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Saturday, December 16, 2023

La vera storia della rapina del 1974 che Toni Negri pagò con una condanna a 12 anni








Ma davvero un intellettuale stimato in tutto il mondo fu il mandante di un omicidio? No, la sentenza dei giudici di Roma nel 1987 parla di "concorso morale"

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 16 dicembre 2023

"L'azione di autofinanziamento è andata male. Siamo stati così sfortunati che è rimasto per terra in vita un testimone, perché la pistola si è inceppata». Sono queste le parole costate a Toni Negri la condanna a dodici anni per la tentata rapina di Argelato (Bologna) del 5 dicembre 1974, in cui venne ucciso il carabiniere Andrea Lombardini, e ferito un suo collega. Il filosofo scomparso 90enne a Parigi fu inchiodato dalla testimonianza del pentito Carlo Fioroni, compagno di Toni Negri in Potere Operaio e poi in Autonomia Operaia. In seguito Fioroni fu condannato per il sequestro e l'assassinio di Carlo Saronio, però le sue parole furono ritenute veritiere dagli inquirenti.

Ma davvero un intellettuale stimato in tutto il mondo fu il mandante di un omicidio? No, la sentenza dei giudici di Roma nel 1987 parla di "concorso morale". E il 'teorema' del pm padovano Pietro Calogero, che lo aveva accusato di essere addirittura il 'grande vecchio' capo delle Brigate Rosse, si sgonfiò nelle aule dei tribunali. Tuttavia, la pesante pena ha segnato la vita di Negri. Quattro anni di carcere preventivo dal 7 aprile 1979 al 1983, quando i radicali lo liberarono facendolo eleggere deputato. Poi la perdita dell'immunità parlamentare, la fuga in Francia sulla barca a vela di Emma Bonino, la rottura con Marco Pannella. 

Il ritorno in Italia nel 1997 per scontare il resto della condanna, i domiciliari tre anni dopo, e solo nel 2003 la liberazione, a 70 anni. Quando era diventato il mâitre-à-penser di un'ulteriore generazione di giovani antagonisti, i noglobal di Seattle e Genova (e in seguito gli Occupy Wall Street).

"L'idea della rapina come metodo di finanziamento [nel 1974] era diventata non solo accettabile, ma qualcosa da rivendicare. Fino ad allora gli espropri proletari erano sconosciuti ai gruppi della sinistra extraparlamentare". A parlare è un altro pentito, Mario Ferrandi: "Dopo Argelato l'organizzazione si fece carico di gestire in qualche maniera questo processo, perché buona parte dei ragazzi arrestati erano passati alle Br, sentendosi scaricati da noi. [...] Conobbi Negri, che si sapeva essere al vertice dell'organizzazione, con compiti di grossa responsabilità: un ruolo di direzione teorica". 

"Negri comparve a fare un giro di tutte le strutture dell'organizzazione", continua Ferrandi, "perché c'era da prendere una decisione importante, tale da richiedere che fossero sentiti tutti. I compagni svizzeri avevano raccolto una trentina di milioni che dovevano essere impiegati in una cosa sconcertante per un'organizzazione come la nostra: bisognava, rimborsare la parte civile del carabiniere ucciso". "Arrivò Negri, personalmente, perché la cosa era importante e la decisione delicata, e spiegò che questo poteva servire a far evitare l'ergastolo ai ragazzi, e a a ricucire i rapporti con loro. Tutti si dichiararono d'accordo sulla proposta".

Altro testimone di quegli anni sanguinosanente velleitari, Rocco Ricciardi: "Due compagni ci dissero che la rapina di Argelato fu decisa a Milano dal Negri, in particolare, che allora era il dirigente politico massimo [dell'Autonomia] che c'era in città, e fu fatta in collaborazione tra milanesi, varesini e bolognesi. Ci descrissero come andò, dall'arrivo della pattuglia dei carabinieri al conflitto a fuoco, all'uccisione del sottufficiale, al ferimento dell'altro carabiniere Gennaro Sciarretta col calcio dell'arma, all'inceppamento della pistola, all'arresto del varesino Bruno Valli e al suo suicidio in carcere pochi giorni dopo. Altri compagni del commando furono portati in Svizzera attraverso un valico in montagna clandestinamente, ma furono arrestati dalla polizia svizzera".

I più critici contro gli "avventuristi spontanei" dell'Autonomia operaia di Toni Negri erano proprio i brigatisti rossi. Ecco il drastico giudizio di Alfredo Bonavita, fondatore delle Br: "C'erano questi vecchi leader che mandavano ragazzini a fare le rapine, facendo creder loro che operavano in collegamento con le Brigate Rosse. Quelli che sono stati arrestati dopo Argelato sono davvero divenuti brigatisti: Vicinelli, Bonora, Gavina, Rinaldi, Franciosi e Bartolini. Quando sono arrivati nel carcere di Palmi abbiamo dovuto togliergli Negri dalle mani per evitare che si facessero giustizia dell'inganno subìto. Gli imputavano la responsabilità politica e morale di averli mandati allo sbaraglio. L'iniziativa era stata elaborata come una collaborazione nel reperire soldi per le Brigate Rosse, perché il problema era impiantare la lotta armata e creare una serie di rapporti privilegiati per entrare nelle Br. Ma questi giovani furono bellamente mandati a fare soltanto rapine. C'è stato il morto e sono stati praticamente sconfessati, cioè nessuno li ha coperti. Quindi loro si sono sentiti traditi".

Anche la moglie dello scrittore Vincenzo Consolo, Caterina Pilenga, venne coinvolta nel tentativo di far espatriare i reduci della rapina. Racconta l'autonomo Mauro Borromeo: "Ci dissero che c'erano dei ragazzi nei guai, e che era necessario portarli in Svizzera. In piazza San Marco a Milano incontrammo un ragazzo in piedi fuori da una macchina, la Renault rossa delia Pilenga, che era al posto di guida. Era il ragazzo che dovevo portare a Luino. Non dovevo fargli domande. Si partì verso il lago Maggiore, il ragazzo mi disse che era molto stanco. Arrivati a Luino, di fronte a un bar del lungolago trovai le due donne che erano già arrivate con la loro macchina. Il ragazzo che era con me scese e si unì a loro. Appresi poi dai giornali che in Svizzera, al momento del valico, erano stati arrestati dei giovani coinvolti con i fatti di Argelato». 

Pilenga, dipendente Rai, confessò che la sera del 6 dicembre 1974 ricevette in ufficio una telefonata di Borromeo: "Ci siamo incontrati subito in un bar di piazzale Cadorna, alla stazione Nord di Milano. Mi ha detto che, per ordine del capo, e per capo noi si intendeva Negri, c'erano due ragazzi da aiutare a scappare da Milano e andare in un paese vicino al confine. Dopo un giorno o due mi ha telefonato e mi ha detto che Negri mi aspettava. Sono andata a incontrare Negri in casa di Borromeo, ma  Borromeo non c'era. Mi ha aperto la  porta sua suocera. Sono entrata e Negri mi ha detto che c'era da aiutare questi ragazzi, che dovevo prenderli in via San Marco e portarli a Maccagno".

In seguito anche Fioroni, inquisito a Torino, ebbe bisogno di soldi per espatriare in Svizzera. Ma, fissato un appuntamento con Toni Negri vicino a Santa Maria delle Grazie, nella zona di via Boccaccio dove il filosofo abitava, Fioroni si sentì dire che "per il momento si doveva arrangiare da solo, perché l’azione di autofinanziamento era andata male".

Nel 1975 Franco Franciosi, in attesa dell'estradizione nel carcere di Lugano, confermò a Fioroni che «alla riunione in cui era stata decisa la rapina avevano partecipato, tra gli altri, lui, Negri, Roberto Serafini e il varesino che si era impiccato in carcere; che effettivamente un testimone e precisamente un carabiniere fu stordito con il calcio del mitra perché il caricatore si era esaurito; che si tentò allora di ucciderlo senza però riuscirci, dato che la pistola si era inceppata; che dopo il crimine alcuni dei ragazzi arrestati in Svizzera passarono da Milano, rifugiandosi a casa della Pilenga".

In un incontro dell'Autonomia a Padova nel febbraio 1975, sempre secondo Fioroni, si accennò a errori tecnici gravi commessi "in occasione della rapina, essendo stati mandati allo sbaraglio elementi molto giovani e avendo gestito malamente il modo con cui erano stati fatti espatriare. Le critiche sulla gestione di Argelato investivano principalmente Toni Negri".
Insomma, meglio per tutti che i filosofi non passino mai dalla teoria all'azione. 

Tuesday, August 22, 2023

Viva la diversità, abbasso la normalità



Se bacchettiamo il generale bacchettone, trasformandolo in vittima ululante alla censura, in provocatore contro il "Mondo al contrario", rischiamo di regalargli il fascino di Franti

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 22 agosto 2023

Ho letto per curiosità il libro del generale Roberto Vannacci. Tutti criticano la sua frase "I gay non sono normali". Lui ci mette cinque pagine per arrivare a questa conclusione, consultando le stime sulla percentuale di gay nei vari Paesi, pare sotto il 5%. Certo, tutto dipende dal valore che si dà alla parola "normale". Se la "norma" fosse quella stabilita o praticata dal 95%, i gay sarebbero "anormali". Ma questo il generale non lo scrive, suonerebbe offensivo.

Nel 1974, quando cominciai a frequentare la sede del partito radicale a Udine, i ragazzi del Fuori (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano) erano invece orgogliosi di essere 'diversi', rivendicavano la loro 'non normalità'. Se qualcuno li avesse definiti normali, lo avrebbero insultato. "Diversi ma non perversi", era lo slogan del leader radicale Marco Pannella e del fondatore del Fuori Angelo Pezzana. Era mezzo secolo fa. Il mio nonno liberale (anzi, da laico illuminato votava più a sinistra: per il repubblicano Ugo La Malfa) definiva i gay "pederasti, invertiti, degenerati". 

