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Thursday, March 16, 2023

Sequestratori, piromani, usurai: cosa ci insegnano sugli scafisti



Come spezzare il legame perverso che rende complici i trafficanti e le loro vittime? Per affrontare pragmaticamente la questione possono soccorrerci alcuni esempi

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 16 marzo 2023


Davanti al dramma dell'immigrazione irregolare sono inutili gli opposti estremismi (accogliamoli, blocchiamoli tutti), e le reciproche retoriche. Neanche Matteo Salvini parla più di rimpatri: troppo costosi, complicati, crudeli. E Giorgia Meloni ha abbandonato i proclami sui respingimenti. Ma il problema resta: come spezzare il legame perverso che rende complici i trafficanti e le loro vittime? Per affrontare pragmaticamente la questione possono soccorrerci alcuni esempi.

Negli anni '70-'80 vennero sequestrati 700 italiani, e pagati riscatti per circa 800 miliardi di lire. Una vera e propria industria, fiorente soprattutto in Calabria e Sardegna. Che però finì dopo che una legge del 1991 bloccò i beni alle famiglie dei sequestrati, impedendo loro di pagare i riscatti. Fu così spezzato l'interesse comune che univa estorsori e ricattati. 

Anche allora, come oggi, la priorità spontanea, immediata, era quella di "salvare vite umane". Quindi in molti protestarono per la drastica misura. Ma la terribile regola "non si tratta con i banditi" finì per annientarli, così come i brigatisti rossi furono sconfitti dopo il "non si tratta con i terroristi" che sacrificò Aldo Moro.

E allora: come si fa oggi a non sottostare ai ricatti dei mafiosi libici, turchi, tunisini? Bloccandoli alla partenza. Una volta che barche e barconi sono in mare, è già troppo tardi. Ma per avere l'energia di farlo bisogna innanzitutto divincolarsi mentalmente dal cosiddetto "trucco del piromane". Ecco il secondo esempio. Perché è evidente che l'urgenza assoluta, di fronte a incendi appiccati per i più vari motivi (rendere edificabili zone verdi, coltivabili zone boschive), è quella di spengerli. 

Tuttavia, per non trasformare i pompieri in forzati di Sisifo, nonché ong e guardie costiere in operatori eterni sulla seconda tratta della tratta, occorre anche qui agire alla radice. Quindi a Tripoli, Bengasi, Smirne, Sfax. Non in mare, dove possiamo soltanto trasbordare e salvare. E importa poco che si tratti di emergenze artificiali, create a bella posta dai trafficanti.

Terza similitudine: le vittime dell'usura. Anche loro spesso spinti dalla disperazione. In mancanza di banche che prestino soldi, si affidano ai mafiosi. Così come i migranti, i quali scelgono la via clandestina in mancanza di consolati che concedano visti. Esistono però i reati di usura e di immigrazione clandestina, proprio per colpire chi approfitta di queste disperazioni.

La differenza è che i taglieggiati dagli strozzini non vengono puniti, così come le prostitute sfruttate dai protettori o i drogati avvelenati dagli spacciatori; mentre i clandestini diventano tali nel momento in cui mettono piede in Italia (reato bipartisan, perché introdotto dalla legge di sinistra Turco-Napolitano nel 1998 e solo aggravato con la misura dell'arresto dalla legge di destra Bossi-Fini nel 2002).

Anche qui, però, il problema sostanziale rimane: come spezzare la complicità diabolica fra strozzini e strozzati, così simile a quella fra migranti e trafficanti? Non illudiamoci che la soluzione stia nella parola magica "corridoi umanitari", ora tanto amata e pronunciata in automatico dai politici. 

Le associazioni antiusura vi dimostreranno che anche allargando le maglie dei fidi bancari ci sarà sempre qualcuno in cerca di prestiti. Così come anche con quote più generose di immigrazione legale ci saranno sempre esclusi che correranno il rischio di quella illegale.

Saturday, August 20, 2022

Gli under35 capilista sono una disgrazia. Ritirate la candidatura, finché siete in tempo



Se volete fare politica, come diceva mia mamma, prima fatevi una posizione. Non diventate Casta troppo presto. Per rappresentare il loro popolo i giovani dovrebbero aver prima dimostrato qualcosa. Altrimenti sono solo miracolati

di Mauro Suttora

Huffpost, 20 agosto 2022


Ci mancavano gli under 35. Gli studenti di Berkeley sessant'anni fa iniziarono la contestazione urlando "Non fidatevi di nessuno sopra i 30 anni!". Ora invece alcuni giovani funzionari del Pd hanno ottenuto una corsia preferenziale per fare carriera: "Siamo gli unici che possono rappresentare la nostra generazione". Quindi verranno eletti in Parlamento con il solo merito della loro età.

Li scongiuro: no, non fatelo finché siete in tempo. Ritirate la candidatura. E, già che ci siete, lasciate la politica a tempo pieno. Trovatevi un lavoro vero. Non lo dico per qualunquismo: la politica è fra le più nobili delle attività. E ha bisogno di grande professionalità: equilibrio, facondia, intelligenza. Assieme ad amore, arte e religione è ciò che distingue gli uomini dagli animali. Ma proprio per questo non va ridotta a mestiere. 

Chi fa l'amore full time soddisfa l'esigenza più antica del mondo, quindi è comprensibile che le prostitute siano pagate. Praticare l'arte come mestiere è periglioso: difficile trarne sostentamento, uno su diecimila ce la fa, altro che mille. Quanto alla religione, seminari e chiese vuote sono lì a dimostrarci il disastro della sua professionalizzazione. 

Resta la politica. Capisco che stipendi da 9mila al mese (in Regione), 14mila (in Parlamento) o 20mila (Europarlamento) siano appetibili. Ma buttarsi da giovani in questa carriera significa condannarsi alla schiavitù. Dovrete sempre dire di sì al capo di turno per farvi rieleggere. Cambiare partito per sfuggire alla disoccupazione. Umiliarvi per restare a galla. Se verrete trombati sarà una tragedia: è  difficilissimo riciclarsi a 40-50 anni.

Non costringete quindi voi a vivere per sempre di politica, e noi a mantenervi. Non infliggeteci ulteriori reperti museali inestirpabili come Casini o Bonino. Guardate i 60 tapini che hanno seguito Di Maio: appena un mese fa pensavano di aver fatto una scelta furba, abbandonando la nave grillina che affonda. Ora resteranno quasi tutti senza posto. Per non parlare di Renzi, precipitato dal 40 al 2%. 

Insomma, se volete fare politica prima fatevi una posizione, come diceva mia mamma. Scegliete un qualsiasi altro onesto lavoro per mantenervi, e poi praticatela come prezioso hobby o commendevole volontariato. Non diventate Casta troppo presto: i grillini hanno dimostrato che la politica è una fabbrica di spostati.

Chi non ha un proprio lavoro cui tornare in caso di non rielezione, un paracadute, come Moro, Cacciari o Letta, è costretto a elemosinare strapuntini in enti parastatali. Oppure a sventolare il proprio certificato anagrafico in guisa di massima virtù, come gli sventurati pd under 35. Parafrasando Venditti: "Compagno di scuola, ti sei salvato o sei finito in politica pure tu?" 

Non ho niente contro i giovani. Ma per rappresentare il popolo dovrebbero aver prima dimostrato qualcosa. Altrimenti sono solo miracolati. Bonino, per esempio, approdò in Parlamento nel 1976 a 28 anni sull'onda delle sue lotte per l'aborto legale. Robespierre e Saint-Just fecero una rivoluzione a 31 e 22 anni. I Giovani Turchi cacciarono i vecchi ottomani pantofolai; poi però, avendo l'età dell'estremismo fanatico, sterminarono gli armeni.

