In 40 anni quasi tutti i politici italiani (e del mondo) hanno gareggiato nel baciare la babbuccia al satrapo. Moro e Craxi gli salvarono perfino la vita
di Mauro Suttora
Oggi, 2 marzo 2011
Facile dirlo adesso: pazzo, criminale, tragico buffone. Ma fino a due settimane fa quasi tutti i politici italiani hanno blandito Muammar Gheddafi. Forse perché è un nostro connazionale: il dittatore libico, infatti, nasce in un villaggio di cammellieri vicino a Sirte nel giugno 1942. Allora la Libia era nostra. Ancora per pochi mesi, fino alla sconfitta di El Alamein. Incredibile: Gheddafi all’anagrafe è cittadino italiano.
Quinto maschio di dieci figli, genitori anzianotti, vita di stenti. È l’unico a sopravvivere, con tre sorelle più anziane. I Gheddafi sono una delle 180 tribù che, allora come oggi, compongono la Libia. Il piccolo Muammar cresce ascoltando le storie di guerra che suo padre gli racconta mentre gli animali pascolano. L’eroe è Omar al Mukhtar, partigiano impiccato dai colonizzatori italiani. Gheddafi si è appiccicato la sua foto sulla divisa quand’è venuto a Roma nel 2010.
Dopo la madrassa (scuola coranica) nel villaggio, va a Sirte a fare le medie. È così povero che dorme e mangia in moschea. I compagni lo prendono in giro: «Beduino!». Ma lui diventa il primo della classe. E ogni estate, invece di godersi le vacanze, fa transumare i cammelli per 500 chilometri, fino alle oasi del Fezzan. Frequenta il liceo a Sebha, in mezzo al deserto.
Intanto la Libia è diventata indipendente, sotto il re Idris Senussi. Gheddafi però adesso ha anche un altro eroe: il colonnello Gamal Nasser, che nel 1952 ha cacciato re Faruk dall’Egitto. Nel ‘56 segue per radio la crisi di Suez, la guerra contro Israele, poi le lotte anticoloniali algerine. Il suo animo s’infiamma, partecipa a cortei, viene schedato. Ciononostante negli anni ‘60 riesce a entrare all’accademia militare, per imitare il suo idolo. Lo mandano a specializzarsi in Inghilterra e ad Atene.
Il primo settembre 1969 rovescia il vecchio re con un golpe incruento. A 27 anni, diventa il più giovane dittatore della storia: Napoleone ne aveva 30 quando divenne primo console, Fidel Castro conquistò Cuba a 32. Il 1969, pensateci: cinque settimane dopo lo sbarco sulla Luna. Sembra un’altra era. «Cosa sono 42 anni?», ha chiesto Gheddafi cinque giorni fa, provocatorio come sempre: «Dicono che governo da troppo tempo. Ma la regina Elisabetta è al potere da molto più a lungo».
Aveva dei bellissimi rayban, nel ‘69, il capitano Muammar subito nominato colonnello e mai diventato generale per rispetto verso Nasser. La passione per gli occhiali gli è rimasta, l’ultimo fantastico modello panoramico lo ha inforcato nel penultimo discorso, col mantello marrone da beduino. Per tutti gli anni ‘70 e ‘80 l’Occidente lo ha sopportato perché c’era il blocco sovietico, e si voleva evitare che finisse con i comunisti come Assad in Siria e Saddam in Iraq. Poi, è campato grazie alla minaccia islamica e alla sua eccentrica laicità che ha (em)arginato Al Qaeda.
Lui però ne ha combinate di tutti i colori. Ha fornito armi, soldi e addestramento a ogni terrorista della terra: dalle Br all’Ira, dall’Olp alla Raf, dall’Eta al Settembre Nero della strage alle Olimpiadi di Monaco ‘72. Ha mosso guerra al Ciad e alla Francia, litigato con quasi tutti gli altri capi arabi in ogni vertice, incarcerato per anni infermiere bulgare accusate di aver diffuso l’Aids, ospitato Idi Amin, appoggiato Bokassa, ammazzato l’imam libanese Mussa Sadr. Qualunque banda armata in Africa è stata aiutata dalla Libia: nel Sahara Occidentale (contro i «fratelli» marocchini), in Liberia, in Sierra Leone. E se Mao ha scritto il «libretto rosso, Gheddafi ha composto un altrettanto indigesto «libro verde» pieno di teorie egualmente strampalate.
Nel 1986 passò il segno: un agente libico provocò tre morti e 250 feriti (fra cui molti soldati Usa) con una bomba nella discoteca La Belle di Berlino. Ronald Reagan bombardò Tripoli e Gheddafi sarebbe stato sepolto sotto le macerie come la sua figlioletta adottiva, se Bettino Craxi non lo avesse avvertito mezz’ora prima. Si vendicò sparacchiando due missili su una base Usa a Lampedusa: mancarono il bersaglio di due chilometri e finirono in mare.