Nel mio liceo ero l'unico radicale. Questo bastava perché alcuni compagni buontemponi mi prendessero in giro mettendosi spalle al muro quando mi incrociavano, dicendo "Occhio al culo, arriva il 'fenulli' (finocchio in friulano, ndr)". I radicali non hanno mai fatto campagna per il matrimonio gay. Una volta chiesi a Pannella perché. "Il matrimonio etero non ci interessa, perché dovremmo batterci per estenderlo agli omosessuali?".

Insomma, forse perché i gay radicali (cioè quasi tutto il movimento gay prima dell'Arcigay) si consideravano anche rivoluzionari, le nozze erano fuori dal loro orizzonte. Non avevano ansia di accettazione, anzi detestavano ogni "omologazione", concetto pasoliniano che era la loro (e nostra) stella polare. 

È morto da poco Francesco Alberoni. Per comprendere la parabola dei gay ci soccorre la sua descrizione del passaggio inevitabile dei movimenti dalla fase di stato nascente a quella di istituzione. Tutti i movimenti di liberazione, dagli omosessuali alle femministe, dai neri d'America agli antimilitaristi, hanno seguito lo stesso percorso. Dopo il riconoscimento hanno voluto posti in parlamento, cattedre universitarie, finanziamenti pubblici, spazi politici. Il potere, insomma. Perché va bene la controcultura degli anni 60-70 e i figli dei fiori, ma "flowers have no power", come ammonì Herbert Marcuse. Così, per esempio, perfino Martin Luther King fu contestato da Malcolm X e accusato di 'ziotommismo' dalle Pantere Nere che ne contestavano il cauto riformismo con sponda nei presidenti John Kennedy e Lyndon Johnson. 

Oppure, si parva licet componere magnis, ricordo personalmente la degenerazione del movimento antimilitarista in Italia dopo la conquista del diritto all'obiezione di coscienza contro il servizio militare nel 1972. Nacque la Loc (Lega obiettori di coscienza), che fatalmente smise di contestare le spese militari, cioè di "fare politica", riducendosi a sindacato degli obiettori. Normalizzata. 

Questo a sinistra. Ma anche a destra si ripetono a cent'anni di distanza le stesse dinamiche, ogni volta che i rivoluzionari entrano nelle istituzioni, e ancor più quando conquistano il potere. Le ghette che Benito Mussolini per la prima volta indossò per ricevere dal re l'incarico di primo ministro equivalgono alla soggezione di Giorgia Meloni nei confronti di Joe Biden e Ursula von der Leyen. 

Nel 1923 i sansepolcristi protestarono inutilmente per l'imborghesimento del fascismo; oggi, sempre si parva..., non sarà un Gianni Alemanno a rinfocolare la fiamma nel cuore di Giorgia. E allora, figurarsi Guido Crosetto, che fascista non è mai stato: ci ha messo tre secondi a far liquidare il generale della Folgore e il suo linguaggio, appunto, da caserma.

Il povero Vannacci tutto sommato nelle sue 350 pagine autopubblicate (un po' da pezzente: neanche un editore ha trovato?) si è limitato a mettere insieme la paccottiglia che i giornali di centrodestra e i talk di Rete4 ci ammanniscono ogni giorno. Ma viene impiccato per due o tre scivolate semantiche. E quella sui gay, paradossalmente, è massimamente rivelatrice. Perché dice di più sulla normalizzazione degli omosessuali che non su quella dei fascisti.  

Mezzo secolo fa i perbenisti stavano a destra e gli scostumati (altra parola desueta) che li scandalizzavano si collocavano a sinistra. L'odioso 'Signor Censore' della canzone di Edoardo Bennato era un democristiano clericale. Oggi è il contrario: nell'era della suscettibilità (copyright Guia Soncini) a offendersi per la parola "anormale" reclamando sanzioni è la sinistra. 

Il problema è che se bacchettiamo il generale bacchettone, trasformandolo in vittima ululante alla censura, in provocatore contro il 'Mondo al contrario' (titolo del suo libro), rischiamo di regalargli il fascino di Franti. La stessa aura da ribelle che avvolgeva Pannella e che mi attrasse quindicenne, curioso allora come oggi, in quella sede radicale piena di 'diversi' a Udine. Anche se io, a dire il vero, cercavo più che altro belle ragazze femministe. Poco importa se normali o anormali.

Sunday, July 09, 2023

La politica che stupra sé stessa attraverso i figli degli avversari

Andiamoci piano con i linciaggi preventivi. Ciro Grillo e Leonardo Apache sono colpevoli sicuramente di cattivo gusto maschilista e orrende canzoni trap, ma penalmente innocenti fino a sentenza

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 9 luglio 2023 

Politici astenersi. Per non sprofondare nelle bassezze delle speculazioni su faccende private, sarebbe ottimo che gli avversari di Ignazio La Russa evitassero d'ora in poi commenti sul suo dramma familiare: il figlio accusato di stupro.

Certo, è difficile mantenere il silenzio dopo quattro anni di frecciate contro Beppe Grillo, preso di mira dal centrodestra per lo stesso motivo: il figlio accusato di avere violentato una ragazza a Porto Cervo nel 2019. Ancor più difficile risulta non esprimersi dopo l'improvvida difesa del figlio da parte di La Russa senior, con annessa sottolineatura della cocaina assunta dalla presunta vittima. E anche il mancato sequestro del cellulare del junior sembra un riguardo istituzionale eccessivo: certo che il figlio avrà telefonato anche al padre, ma lo scudo da parlamentare non può intralciare le indagini su chat rivelatrici.

Tuttavia, prima o poi qualcuno dovrà dichiarare un armistizio su questo genere di questioni, per evitare gli abissi delle accuse reciproche pre-sentenza. E tanto meglio se il disarmo dialettico sarà unilaterale: come dimostra il caso di Leonardo Apache, il contrappasso è sempre in agguato. 

E da sempre, peraltro: era il luglio 1953, esattamente 70 anni fa, quando la seconda carica non dello stato come La Russa, ma della Democrazia Cristiana, Attilio Piccioni, dovette rinunciare a succedere alla presidenza del Consiglio ad Alcide De Gasperi, di cui era vice e delfino. Il figlio Piero risultava accusato per un'orgia terminata con la morte di una ragazza. 

Lo scandalo Montesi finì con l'assoluzione di Piero e la parziale ma difficoltosa riabilitazione del padre, che solo negli anni '60 recuperò le cariche di vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Nel frattempo, però, fu sbertucciato l'avvocato comunista Giuseppe Sotgiu, che cavalcava l'affaire difendendo un accusatore di Piccioni: beccato mentre entrava con la moglie in un bordello dove lui la guardava divertirsi con un gigolò. 

Leggendarie anche le accuse di dolce vita contro i figli del presidente Giovanni Leone. Niente morti e stupri, tuttavia le loro avventure contribuirono alle dimissioni del padre. Pure qui, tardive scuse dei principali accusatori di Leone, Marco Pannella ed Emma Bonino, quando il presidente compì 90 anni. E condanna per diffamazione alla giornalista Camilla Cederna per il libro contro Leone, che però intanto aveva venduto 600mila copie. 

Quindi, ora andiamoci piano con i linciaggi preventivi. Contro Ciro Grillo e Leonardo Apache, colpevoli sicuramente di cattivo gusto maschilista e orrende canzoni trap, ma penalmente innocenti fino a sentenza. E soprattutto niente strumentalizzazioni contro i genitori, con tutta probabilità pessimi educatori e nulla più. Anche perché i tempi assurdi dei tribunali già li condannano a graticole giornalistiche pluriennali. 

A giudicare dal processo di Tempio Pausania (Sassari) contro il pargolo Grillo, che riprende proprio domani e rischia di dover ricominciare per il trasferimento di un giudice, i La Russa hanno di fronte a sè almeno un lustro di calvario, fra primo grado, appello e cassazione. In caso di assoluzione, l'anticipo di pena causato dalle cronache su indagini e udienze è inevitabile. Ma almeno lo sciacallaggio politico si può evitare.

Saturday, May 20, 2023

Come Augusta, per difendere Eugenia in una partita già vinta, è passata dalla parte del torto

La contestazione alla Roccella, che non ha potuto parlare al Salone di Torino, va condannata senza appello. Ma poi la Montaruli ha cominciato ad urlare contro Nicola Lagioia, e nel racconto di quanto è successo qualcosa è cambiato...

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 20 maggio 2023

Una trentina di femministe ha impedito alla ex femminista Eugenia Roccella, oggi ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità (quante cose, povero biglietto da visita extralarge) di presentare il suo libro 'Una famiglia radicale' (ed. Rubbettino) al Salone del libro di Torino.
 E questo è quanto. Non ci sarebbe molto altro su cui discutere, soprattutto con chi non vuole discutere. La contestazione è stata violenta, perché le urla hanno reso impossibile parlare alla ministra.

Le manifestanti hanno commesso un preciso reato, violenza privata, qualche giudice valuterà se punirle. Roccella le aveva invitate al dialogo sul palco, ma loro si sono rifiutate di interloquire. Si sono limitate a leggere un comunicato al microfono. Poi si sono piazzate per terra gridando. Qualche poliziotto voleva trascinarle via. La ministra lo ha impedito, memore di quando era lei a fare i sit-in mezzo secolo fa per la legalizzazione dell'aborto. Lo stesso diritto di aborto in nome del quale oggi le femministe hanno fatto abortire il diritto di parola per Roccella.

Ho visto i video, impeccabile la minuscola Eugenia di fronte alla corpulenta avversaria che non voleva parlarle. Voleva solo sfregiarla. Poi però è arrivata Augusta. Nata cinque anni dopo il 22 maggio 1978, storico giorno di promulgazione della legge 194 sull'aborto, conquistata dopo anni di lotte (quelle sì nonviolente, non ricordo irruzioni e interruzioni di dibattiti) da Roccella e dalla sua ex famiglia radicale (il padre deputato, Marco Pannella, Emma Bonino, Adele Faccio).