Gli antichi romani, che avevano già capito tutto, facevano l'esatto contrario dell'odierno pseudogiovanilismo: in politica si affidavano alla saggezza dei vecchi senex riuniti nel Senato. Invece questi vorrebbero il Giovinato. 

Wednesday, March 10, 2021

Letta, Renzi e l'arte della scomparsa

di Mauro Suttora

Huffpost,10 marzo 2021

Se dirà sì alla segreteria pd, l’autoesilio di Enrico Letta sarà durato metà della prigionia del conte di Montecristo. Sette anni, dopo quella scena inobliabile del febbraio 2014 quando non guardò in faccia Matteo Renzi mentre gli stringeva la mano consegnandogli il campanellino da premier.

Sette anni lontano dalle beghe politiche nostrane, dimissioni anche dal Parlamento e dal Pd (tessera rinnovata solo due anni fa, dopo l’elezione a segretario di Zingaretti).


Due incarichi prestigiosi a Parigi: direttore della Scuola di Affari internazionali di Sciences Po (la fucina dell’élite francese con l’Ena), e dell’Istituto Jacques Delors. Conferenze in tutto il mondo, da San Diego in California a Sidney. Nessuna consulenza pagata da satrapi mediorientali.


Unica carica conservata in Italia: direttore dell’Arel, il centro studi del maestro Nino Andreatta. Chiuso VeDrò, il suo think tank accusato dal sottosegretario grillino all’Interno Sibilia di essere il “Bilderberg italiano”, occulto potere forte, incubo dei complottisti.


Il ritorno trionfale di Letta dimostra che se in amore vince chi fugge, in politica può risorgere soltanto chi scompare. Ci aveva pensato anche Renzi, quando promise di dimettersi se avesse perso il suo referendum del dicembre 2016. Qualcuno gli consigliò di passare le consegne anche in caso di vittoria, per girar pagina e andare a nuove elezioni.


Invece Renzi è rimasto aggrappato al cortile dei palazzi romani. Ha perpetuato il suo personale think tank della Leopolda. Nel 2017 si sfogò contro il rivale Letta in un’autobiografia: “Non lo pugnalai alle spalle, fu il Pd a cambiare cavallo. Il suo governo era immobile, l’unica cosa che fece fu aumentare l’Iva. Alle primarie Pd Enrico prese solo l’11 per cento”.


“Disgustoso”, replicò durissimo Letta, abbandonando per una volta il suo aplomb. «Il silenzio mantiene meglio le distanze. Da tempo ho deciso di guardare avanti, e non saranno queste ennesime scomposte provocazioni a farmi cambiare idea. Gli italiani sono saggi, sanno giudicare».


E il giudizio dei sondaggi oggi è impietoso per Renzi, confinato al 3%. Grazie alle sue capacità manovriere sopraffine è stato lui a decidere la nascita dei nostri ultimi due governi, il Conte 2 e il Draghi ecumenico. Ma il consenso è volato da un’altra parte, posandosi ora proprio sulla testa del detestato rivale.


Perché l’arte della scomparsa non è da tutti. La praticano solo i veri statisti. Churchill ha avuto tre vite politiche resuscitando due volte, nel 1940 e nel 1951, dopo lunghi isolamenti. La “traversata del deserto” di De Gaulle durò dodici anni, fino al trionfale ritorno nel 1958.


Anche i cavalli di razza italiana sapevano prendersi intervalli. Fanfani, soprannominato ‘Rieccolo’, fu dato per politicamente morto infinite volte, e altrettante tornò a palazzo Chigi: l’ultima a 79 anni, nel 1987. Il suo amico/rivale Moro aveva la cattedra universitaria cui dedicarsi quando non governava.


Il 55enne Letta e il 46enne Renzi hanno ancora una vita politica davanti a loro. Il primo, se accetterà la segreteria pd, è ben posizionato per succedere a Draghi. E il secondo s’inventerà sicuramente qualcosa per soddisfare la sua straboccante personalità.

Mauro Suttora

Friday, November 06, 2020

Caos lockdown e Conte: soluzione 'alla Moro'

Serve una soluzione “alla Moro” prima del dramma

Mattarella sta già supplendo a Conte, debolissimo e in balia dei suoi errori. Un cambio politico è nelle cose, il più è che non sia tardi

intervista a Mauro Suttora

di Federico Ferraù

Il Sussidiario, 6 novembre 2020 

Entra in vigore il nuovo Dpcm Conte, le regioni “rosse” non ci stanno. Non c’entra il colore politico, ma quello epidemiologico, deciso sulla base di criteri ritenuti arbitrari dalle regioni confinate in fascia rossa: Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e Calabria. Qui vigono le restrizioni adottate a livello nazionale (colore giallo) con l’aggiunta di misure più drastiche. Il risultato è un lockdown molto simile a quello di marzo-aprile.

I governatori colpiti criticano i criteri del Cts. “Informazioni vecchie di dieci giorni che non tengono conto dell’attuale situazione epidemiologica”, accusa Fontana (Lombardia); “il governo spieghi la logica di misure diverse per situazioni simili”, ha ribadito Cirio (Piemonte). Ieri la Calabria ha annunciato un ricorso. Intanto i nuovi contagi sono 34.505, i decessi in un giorno 445 (139 in Lombardia), +1.140 (5,2%) i ricoverati con sintomi, +4.961 (1,6%) i dimessi/guariti, +99 (4,3%) le terapie intensive per un totale di 2.391 posti occupati.

Per Mauro Suttora, giornalista, già corrispondente all’estero per varie testate, è Mattarella ad avere salvato Conte e il governo. 

Il presidente del Consiglio è politicamente in terapia intensiva, con il Pd – che manca di coraggio – a controllare il rubinetto dell’ossigeno. Un cambio politico è nelle cose, occorre solo sperare che non sia troppo tardi.

Come mai il governo ha deciso un lockdown basandosi su dati vecchi, risalenti al 25 ottobre? Le regioni protestano.

Si tratta di una montagna di dati che vengono ricondotti a 21 indicatori, dei quali la maggioranza sono stati tenuti segreti fino a due giorni fa. Questa è la prima vera anomalia. Ricolfi chiede da mesi sul Messaggero che siano resi pubblici, non è l’unico, ma il governo ha sempre fatto orecchie da mercante.

Perché?

Non lo sappiamo. Disaggregati, darebbero indicazioni utili, a livello comunale e anche a livello di quartiere per le grandi aree metropolitane.

Ma nessuno protesta.

È una querelle rimasta confinata a livello specialistico. Resta il fatto che in questo modo non sono possibili analisi indipendenti.

I dati, ha detto Conte, sono in possesso delle regioni, che li trasmettono al Cts. Ieri lo ha ripetuto anche Brusaferro in conferenza stampa.

È una presa in giro, perché ogni regione conosce sì i suoi dati, ma non quelli delle altre regioni. Io, lombardo, voglio conoscere tutti i dati che confluiscono nei 21 indicatori ma non posso. Perché? Nessuno finora è riuscito a spiegare sui giornali come si calcola l’Rt. 

Qual è l’Rt ce lo dice il Cts.

Appunto. Dopodiché, sulla base di quei dati, qualcuno chiude l’economia e rovina la vita alla gente.

Oltre alla mancanza di trasparenza, ci sono altri fattori a motivare il ritardo?

Probabilmente sì e sono tutti motivi politici. Se i dati per decidere le zone rosse fossero quelli di oggi, al governo dovrebbero ricominciare il balletto dei tavoli e delle liti, con la Bellanova che vuole tutto aperto e Speranza che invece vuole tutto chiuso.

Come può essere gialla una regione come la Campania?