Non era la prima volta che l’Italia salvava Gheddafi. Nel ‘71 il blitz segreto Hilton Assignment, ideato dal nipote del re deposto (e padre dell’attuale erede al trono libico, il principe Idris Senussi) fu fatto fallire da Aldo Moro, allora ministro degli Esteri. E questo nonostante l’anno prima 20 mila italiani fossero stati espulsi dalla Libia perdendo ogni bene, le basi angloamericane chiuse, le compagnie petrolifere nazionalizzate. Ma Muammar era considerato il male minore, un baluardo anticomunista. Per questo ancora a metà degli anni ‘80 istruttori italiani addestravano segretamente sui nostri Siai Marchetti (usati anche per mitragliare il Ciad) i piloti militari libici, dotati peraltro di Mirage francesi oltre che di Mig russi.
Gheddafi ha torturato e ucciso migliaia di oppositori in questi 42 anni, dentro e fuori la Libia. Nel 1988 il suo massimo crimine (finora): i 270 morti del jumbo Londra-New York fatto esplodere su Lockerbie (Scozia) da agenti libici. Ai parenti il colonnello ha pagato 2,7 miliardi di dollari (10 milioni ciascuno) in cambio della fine delle sanzioni economiche. Nel 1989 altra bomba su un aereo Uta Ciad-Parigi: 170 morti, 170 milioni di compensazione.
Quell’anno fui invitato da Gheddafi a Tripoli con altri giornalisti per visitare la fabbrica di Rabta: l’Onu lo accusava di confezionarci armi chimiche, lui giurava che fossero solo fertilizzanti. Dopo ore di attesa apparve il colonnello per farsi intervistare: quasi tutte le reporter occidentali si sciolsero al suo cospetto, subendo un misterioso fascino a me incomprensibile. Risultato: quando nel 2003 Gheddafi annunciò che abbandonava i tentativi di costruirsi la bomba atomica (temendo di fare la fine di Saddam), ammise che a Rabta le armi chimiche c’erano.
Finite le sanzioni Onu e Usa e arruolato Gheddafi nella lotta contro Al Qaeda, a Tripoli c’è stata la processione di leader democratici in gara per lucrose commesse: prima Tony Blair, poi Nicholas Sarkozy, infine nel 2008 perfino la bushiana Condoleezza Rice. Silvio Berlusconi ci ha messo maggiore entusiasmo, come sempre. Anche Prodi e D’Alema si sono inchinati davanti al rais del petrolio. Ma Silvio gli ha baciato l’anellone e ci ha inflitto la diretta tv dei disordinati cavalli berberi a Tor Di Quinto. Che hanno sfigurato, rispetto ai perfetti caroselli dei nostri carabinieri. Comunque, il tanto vituperato trattato di amicizia con la Libia del 2009 è stato votato anche dal Pd. Unici contrari: Casini, Pannella, Di Pietro e Furio Colombo. Sono tanti quindi, oggi, i vedovi di Gheddafi.
Non c’entrano invece, nonostante le apparenze, Paolo Conte, autore della deliziosa canzone Tripoli ’69, e Patty Pravo, che la cantò a Canzonissima all’inizio di quell’anno: non vinse, ma fu di buon auspicio per il golpe, regalandogli un’aura di pittoresco esotismo. Quanto a Muammar, gli resta un unico grande rammarico: non avere superato il primatista Fidel Castro nella hit parade mondiale dei satrapi più longevi. Ancora sette anni, e ce l’avrebbe fatta.
Mauro Suttora
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Wednesday, March 09, 2011
Saturday, December 22, 2001
Davide Van De Sfroos
Foglio, 22 dicembre 2001
di Mauro Suttora
Van De Sfroos non è un ciclista fiammingo. E’ il nome d’arte di Davide Bernasconi, cantautore dialettale comasco di 36 anni: «van de sfroos» in lariano significa «vanno di frodo». Contrabbandieri e irregolari sono infatti i personaggi delle canzoni di questo artista-rivelazione, che sta collezionando tutti esauriti in ogni concerto che tiene in Lombardia e Svizzera italiana. Così c’è il Bestia, «castig del Signuur, semper spurceleent e vestii cun’t un sacch, ma no l’era mai stracch» («castigo del Signore, sempre sporco e vestito con un sacco, ma non era mai stanco»). C’è quell’altro con «gli occhiali da tafano dell’autogrill di Fiorenzuola, pilota de la malura che scià el Gilera de rüvà ved mea l’ura» («...pilota della malora che sul Gilera di arrivare non vede l’ora»). E c’è naturalmente anche il cuoco del Grand Hotel, come su ogni lago che si rispetti, figura degna di quello di Salò cantato da Francesco De Gregori, solo che questo ha «il maa de schena, e l’è giamò ciucch a la matèna» («il mal di schiena, ed è già ubriaco alla mattina»).