Augusta Montaruli ha rovinato tutto. Troppo giovane per essere fascista, ha accusato di fascismo le antifasciste fasciste che hanno censurato la sua ministra. E fin qui tutto bene. Deputata di Fratelli d'Italia dal 2018, era diventata sottosegretaria all'università nel governo Meloni. Ha dovuto dimettersi tre mesi fa dopo la condanna definitiva a un anno e mezzo di carcere per peculato. L'ex presidente leghista del Piemonte Roberto Cota acquistò con soldi pubblici delle strabilianti mutande verdi. Montaruli invece ha fatto passare per spese necessarie al suo mandato di consigliera regionale 25mila euro per Swarovski, vestiti e borse firmati, strenne natalizie, uno studio sulla propria reputazione social.

Chissà com'è la reputazione social di Augusta in queste ore, dopo che è riuscita a passare dalla parte del torto perfino in una partita già vinta come quella di Eugenia. Infatti pure lei a un certo punto ha cominciato a urlare. Ma non contro le femministe. Contro Nicola Lagioia, direttore del Salone, reo di avere difeso troppo blandamente Roccella.


Il povero Lagioia non è ubiquo, il palco del fattaccio è subappaltato alla Regione Piemonte. Probabilmente a quell'ora stava pranzando, lo hanno chiamato, lui si è precipitato lì. Ha cercato di accomodare le cose, pure lui auspicando come Roccella dialogo e dibattito. Figurarsi. Sicuramente non è un cuor di leone, non ha risposto con aggressività all'aggressione, è stato troppo salomonico. Ma lo ha tolto dall'imbarazzo la pugnace Montaruli, anni di screzi pregressi torinesi, aggredendolo a sua volta. 
Così, come nei falli di reazione, la scia della cometa ha preso il sopravvento sulla cometa.

Ora, da ore, quelli di destra accusano di intolleranza le femministe e Lagioia. Quelli di sinistra sono felici di ribattere prendendosela con Augusta Montaruli. Come da copione vintage.


Siamo in attesa di politici di sinistra che difendano l'apostata Eugenia ("nata bene") Roccella. E di Fratelli di Augusta che tirino le orecchie pure a lei. Altrimenti al prossimo G7 Justin Trudeau dovrà preoccuparsi per la violenza verbale attorno ai libri in Italia.

Saturday, September 24, 2022

Elogio dell'astensione. So già chi vince: io

Storia di un radicale che nella vita ha votato di tutto e stavolta non vuole votare niente, senza sensi di colpa e finalmente in maggioranza. E che propone di tagliare seggi in proporzione al numero di astensionisti 

di Mauro Suttora

Huffpost, 24 settembre 2022 

Per la prima volta dopo quasi mezzo secolo vincerò le elezioni. Il mio partito risulterà primo, supererà Meloni e Letta, si installerà ben oltre il 25%. Poi noi astenuti faremo approvare una legge per completare l'opera: il numero degli eletti si ridurrà in proporzione ai votanti. Astensione di un quarto degli elettori? Trecento deputati invece di quattrocento, 150 senatori al posto di 200. L'unico modo per contare qualcosa, per fare veramente male.

Byebye Bonino: ti ho sempre votata dal 1979, appena maggiorenne, e i radicali mi piacevano già da prima. Ora non più, inutili cespugli del pd abbonati al 2%. Beautiful losers, direbbe Leonard Cohen. Nelle amministrative, dove Pannella non si presentava, ho votato via via tutti i partiti di protesta: verdi e Dp negli anni '80, Lega e Di Pietro nei '90, anche Grillo alle comunali di Roma 2008 (preferenza Paola Taverna). Una volta ho scelto perfino An: Riccardo De Corato, il miglior vicesindaco di Milano, piantumò un sacco di alberi con la Moratti. Insomma, non ho pregiudizi. 

Inaffidabile? No, laico e pragmatico. Antipolitico? Macché, semmai anarchico, la politica mi appassiona. Qualunquista? No, come tutti ho ideali e idiosincrasie ben precise. Sceglierei Calenda, per esempio, se non fosse filonucleare e per l'aumento delle spese militari. Meloni se non fosse fascista (chissà se le tireranno lo scherzo di far nascere il suo governo il 28 ottobre, nel centenario della Marcia su Roma). Fratoianni e Rizzo se non fossero comunisti. Paragone se non avesse fatto carriera da giornalista leghista solo grazie alla politica, e da politico grillino solo grazie al giornalismo: ora è al terzo riciclo.

Novax e putiniani li escludo automaticamente, quindi niente Salvini e M5s (Conte con l'aggravante del reddito di divananza). Di Forza Italia mi dà noia soprattutto il familismo: perché candidare la Fascina, quasi moglie di Berlusconi, o la pur splendida Patrizia Marrocco, ex di suo fratello Paolo? Vado troppo sul personale? Sì, preferisco le singole persone ai partiti: voterei l'ex magistrato Nordio o l'ex ministro degli Esteri Giulio Terzi (l'unico severo con Cina e Iran) seppur proposti dai Fratelli d'Italia. 

Resta il Pd. Nel mio collegio milanese c'è Misiani, brava persona. Come Letta. Poi però vedo i pd in tv, e mi urtano i nervi: Casini catafratto di legislature, la moglie di Martelli, quella di Franceschini probabilmente responsabile della sua orrenda frangetta giovanilista. In più l'ottimo ministro della Cultura, emigrato a Napoli per farsi eleggere (nella sua Ferrara non ce la fa), era in prima fila alla liquefazione del sangue di San Gennaro, assieme ad altri miracolati come Di Maio. Una scena da terzo mondo.

Ho parlato poco di contenuti? Datemi un partito liberale e la mia crocetta sarà sua. Un La Malfa, un Ciampi, un Padoa Schioppa, un Draghi. Rigore di bilancio, legalità, garantismo, prestigio, serietà fino alla mestizia. 

Nella repubblica degli Escartons (1343-1713), a cavallo tra Francia e Piemonte, il console quando veniva eletto doveva depositare una cauzione personale di 200 scudi. Se dopo un anno il bilancio andava in rosso, li perdeva. Altrimenti li recuperava con gli interessi. Con una regola così, correrei subito in cabina elettorale. Se no, resto fra gli apoti: quelli che non se la bevono, come Prezzolini scrisse nel settembre 1922 sulla Rivoluzione liberale di Gobetti. 

Sunday, July 31, 2022

I due mandati grillini sono una barzelletta. Imparino dai radicali

Da sempre nelle democrazie il divieto di ricandidarsi è considerato il principale antidoto alle incrostazioni di potere. Gli ultimi che in Italia hanno provato a limitare la durata dei politici, prima di Grillo, li facevano ruotare a metà mandato

di Mauro Suttora

Huffpost, 31 Luglio 2022  


Altro che due mandati. Gli ultimi che in Italia hanno provato a limitare la durata dei politici al potere, prima di Grillo, li facevano ruotare a metà mandato. Due anni e mezzo, e poi via. 

Dieci anni è troppo, inutile e crudele. Troppo, perché due lustri sono un'eternità; inutile, perché come dimostrano i grillini quasi tutti trovano trucchi per continuare; crudele, perché dopo un tempo così lungo è un'agonia tornare al precedente lavoro (Vito Crimi era dovuto emigrare da Palermo a Brescia per fare fotocopie in tribunale) o reperirne uno nuovo. 

Una suora divorzista, un obiettore antimilitarista, un intellettuale omosessuale e un avvocato garantista: questi furono i deputati che nel 1976 i radicali scelsero per subentrare a metà mandato ai loro primi quattro eletti (Pannella, Bonino, Mellini e Adele Faccio). Erano arrivati secondi nelle preferenze: suor Marisa Galli, Roberto Cicciomessere, Angelo Pezzana e Franco De Cataldo. Cominciarono da subito a frequentare Montecitorio come deputati supplenti: aiuto prezioso che raddoppiava le forze, visto che non esistevano ancora i portaborse.

La mossa dei radicali ebbe particolare risonanza, perché già allora montava la polemica contro l'inamovibilità dei politici di carriera: in particolare dei democristiani, da trent'anni al governo senza interruzione. Le turnazioni radicali a metà mandato proseguirono nelle legislature successive, tanto che Pannella alla fine si ritrovò una pensione notevolmente decurtata.

Anche i verdi all'inizio promisero la rotazione a metà mandato. Ma dei consiglieri regionali e comunali eletti nel 1985 pochi mantennero l'impegno: fra gli altri Michele Boato in Veneto e Nanni Salio a Torino (dopo un solo anno). Spesso i verdi, per dimostrare il loro disinteresse verso le poltrone, si candidavano in ordine alfabetico. Quindi quasi sempre ottenevano più preferenze quelli con cognome A o B. I quali però alla scadenza dei due anni e mezzo non lasciavano la carica, nonostante l'assoluta casualità della loro elezione. 

Uno dei casi più spiacevoli avvenne a Milano. Non solo i consiglieri comunali Antoniazzi e Barone nel 1987 non si dimisero, ma vennero nominati assessori dal furbo sindaco socialista Pillitteri, che formò così la prima giunta rossoverde d'Italia.

Erano tempi duri per gli eletti di movimenti 'alternativi' che cedevano alle lusinghe del potere: vidi un assessore verde lasciare la sua auto blu a un isolato dall'assemblea di partito cui doveva partecipare, e arrivare a piedi per non farsi notare. I grillini odierni invece ci hanno messo poco ad adeguarsi.

Da sempre nelle democrazie il divieto di ricandidarsi è considerato il principale antidoto alle incrostazioni di potere. 2500 anni fa Atene e Roma stabilirono in un anno la durata di arconti e consoli, oggi i presidenti Usa e francesi hanno limiti di otto e dieci anni. Ma il record di velocità appartiene ai priori della repubblica di Firenze: a casa dopo soli due mesi.

Mauro Suttora


Friday, July 29, 2022

Il problema di Berlusconi non sono i traditori. È che sono finiti

Da Urbani fino a Carfagna, Forza Italia ha finito pure i transfughi. Ora non c'è più nessuno che se ne possa andare

di Mauro Suttora

HuffPost, 29 Luglio 2022 

Magari ha ragione Valentina Vezzali. La campionessa di scherma, sottosegretaria allo Sport, va controcorrente e aderisce a Forza Italia proprio nel momento della grande fuga. Brunetta, Carfagna, Gelmini, Cangini, Elio Vito: tutti i ministri e molti altri abbandonano Berlusconi, Vezzali furba riempie il vuoto e verrà promossa se ci sarà un governo di centrodestra.

