Evoluzione e tradimento del termine "genocidio"
di Mauro Suttora
Per qualificare la mattanza di trent’anni fa, si estese il concetto di genocidio coniato sull’eliminazione degli armeni e applicato a Norimberga. L’ulteriore slittamento per la strage dei palestinesi però non regge (l’autogol del diritto umanitario)
Huffington Post
10 luglio 2025
Fino all’11 luglio 1995 (strage di Srebrenica) per fare un genocidio ci volevano milioni di morti. O almeno qualche centinaio di migliaia. Quindi, in ordine cronologico: armeni, ucraini (Holomodor anni 30), ebrei, cambogiani, etiopi, ruandesi tutsi. Andando indietro, indiani degli Usa, maya, aztechi e incas: genocidi di successo, civiltà quasi sparite.
Tutti sappiamo che l'etimo di genocidio è “uccisione di una razza”. E che la parola fu coniata nel 1944 da un giurista ebreo polacco, Raphael Lemkin, per dire l’indicibile e applicarlo al processo di Norimberga.
Dopo Srebrenica, tuttavia, i giuristi in àmbito Onu hanno allargato il significato del neologismo. Per dirla in penalistese, hanno valorizzato l’elemento soggettivo del reato. Quindi ora non c’è più bisogno che un genocidio intacchi significativamente la consistenza numerica di un popolo, di una razza, di una religione: è sufficiente la “volontà” genocidiaria.
Il generale Ratko Mladic e i presidenti Slobodan Milosevic (Serbia) e Radovan Karadzic (serbi di Bosnia) ammazzarono a sangue freddo 8mila prigionieri bosgnacchi (bosniaci musulmani). Ma se avessero potuto ne avrebbero uccisi molti di più, visto che il loro intento dichiarato era la pulizia etnica.
Esiste però un numero minimo per “integrare la fattispecie del reato” di genocidio? Perché poco prima di Srebrenica si verificarono altri massacri come quello di Tuzla, con decine di vittime. Ma, anche se tutte “concorrevano al medesimo disegno criminoso” (l’eliminazione dei bosniaci croati e islamici), il tribunale internazionale per la ex Jugoslavia non comminò l’ergastolo ai comandanti serbi responsabili.
Vale anche il ragionamento inverso: i numeri dei morti possono essere più alti (12mila le vittime dell’assedio serbo a Sarajevo), ma poiché furono centellinati in quattro anni (1992-96) non sono diventati il “nuovo genocidio” che invece debuttò a Srebrenica.
E oggi? È plausibile accusare Israele di genocidio per Gaza? A parte qualche frase dei gentiluomini Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir (12% alle elezioni del 2022 per la loro estrema destra) nessuno in Israele dichiara una volontà genocidiaria verso i palestinesi.
Non lo dicono però lo fanno egualmente? I 56mila morti denunciati da Hamas in due anni sono meno dei 65mila civili italiani bombardati dagli alleati nel biennio 1943-45: vittime di guerre tremende, non di uno sterminio preordinato. E infatti non ci sono state accuse di genocidio per le mattanze di Aleppo e Mosul lo scorso decennio. Né risultano esecuzioni a freddo di prigionieri palestinesi da parte israeliana, come accadde a Srebrenica.
Il paradosso è che lo slittamento semantico del genocidio iniziato trent’anni fa in Bosnia fu il risultato dell’applicazione del diritto umanitario. Ovvero della volontà, da parte di benemeriti difensori dei diritti umani come Bernard Kouchner o Emma Bonino, di sancire un “diritto-dovere d’intervento” negli affari interni di un Paese da parte della comunità internazionale, nei casi estremi di patente violazione del diritto alla vita. Di qui l’istituzione del Tribunale penale internazionale.
Mai avrebbero pensato, l’allora ministro francese e la commissaria Ue, che la loro interpretazione estensiva del genocidio avrebbe un giorno armato la propaganda proPal di attiviste come Rula Jebreal o Francesca Albanese.
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