Dal governo ti risponderebbero che lo è perché De Luca ha già chiuso le scuole, come ha fatto Emiliano in Puglia. Ma allora vuol dire che De Luca, domani, avrebbe, se volesse, la facoltà di riaprirle?

C’è un criterio politico nell’individuazione delle zone rosse?

È evidente che la disparità tra Lombardia e Campania è sconcertante, non tanto nel numero delle infezioni, che sono pur sempre in relazione al numero dei tamponi; ragioniamo piuttosto in termini di ricoveri, terapie intensive e decessi, che sono dati oggettivi.

La tua morale qual è?

Che se dichiari rossa la Lombardia non puoi non dichiarare rossa anche la Campania, che è da un mese in condizioni gravi.

Secondo te nella classificazione possono aver pesato anche le proteste di piazza?

Io credo di sì. Forse è uno dei fattori che non ci dicono… il 22esimo potrebbe essere il fattore C come “camorra”. Il dato politico è che Conte ha fatto il suo tempo. Sta governando Mattarella. È stato lui a fare la riunione con i presidenti delle regioni. 

Come va letto questo passaggio, rimasto per ovvie ragioni ai margini della cronaca politica?

Mattarella è intervenuto a sostenere Conte quando ha capito che da solo non ce l’avrebbe fatta. È stato lui a parlare con Bonaccini e Toti. Oggi (ieri, ndr) ci sono stati 445 morti; dopo l’inchiesta sulla mancata zona rossa di Bergamo, Conte potrebbe dover tornare in procura anche per il secondo lockdown mancato.

Palazzo Chigi è apparso in stato confusionale. Quanto può durare questa situazione?

Conte è in terapia intensiva, ma la manopola dell’ossigeno è nelle mani del Pd. Non hanno il coraggio di trovare l’accordo con Mattarella su un altro nome Pd da mettere come premier.

Chi blocca tutto?

Goffredo Bettini, attraverso Zingaretti. Gli piace sentirsi Richelieu, ha deciso che Conte è un specie di Churchill e che i 5 Stelle sono la nuova anima della sinistra, come fino a qualche mese fa lo erano le sardine. Chi se le ricorda più? Dopo le prossime elezioni diremo: chi si ricorda più del M5s? Per adesso sono ancora il non plus ultra, per Bettini.

Si arriverà ad un governo di unità nazionale?

Forse. È da mesi che ci stupiamo di come il Conte 2 sia ancora in piedi. Più prevediamo scenari alternativi, più rimane al suo posto. L’occasione, strettamente parlando, potrebbe essere accidentale, un incidente d’aula.

Non è anche e soprattutto Mattarella a sostenere Conte?

Certo. È ovvio che non si può andare al voto adesso. La strada maestra sarebbe coinvolgere l’opposizione: Mattarella lo ha invitato più volte a farlo. Conte, però, non lo ha preso sul serio.

Sarà la pandemia a imporre un cambio politico?

Dobbiamo augurarci che non ci si arrivi quando i numeri saranno ancora più drammatici, o quando il disastro economico si abbatterà sul paese.

Il come non è un dettaglio.

Una strada, volendo, si trova sempre. Nel 1978, durante il sequestro Moro, il governo venne esautorato. Ogni sera si riunivano Andreotti, presidente del Consiglio, Galloni per la Dc, Pecchioli per il Pci e pochi altri a decidere tutto quello che c’era da decidere.

Federico Ferraù

Monday, June 15, 2020

Il M5S faccia come la Dc con le sue correnti

PARLA SUTTORA, CHE SUL PARTITO DI CONTE DICE...

di Francesco De Palo

Formiche.net

15 giugno 2020

intervista sul sito
 
“Le correnti, pur detestate per ipocrisia, ci sono sempre state tra i grillini. Se hanno convissuto nella Dc Scalfaro e Moro, potranno farlo anche Fico e Di Battista” Il partito di Conte? "Pesca più nel Pd che nel M5s".
 Lo dice a Formiche.net il giornalista e saggista Mauro Suttora, profondo conoscitore del mondo grillino, che segue dai suoi inizi, il quale analizza il trend del movimento su cui si sta innescando un dibattito relativo a venti di scissione e equilibri futuri (oltre che presenti).

Uno, due, o niente? Il M5S si scinde, resta così e scompare oppure raddoppia con nuovo scheletro?
"Se sono stupidi si scindono. Se sono intelligenti rimangono assieme. Se sono molto intelligenti riescono a tenere dalla propria parte anche Giuseppe Conte. Ma comunque non credo al sondaggio pubblicato ieri dal Corriere, secondo cui il M5S con il premier avrebbe il 24% dei consensi, e separato solo il 12%. Anche l’ipotesi che i grillini assieme a Conte andrebbero al 30%, che il Corriere ha fatto circolare con i numeri di Pagnoncelli, mi sembra azzardata".

Tra i grillini le correnti, fino a ieri detestate dal popolo dei Vaffa, saranno risolutive, in un senso o nell’altro?
"Le correnti ci sono sin dal primo Vaffa Day del 2007, quando le liste si chiamavano “Amici di Grillo”. Tutto il resto è solo ipocrisia. Ricordo che anche solo per scegliere la prima candidata sindaca a Roma nel 2008 ci fu una contrapposizione tra due fazioni, e Roberta Lombardi perse per soli tre voti con 60 votanti in tutto, mentre la vincente poi ha lasciato il movimento. Le correnti sono sempre esistite anche se sottotraccia, pur in presenza di una certa ipocrisia da parte di Casaleggio che non le voleva, ma il dato è l’oggi. Se saranno scaltri come lo fu la Dc, allora le useranno: se per 40 anni sono riusciti a stare assieme Oscar Scalfaro e Aldo Moro, non vedo perché non potrebbero farlo ora Fico, Taverna e Di Battista".

Di Battista ha detto: “Ieri ho parlato di congresso e delle mie idee e Beppe Grillo mi ha mandato a quel paese. Io ho delle idee e, se non siamo d’accordo, francamente, amen”. La frattura sui temi dirimenti come il Mes, il caso Regeni, l’Ue c’è già stata in fondo?

"I Cinque Stelle non hanno ideologia e si vantano di non averla, quindi sono riempibili da parte di qualsiasi valore e parola d’ordine. Ora l’unico obiettivo è restare aggrappati all’attuale legislatura, perché in caso di voto verrebbero dimezzati. Per cui si muovono in modo opportunistico, il potere per il potere. In questa situazione paradossalmente proprio Di Battista è il più grillista dei grillini, forse più dello stesso Grillo, il quale che non ha più la coerenza degli inizi. Il comico, molto spregiudicatamente, ha compreso che o il M5S resta al traino del Pd, oppure si va ad un nuovo governo e al voto. Mi ha molto stupito la durezza con cui Grillo ha attaccato Di Battista".

Cosa significa? Si sono rotti rapporti umani, oltre che progetti politici?
"Penso che abbia stupito tutti, anche molti grillini. Dimostra che Grillo fa il comico e non è capace di fare politica, perché spingere Di Battista verso Paragone e il sovranismo è sbagliato: costa loro tra il 5 e il 10% di voti".

Il matrimonio del M5S col Pd che frutti ha portato?
"Per il Pd è stato un disastro, lo dimostrano i numeri di Pagnoncelli secondo cui una eventuale Lista Conte pescherebbe proprio tra i dem e non solo tra i grillini. Il Pd scenderebbe al 16, addirittura sotto FdI. E comunque rimarrebbe a non più del 20-22% anche senza la lista del Premier. Conte va a succhiare proprio nel Pd: ecco il grande miracolo di Bettini e Zingaretti".