Van de Sfroos, questa specie di Paolo Conte dell’Insubria, è diventato il mito nascosto della Lombardia settentrionale. Riesce a mettere d’accordo tutti: leghisti, ciellini, comunisti, forzisti. Ha vinto il premio Tenco del 1999, e il suo disco «Breva & Tivàn» (i due venti che soffiano regolarmente sul lago di Como, uno al mattino e l’altro al pomeriggio, permettendo per secoli ai «lagheè», gli abitanti del lago, di spostarsi da un paese all’altro), autoprodotto e senza una vera distribuzione, ha venduto 35mila copie spontaneamente, con la sola forza del passaparola.
Ora è uscito il nuovo «E semm partii...» (Siamo partiti), disco di folk rock che ne riconferma la fantasiosa vena poetica. Sul palco del teatro Smeraldo, a Milano, Lella Costa ha voluto leggere le sue poesie. E Ale e Franz, anche loro calati in pianura dalle prealpi (sono i comici sfigati che suonavano al citofono di «Mai dire gol»), lo hanno accompagnato con le loro battute surreali.
Il mondo di Van De Sfroos è pieno di personaggi stralunati, cantati con il suo vocione da cantastorie padano a metà fra Pierangelo Bertoli e Ligabue. Dopo i concerti, che tiene in posti dai nomi buffi come Uggiate Trevano, Zingonia, Guanzate o Tavernerio, giovani e vecchi portano sul palco ingrandimenti fotografici da firmare, bottiglie di vino e salami caserecci.
Da queste parti, fra Valtellina a nord, Brianza a sud, Svizzera a est e Orobie a ovest, il contrabbando è sempre stato qualcosa di più di un espediente per sopravvivere: fa parte della storia di ogni valle, paese e famiglia, dove c’è spesso un nonno o uno zio che andava «de sfroos». Almeno fino agli anni ‘70, quando le cose si sono incattivite e agli spalloni con sigarette e robe da poco si sono sostituiti i mafiosi con pacchi di soldi, droga e armi.
Ma è rimasta l’atavica voglia di libertà, l’insofferenza per le frontiere, la spinta di partire che fa cantare a Van de Sfroos «E sèmm partii per questa America sugnàda in pressa, una valisa che gh’è deent nagòtt, cumè tocch de vedru de un biceer a tocch...» («Siamo partiti per questa America sognata in fretta, una valigia con dentro niente, come pezzi di vetro di un bicchiere rotto...)
Van De Sfroos sa giocare con la nostalgia, e nella canzone «Television» («Quanti dé, quanti nocc su quii pultrùnn, cun chel butùn, come un cujun...»: quanti giorni, quante notti su quella poltrona, con quel bottone, come un coglione...) c’è uno dei versi più belli del suo ultimo disco. Quando, ricordando la notte del luglio 1969 in cui gli astronauti arrivarono sulla Luna, commenta amaro: «Perchè i naven sö la Loena e i purtaven a cà i sass, e in giir sö la Tèra segütàven a cupàss» («Andavano sulla Luna e portavano a casa i sassi, e in giro sulla Terra continuavano a uccidersi»).
La musica è curatissima e moderna: va a ritmo di ska, rock, punk, reggae, in cui perfino uno strumento intrinsecamente triste come la fisarmonica riesce a colorare una melodia, rendendola sorridente.
Il 7 dicembre la città di Milano ha premiato con la sua più alta onoreficenza, l’Ambrogino d’oro, un altro grande cantante dialettale lombardo, Nanni Svampa. Lui è milanese. Anzi, franco-milanese, perché forse le sue canzoni più belle sono quelle ispirate da Georges Brassens, il papà di tutti i cantautori di livello (da Georges Moustaki a Fabrizio De André) scomparso esattamente vent’anni fa. Van De Sfroos si colloca in questa scia, dove la musica profuma di poesia e confina con l’anarchia.
