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Saturday, March 01, 2025

Hácha, chi era costui? Zelensky ricorda il presidente ceco maltrattato da Hitler



Una scena come quella della Casa Bianca non si era mai vista, e non la si raccontava dal 1939. Perché, ogni volta, non preannuncia niente di buono. Piccolo excursus storico, dal führer a Trump

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 marzo 2025

All'una della notte fra il 14 e 15 marzo 1939 il presidente della Cecoslovacchia, Emil Hácha, viene ricevuto da Adolf Hitler nel palazzo della Cancelleria di Berlino. Cinque mesi prima il suo Paese è stato amputato del 15% del territorio (come oggi l’Ucraina): i Sudeti finiscono alla Germania, in base agli accordi di Monaco. Che però non placano l’ingordigia nazista. Il führer fa aspettare Hácha per ore prima di incontrarlo. Poi, entrato nella sala con il ministro degli Esteri, Joachim von Ribbentrop, intima ad Hácha: “Firmi questo foglio per chiedere la protezione del Reich”. Hácha rifiuta (come ieri Volodymyr Zelensky con Donald Trump sulla cessione delle terre rare e le garanzie di sicurezza): “Non posso, devo almeno consultare i miei ministri”. “Non è questo il momento di trattare, ma di prender nota delle irrevocabili decisioni del popolo tedesco!”, gli risponde Hitler. Che firma e se ne va… 

Ribbentrop rivela ad Hácha che quattro ore dopo, alle sei del mattino, l’esercito tedesco invaderà quel che resta della Cecoslovacchia. Al 66enne presidente boemo viene un infarto. Dopo qualche iniezione si riprende, gli viene permesso di telefonare a Praga svegliando qualche suo ministro. Tiene duro fino alle 4 del mattino. Poi capitola. Anche il suo predecessore Edvard Beneš era stato umiliato a Monaco nel settembre ’38: neppure ammesso alle trattative fra i quattro Grandi (proprio come oggi Zelensky).

La rottura di ieri alla Casa Bianca è una primizia della storia mondiale. Mai era successo che uno scontro fra due capi di Stato venisse trasmesso in diretta mondovisione. Finora i vertici internazionali, anche i più burrascosi, erano sempre stati protetti dalla discrezione diplomatica. Quando si litiga lo si fa a porte chiuse, e nel successivo comunicato si scrive che è avvenuto “un franco scambio di vedute”.

Leggendari sono rimasti gli scatti degli statisti più irascibili, come il generale Charles De Gaulle. Hitler e Stalin invece erano gelidi. Il führer perse le staffe solo con l’ammiraglio ungherese Miklós Horthy e con il cancelliere austriaco Engelbert Dolfuss, che poi fece assassinare. Il 5 gennaio 1939 Hitler invita a Berchtesgaden il ministro degli Esteri polacco Jozef Beck con la moglie. Mentre bevono un tè gli intima di cedere Danzica alla Germania. Beck è riluttante. Sappiamo come finì: otto mesi dopo Hitler e Stalin si spartiscono la Polonia. 

Dobbiamo al Kgb la trascrizione della drammatica telefonata di un’ora e venti minuti fra il sovietico Leonid Breznev e il cecoslovacco Alexander Dubček del 13 agosto 1968: “Caro Sasha, devi far smettere gli attacchi anticomunisti dei giornali di Praga”. “Stiamo facendo il possibile”. “Ci avete ingannati, avete sabotato gli accordi”. Il 20 agosto i tank, questa volta dell’Armata rossa, invadono di nuovo la Cecoslovacchia trent’anni dopo i nazisti. 

Lo scontro recente più violento fra occidentali è quello dell'estate 2015 del premier greco Alexis Tsipras contro Angela Merkel e Mark Rutte durante il vertice Ue che costringe Atene a cedere sul proprio debito. Urla, a notte fonda Tsipras abbandona la sala. Poi rientra e all’alba arriva la firma. 

E gli italiani? Notevole il dissidio fra Bettino Craxi e Maggie Thatcher sempre in un summit Ue, a Milano nel 1985. Brutte conseguenze per il presidente Antonio Segni, colpito da ictus il 7 agosto 1964 durante un’accesa discussione col premier Aldo Moro e Giuseppe Saragat (era l’estate del “tintinnar di sciabole”, con pericoli di golpe veri o presunti).

Per il resto, si scivola nella sceneggiata. Come quella dello scontro fra Beppe Grillo e Pier Luigi Bersani a un tavolo in diretta social nel 2013, o ddel “Kapò”, dieci anni prima, lanciato da Silvio Berlusconi al tedesco Martin Schulz nell’Europarlamento. La più memorabile resta il “Che fai, mi cacci?” di Gianfranco Fini a Berlusconi nel 2010. Ieri Zelensky è stato cacciato veramente dalla Casa Bianca trumpiana. Ma questa volta il video dopo dieci minuti era su tutti i cellulari del pianeta. 

Monday, June 24, 2024

Nell'ultrasinistra disastrata è il turno di Ilaria Salis

La neoparlamentare si dice fiera di occupare case popolari, togliendole ai fessi che ne hanno diritto, ma che aspettano anni in graduatoria perché rispettano la legge. Dopo il diritto alla (sua) casa proclamerà il diritto alla cena, riesumando i gloriosi espropri proletari di mezzo secolo fa nei supermercati

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 24 giugno 2024

Particolarmente sfortunata, l'estrema sinistra italiana. Da una decina d'anni si affida a personaggi esterni imbarazzanti: Ingroia, Tsipras, Soumahoro, Salis. Nel 2013, non potendo più presentarsi alle politiche col proprio nome (Rifondazione comunista) dopo il disastro di cinque anni prima (caduta Prodi, zero eletti), si ribattezzò lista Ingroia come il pm palermitano antimafia Antonio. Secondo flop, quorum mancato. 