Scappare dalla barca che affonda è buona regola in politica, alla faccia di fedeltà, gratitudine o coerenza. Soprattutto quando quest'ultima è semmai rivendicata dai transfughi, in nome del liberalismo. Tuttavia è impressionante scorrere la lista di tutti gli addii che Silvio ha incassato nei suoi 28 anni di vita politica. 

Lo sterminio è sterminato. I radicali scapparono subito: bastarono sei mesi a Pannella e Bonino per capire che la "rivoluzione liberale" promessa nel 1994 era una chimera. Poi fu la volta del prestigioso battaglione di professori arruolati da Forza Italia: Urbani, Melograni, Colletti, Marzano, Vertone. Sopravvissero solo Pera, premiato con la presidenza del Senato, e Brunetta. Durarono poco anche gli avvocati Dotti e Della Valle (Tortora). 

Nel 2001-11 Berlusconi governa otto anni su dieci, quindi nessuno lo molla. Poi, la diaspora. Silvio fa fuori tutti i suoi presunti delfini (Alfano, Toti) e i portavoce (Bondi, Bonaiuti). Tremonti va con la Lega, Quagliariello, Romani e Biancofiore con Toti. Via anche Pisanu, Frattini, Cicchitto, Lorenzin, Crosetto, Sanza, Albertini, Verdini, Fitto, Capezzone, Ravetto, Elisabetta Gardini, un anno fa Malan. 

Silvio però è buono, riaccoglie figliol prodighi come Schifani, Polverini e Miccichè che lo avevano tradito. Ora è circondato dagli ultimi fedelissimi. Tajani, innanzitutto, socio fondatore di Forza Italia con Antonio Martino e il generale Caligaris. Sestino Giacomoni e l'ex assistente personale Valentino Valentini lo seguiranno ovunque. 

In prima fila la quasi moglie Fascina, la quasi badante Renzulli, i capigruppo Bernini e Barelli. E poi i senatori Galliani (che non si ricandida), Ghedini, Stefania Craxi, Casellati. I deputati Rotondi, Baldelli, Aprea, Bergamini, Marrocco (ex fidanzata di Paolo Berlusconi), Mulè, Prestigiacomo, Ruggieri (nipote di Vespa, compagno di Anna Falchi).

Ma il principale consigliere politico personale di Berlusconi resta l'inossidabile Gianni Letta.

 

Sunday, December 19, 2021

La libertà di non vaccinarsi non è un diritto civile

I novax si comportano da free-riders: evasori a sbafo. Come i portoghesi che non pagano il biglietto su tram e treni. I quali circolano lo stesso, tanto pagano gli altri

di Mauro Suttora

HuffPost, 19 dicembre 2021

Libertà, libertà. E i libertari che ne pensano, della libertà di vaccinarsi invocata dai novax?

Libertari in Italia significa radicali, Pannella, Bonino. Sono stati loro a ottenere la libertà di divorziare, abortire, obiettare al servizio militare, praticare la fecondazione assistita. Sono sempre loro anche oggi a chiedere, con gli imminenti referendum, libertà di fumare cannabis e di decidere sulla fine della propria vita (eutanasia).

È radicale pure Davide Tutino, il professore di storia e filosofia che a Roma è diventato il primo obiettore di coscienza contro l’obbligo vaccinale a scuola, perdendo lo stipendio. Una disobbedienza civile in piena regola. Lo abbiamo conosciuto giovedì sera a Piazzapulita (La7), dove si è guadagnato i complimenti di tutti per la pacatezza del suo argomentare.

Ma Pannella cosa direbbe sui vaccini, se non fosse scomparso cinque anni fa? Tutino ha riesumato l’unica occasione in cui si espresse sull’argomento: un convegno radicale nel 1995 a Genova sulla proposta di obbligo vaccinale per i bambini (attuato nel 2017 dalla ministra Lorenzin). Ascoltati i relatori, fra cui un giovane professor Bassetti e il pioniere novax Gianpaolo Vanoli, Pannella disse che era scettico sul ruolo dello stato come “tutore della salute pubblica”. Ovvio per un libertario, ma lontano dalle fiammeggianti intemerate di un Ivan Illich o Michel Foucault.

Difficile comunque ricorrere all’ipse dixit, data la differenza del contesto: un quarto di secolo fa non c’era l’attuale emergenza planetaria. Cosicché oggi i radicali sono, come tutti, schierati in stragrande maggioranza per vaccini e greenpass. 

Tuttavia, il dilemma obbligo/libertà sui vaccini interpella inevitabilmente i libertari. Perché l’intromissione dello stato è evidente. Finché si sperava nell’immunità di gregge, non c’erano problemi: lo spazio per un 10-20% di refrattari era garantito. Ma le varianti hanno cambiato il gioco, e con omicron nessuno più sembra preoccuparsi di salvaguardare neanche una microscopica minoranza di obiettori al vaccino.

Dura da accettare per i radicali, abituati a opporsi alle solidarietà nazionali in nome delle emergenze, dal terrorismo in poi. “Né con questo stato, né con le br”, disse Sciascia (prima dell’omicidio Moro).

E oggi? “Né vax, né novax?” Impossibile, per il partito illuminista di Luca Coscioni, della libertà e fiducia nella scienza, della ricerca sulle cellule staminali, contro gli opposti oscurantismi: “No Vatican, no Taliban”, fu lo slogan pannelliano nel 2005, era pre-Bergoglio.   

E allora? A indirizzare i libertari, ecco l’abc dell’etica laica: l’imperativo categorico di Kant. Ovvero: ogni tua azione sia valida come legge universale.

Quindi coloro che non si vaccinano, come l’ottimo Tutino, immaginino un mondo in cui tutti seguano il loro esempio. È un comportamento replicabile? No. Perché tutti possono divorziare, abortire, far figli in vitro, fumarsi una canna o ricorrere all’eutanasia senza danneggiare gli altri. Non vaccinarsi invece danneggia: seppur in misura minima, se si crede agli scetticismi novax. Quindi la libertà di non vaccinarsi non è un diritto civile.

Insomma, i novax possono esistere solo in quanto rimangono al 5%. Se fossero di più avremmo 50 milioni di morti, non 5. Certo, il vaccino fa entrare lo stato nella nostra vita. Peggio, per un libertario: nel nostro corpo. Ma, anche ammettendo che le immunizzazioni possano essere rischiose o inutili, i novax si comportano da free-riders: evasori a sbafo. Come i portoghesi che non pagano il biglietto su tram e treni. I quali circolano lo stesso, tanto pagano gli altri. 

Questa si chiama irresponsabilità. E fa a pugni con il principio di legalità, ovvero lo stato di diritto. Che è la base della nostra convivenza civile. Ma anche la stella polare di tutti i libertari che praticano la disobbedienza civile. Perché Gandhi e Luther King si appellavano proprio alla legge e alla certezza del diritto, non a una generica ‘libertà’ populista e ribellista. Sulle orme di Antigone, denunciavano ingiustizie e discriminazioni. E pagavano scrupolosamente con arresti e carcere il prezzo delle proprie azioni dirette nonviolente, che violavano leggi da loro considerate sbagliate. Come hanno sempre fatto Pannella e i radicali. E oggi anche Tutino, seppure per una causa fallace.

Mauro Suttora 

Saturday, December 11, 2021

Nicola Chiaromonte, integerrimo politico e quindi necessariamente ‘non politico’

L’intellettuale lucano morto nel 1972 a 67 anni fu iscritto una sola volta a un partito: i neonati radicali, nel 1956 

di Mauro Suttora

HuffPost, 11 dicembre 2021

Google definisce Nicola Chiaromonte “politico”. Niente di più falso. L’intellettuale lucano morto nel 1972 a 67 anni fu iscritto una sola volta a un partito: i neonati radicali, nel 1956. I quali già due anni dopo sparirono dalla scena nazionale, dopo il disastroso debutto elettorale: 1,4% assieme ai repubblicani di La Malfa (il partito radicale si reincarnò poi sotto la guida di Pannella).

Fu questo, nel lungo dopoguerra italiano, il destino di tutti i partiti laici: stritolati dalle due chiese contrapposte, democristiana e comunista. Sorte toccata anche a Chiaromonte e a tanti uomini di pensiero indipendente come lui. E infatti anche la sua memoria è stata cancellata: se si dice Chiaromonte, chi sa un po’ di politica pensa soltanto al suo omonimo Gerardo, senatore Pci scomparso nel 1993 (nessuna parentela).

Invece Nicola Chiaromonte è stato un importante uomo di pensiero, come dimostrano le 1800 pagine del Meridiano che gli ha dedicato Mondadori. Fu anche un integerrimo politico, in realtà, e quindi necessariamente ‘non politico’. Un po’ come il ‘non tessuto’ con cui proteggiamo le nostre piante d’inverno, o come l’unica intuizione degna di nota di Casaleggio, fondatore dei grillini: il quale li definì ‘non partito’ dotandoli di un ‘non statuto’, essendo gli statuti dei partiti perlopiù truffaldini.

Durante il fascismo Chiaromonte stette nell’unico posto dove un deciso antifascista poteva stare: all’estero. Ma anche quando tornò in Italia dall’esilio in Francia e Usa rimase straniero in patria. E infatti fu amico stretto di Camus: il loro carteggio è stato anch’esso appena pubblicato da Neri Pozza.

Diversamente dallo Straniero per eccellenza degli anni ’50, tuttavia, Chiaromonte scampò all’epiteto di ‘rinnegato’: non fu mai comunista. Socialista libertario, negli anni ’30 aderì a Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli, ma la lasciò quando si trasformò da movimento in partito e si avvicinò troppo ai comunisti (che stavano massacrando gli anarchici in Spagna).