La postura in politica estera non è un elemento secondario. La scelta alla Farnesina l’ha stupita?
"Non c’è guida su dossier strategici come caso Regeni, energia, geopolitica. Se penso ai predecessori dell'attuale ministro come Enzo Moavero Milanesi o Paolo Gentiloni, qualcosa fu fatto rispetto all’oggi. Di Maio alla Farnesina è folklore puro. Per nostra fortuna sono aperti altri canali, penso al commissario Ue Gentiloni o al presidente del Parlamento Sassoli.

Come giudica la scelta, temporale e di merito, degli Stati Generali a Villa Pamphilj?
"Riprendo le sagge parole del Capo dello Stato, che ha detto di aspettare i fatti. In sostanza una stroncatura netta. Siamo diventati il paese dei festival: quindi comprendo il rifiuto delle opposizioni su questo tema. Mi pare che Antonio Polito sul Corriere della Sera abbia detto tutto: scivoliamo in eventi pittoreschi".

Wednesday, February 11, 2015

Rosy Bindi: "Il mio Mattarella"

NOI CATTOLICI DEMOCRATICI, INCOMPRESI ANCHE NELLA CHIESA

di Mauro Suttora

Oggi, 4 febbraio 2015

"Quando sono entrata in Parlamento nel 1992 avevo alla destra del mio seggio Sergio Mattarella, e a sinistra Leopoldo Elia. Ho imparato molto da loro. E' stata una gran scuola: quella di Aldo Moro, Zaccagnini, La Pira, Dossetti. Insomma, i cattolici democratici della sinistra Dc".

Rosy Bindi è considerata la sorella politica del nuovo presidente della Repubblica. Insieme, e con Enrico Letta, Dario Franceschini e Rosa Russo Jervolino, hanno contrastato Rocco Buttiglione che dopo Tangentopoli voleva spostare il partito Popolare (ex Dc) nel centrodestra. E nel '96 hanno fatto nascere l'Ulivo di Romano Prodi, primo abbozzo del partito Democratico con gli ex comunisti.

Ora è seduta nel Transatlantico, la sala di Montecitorio accanto all'aula dove ha appena votato nella seduta che sta mandando Mattarella al Quirinale. È uno dei giorni più felici della sua vita politica. Tutti vengono a congratularsi.

Lei non sta nella pelle, ci dà la sua prima intervista ma avverte: "Appena inizia lo spoglio torno dentro, per sentire i voti uno a uno".

Ma il risultato è sicuro.
"Non si sa mai. Voglio soffrire fino all'ultimo".

È da parecchio che soffre, Rosy Bindi. Prima per Berlusconi, poi per un Matteo Renzi che assomigliava troppo a Berlusconi.
"Quasi tutto perdonato. Vado ad abbracciarlo. L'elezione di Mattarella è un capolavoro".

Quando ha conosciuto il nuovo presidente?
"Mattarella aveva già dieci anni di esperienza parlamentare quando approdai a Roma. Era stato eletto alla Camera nell'83, raccogliendo l'eredità del fratello Piersanti assassinato dalla mafia. Diventammo subito amici".

Anche con la sua famiglia?
"Sì. Sua moglie, scomparsa due anni fa, era una donna straordinaria: l'opposto di lui per temperamento, ma uguale acutezza. Fui ospite da loro a Palermo, loro da me in montagna".

È vero che lo chiamavano 'Martirello' per l'aria lugubre e sofferta?
"E' molto riservato, ma ha un senso spiccato dell'humour".

Com'e' che si dimise da ministro contro Berlusconi?
"Nel 1990 la legge Mammi' salvò le tv Fininvest da una direttiva europea che vietava il possesso di tre canali da parte di un solo privato. Cosi' tutti i ministri della sinistra Dc se ne andarono dal governo Andreotti. Lui lasciò la Pubblica istruzione: una scelta drastica e irrevocabile improbabile per un Dc, ma non per un cattolico democratico".

Lei nel 1980 era accanto al professor Vittorio Bachelet ucciso dai brigatisti rossi. Un mese prima Mattarella vide morire il fratello fra le sue braccia. Vi unisce il dolore?
"Sì, ma anche tante battaglie combattute assieme, come quelle contro il Caf di Craxi, Andreotti, Forlani, e contro Berlusconi. Quando lui era vicepresidente del governo D'Alema nel '99 ebbi un forte appoggio per portare a termine la riforma della Sanità. Siamo cristiani ma pratichiamo la laicità, come ho dimostrato con i Dico, i Diritti dei conviventi. Noi cattolici democratici, prima di papa Francesco, abbiamo attraversato anni difficili anche dentro la Chiesa, con la presidenza Ruini della Cei".

Nel 2008 Mattarella lasciò la politica, non si ricandido'.
"Troppo cinismo e tatticismo nei partiti. Decisione non indolore, per un fondatore del Pd. Ma che si è rivelata provvidenziale, perché essere fuori dai giochi ha favorito questa sua elezione a presidente". 
Mauro Suttora  

Wednesday, July 16, 2014

Luigi Di Maio indiscreto

Chi è Luigi Di Maio

IL 5 STELLE BON TON PIEGA ANCHE GRILLO

Emergenti: chi è la promessa pentastellata che fa "ragionare" perfino il leader.

Per il troppo lavoro ha perso la fidanzata e continua a rimandare la laurea. Vicepresidente della Camera a soli 26 anni, Luigi Di Maio ora tratta con Renzi e fa rientrare in gioco il movimento

Oggi, 16 luglio 2014

di Mauro Suttora



A 26 anni Giulio Andreotti e Aldo Moro non erano neppure in Parlamento. Bettino Craxi era solo consigliere comunale, Matteo Renzi un oscuro segretario provinciale Ppi. E Silvio Berlusconi non aveva ancora visto un mattone. Luigi Di Maio, invece, è diventato vicepresidente della Camera.

Se c’è un wonder boy della politica oggi in Italia, è lui. Undici anni meno del premier, ma quanto a parlantina e aplomb gli tiene testa. Lo ha notato l’Italia intera, quando il napoletanino del Movimento 5 stelle (M5s) ha affrontato Renzi in streaming. Risultato: ora Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio si fidano solo di Di Maio. Che così è diventato il numero uno del secondo partito italiano.

Ci ha messo appena un’ora e mezza a far fare dietrofront perfino al proprio capo. Grillo aveva di nuovo insultato Renzi: «ebetino», e anche «ebetone». Lui si è messo al telefono, e pazientemente lo ha convinto: la trattativa col Pd continua. Nessuno screzio fra i due, solo fiducia. «Imparo sempre da Di Maio, anche quando sta zitto»: così, come sempre scherzando ma non troppo, il fondatore dei 5 stelle lo aveva incoronato candidato premier prima delle europee.

Poi il disastro, perso un voto su tre, e soprattutto Renzi col doppio dei consensi: 40 per cento a 21. Allora Grillo e Casaleggio hanno aperto furbi al Pd: «Facciamo insieme la riforma elettorale». Obiettivo: far fuori Berlusconi e il suo patto del Nazareno con Renzi. Rimettendo in gioco i sei milioni di voti del M5s, finora congelati in un’opposizione dura ma con pochi sbocchi.

E chi meglio del genietto di Pomigliano d’Arco come volto della svolta costruttiva?
Di Maio ha un padre impresario edile nonché, come il collega Alessandro Di Battista (il suo opposto: esagitato ed esagerato), fascista: prima Msi, poi An. Lui, invece, è troppo giovane per non essere vergine. Mamma Giovanna è prof di italiano e latino allo scientifico. 

Come Renzi, ha cominciato a «rompere le balle» già al liceo. E ha continuato da capetto anche all’università di Napoli: fonda una lista, diventa subito presidente pure lì: del consiglio degli studenti. Oltre a consigliere della facoltà di Legge.