di Mauro Suttora
Van De Sfroos non è un ciclista fiammingo. E’ il nome d’arte di Davide Bernasconi, cantautore dialettale comasco di 36 anni: «van de sfroos» in lariano significa «vanno di frodo». Contrabbandieri e irregolari sono infatti i personaggi delle canzoni di questo artista-rivelazione, che sta collezionando tutti esauriti in ogni concerto che tiene in Lombardia e Svizzera italiana. Così c’è il Bestia, «castig del Signuur, semper spurceleent e vestii cun’t un sacch, ma no l’era mai stracch» («castigo del Signore, sempre sporco e vestito con un sacco, ma non era mai stanco»). C’è quell’altro con «gli occhiali da tafano dell’autogrill di Fiorenzuola, pilota de la malura che scià el Gilera de rüvà ved mea l’ura» («...pilota della malora che sul Gilera di arrivare non vede l’ora»). E c’è naturalmente anche il cuoco del Grand Hotel, come su ogni lago che si rispetti, figura degna di quello di Salò cantato da Francesco De Gregori, solo che questo ha «il maa de schena, e l’è giamò ciucch a la matèna» («il mal di schiena, ed è già ubriaco alla mattina»).
Van de Sfroos, questa specie di Paolo Conte dell’Insubria, è diventato il mito nascosto della Lombardia settentrionale. Riesce a mettere d’accordo tutti: leghisti, ciellini, comunisti, forzisti. Ha vinto il premio Tenco del 1999, e il suo disco «Breva & Tivàn» (i due venti che soffiano regolarmente sul lago di Como, uno al mattino e l’altro al pomeriggio, permettendo per secoli ai «lagheè», gli abitanti del lago, di spostarsi da un paese all’altro), autoprodotto e senza una vera distribuzione, ha venduto 35mila copie spontaneamente, con la sola forza del passaparola.
Ora è uscito il nuovo «E semm partii...» (Siamo partiti), disco di folk rock che ne riconferma la fantasiosa vena poetica. Sul palco del teatro Smeraldo, a Milano, Lella Costa ha voluto leggere le sue poesie. E Ale e Franz, anche loro calati in pianura dalle prealpi (sono i comici sfigati che suonavano al citofono di «Mai dire gol»), lo hanno accompagnato con le loro battute surreali.
Il mondo di Van De Sfroos è pieno di personaggi stralunati, cantati con il suo vocione da cantastorie padano a metà fra Pierangelo Bertoli e Ligabue. Dopo i concerti, che tiene in posti dai nomi buffi come Uggiate Trevano, Zingonia, Guanzate o Tavernerio, giovani e vecchi portano sul palco ingrandimenti fotografici da firmare, bottiglie di vino e salami caserecci.
Da queste parti, fra Valtellina a nord, Brianza a sud, Svizzera a est e Orobie a ovest, il contrabbando è sempre stato qualcosa di più di un espediente per sopravvivere: fa parte della storia di ogni valle, paese e famiglia, dove c’è spesso un nonno o uno zio che andava «de sfroos». Almeno fino agli anni ‘70, quando le cose si sono incattivite e agli spalloni con sigarette e robe da poco si sono sostituiti i mafiosi con pacchi di soldi, droga e armi.
Ma è rimasta l’atavica voglia di libertà, l’insofferenza per le frontiere, la spinta di partire che fa cantare a Van de Sfroos «E sèmm partii per questa America sugnàda in pressa, una valisa che gh’è deent nagòtt, cumè tocch de vedru de un biceer a tocch...» («Siamo partiti per questa America sognata in fretta, una valigia con dentro niente, come pezzi di vetro di un bicchiere rotto...)
Van De Sfroos sa giocare con la nostalgia, e nella canzone «Television» («Quanti dé, quanti nocc su quii pultrùnn, cun chel butùn, come un cujun...»: quanti giorni, quante notti su quella poltrona, con quel bottone, come un coglione...) c’è uno dei versi più belli del suo ultimo disco. Quando, ricordando la notte del luglio 1969 in cui gli astronauti arrivarono sulla Luna, commenta amaro: «Perchè i naven sö la Loena e i purtaven a cà i sass, e in giir sö la Tèra segütàven a cupàss» («Andavano sulla Luna e portavano a casa i sassi, e in giro sulla Terra continuavano a uccidersi»).
La musica è curatissima e moderna: va a ritmo di ska, rock, punk, reggae, in cui perfino uno strumento intrinsecamente triste come la fisarmonica riesce a colorare una melodia, rendendola sorridente.
Il 7 dicembre la città di Milano ha premiato con la sua più alta onoreficenza, l’Ambrogino d’oro, un altro grande cantante dialettale lombardo, Nanni Svampa. Lui è milanese. Anzi, franco-milanese, perché forse le sue canzoni più belle sono quelle ispirate da Georges Brassens, il papà di tutti i cantautori di livello (da Georges Moustaki a Fabrizio De André) scomparso esattamente vent’anni fa. Van De Sfroos si colloca in questa scia, dove la musica profuma di poesia e confina con l’anarchia.
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