Fu tuttavia marchiato dall’accusa di ‘venduto’. Purtroppo vera, perché la sua rivista Tempo presente, fondata nel 1956 con Ignazio Silone (lui sì traditore del Pci), risultò finanziata dagli Usa. Più precisamente dal Congress for cultural freedom, organizzazione che nel 1967 un’inchiesta giornalistica rivelò essere aiutata dalla Cia.

Peccato che oggi ci appare risibile, per due motivi: primo, perché quasi tutti erano ‘pagati’, i comunisti da Mosca, Dc e Psdi da Washington; secondo, perché in tempo di guerra, seppur fredda, è lecito essere aiutati dagli alleati, come lo furono i partigiani contro i nazisti.

Ma Chiaromonte, ignaro dei soldi occulti, soffrì molto quando vennero alla luce e s’imbufalì con l’amministratore del giornale che lo aveva tenuto all’oscuro. Lui personalmente non aveva bisogno di quell’aiuto, poiché sbarcava il lunario come critico teatrale del Mondo e dell’Espresso. E lo ferì essere associato alla Cia, proprio lui che negli anni a New York aveva combattuto con il suo maestro anarchico Caffi non solo il nazifascismo, ma anche l’establishment capitalista Usa. E che su Tempo Presente non aveva lesinato critiche al maccartismo ed elogi a sacerdoti come Balducci e Milani, fautori dell’obiezione di coscienza al servizio militare.

Insomma, in questi tempi di polemiche strampalate contro un supposto mainstream vaccinista, è interessante leggere le pagine scritte da Chiaromonte, che mainstream non lo fu mai perché rifiutò l’arruolamento non in una corrente principale, ma in due contemporaneamente: la maggioranza democristiana e l’opposizione comunista. Lui e pochissimi altri stettero all’opposizione dell’opposizione. E pagarono con la sparizione, in vita e in morte.

Mauro Suttora 

Monday, October 04, 2021

M5s: San Francesco ce li ha dati, San Francesco ce li ha tolti


di Mauro Suttora

HuffPost, 4 ottobre 2021

San Francesco ce li ha dati e San Francesco ce li ha tolti. I grillini nacquero il 4 ottobre 2009 al teatro Smeraldo di Milano, e nello stesso giorno dodici anni dopo crollano. Non solo nel capoluogo lombardo, dove negli exit poll racimolano un imbarazzante 3%, ma anche a Roma, dove la Raggi non arriva al ballottaggio, a Torino (10%), Trieste (3%) e perfino nella Napoli di Fico e Di Maio, dove il voto di lista grillino crolla rispetto all’incredibile 50% di appena tre anni fa.

Un po’ mi spiace. Se non avessero s/governato, se fossero rimasti al 3-5%, avrebbero svolto un’utile funzione di pungolo, come Pannella. Proprio il capo radicale, ricordo, era in piazza San Paolo nel 2008 a Roma a firmare i primi referendum grillini, non ancora Cinque stelle. Lì avvertì: “Attenti a non sbagliare le date della raccolta firme”. I Casaleggio non lo ascoltarono. Risultato: mezzo milione di firme al macero.

Mi ero iscritto al blog di Grillo nel settembre 2007, il giorno dopo il primo Vaffaday e un giorno prima di Paola Taverna. Scrissi per il mio settimanale Oggi articoli incuriositi e benevoli, frequentando le loro riunioni da embedded per conoscerli bene. Sembravano la naturale conseguenza del milione di copie vendute quell’anno dal libro di Rizzo e Stella, che denunciava gli eccessi della Casta politica.

Conobbi i pionieri dei meetup romano: la futura ‘faraona’ laziale Roberta Lombardi (che perse le primarie a candidata sindaca di Roma nel 2008), il dentista Dario Tamburrano poi eurodeputato. La più simpatica era l’esuberante Taverna, così diversa dai figli di papà Di Maio e Di Battista: al lavoro a 19 anni per mantenere sé e la famiglia (da senatrice ha recuperato e si è laureata).

Alle regionali 2010 risultati scarsissimi: Vito Crimi trombato in Lombardia, Fico 1,3% in Campania. Andai a Bologna a intervistare uno dei rari eletti, Giovanni Favia, brillante pupillo di Grillo. Poi, con i primi successi, prevalse la paranoia dei Casaleggio. Chi non seguiva la linea veniva subito espulso, in un tragicomico susseguirsi di purghe: da Grillo a Stalin. Favia fu la prima vittima, anche la Lombardi rischiò. 

Tutti avevano il terrore di parlare. Io, come giornalista ‘interno’, fui messo al bando: “Spia, infiltrato!”. La Gabanelli prima fu proposta come presidente della Repubblica, poi insultata perché osò chiedere i conti della società Casaleggio. Il candidato grillino a presidente del Senato, Orellana, fu cacciato solo per aver osato proporre di trattare col Pd (con cinque anni di anticipo).

Le macchine del fango non sono state inventate da Morisi con la sua Bestia leghista. Furono i Casaleggio nel 2012, e poi gli addetti stampa Messora (Byoblu) e Casalino a inaugurare le ‘shitstorm’ con cui si seppellivano dissidenti interni e avversari esterni. Ho visto decine di parlamentari ed ex fedelissimi militanti cadere in depressione dopo questi crudeli trattamenti. L’esatto contrario della ‘Rete liberatoria’ predicata da Grillo.

I trionfi elettorali del 2013 e 2018 hanno fatto ingoiare ai grillini questi metodi fascistoidi. Gli stipendi e i posti di sotto-governo tengono tuttora legati i parlamentari.

Ma ormai il giocattolo è rotto, il gioco scoperto. Spariti gli attivisti, rimangono gli arrivisti. Evaporata l’onestà, il fu Movimento 5 stelle ora è avvolto nel fumo della logorrea di Giuseppe Conte. Sopravviverà al massimo come cespuglio del Pd.

“Casaleggio? Mai fidarsi di chi si chiama come un formaggio”, mi prendeva in giro dieci anni fa il compianto filosofo Giulio Giorello. “Cinque stelle? Nome buono per gli hotel, indegno di un partito”, li liquidò Sgarbi. Avevano ragione loro.

In pochi anni sono passato da grillofilo a neutrale grillologo a grillofobo. Ora è il turno dei disillusi ex elettori grillini. Che hanno votato coi piedi: alle urne non ci vanno più. Il boom dell’astensione è l’unica eredità dell’era Grillo.

Mauro Suttora

Thursday, September 30, 2021

Da Piccioni a Morisi. Come a tutti i guardoni, mi interessano solo i particolari



Non resta che “feed the beast”, nutrire la bestia, i nostri stomaci che reclamano gossip appetitosi? 

Mauro Suttora

HuffPost, 30 settembre 2021


Indugiamo? Ma sì, indugiamo. Come dice Ezio Greggio in Striscia la Notizia, ecco arrivarci addosso un altro succulento piatto cochon. La fantastica notte di Ferragosto di Luca Morisi, lontanissima dalle romantiche rotonde sul mare di Gianni Morandi, vicinissima a Fantozzi.

Nella bassa padana si sono intrecciati i tre bastioni della propaganda leghista: proibizionismo sulla droga, omofobia e xenofobia. Tutti violati in un colpo solo dal principe di quella propaganda: festino a base di droga con due gay rumeni. 

A me, come a tutti i guardoni, interessano solo i particolari (come disse quella femminista americana sull’autoerotismo: “Perché accontentarsi di un corpo, quando si può avere un intero dito?”).

Quindi sarò venale, ma quattromila euro per due escort mi sembra eccessivo. Però queste sono mie manie private. Mentre qui, come si diceva nelle assemblee, il problema è politico. Cioè: fino a che punto i media possono inzuppare le cronache in fatti privati, privatissimi? 

Da allegro libertario, la mia risposta è: nessun confine. Libertà totale di sputtanamento. Unico limite: la verità dei fatti. Quindi per me e per tanti altri insaziabili curiosoni, oggi è giorno di festa: giornali, tv e social traboccano di Tutto Morisi minuto per minuto. 

È gogna mediatica? Certo. Ben gli sta al finto moralista, ipocrita come tutti i benpensanti. Perdoneremo lui e il suo capo Salvini solo se la Lega legalizzerà le droghe, recuperando coerenza.

Leggendo i commenti facebook, non pochi a sinistra ripristinerebbero la gogna vera: tre giorni o anche solo tre ore in gabbia in piazza Duomo per il malcapitato. 

Poi però mi vengono in mente Alda D’Eusanio e Federica Guidi. La prima venne distrutta da una frase che forse disse a Craxi. Non importa se vera o inventata. Il mio residuo pudore mi impedisce di riferirla, ma è rintracciabile online. Fatto sta che la presentatrice fu marchiata a vita da quelle parole.

L’ex ministra Guidi invece purtroppo rimarrà nella storia per il lamento col fidanzato: “Mi tratti come una sguattera guatemalteca”. Erano atti giudiziari, certo, e lei personaggio pubblico. Quindi diritto di cronaca.

Ma il fidanzato fu archiviato, lei neanche mai indagata, eppure ebbe la vita (politica) distrutta.

L’elenco dei politici eliminati con questo metodo è sterminato. Il successore di De Gasperi, Piccioni, nel 1953 finì sepolto sotto lo scandalo Montesi. Ma erano altri tempi, i sussurri su suo figlio emersero solo su giornali neofascisti.

Nessun mezzo di comunicazione accennò mai a un presidente che andava a donnine, a un altro etilico, a qualche premier dc gay. Solo pettegolezzi fra addetti ai lavori. E livori, come scrive Dagospia, la bibbia di noi portinai.

Le vivaci imprese dei figli del presidente Leone invece emersero, ma alla fine Pannella e Bonino onestamente si scusarono con lui per qualche calunnia di troppo che lo costrinse alle dimissioni nel 1978.

Poi è arrivata la saga Berlusconi. E qui, fra pompette e infermiere, ogni anfratto è stato esplorato. Qualche magistrato non si è ancora stancato, cosicché siamo al processo Ruby ter. E va bene che la subornazione di testimoni è reato, però chiedere la perizia psichiatrica per un 85enne non è eccessivo: è surreale.