Fanatico dei computer, segue Grillo dal primo Vaffaday del 2007. L’impegno politico gli fa perdere due cose: la laurea (è ancora fuoricorso, ora vuole recuperare online) e la fidanzata (troppo indaffarato, ora pare pratichi l’endogamia con la pentastellata Silvia Virgulti, bella tv coach che gli ha insegnato a ben figurare sullo schermo).

Trombato alle comunali nel 2010 (neppure papà votò per lui, 59 preferenze), due anni dopo alle primarie per diventare deputato gli bastano 189 voti. E pochi minuti per convincere gli altri cento deputati 5 stelle, digiuni di politica, a designarlo vicepresidente della Camera.

Dopo un anno molti, anche negli altri partiti, lo preferiscono alla presidente Laura Boldrini. Ineccepibile, autorevole, equilibrato, ha imparato a memoria il regolamento e infligge espulsioni: su tredici deputati che ha fatto cacciare dall’aula, ben otto sono grillini. Altro che salire sui tetti.

Ciononostante è amato (o almeno non detestato) anche dai 5 stelle oltranzisti. La pantera 45enne Paola Taverna gli è affezionata: «Però col Pd dev’essere meno moscio, sennò sembriamo Fantozzi». Il senatore Michele Giarrusso lo stima ma scherza agrodolce: «La trattativa Renzi-Di Maio? Facciamo giocare un po’ i ragazzini, in realtà il Pd non è cambiato».

Lui procede imperterrito, come certi partenopei più severi e disciplinati degli svizzeri. Mai una parola fuori linea, mai una virgola non sintonizzata col vertice Grillo&Casaleggio. Ma riesce anche a non apparire pedissequo. Con i proconsoli onnipotenti del gruppo Comunicazione, veri guardiani dell’ortodossia (l’ex Grande Fratello Rocco Casalino e l’ex assistente della Taverna, Ilaria Loquenzi), dirige di fatto il M5s. Il cui slogan era «Uno vale uno». Ma Di Maio ora vale tanto.
Mauro Suttora 

Wednesday, May 15, 2013

Giulio Andreotti


Oggi, 6 maggio 2013

di Mauro Suttora

Questa volta è vero. Aveva scherzato tante volte, Giulio Andreotti, sulla propria morte. «La notizia mi pare francamente esagerata», commentava ogni volta che si spargeva la voce di una sua dipartita dopo l’ennesimo ricovero d’urgenza in ospedale per «scompensi» o «malori». Una volta, cinque anni fa, quasi scomparve in diretta tv la domenica pomeriggio. «Presidente…»: Paola Perego gli aveva rivolto una domanda, ma lui restava muto seduto in poltrona, con lo sguardo fisso nel vuoto. Occhi aperti, però. Superata la crisi, l’inevitabile battuta: «Ringrazio il principale per la proroga».

Un anno prima era ancora vivacissimo: nel 2007 lo andai a trovare nel suo ufficio privato di piazza San Lorenzo in Lucina a Roma per un’intervista sulla moschea di Roma, che lui fece costruire in accordo col re saudita negli anni 70. 
Aveva il vezzo di dare appuntamenti a ore impensabili per le latitudini romane: otto in punto. Non c’era più la fedele e mitica segretaria, signora Enea, e lui fissava gli appuntamenti da solo a chi gli telefonava sulla linea diretta. La semplicità del vero potere: niente pompa borbonica, addetti stampa, attese. Poi, appena apriva bocca, il fascino della conversazione ad alto livello: mai una banalità, sempre (auto)ironico, il gusto dell’aneddoto spiazzante, la memoria prodigiosa: «Non è un uomo, è un archivio», dicevano, temendolo, i colleghi democristiani.

Peccato che i grillini non lo abbiano conosciuto. Avrebbero potuto imparare molto da lui, simbolo del potere per mezzo secolo: quintessenza del «regime», ma anche navigatore abilissimo e felpato. Molti ex avversari giurati sono rimasti vittima del suo fascino. Quasi diabolico, e infatti faceva Belzebù di soprannome. 
Era al potere già nel 1945, quando Alcide De Gasperi scelse quel giovane alto e già un po’ curvo, conosciuto nella biblioteca vaticana durante la guerra, come sottogretario alla Presidenza. Perfetta volpe di oratorio, un po’ come Enrico Letta sottosegretario di Romano Prodi nel 2006-8.

Si occupa di cinema, gli piace frequentare attori e registi anche se sono quasi tutti di sinistra. Intanto, comincia a coltivare l’orticello elettorale nel collegio ciociaro. Morto De Gasperi diventa ministro dell’Interno nel primo governo di Amintore Fanfani. Ha solo 34 anni, il più giovane nella storia repubblicana. Da allora è stato ministro ben 26 volte, in dieci dicasteri diversi, e presidente del Consiglio sette volte: tutti record mondiali. 
Otto volte ministro della Difesa, ininterrottamente dal 1959 al ’66. Sono anni difficili: rivolta a Genova nel ’60 contro il governo Tambroni, minacce di golpe nel ’64 contro il primo centrosinistra e l’apertura al Psi. Lì si crea la fama inquietante di uomo della destra dc, con una sua corrente autonoma: piccola, mai più del 12-20%, ma sempre decisiva fra la sinistra e i dorotei.

Nel 1972 è premier la prima volta, in un governo di centrodestra senza i socialisti e col ritorno dei liberali. Poi, la giravolta. Il suo vecchio amico Aldo Moro (gli successe nel ’42 alla guida degli universitari cattolici) gli affida dal ’76 i governi dell’apertura al Pci: «solidarietà nazionale» con la scusa di terroristi e crisi economica, comunisti mai direttamente al governo ma decisivi con l’astensione. E Andreotti a garantire presso americani e ambienti conservatori.

Il dramma del rapimento Moro lo colpisce in pieno. Sceglie la «fermezza» contro le Brigate Rosse: niente trattativa. E quelle uccidono il presidente dc. È un colpo duro: per quattro anni non torna al governo. «La vecchia volpe è finita in pellicceria», si illude Bettino Craxi, segretario Psi. Che però poi ricorre proprio a lui offrendogli l’ennesima giravolta: quando diventa premier nel 1984-87, primo socialista alla guida dell’Italia, gli affida gli Esteri. In pratica Andreotti è il numero due del governo, sempre come copertura a destra.

Ho un ricordo personale del 1987. Avevo scoperto, per il settimanale Europeo di cui il «divo Giulio» (scrittore di successo per l’editore Rizzoli) era commentatore, il traffico di armamenti Valsella-Tirrena-Bofors: l’Italia e altri Paesi europei vendevano armi ed esplosivi a Iran e Iraq in guerra, violando l’embargo Onu. Chiaramente Andreotti sapeva. E chiaramente lo scandalo non finì in copertina. Lui non ne fu toccato.

Nel 1988 Ciriaco De Mita riesce a sconfiggere Craxi e a conquistare palazzo Chigi. Ma dura solo un anno: ultimo giro di valzer, Andreotti cambia cavallo e dalla sinistra demitiana passa alla destra di Arnaldo Forlani. In cambio Craxi gli dà per tre anni, fino al ’92, la guida del governo. È il famoso Caf (Craxi-Andreotti-Forlani).

A 73 anni Giulio, senatore a vita, spera di coronare la carriera al Quirinale. Ma Tangentopoli travolge anche lui, viene eletto Oscar Luigi Scalfaro. Perso il potere, arriva l’accusa più tremenda: complice della mafia. Il suo proconsole siciliano, Salvo Lima, assassinato per aver violato qualche patto. Andreotti accusato da un pentito di avere baciato il boss Totò Riina. 
Ma lui non fa come Silvio Berlusconi, non grida al complotto dei magistrati. Si sottopone docilmente al processo per dieci anni, difeso dagli avvocati Franco Coppi (oggi legale di Berlusconi) e Giulia Bongiorno. Nel 2003 la Cassazione lo assolve per i fatti dopo il 1980. Per quelli precedenti, scatta la prescrizione.
Altra grande ombra su Andreotti: l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Condannato in appello a 24 anni, assolto in Cassazione. Ma sono tanti i segreti che l’uomo più imperturbabile d’Italia si porta nella tomba.
Mauro Suttora

Friday, March 01, 2013

GRILLINI & POLITICA/ Abbiamo fatto il botto: e adesso che facciamo?

