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Tuesday, December 24, 2024

Vasco, Salvini e l’hashish: anche il principe dei libertari cede al perbenismo


















di Mauro Suttora

Fumare e poi guidare: il rocker se la prende giustamente con il ministro: “E chi lo fa a scopo terapeutico?”, chiede. E chi lo fa – chiediamo noi – perché è una sua precisa libertà?

24 dicembre 2024

“No Vasco, io non ci casco", cantò Jovanotti a Sanremo 35 anni fa. E invece ora c'è cascato perfino lui, il principe dei libertari italiani. Ha ribadito le sue critiche al nuovo codice della strada che colpisce chi si è fumato una canna anche vari giorni prima di guidare, visto che le tracce (diversamente dall’alcol) rimangono a lungo nel sangue. Ma a Luca Valtorta che lo intervistava su Repubblica, Vasco Rossi ha precisato: “È un'ingiusta caccia a comportamenti perfettamente legali, come l’utilizzo della cannabis a scopo terapeutico”.

Quindi anche per lui gli spinelli vanno bene, ma solo quando il tetraidrocannabinolo è usato come analgesico.

E chi invece vuole fumarsi un po’ di marijuana in santa pace, solo perché gli piace, e dopo non è così fesso da mettersi subito in macchina? Possibile che la libertà in Italia debba sempre ammantarsi di perbenismo, per paura di non essere accettata? Se persino Vasco cede a questa ipocrisia, dolciastra quanto l’odore dell’hashish che mi avvolge ogni volta che passo davanti all’aperitivoteca sotto casa qui a Milano, siamo messi male.

Perché è da 60 anni che un giovane su due fuma canne. Bob Dylan fece scoprire il primo spinello ai Beatles quando lo andarono a trovare all’hotel Delmonico di New York nel 1964, e da allora le loro canzoni migliorarono nettamente.

Ormai – si sperava – il fascino della trasgressione è evaporato. Resta solo il fascismo ebete dei convinti che il “male” si combatta proibendolo, cedendo all’illusione di un riflesso autoritario solo apparentemente buonsensista. Con l’unico risultato di regalare miliardi alle mafie, e di legare lo spaccio della marihuana a quello di altre sostanze più pericolose.

Invece anche il povero Vasco è costretto, 72enne, a fingersi timido piccolo-borghese:

“Ho voluto provocare il dibattito e attirare l’attenzione sperando che il ministro ci ripensi e rinunci a quella assurda, propagandistica modifica della vecchia legge che prevedeva già il ritiro della patente per chi guida sotto l’effetto di cannabis. Ma dopo una settimana si guida perfettamente lucidi. È una cosa inaccettabile che dovrebbe essere evidente a chiunque! Qui non si salvano vite, ma se ne rovinano molte altre”.

Tutto giusto. Perfetto. Tranne che subito dopo ha sentito il bisogno di limitare il lecito alla canna come medicina, forse per accattivarsi i bigotti.

Eppure da nove mesi l’hashish è libero perfino nella seria e severa Germania. Anche “a scopo ricreativo”, come dicono i burocrati. Se fosse vivo, l’altro sommo libertario Marco Pannella tirerebbe le orecchie al suo amico Vasco, perennemente iscritto al partito radicale. Farebbe leggere a lui e a Matteo Salvini Fuga dalla libertà di Erich Fromm. E ascoltare Ma liberté di Georges Moustaki, tradotta dal liberale Bruno Lauzi: “Oh, libertà,  ti ho conservata a lungo, come una perla rara”. 

Saturday, December 22, 2001

Davide Van De Sfroos

Foglio, 22 dicembre 2001

di Mauro Suttora

Van De Sfroos non è un ciclista fiammingo. E’ il nome d’arte di Davide Bernasconi, cantautore dialettale comasco di 36 anni: «van de sfroos» in lariano significa «vanno di frodo». Contrabbandieri e irregolari sono infatti i personaggi delle canzoni di questo artista-rivelazione, che sta collezionando tutti esauriti in ogni concerto che tiene in Lombardia e Svizzera italiana. Così c’è il Bestia, «castig del Signuur, semper spurceleent e vestii cun’t un sacch, ma no l’era mai stracch» («castigo del Signore, sempre sporco e vestito con un sacco, ma non era mai stanco»). C’è quell’altro con «gli occhiali da tafano dell’autogrill di Fiorenzuola, pilota de la malura che scià el Gilera de rüvà ved mea l’ura» («...pilota della malora che sul Gilera di arrivare non vede l’ora»). E c’è naturalmente anche il cuoco del Grand Hotel, come su ogni lago che si rispetti, figura degna di quello di Salò cantato da Francesco De Gregori, solo che questo ha «il maa de schena, e l’è giamò ciucch a la matèna» («il mal di schiena, ed è già ubriaco alla mattina»).