E allora, che dobbiamo fare noi giornalisti? Aumentare tirature e ascolti grazie ai resoconti di ogni volgarità? Perché, dopo vent’anni di lavoro nel settimanale Oggi, posso assicurarvelo: le vendite salgono a missile con sesso & sangue. Solo una volta un gentiluomo mio direttore rinunciò a vellicare i bassi istinti dei nostri lettori, e ripose nel cassetto le foto di un portavoce di Prodi che andava a trans. Disastro: fu accusato di censura e sudditanza verso il centrosinistra.

Quindi non resta che “feed the beast”, nutrire la bestia, i nostri stomaci e intestini che reclamano gossip appetitoso? Infierire sul figlio di Grillo? Sul marito della Mussolini? Zoomare sulla cellulite della incantevole Boschi, o sui sandali della moglie di Renzi?

Dopotutto, proprio Bestia era l’orgoglioso nome della propaganda social di Morisi, che perfezionò il tritacarne grillino di Casalino e issò Salvini al 35% nei sondaggi. Nemesi, contrappasso?

In realtà il piccolo mago leghista non ha commesso reati. Se processato, verrà assolto: stupefacenti in modica quantità per uso personale, sesso fra adulti consenzienti.

Ma, ovviamente, il danno è già fatto. Ora possiamo solo ricamarci sopra. Per la soddisfazione di Pillon e Zan, opposti ma simmetricamente così simili nel voler incassare un guadagno politico dall’orgia ferragostana nella bassissima padana.

Mauro Suttora 

Wednesday, May 19, 2021

I due ultranovantenni del Mondo

Il racconto di Angiolo Bandinelli, le foto di Paolo Di Paolo

di Mauro Suttora

HuffPost, 19 maggio 2021


Angiolo Bandinelli ha 94 anni. Partigiano a Roma, iscritto al partito d’azione, poi fondatore di quello radicale con Marco Pannella. Segretario del partito ai tempi pioneristici, mezzo secolo fa, fra marce antimilitariste, caso Braibanti (l’omosessuale accusato di plagio), divorzio e obiezione di coscienza alla naja. 

Infine deputato nel 1986, ma soltanto per un anno e soltanto perché Spadaccia “ruotò” in suo favore (mica come i grillini che frignano perché devono abbandonare le poltrone dopo dieci anni: gli eletti radicali lasciavano il seggio a metà legislatura, dopo appena due anni e mezzo).

In realtà il suo gesto più memorabile, in politica, fu offrire uno spinello, lui consigliere comunale, al sindaco di Roma nel 1979: il popolarissimo comunista Petroselli, che lo amava anche fra gli insulti.

Ammiro Bandinelli da 40 anni, da quando lo vedevo tirare la volata al pupillo Rutelli nei congressi radicali, perché fu giornalista del leggendario settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio. Scrisse una cinquantina di articoli su quella bibbia dei liberali di sinistra, che si spense con il suo fondatore nel 1968 (data non casuale).

Ora il ragazzo Bandinelli ha pubblicato una bellissimo racconto: La Perla (edizioni Galaad). Lui è un poligrafo voltairiano, gli piace il passo breve, quindi scrivere articoli sul Foglio e libretti Millelire per Stampa alternativa di Marcello Baraghini, altro nume della controcultura.

Sottotitolo di La Perla: “Favola senechiana”. Perché?, gli chiedo per e-mail (basta telefonate, è sordo). “Perché è piena di morti, come nelle tragedie di Seneca”, mi risponde dalla sua bella casa romana al parco Nemorense.

Ha litigato con tutti, sia i radicali di destra (il partito che ora raccoglie firme con i leghisti per separare i procuratori dell’accusa dai giudici) che quelli di sinistra (Bonino, +Europa). Tratta male anche me: “Non capisci un c. di politica, come tutti i milanesi”. Per questo lo amo.

Paolo Di Paolo ha 96 anni, due più di Bandinelli. È stato il fotografo storico del Mondo, paginate in bianco e nero che spiegavano tutto da sole. Chiuso il settimanale, nell’ultimo mezzo secolo non ha più voluto lavorare.  È venuto a Milano per inaugurare una mostra di sue foto organizzata dalla figlia alla galleria Sozzani di Corso Como 10 a Milano: La lunga strada di sabbia, aperta fino a fine agosto.

Sono le immagini che illustrarono un reportage di Pier Paolo Pasolini del 1959 sulla rivista Successo. Viaggio geniale sulle coste della penisola da Ventimiglia a Muggia (Trieste), nell’Italia del boom. Non so se sono più belle le foto o il testo, raccolto in libro da Guanda. Ma sicuramente le parole scritte di Pasolini guadagnarono dalle immagini di Di Paolo, e viceversa. 

Ho incrociato da poco l’inchiesta pasoliniana scrivendo il mio libro ‘Confini, storia e segreti delle nostre frontiere’. Folgorante la descrizione dell’unica turista che i due scovarono a prendere il sole sulla spiaggia a Ventimiglia: “Una giovincella olandese, bella come un cipressetto”. La foto di Di Paolo vidima il giudizio di Pasolini.

Mauro Suttora

 

Sunday, May 02, 2021

Una politica appesa a Fedez

Il rapper dice che la Rai è lottizzata, e improvvisamente se lo ricordano tutti. Sul merito, il ddl Zan, soprattutto il centrosinistra sconta vent'anni di smemoratezze

di Mauro Suttora

HuffPost, 2 maggio 2021

Ricordavo la deliziosa Ilaria Capitani portavoce di Walter Veltroni nel 2007, quando intervistai l'allora sindaco di Roma. Mai avrei immaginato si trasformasse in feroce belva della censura contro tal Federico Lucia da Buccinasco, tatuatissimo cantante con faccia e voce attraenti quanto quelle di Morgan.

C'eravamo liberati da appena una settimana di Grillo, suicidatosi col video sugli stupri, mo ecco Fedez. L'ennesimo famoso solo per essere famoso (trovate qualcuno che sappia canticchiare qualche sua canzone) che pretende di comiziare di politica coi miei soldi (via Rai). Anche Celentano sproloquiava, ma almeno lui aveva all'attivo decenni di inni ecologisti.

Dato il mio cognome, ogni tanto qualcuno mi ammonisce: "Sutor, ne ultra crepidam!" Ciabattino, non (andare) oltre la scarpa. E gli inglesi chiamano "ultracrepidarian" i saccenti che dispensano giudizi su questioni che oltrepassano la loro competenza.

Invece noi, tramontato il comico a 5 stelle, abbiamo il rapper "tanta roba" come nuovo maître-à-penser.

Il quale ci rivela, in ritardo di mezzo secolo su Pannella, che la Rai è lottizzata. E che, essendo servizio pubblico, magari non può concedere proprio a tutti di vomitare insulti in diretta tv contro un politico davanti a milioni senza contraddittorio.

Ovviamente, poi, il populismo abbisogna di vittimismo. Quindi il povero rapper che si chiama come un corriere espresso lamenta di avete subìto una tentata castrazione verbale da parte dell'incantevole Capitani. Ma lo fa in modo simpatico, stile 'Le vite degli altri': registrando e pubblicando la loro telefonata privata. E, come nella Ddr, tagliandone gli spezzoni che non gli convengono.

Tuttavia l'avvenimento più stupefacente di queste ore è che si è scatenato il 'dibattito'. Letta e Zingaretti, di sinistra, se la prendono con una dirigente Rai di sinistra. L'inevitabile Di Maio loda Fedex: "Una persona che in tutto quello che fa ci mette il cuore", col 'ci' rafforzativo molto millennial. E ci mancherebbe: Fedez si esibiva sui palchi grillini quando loro erano arroganti come lui adesso, prima della ripulita.

Gli addetti ai social di tutti i politici li hanno costretti a esprimersi sull'argomento del giorno. Resistono solo Draghi, Cartabia e Mattarella.

Quanto al contenuto del "messaggio" del nuovo EmilioFedez progressista, ricordo che la prima proposta di legge contro l'omofobia porta la firma di Franco Grillini (cui i grillini con la minuscola hanno tagliato il vitalizio nonostante abbia un tumore). È del 2001: sono passati vent'anni, il Pd ha governato per dieci, nel frattempo Salvini ha fatto pure in tempo a cambiare idea ("Allora era d'accordo con me", dice Grillini).

La legge Zan merita sicuramente una discussione seria e approfondita: come proteggere gli lgbt, per esempio, senza ledere le libertà di parola e opinione?

Dilemmi importanti, mettere d'accordo gli eterni Capuleti e Montecchi della scena pubblica italiana sarà difficile.

Per carità, anche Jean-Paul Sartre era fazioso. Ma più cauto di Fedez: la sua compagna Simone De Beauvoir non possedeva decine di milioni di follower.

Mauro Suttora

Monday, March 29, 2021

Lo spinello libero farebbe bene a "guardie e ladri"

Negli Usa la diga proibizionista è crollata, ora anche New York. Perché i benefici sono innumerevoli

di Mauro Suttora

HuffPost, 29 marzo 2021

Ha ragione la nonna dei fiori Erica Jong, 79 anni: senza il brivido del proibito, che fascino avrebbero gli spinelli? Anche per questo la sua New York, dove lei furoreggiò con 'sex & drugs', ha deciso di legalizzare marijuana e hashish. È il 14esimo stato Usa a farlo: la diga è crollata. Cinque mesi fa altri tre stati hanno liberalizzato le canne con un referendum, assieme al voto presidenziale. Ormai la maggioranza assoluta degli statunitensi è antiproibizionista, visti i risultati positivi ottenuti negli ultimi vent'anni in California, sempre pioniera.

I benefici sono innumerevoli: le droghe leggere portano soldi non più alle mafie, ma alle casse pubbliche (New York prevede 350 milioni di entrate tassandole al 9%); si risparmiano i costi della repressione poliziesca; i tribunali si disintasano; si spezza il legame con le droghe pesanti; si decriminalizzano le minoranze nere e ispaniche, i cui giovani vengono arrestati per spaccio.

Ma soprattutto, è caduta la grande paura dei proibizionisti: la libertà di fumare non ha provocato un aumento del consumo. Neanche una diminuzione, ma almeno ora gli spinelli sono diventati come alcol e tabacco: chi vuole smettere ha soltanto un problema psicologico e medico, da curare come gli alcolisti anonimi, senza carceri e poliziotti a rovinarti la vita.    

