoria al Plaza, vige una codice non detto, ma strettissimo per cui è praticamente impossibile per un nero o un italiano accedere ai board e ai tavoli delle feste di beneficenza più ambìte: basta scorrere le liste dei cognomi degli invitati per accorgersene. Ed è qui che si svolge la vita sociale che conta.

Gli italoamericani, anche quelli ricchi, sono confinati in zone ben precise di Brooklyn, Staten Island, Bronx e New Jersey. Vantano una sola giornalista famosa: Maria Bartiromo, appena passata dalla rete tv Cnbc alla Fox.

Sono discriminati come mafiosi, considerati tutti Sopranos, e la sede della loro Fondazione (Knights of Columbus, Cavalieri di Colombo, organizzatori dell’annuale parata del 12 ottobre, anniversario della scoperta dell’America), nell’elegante Upper East Side, è tanto prestigiosa quanto snobbata dall’establishment sociale/finanziario/culturale.

Poliziotti e pompieri, feudi nostri

Le uniche rivincite ce le prendiamo in politica (un altro italiano, Andrew Cuomo, è presidente dello stato di New York), nel cinema (Robert De Niro, Martin Scorsese, Al Pacino, Francis Ford Coppola) e negli altri due feudi newyorkesi, polizia e pompieri, in condominio con gli irlandesi.

Certo, i ristoranti di Cipriani o la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada sono affollati anche dai newyorkesi che contano. Ma quella è considerata un’Italia raffinata, lontana dagli immigrati.
Mauro Suttora