Governare o restarne fuori? E il dilemma che attraversa il Movimento 5 stelle dopo la vittoria elettorale. Per MAURO SUTTORA la storia insegna che c'è una via possibile 

intervista a Mauro Suttora di Paolo Vites


www.ilsussidiario.net, 1 marzo 2013


Giornate febbrili, queste che succedono immediatamente al voto che ha cambiato l’Italia. Ci si chiede se il nostro Paese con il successo dei grillini è diventato ingovernabile, mentre Grillo lancia – come sua abitudine peraltro – messaggi controversi, prima dicendo che non voterà la fiducia a nessun governo, poi chiedendo che Pd e Pdl votino la fiducia a un governo Cinque stelle. 

In questo quadro, la base del movimento sembra spaccarsi tra chi chiede di aprire un dibattito con le forze politiche parlamentari e chi dice invece di starne fuori.

 

Per Mauro Suttora, redattore di Oggi ed editorialista  del New York Observer, contattato da ilsussidiario.net, grande conoscitore dell’universo grillino, “si sta aprendo una fase di dibattito che può portare a una spaccatura, proprio come successo ad altri movimenti rivoluzionari quando entrarono nello scenario parlamentare”.

Per Suttora, inoltre, non è vero che un governo di minoranza non possa formarsi e lavorare: “E’ già successo in Italia negli anni settanta, quando un governo di minoranza democristiano governò grazie alla formula della cosiddetta non sfiducia”.


Suttora, che faranno i grillini? Ci sono messaggi contraddittori che arrivano dalla base ma anche dallo stesso Grillo: fare alleanze di governo o starne del tutto fuori.


Il Movimento cinque stelle sta vivendo lo stesso dilemma che hanno sempre avuto i movimenti rivoluzionari quando sono entrati nelle istituzioni. Un secolo fa accadde ai socialisti quando il liberale Giolitti li invitò a entrare nel governo e ci fu una scissione fra riformatori e rivoluzionari. Successe di nuovo nel 1963 quando il Partito socialista entrò a far parte del primo governo di centrosinistra  e ci fu una spaccatura tra quelli che entrarono con Nenni e quelli che rimasero fuori dando vita al Psiup, il Partito socialista di unità proletaria.


Dunque una spaccatura è prevedibile anche questa volta?


E’ un dilemma, un vero dilemma fra l’entrare e sporcarsi le mani e però rischiare di essere omologati e quindi anche fregati un po’ come è successo alla Lega che per vent’anni è stata in qualche modo ingaggiata e usata da Berlusconi ma non ha ottenuto niente di concreto.


E l’alternativa invece quale sarebbe?


L’altra alternativa è rimanere fuori, puliti e immacolati ma di non contare nulla e di non portare a casa alcun risultato. Ripeto: è un dilemma.


Si assiste infatti a un dibattito in Rete con gente che raccoglie firme per una parte e per l’altra.


Sì, ma non darei grande credito a queste iniziative, la Rete per sua stessa definizione, virtuale, non dà affidamento.


Ma la Rete è tutta la forza e la consistenza del Movimento cinque stelle.


In realtà come possono vedere tutti sulla Rete non esiste alcun dibattito. Sul sito di Grillo non esiste dibattito: lui posta ogni giorno qualcosa, la gente lascia centinaia di commenti, ma lui non risponde mai a nessuno.  Cè un altro aspetto invece ben più interessante.


Quale?


Seguo personalmente alcuni forum di grillini, e lì sì che si può assistere a un grosso dibattito della base. Un dibattito che non vuol dire polemiche o scontri,  ma si esaminano i pro e contro della situazione. Alcuni dicono che dopo il grande risultato elettorale lo scenario è cambiato, prima ci si poteva adagiare in una facile posizione di protesta e opposizione, ma adesso il 25% ottenuto alle elezioni cambia le carte perché Grillo risulta determinante e quindi diventa tutto più difficile. 


Secondo lei Grillo ha in mente dei nomi di possibili ministri per il governo a cui ambisce?


No, assolutamente. Grillo vive alla giornata come sempre. E’ geniale, alcune volte la imbrocca altre no. Adesso vediamo come si strutturano i gruppi parlamentari, teniamo presente che per la prima volta al mondo c’è un partito che debutta al 25% senza che neppure i candidati si conoscano fra di loro.


Il comportamento di Bersani come lo giudica, fino ad adesso?


Bersani sta facendo benissimo a fare quello che fa, sentirsi cioè quello investito della responsabilità anche se con uno vantaggio minimo. Però quantomeno come primo incarico da Napolitano lui deve tentare di fare un governo. Ha fatto benissimo a rivolgersi prima a Grillo piuttosto che rispondere alla proposta di governissimo che ha fatto qualcuno del Pdl. Da un punto di vista dei contenuti poi sicuramente il Pd è più vicino ai grillini che a Berlusconi. 


Ma secondo lei si può immaginare un governo che viva alla giornata, con i parlamentari che votano le singole leggi di volta in volta?


Sì, se lo vogliono entrambi Grillo e Bersani è possibilissimo.  Dal 1976 al 1979 per tre anni l’Italia è stata governata da un governo di minoranza democristiana che però con la formula della non sfiducia stava in piedi. Era una di quelle formule intelligentissime anche se fuori di ogni logica politica inventate da Aldo Moro.  Una formula per cui tutti e due i partiti che naturalmente non potevano giustificare davanti ai propri elettori una alleanza di governo, governarono insieme. Tutte le riforme importanti che vennero fatte in quegli anni furono fatte da Pci e da Dc insieme.


Lei ha frequentato profondamente i grillini, partecipando ai loro incontri. Come pensa stiano vivendo questi momenti dal loro punto di vista straordinari?


Partecipare ai loro incontri è interessantissimo dal punto di vista politico ma anche antropologico perché veramente vedi gente che non si era mai interessata di politica in vita sua e adesso lo fa. Le racconto questo episodio che è indicativo. La sera degli scrutini quando si delineava la vittoria, ho chiamato una mia amica conosciuta al tempo del primo Vaffa Day. Una semplice impiegata che adesso si ritrova senatrice. Il suo commento è stato: abbiamo fatto il botto!: E il secondo: E adesso che facciamo? 

Wednesday, March 16, 2011

I Senussi tornano in Libia?

CHI SONO IL PRINCIPE IDRIS AL SENUSSI, NIPOTE DEL RE SPODESTATO NEL 1969, E IL CUGINO MUHAMMED

Oggi, 16 marzo 2011

di Mauro Suttora

Porto di Trieste, notte del 21 marzo 1971. Un commando di uomini armati si sta imbarcando in gran segreto sul battello Conquistator XIII. Destinazione: Libia. Dove due anni prima il 27enne Muammar Gheddafi ha spodestato il 79enne re Idris Senussi, che governava pacificamente dal 1951. Nome in codice dell’operazione: Hilton Assignment. La spedizione è finanziata da Abdallah Senussi, il «principe nero» braccio destro e nipote di re Idris. Il quale, non avendo figli, lo ha indicato come erede al trono.