È stato un brutto incubo, durato mezzo secolo. Fu nel 1970, infatti, che il presidente Nixon dichiarò "guerra alla droga". Guerra fallita, come già il primo proibizionismo Usa anti-liquori degli anni '20, il cui unico risultato fu quello di arricchire gli Al Capone. Basta vedere il film 'C'era una volta in America': "E ora che facciamo?", si chiesero smarriti i mafiosi nel 1933, quando il saggio Roosevelt pose fine all'illusione punitiva.

Quanto all'Italia, tutti noi sappiamo che metà dei nostri compagni a scuola si facevano le canne. La notizia non è che i giovani continuano a fumare, ma che ora ne approfittano anche i 'buoni': il disastro dei carabinieri spacciatori di Piacenza dimostra che è urgente depenalizzare anche da noi almeno le droghe leggere, prima che il cancro della corruzione si diffonda a livelli messicani.

Ricordo l'arresto di Walter Chiari e Lelio Luttazzi 50 anni fa: al bambino che ero parve incredibile che il presentatore del suo programma radio preferito, Hit Parade, finisse dentro. Che fosse un 'cattivo', un drogato. All'adolescente che ero nel 1975 sembrò ragionevole che Marco Pannella si facesse arrestare per uno spinello, allo scopo di far cambiare la legge. Avevo studiato Antigone e Gandhi, mi entusiasmai. Grande delusione nel 1988, quando Craxi da progressista divenne reazionario e sposò la repressione. Nè ho mai capito i capi delle comunità antidroga che volevano il carcere per i loro malati: infermieri o aguzzini?

Preistoria. Oggi confesso che noi boomer antiproibizionisti siamo esausti. Ci accontentiamo di 'piccoli passi' come le depenalizzazioni per consumo personale, modica quantità, uso terapeutico. E l'Italia non è diversa dall'Europa: tranne Spagna e Olanda, le droghe leggere rimangono 'illegali' dappertutto, perfino nell'illuminata Scandinavia. Quindi diffusissime. "Il male non si combatte proibendolo", ripetono inascoltati i radicali.

Personalmente, dopo il primo spinello che mi fece solo tossire non ho riprovato. Men che meno quando vivevo a New York: vent'anni fa mi avrebbero arrestato, come se avessi osato fumare tabacco nel tavolino all'aperto di un bar o avessi bevuto vino sul marciapiede davanti allo stesso bar (i benpensanti fascistoidi così preoccupati per la nostra salute emettono leggi ridicole, cosicché gli adepti di bacco e tabacco per farla franca in simultanea si sedevano al confine fra i due opposti divieti: bicchiere in una mano e sigaretta nell'altra, dentro agli spazi leciti).

In realtà c'è poco da scherzare: ogni estate la polizia italiana sbatte in galera centinaia di giovani coltivatori diretti di marijuana, dalla Sardegna alla Calabria. Leggo le cronache di complesse operazioni alla James Bond: elicotteri per scovare i campi nascosti, appostamenti, pedinamenti, indagini. Intanto mezza Albania è coltivata a canapa indiana, i migranti vengono arruolati nel racket dello spaccio, miliardi regalati alla 'ndrangheta. E metà dei nostri detenuti scontano pene per reati legati alla droga. Sorge spontanea la domanda: di cosa potrebbero occuparsi più utilmente poliziotti e magistrati, depenalizzando come a New York? Quanti carcerati in meno?

Fuor di provocazione, propongo costruttivo: ok, come volete voi, ancora cinque anni di proibizionismo. Ma se non funziona, se il consumo di stupefacenti non si riduce, questa volta cambiamo. Proviamo qualcosa di diverso. Senza slogan diabolici come 'Sesso, droga e rock'n'roll'. Pragmaticamente.

Mauro Suttora

Tuesday, March 16, 2021

Caso Bonino: i più europei vittime della loro trasparenza

Tempi duri per i troppo onesti

di Mauro Suttora


Huffpost, 16 marzo 2021 

La prima foglia del carciofo si chiama Valerio Federico. È il tesoriere del partito +Europa, sfiduciato a maggioranza domenica dall’assemblea nazionale. “Vogliono farci fuori uno a uno, come foglie di carciofo”, ha detto la leader di +Europa, Emma Bonino. “Prima che venga il mio turno, me ne vado io”.

La storica senatrice radicale ha fondato +Europa nel 2017, dopo la morte di Marco Pannella. Difficile immaginare che il partito possa andare avanti senza di lei.

E infatti gli oppositori Piercamillo Falasca, Riccardo Magi (deputato), Carmelo Palma e Silvja Manzi (ex fedelissima della Bonino) non miravano a lei. Contestano la segreteria di Benedetto Della Vedova e i suoi magri risultati: quorum mancato alle politiche 2018 (2,6%) e alle europee 2019 (3,1%), percentuali deludenti nelle elezioni locali successive, 2% fisso nei sondaggi. Superati da Azione di Carlo Calenda, che occupa lo stesso loro spazio di centro liberaldemocratico. E con il quale convergeranno alle prossime elezioni, coinvolgendo anche Carlo Cottarelli e l’ex Cisl Marco Bentivogli.

“Siamo alla scissione dell’atomo”, commentano sconsolati gli iscritti a +Europa, viste le dimensioni minime e la litigiosità del partito. Già funestato da un fenomeno di ‘cammellaggio’ al primo congresso due anni fa, quando gli ex dc Bruno Tabacci e Angelo Sanza fecero iscrivere molti amici lucani per fronteggiare gli ex radicali.

(L’ottimo Sanza è un mitico ‘signore delle tessere’: fu anche lui, grazie ai delegati della sua Basilicata, a incoronare De Mita segretario della Dc quasi 40 anni fa).

Due dei quattro parlamentari di +Europa eletti nei collegi uninominali in alleanza col Pd, Tabacci e Fusacchia, hanno già lasciato il partito. E pure Magi ha votato la fiducia al governo Pd-M5s, contro le indicazioni della direzione. L’unica sempre contraria al populismo grillino è rimasta la Bonino.

L’attuale conflitto, però, non riguarda la linea politica. È di nuovo in ballo il tesseramento, con accuse di iscrizioni cumulative sospette per aumentare il peso congressuale di qualche dirigente.

“Da Palermo improvvisamente sono arrivate 700 nuove tessere”, rivela Palma, incolpando il tesoriere Federico di omesso controllo. In un partito con 2600 iscritti (a 50 euro l’uno), cifre simili possono decidere l’esito dell’imminente congresso.

Federico replica di aver controllato ben 500 iscrizioni sospette, ma di avere scoperto soltanto dodici ‘anime morte’ (tesserati inconsapevoli), annullandole.

“E comunque”, aggiunge, “i casi controversi riguardano diverse aree. Gli iscritti campani, per esempio, si sono moltiplicati per otto, da 50 a 400, ma risultano iscrizioni legittime. Inoltre i 2600 iscritti attuali, che potranno votare al congresso, vanno paragonati ai 1747 dell’anno scorso senza congresso. L’aumento di un terzo è un dato fisiologico. Nessuna iscrizione di quest’anno, quindi, può essere considerata irregolare rispetto alle valutazioni effettuate in passato e alla decisione del nostro organo di garanzia, tranne le dodici annullate. Se vogliamo limitare iscrizioni massicce in prossimità dei congressi, si introducano regole apposite. Chi ha firmato la mia sfiducia ha sottoscritto affermazioni senza fondamento”.

Ma perché tutto questo interesse per un partitino che prevedibilmente eleggerà pochi parlamentari? “Cupidigia”, taglia corto Bonino. Echeggiando la “sete di poltrone” che Zingaretti affibbia al Pd.

Così il povero tesoriere Federico, invece di gioire per l’aumento degli iscritti, ha dovuto trasformarsi in poliziotto e controllare luogo e date dei versamenti (140 a Palermo in due giorni), i nomi scritti sui bollettini, i titolari delle carte di credito usate per le iscrizioni online.

Da sempre in tutti i partiti del mondo c’è la piaga delle tessere gonfiate. L’iscrizione ai grillini, per esempio, è gratis. Così, per diventare deputati e ministri, a qualche furbo giovanotto è bastato inviare al blog di Grillo la fotocopia del documento di un centinaio di parenti e amici per vincere le primarie online. 

Ma gli altri partiti non fanno trapelare all’esterno le proprie lotte intestine. I +europei invece, per scrupolo di trasparenza finiscono periodicamente nei guai e si fanno male da soli.

Il segretario Della Vedova si è dimesso, fra tre mesi ci sarà il congresso, probabilmente lo vincerà e la Bonino tornerà. Ma il danno è stato fatto. Tempi duri per i troppo onesti.

Mauro Suttora

Saturday, December 24, 2016

Politici non laureati

di Mauro Suttora

settimanale Oggi, 24 dicembre 2016

Probabilmente Valeria Fedeli sarà una brava ministra dell’Istruzione, perché ha l’esperienza più preziosa per quel posto: è una sindacalista, quindi andrà d’accordo con il turbolento mondo dei professori. Non è laureata, ma è finita nei guai per non averlo detto, più che per non averlo fatto. Aveva spacciato come dottorato un corso triennale di assistenti sociali. In più ora si scopre che non ha neanche la maturità: i suoi tre anni di scuola magistrale non gliel’hanno fatta raggiungere.

Ma la simpatica signora bergamasca si trova in folta e ottima compagnia. La metà dei capi dei quattro principali partiti italiani, infatti, non ha la laurea: Beppe Grillo è ragioniere, Matteo Salvini ha la maturità classica. Così come illustri premier del passato: Bettino Craxi si iscrisse a ben tre università (Milano, Perugia, Urbino) senza cavare un ragno dal buco e facendo arrabbiare suo padre; Massimo D’Alema fu ammesso alla prestigiosa Normale di Pisa ma anche lui abbandonò gli studi per la politica a tempo pieno.