Dopo la trombatura Ingroia si consolò con incarichi di sottogoverno siciliano, rimediando una condanna a 1 anno e 10 mesi per peculato e un'altra per danno erariale a 145mila euro. Poi ha cambiato di nuovo mestiere, diventando avvocato di Gina Lollobrigida. Ma ha continuato a collezionare percentuali da zero virgola ad ogni elezione, con liste variopinte. 

Un altro rabdomante della politica era Alexis Tsipras, premier greco che voleva uscire dall'euro. Al suo nome si aggrapparono i rifondaroli per le europee 2014, eleggendo affidabili eurodeputati esterni come Barbara Spinelli. La quale invece di uscire dall'euro uscì dal partito, tenendosi tutti gli euro del proprio stipendio (18mila mensili) che avrebbe dovuto versare in minima parte al partito. Anche Tsipras è finito nel nulla, assieme al suo ministro delle Finanze Yannis Varoufakis. Su Soumahoro e la bellissima moglie non occorre soffermarsi. 

Ora è il turno di Ilaria Salis, che già ci delizia con elogi della delinquenza. Si dice fiera di occupare case popolari, togliendole ai fessi che ne hanno diritto, ma che aspettano anni in graduatoria perché rispettano la legge. 

Dopo il diritto alla (sua) casa la simpatica Tortora dei poveri proclamerà il diritto alla cena, riesumando i gloriosi espropri proletari di mezzo secolo fa nei supermercati. Il diritto alla mobilità, rubando bici e auto nonché evitando il biglietto su bus e treni. Ma soprattutto il diritto alla vacanza, andando a occupare resort al mare e b&b in montagna. 

Wednesday, March 18, 2015

Mario Draghi, weekend a Roma

IL GOVERNATORE DELLA BCE, PROBABILMENTE L'UOMO PIU' POTENTE D'EUROPA, HA SALVATO LA MONETA UNICA. RIUSCIRA' A FAR RIPARTIRE L'ECONOMIA ITALIANA?

di Mauro Suttora

Oggi, 11 marzo 2015

Mattina di esercizio fisico nella Capitale per Mario Draghi, dal 2011 presidente della Bce (Banca centrale europea), probabilmente l’uomo più potente del nostro continente. Accompagnato dal suo amato bracco ungherese, il banchiere ha percorso circa cinque chilometri fra corsetta, stretching e coccole al suo fedele amico, sempre protetto con discrezione dall’onnipresente scorta. Poi, un salto a cambiarsi nella casa romana dove torna da Francoforte nei pochi momenti liberi.
 
Infine, Draghi è andato con la moglie Maria Serenella in una pasticceria del centro, a compensare tanto salutismo con un bel peccato di gola.

Se lo merita, perché proprio in questi giorni sta raccogliendo i frutti di tre anni e mezzo di lavoro. Quando assunse la carica, infatti, l’euro era in crisi. Cinque dei 19 Paesi che hanno adottato la moneta unica traballavano. Dopo una cura severa, Spagna, Portogallo e Irlanda si sono rimesse in sesto. 

Anche l’Italia sta meglio: dall’inizio dell’anno è iniziata la risalita del Pil (Prodotto interno lordo). E la Grecia, nonostante le bizze del nuovo premier Alexis Tsipras e del suo pittoresco ministro Yanis Varoufakis, sta trattando le misure imposte dalla troika (Bce, Fmi e Commissione europea).

Lo aveva promesso, Draghi, con la famosa frase del luglio 2012 che rappresentò la svolta: «Faremo tutto quello che è necessario per sostenere l’euro». Bastarono quelle sue poche parole per zittire gli speculatori e far crollare lo spread. Un impegno che vale ancor oggi, contro i partiti populisti che vorrebbero l’uscita dalla moneta unica.

È bastato infatti l’annuncio di Draghi sulla manovra da 1.100 miliardi per sostenere i debiti pubblici europei (60 miliardi al mese per un anno e mezzo) a far scendere lo spread Italia/Germania a 90, e a far risalire le Borse. 

SuperMario ha piegato la resistenza dei tedeschi verso una maggiore solidarietà fiscale. Ma allo stesso tempo avverte: «I Paesi ancora in difficoltà, come l’Italia, devono fare le riforme». Infatti il prezzo del petrolio basso e l’euro debole non potranno sostenere per sempre le nostre esportazioni. E per abbassare le tasse che soffocano l’economia dobbiamo effettuare ancora sacrifici sulla spesa pubblica. 

Un piccolo sacrificio lo sta facendo anche lui. Lo stipendio di Draghi, infatti, è di “appena” 378 mila euro annui. Molto, ma niente rispetto alle decine di milioni dei suoi colleghi nelle banche private, dove lui ha lavorato fino al 2005. E meno del governatore della Banca d’Italia: 495 mila euro.

Il suo mandato a Francoforte finirà nel 2019. Allora avrà 72 anni. Andrà al Quirinale dopo Mattarella?
Mauro Suttora