Entrambi si trovavano all’estero al momento del golpe: re Idris in Turchia, il 50enne principe Abdallah in Italia, a Montecatini. A Tripoli era restato un altro nipote di Idris, Hassan: finì sul trono per un giorno, poi i militari golpisti proclamarono la repubblica. Esattamente come aveva fatto il loro eroe, Gamal Nasser, in Egitto nel ‘52. Re Faruk aveva riparato in Italia. Il libico Hassan rinunciò al trono e finì agli arresti domiciliari.

L’Italia blocca il blitz

Ora da Trieste partiva la riscossa della monarchia senussita, che aveva garantito libertà, benessere e moderazione alla Libia per vent’anni. Con grande tolleranza: gli ex coloni italiani vivevano tranquilli; cristiani, islamici ed ebrei si rispettavano anche dopo la terza guerra arabo-israeliana del ‘67, che invece negli altri Paesi arabi aveva provocato esodi di israeliti.

D’altra parte, la Senussia è tuttora una delle grandi correnti dell’Islam. Gestisce la seconda maggiore moschea alla Mecca, è aperta alla modernità. Anche la tradizionale rivalità fra la Cirenaica legata all’Egitto e la Tripolitania più maghrebina era stata risolta dai Senussi conferendo anche a Bengasi lo status di capitale della Libia. Insomma, ancor oggi, dopo i 42 anni di delirio gheddafiano, i libici ricordano con nostalgia quell’epoca. E infatti hanno subito adottato la vecchia bandiera monarchica per la loro nuova Libia liberata.

La storia sarebbe stata diversa se quella notte d’inizio primavera a Trieste i servizi segreti italiani non avessero improvvisamente bloccato la spedizione del principe Abdallah. Niente sbarco in Libia, niente liberazione dei partigiani senussiti incarcerati da Gheddafi. L’Italia non voleva una restaurazione della monarchia, nonostante i 30 mila connazionali cacciati da Gheddafi l’anno prima. E l’allora ministro degli Esteri italiano Aldo Moro pochi mesi dopo poté vantare quello «stop» direttamente con il dittatore libico, inaugurando una politica quarantennale di «appeasement» e amicizia. Che, prima del recente «bacio dell’anello» da parte di Berlusconi, ebbe un altro picco: l’avviso, da parte del premier Bettino Craxi nell’86, che gli Stati Uniti stavano per bombardare la caserma di Gheddafi (uccidendone la figlia adottiva).

Il blitz «Hilton Assignment» fatto abortire dagli 007 italiani è stato confermato da Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), nel suo libro L’Italia e l’ascesa di Gheddafi (ed. Dalai Baldini Castoldi, 2009).

I Senussi non hanno mai abbandonato il sogno di tornare in Libia. Re Idris è morto in esilio al Cairo nell’83, suo nipote Abdallah cinque anni dopo. Il testimone è passato al principe Idris, figlio di Abdallah e omonimo del nonno: al momento del golpe del ‘69 era dodicenne in collegio a Londra.

Oggi Idris Senussi vive fra Roma e Washington, fa il mediatore d’affari. Conosce tutti i monarchi del Medio Oriente, di alcuni è parente (cugino dei re marocchino e giordano). Dalle prime nozze con un’americana ha avuto la figlia Alia. Poi si è risposato con la nobildonna spagnola Ana Maria Quinones. Ha messo a frutto i suoi contatti per far ottenere grosse commesse a Eni, Snam, Condotte, Ansaldo.

Ha preparato la rivolta del 17 febbraio in stretto contatto con i parenti rimasti in Libia. Il 4 febbraio aveva lanciato un appello pubblico a Gheddafi, invitandolo ad aperture e riforme dopo le liberazioni di Tunisia ed Egitto. Nessuno, un mese fa, immaginava che la rivoluzione si sarebbe estesa subito anche alla Libia. Lo avevamo intervistato (Oggi n.7), Senussi sperava ancora in una mossa intelligente (o almeno furba) da parte del dittatore: «Gheddafi nell’ultimo anno ha effettuato alcune liberalizzazioni nel campo del commercio, ha restituito qualche proprietà privata confiscata». Ma avvertiva che anche i giovani libici, come i tunisini e gli egiziani, erano arrivati al limite della sopportazione.

Dopo l’inattesa liberazione di Bengasi il principe Idris è felice: «Hanno assaltato e liberato il palazzo dove sono nato, che Gheddafi aveva trasformato in caserma». Bene introdotto al Dipartimento di stato statunitense, è volato a Washington dove ha fornito preziose informazioni ai dirigenti della politica estera americana. Intervistato dalla Cnn, avverte che ormai Gheddafi è finito: «Dopo le stragi che ha commesso non c’è più possibilità di negoziato». Sua figlia, la 26enne principessa Alia, raccoglie fondi per la Croce/Mezzaluna Rossa.

Nel frattempo, a Londra compare un altro pretendente al trono libico: Muhammed Senussi, 48 anni, figlio di Hassan. Gheddafi permise a suo padre di espatriare soltanto nell’88.
Muhammed ingaggia una costosa agenzia di relazioni pubbliche, si fa intervistare da Al Jazeera. E i suoi sostenitori scatenano una battaglia via internet contro Idris: cambiano il suo ritratto su Wikipedia, l’enciclopedia online. Un conflitto fra cugini che ricorda quello fra i nostri Vittorio Emanuele di Savoia e Amedeo d’Aosta.

Il ramo dinastico di Muhammed si fa forte di quel 30 settembre ‘69, unico giorno sul trono di suo padre Hassan. Il ramo di Idris risponde che proprio l’immediata abdicazione cancella ogni diritto. A complicare le cose, infine, ecco Hashem Senussi, 60 anni, fratello maggiore del principe Idris: pure lui, che vive a Roma, si proclama erede al trono in due interviste al Tempo e al Corriere della Sera.

Questo proliferare di pretendenti significa che ci sarà veramente un trono libico su cui sedersi? Più passano i giorni, più si capisce quanto sia grande il vuoto che il quarantennio di Gheddafi ha provocato in Libia. Il nuovo governo provvisorio di Bengasi è composto da persone rispettabili, in certi casi eroiche. Ma lo stesso fatto che i capi della Libia libera debbano riciclare ex ministri e generali del dittatore dimostra la carenza di classe dirigente. E il vuoto a quelle latitudini è pericoloso, perché può essere riempito da fanatici religiosi, o da Al Qaeda.

L’esempio afghano

Prima o poi a Tripoli emergerà una nuova leadership. Ma per ora la struttura della Libia sembra simile a quella dell’Afghanistan, diviso fra decine di tribù. A Kabul oggi molti rimpiangono di non aver rimesso al suo posto il vecchio re Zahir (che regnò dal 1933 al ‘73, prima dell’esilio a Roma) dopo la liberazione dai talebani nel 2001. Avrebbe potuto garantire l’unità di una nazione fratturata meglio del presidente Karzai, e forse adesso l’Afghanistan non sarebbe più in guerra.

I Senussi tornerano a regnare in Libia, ovviamente in regime democratico costituzionale? «Se il popolo lo vorrà, siamo disponibili», è la risposta. Il plurale è maiestatis, ma almeno su questo l’accordo fra i tre prìncipi è unanime.

Mauro Suttora

Wednesday, March 09, 2011

I tanti vedovi di Gheddafi

In 40 anni quasi tutti i politici italiani (e del mondo) hanno gareggiato nel baciare la babbuccia al satrapo. Moro e Craxi gli salvarono perfino la vita

di Mauro Suttora

Oggi, 2 marzo 2011

Facile dirlo adesso: pazzo, criminale, tragico buffone. Ma fino a due settimane fa quasi tutti i politici italiani hanno blandito Muammar Gheddafi. Forse perché è un nostro connazionale: il dittatore libico, infatti, nasce in un villaggio di cammellieri vicino a Sirte nel giugno 1942. Allora la Libia era nostra. Ancora per pochi mesi, fino alla sconfitta di El Alamein. Incredibile: Gheddafi all’anagrafe è cittadino italiano.