Van de Sfroos, questa specie di Paolo Conte dell’Insubria, è diventato il mito nascosto della Lombardia settentrionale. Riesce a mettere d’accordo tutti: leghisti, ciellini, comunisti, forzisti. Ha vinto il premio Tenco del 1999, e il suo disco «Breva & Tivàn» (i due venti che soffiano regolarmente sul lago di Como, uno al mattino e l’altro al pomeriggio, permettendo per secoli ai «lagheè», gli abitanti del lago, di spostarsi da un paese all’altro), autoprodotto e senza una vera distribuzione, ha venduto 35mila copie spontaneamente, con la sola forza del passaparola.

Ora è uscito il nuovo «E semm partii...» (Siamo partiti), disco di folk rock che ne riconferma la fantasiosa vena poetica. Sul palco del teatro Smeraldo, a Milano, Lella Costa ha voluto leggere le sue poesie. E Ale e Franz, anche loro calati in pianura dalle prealpi (sono i comici sfigati che suonavano al citofono di «Mai dire gol»), lo hanno accompagnato con le loro battute surreali.

Il mondo di Van De Sfroos è pieno di personaggi stralunati, cantati con il suo vocione da cantastorie padano a metà fra Pierangelo Bertoli e Ligabue. Dopo i concerti, che tiene in posti dai nomi buffi come Uggiate Trevano, Zingonia, Guanzate o Tavernerio, giovani e vecchi portano sul palco ingrandimenti fotografici da firmare, bottiglie di vino e salami caserecci.

Da queste parti, fra Valtellina a nord, Brianza a sud, Svizzera a est e Orobie a ovest, il contrabbando è sempre stato qualcosa di più di un espediente per sopravvivere: fa parte della storia di ogni valle, paese e famiglia, dove c’è spesso un nonno o uno zio che andava «de sfroos». Almeno fino agli anni ‘70, quando le cose si sono incattivite e agli spalloni con sigarette e robe da poco si sono sostituiti i mafiosi con pacchi di soldi, droga e armi.

Ma è rimasta l’atavica voglia di libertà, l’insofferenza per le frontiere, la spinta di partire che fa cantare a Van de Sfroos «E sèmm partii per questa America sugnàda in pressa, una valisa che gh’è deent nagòtt, cumè tocch de vedru de un biceer a tocch...» («Siamo partiti per questa America sognata in fretta, una valigia con dentro niente, come pezzi di vetro di un bicchiere rotto...)

Van De Sfroos sa giocare con la nostalgia, e nella canzone «Television» («Quanti dé, quanti nocc su quii pultrùnn, cun chel butùn, come un cujun...»: quanti giorni, quante notti su quella poltrona, con quel bottone, come un coglione...) c’è uno dei versi più belli del suo ultimo disco. Quando, ricordando la notte del luglio 1969 in cui gli astronauti arrivarono sulla Luna, commenta amaro: «Perchè i naven sö la Loena e i purtaven a cà i sass, e in giir sö la Tèra segütàven a cupàss» («Andavano sulla Luna e portavano a casa i sassi, e in giro sulla Terra continuavano a uccidersi»).
La musica è curatissima e moderna: va a ritmo di ska, rock, punk, reggae, in cui perfino uno strumento intrinsecamente triste come la fisarmonica riesce a colorare una melodia, rendendola sorridente.

Il 7 dicembre la città di Milano ha premiato con la sua più alta onoreficenza, l’Ambrogino d’oro, un altro grande cantante dialettale lombardo, Nanni Svampa. Lui è milanese. Anzi, franco-milanese, perché forse le sue canzoni più belle sono quelle ispirate da Georges Brassens, il papà di tutti i cantautori di livello (da Georges Moustaki a Fabrizio De André) scomparso esattamente vent’anni fa. Van De Sfroos si colloca in questa scia, dove la musica profuma di poesia e confina con l’anarchia.