Quinto maschio di dieci figli, genitori anzianotti, vita di stenti. È l’unico a sopravvivere, con tre sorelle più anziane. I Gheddafi sono una delle 180 tribù che, allora come oggi, compongono la Libia. Il piccolo Muammar cresce ascoltando le storie di guerra che suo padre gli racconta mentre gli animali pascolano. L’eroe è Omar al Mukhtar, partigiano impiccato dai colonizzatori italiani. Gheddafi si è appiccicato la sua foto sulla divisa quand’è venuto a Roma nel 2010.

Dopo la madrassa (scuola coranica) nel villaggio, va a Sirte a fare le medie. È così povero che dorme e mangia in moschea. I compagni lo prendono in giro: «Beduino!». Ma lui diventa il primo della classe. E ogni estate, invece di godersi le vacanze, fa transumare i cammelli per 500 chilometri, fino alle oasi del Fezzan. Frequenta il liceo a Sebha, in mezzo al deserto.

Intanto la Libia è diventata indipendente, sotto il re Idris Senussi. Gheddafi però adesso ha anche un altro eroe: il colonnello Gamal Nasser, che nel 1952 ha cacciato re Faruk dall’Egitto. Nel ‘56 segue per radio la crisi di Suez, la guerra contro Israele, poi le lotte anticoloniali algerine. Il suo animo s’infiamma, partecipa a cortei, viene schedato. Ciononostante negli anni ‘60 riesce a entrare all’accademia militare, per imitare il suo idolo. Lo mandano a specializzarsi in Inghilterra e ad Atene.

Il primo settembre 1969 rovescia il vecchio re con un golpe incruento. A 27 anni, diventa il più giovane dittatore della storia: Napoleone ne aveva 30 quando divenne primo console, Fidel Castro conquistò Cuba a 32. Il 1969, pensateci: cinque settimane dopo lo sbarco sulla Luna. Sembra un’altra era. «Cosa sono 42 anni?», ha chiesto Gheddafi cinque giorni fa, provocatorio come sempre: «Dicono che governo da troppo tempo. Ma la regina Elisabetta è al potere da molto più a lungo».

Aveva dei bellissimi rayban, nel ‘69, il capitano Muammar subito nominato colonnello e mai diventato generale per rispetto verso Nasser. La passione per gli occhiali gli è rimasta, l’ultimo fantastico modello panoramico lo ha inforcato nel penultimo discorso, col mantello marrone da beduino. Per tutti gli anni ‘70 e ‘80 l’Occidente lo ha sopportato perché c’era il blocco sovietico, e si voleva evitare che finisse con i comunisti come Assad in Siria e Saddam in Iraq. Poi, è campato grazie alla minaccia islamica e alla sua eccentrica laicità che ha (em)arginato Al Qaeda.

Lui però ne ha combinate di tutti i colori. Ha fornito armi, soldi e addestramento a ogni terrorista della terra: dalle Br all’Ira, dall’Olp alla Raf, dall’Eta al Settembre Nero della strage alle Olimpiadi di Monaco ‘72. Ha mosso guerra al Ciad e alla Francia, litigato con quasi tutti gli altri capi arabi in ogni vertice, incarcerato per anni infermiere bulgare accusate di aver diffuso l’Aids, ospitato Idi Amin, appoggiato Bokassa, ammazzato l’imam libanese Mussa Sadr. Qualunque banda armata in Africa è stata aiutata dalla Libia: nel Sahara Occidentale (contro i «fratelli» marocchini), in Liberia, in Sierra Leone. E se Mao ha scritto il «libretto rosso, Gheddafi ha composto un altrettanto indigesto «libro verde» pieno di teorie egualmente strampalate.

Nel 1986 passò il segno: un agente libico provocò tre morti e 250 feriti (fra cui molti soldati Usa) con una bomba nella discoteca La Belle di Berlino. Ronald Reagan bombardò Tripoli e Gheddafi sarebbe stato sepolto sotto le macerie come la sua figlioletta adottiva, se Bettino Craxi non lo avesse avvertito mezz’ora prima. Si vendicò sparacchiando due missili su una base Usa a Lampedusa: mancarono il bersaglio di due chilometri e finirono in mare.

Non era la prima volta che l’Italia salvava Gheddafi. Nel ‘71 il blitz segreto Hilton Assignment, ideato dal nipote del re deposto (e padre dell’attuale erede al trono libico, il principe Idris Senussi) fu fatto fallire da Aldo Moro, allora ministro degli Esteri. E questo nonostante l’anno prima 20 mila italiani fossero stati espulsi dalla Libia perdendo ogni bene, le basi angloamericane chiuse, le compagnie petrolifere nazionalizzate. Ma Muammar era considerato il male minore, un baluardo anticomunista. Per questo ancora a metà degli anni ‘80 istruttori italiani addestravano segretamente sui nostri Siai Marchetti (usati anche per mitragliare il Ciad) i piloti militari libici, dotati peraltro di Mirage francesi oltre che di Mig russi.

Gheddafi ha torturato e ucciso migliaia di oppositori in questi 42 anni, dentro e fuori la Libia. Nel 1988 il suo massimo crimine (finora): i 270 morti del jumbo Londra-New York fatto esplodere su Lockerbie (Scozia) da agenti libici. Ai parenti il colonnello ha pagato 2,7 miliardi di dollari (10 milioni ciascuno) in cambio della fine delle sanzioni economiche. Nel 1989 altra bomba su un aereo Uta Ciad-Parigi: 170 morti, 170 milioni di compensazione.

Quell’anno fui invitato da Gheddafi a Tripoli con altri giornalisti per visitare la fabbrica di Rabta: l’Onu lo accusava di confezionarci armi chimiche, lui giurava che fossero solo fertilizzanti. Dopo ore di attesa apparve il colonnello per farsi intervistare: quasi tutte le reporter occidentali si sciolsero al suo cospetto, subendo un misterioso fascino a me incomprensibile. Risultato: quando nel 2003 Gheddafi annunciò che abbandonava i tentativi di costruirsi la bomba atomica (temendo di fare la fine di Saddam), ammise che a Rabta le armi chimiche c’erano.

Finite le sanzioni Onu e Usa e arruolato Gheddafi nella lotta contro Al Qaeda, a Tripoli c’è stata la processione di leader democratici in gara per lucrose commesse: prima Tony Blair, poi Nicholas Sarkozy, infine nel 2008 perfino la bushiana Condoleezza Rice. Silvio Berlusconi ci ha messo maggiore entusiasmo, come sempre. Anche Prodi e D’Alema si sono inchinati davanti al rais del petrolio. Ma Silvio gli ha baciato l’anellone e ci ha inflitto la diretta tv dei disordinati cavalli berberi a Tor Di Quinto. Che hanno sfigurato, rispetto ai perfetti caroselli dei nostri carabinieri. Comunque, il tanto vituperato trattato di amicizia con la Libia del 2009 è stato votato anche dal Pd. Unici contrari: Casini, Pannella, Di Pietro e Furio Colombo. Sono tanti quindi, oggi, i vedovi di Gheddafi.

Non c’entrano invece, nonostante le apparenze, Paolo Conte, autore della deliziosa canzone Tripoli ’69, e Patty Pravo, che la cantò a Canzonissima all’inizio di quell’anno: non vinse, ma fu di buon auspicio per il golpe, regalandogli un’aura di pittoresco esotismo. Quanto a Muammar, gli resta un unico grande rammarico: non avere superato il primatista Fidel Castro nella hit parade mondiale dei satrapi più longevi. Ancora sette anni, e ce l’avrebbe fatta.

Mauro Suttora