La precoce attività di partito ha amputato anche gli studi di Walter Veltroni (diploma di una scuola professionale per la cinematografia), del presidente del Pd Matteo Orfini (pochi esami di archeologia) e di tre ministri colleghi della Fedeli: alla Sanità Beatrice Lorenzin, 50/60 alla maturità classica, al Lavoro l’agrotecnico Giuliano Poletti, e alla Giustizia Andrea Orlando, liceo classico.

Francesco Rutelli si è da poco reiscritto a 62 anni ad Architettura: gli mancano due esami e la tesi, «mi laureo come voleva mio padre». Anche la senatrice grillina Paola Taverna vuole recuperare: si è iscritta a Scienze politiche. Esigenza non condivisa da Umberto Bossi, che per anni fece finta di andare all’università di Medicina a Milano, mentre in realtà andava ad attaccare manifesti della Lega Nord. 
A Giorgia Meloni basta il diploma di liceo linguistico, a Maurizio Gasparri il liceo classico, e anche Francesco Storace non è laureato. Così come il suo successore alla presidenza della regione Lazio, Nicola Zingaretti (Pd, fratello dell’attore Luca), e l’assessore Lidia Ravera, scrittrice.

Michela Vittoria Brambilla ha portato a casa molti randagi, ma solo qualche esame di filosofia. Sempre nel centrodestra, anche l’ex sottosegretaria Michaela Biancofiore si è accontentata del diploma magistrale. Hanno agguantato una laurea triennale Stefania Prestigiacomo a 40 anni nel 2006 (Scienza dell’amministrazione alla Lumsa, Libera università Maria Santissima Assunta), Gianni Alemanno a 46 (Ingegneria dell’ambiente a Perugia), Alessandra Mussolini a 32 (Medicina).

Ma il record della laurea attempata va agli ex ministri Claudio Scajola, Legge a Genova a 53 anni, e Mario Baccini, 110 e lode in Lettere a 52 anni alla Lumsa con tesi su Amintore Fanfani.

Daniela Santanchè, dottore in Scienze politiche a Torino a 26 anni, è scivolata su un «master» alla Bocconi che esibiva sul sito ufficiale del governo: in realtà era un corso serale di 24 giorni per diplomati con licenza media inferiore. Peggio di lei è capitato al giornalista Oscar Giannino, che si è ritirato dalla politica per aver millantato lauree in Legge ed Economia e Master a Chicago. Anche l’ex Fratello d’Italia Guido Crosetto ha sbandierato una finta laurea in Economia.

Marco Pannella si laureò in legge a 25 anni (come Silvio Berlusconi), ma per farlo nel ’55 dovette emigrare da Roma a Urbino e sfangò un 66 grazie a una tesi sul Concordato scritta da amici. La sua collega radicale Emma Bonino invece è bocconiana come Mario Monti e Corrado Passera. Ma è stata una delle ultime a laurearsi nel corso in Lingue straniere, soppresso nel 1972.

Gianfranco Fini ha una laurea in Pedagogia ottenuta a 23 anni con pieni voti a Roma, ma senza frequentare le lezioni: nel 1975 i neofascisti del Msi venivano picchiati se osavano mostrarsi a Magistero, feudo dell’ultrasinistra. Non sono laureati i grillini Luigi Di Maio (otto esami in cinque anni fra Ingegneria e Legge) e Vito Crimi (fuoricorso in Matematica).
Mauro Suttora

Thursday, November 24, 2016

intervista a Cicciolina

IL MITO EROTICO ITALIANO APPRODA IN TV CON UN DOCUMENTARIO SULLA SUA VITA

di Mauro Suttora

Oggi, 24 novembre 2016




«Partivo ogni mattina da casa sulla via Cassia con la mia Peugeot 205 e tornavo la sera tardi. Non avevo l’autista personale. Per cinque anni mi impegnai a tempo pieno in Parlamento, ero sempre presente. Mi impegnai per la riapertura delle case chiuse con garanzie d’igiene e nessun privilegio fiscale, contro il nucleare, per l’amore nelle carceri, l’informazione sessuale nelle scuole, la difesa degli animali…»

Cicciolina arriva in tv (Sky Arte, Cielo). Un documentario di Alessandro Melazzini sulla sua incredibile avventura: prima pornostar, poi deputata radicale nel 1987, infine sui rotocalchi internazionali per le nozze con Jeff Koons e la battaglia sul figlio.
Ma ancor oggi la diva dell’eros partecipa a serate in tutta Europa: «Ospite d’onore al party milanese di Givenchy, e in Francia devo perfino combattere per difendere il mio nome: due ristoranti si sono chiamati Cicciolina senza autorizzazione».

Per l’ungherese Ilona Staller la fama arriva nel 1976 con il programma notturno di Radio Luna: «Il titolo era Voulez-vous coucher avec moi?, chiamavo tutti gli ascoltatori “cicciolini” e così nacque il mio pseudonimo».

Fu Pannella a proporle la candidatura. Nonostante fosse fra gli ultimi nella lista radicale, in rigoroso ordine alfabetico, fu eletta con 20mila preferenze: «Marco era un fantastico leader, e per me più di un amico: un padre, un fratello. Ho pianto molto il giorno della sua scomparsa, lo scorso maggio. Conservo ricordi meravigliosi di lui, uomo politico carismatico e unico che ha segnato la storia della politica italiana».

Nacque la politica-spettacolo, con folle impazzite che le chiedevano di «mostrare la tettina». Spettacolarizzazione il cui apice è oggi Donald Trump presidente Usa: «Non condanniamolo subito, stiamo a vedere. Mio figlio Ludwig Koons ha votato per lui».

Però vive a Roma.
«Sì, studia all’Accademia di Belle arti. E mi aiuterà nell’attività artistica. Nel 2017 esporrò le mie opere surreali a Helsinki, oltre a continuare il Love tour in locali e discoteche. Canto le mie canzoni revival anni 80-90: Baby Love, Inno alla Trasgressione, Political Woman. Sono una eterna “fricchettona” sempre in cerca di cose belle: la vera opera d’arte è la vita di ognuno di noi».

Lo diceva anche il suo ex marito. Nel film lei si commuove ricordando il divorzio: «È stata tosta», dice. «Ma fa parte del passato. Il futuro oggi è ancora la radio: fra due mesi comincia un programma in cui dialogherò con tutti via webcam. E mio figlio: vorrei che i giovani come lui fossero felici del loro lavoro, entusiasti di poter mettere su famiglia, pagare un mutuo e sentirsi sicuri».

Mauro Suttora

Friday, September 23, 2016

Pannella, ritratto non riverente




Pannella, un ritratto non riverente









Sono passati poco più di quattro mesi dalla morte di Marco Pannella. Un tempo in cui la sua creatura politica, il Partito radicale – oggi nonviolento, transnazionale e transpartito – ha attraversato una fase complessa e convulsa, con un congresso discusso e un futuro irto di sfide e problemi, a partire da quelli economici che ingessano l’attività italiana e internazionale (ci si è dati l’obiettivo dei 3mila iscritti da raggiungere nei prossimi due anni). Nel frattempo, il dibattito sulla figura di Pannella – di certo un protagonista della politica italiana, per chi lo ha amato, odiato o ha oscillato tra i due sentimenti – continua: il primo libro uscito dopo la sua morte porta la firma di Mauro Suttora, giornalista di Oggi che sui radicali e il loro leader ha scritto per anni, su varie testate.

https://www.termometropolitico.it/1230419_pannella-un-ritratto-non-riverente.html
Pannella, uscito per Algama in formato ebook, più che un instant book è la terza versione allargata di due altri libri di Suttora, uno per decennio: nel 1993 arrivò Pannella, i segreti di un istrione, nel 2001 Pannella & Bonino Spa. 
I titoli dei precedenti sono già un programma: nessun intento agiografico, nessuna santificazione. Il libro appena uscito, a dispetto del titolo più neutro, resta un ritratto assolutamente irriverente, poco amante dei giri di parole e della diplomazia.

Intervistato, l’autore lascia trasparire anche una parte importante del suo vissuto (ed è normale: “per molti giovani negli anni ’70 – spiega – la politica è nata nelle discussioni in casa – in cucina, diceva Pannella – pro o contro le idee dei genitori) e analizza anche l’evoluzione e il futuro dei radicali. Che sopravviveranno anche alla scomparsa del loro demiurgo e alle difficoltà economiche, perché "rappresentano l’esigenza eterna della libertà".
pannella suttora
Suttora, il suo ultimo libro Pannella può considerarsi una terza stesura dei due volumi del 1993 e del 2001. Come mai l’ha impegnata tanto la figura di Pannella?
Ho sentito parlare di Pannella per la prima volta da mia zia, docente universitaria a Parigi, dove lo aveva conosciuto nei primi anni ’60. Poi confondevo il suo nome con quello di Capanna, leader del ’68. Infine ho incontrato per strada a Bergamo un banchetto radicale per l’obiezione di coscienza nel 1972: avevo 13 anni. Mio padre si abbonò al settimanale Panorama, e probabilmente la Mondadori regalò a Pannella l’indirizzario degli abbonati, perché nel 1973 cominciò ad arrivare a casa gratis il giornale di Pannella Liberazione (la testata che poi cedette a Rifondazione, così come diede generosamente ai verdi il simbolo del Sole che ride). Liberazione era buffo, perché ogni titolo tuonava contro il “regime”.
Lo trovavo interessante ma esagerato: per me i regimi erano ben altri, quelli fascisti in Cile, Spagna, Grecia, Portogallo, e quelli comunisti.  Ma per un ginnasiale come me, educato al laicismo dal mio nonno preside e latinista, i radicali furono fondamentali in quell’inverno 1973-74, con la campagna sul divorzio. Quando il prete gesuita della mia parrocchia bergamasca San Giorgio tuonò dal pulpito contro il divorzio, smisi di andare a messa. E nell’estate ’74 mi appassionai allo sciopero della fame di Pannella leggendo l’articolo di Pasolini sul Corriere della Sera e quelli successivi. Ero refrattario ai gruppuscoli marxisti del mio liceo, gli unici contestatori che vedevo moderni erano i radicali, così kennediani e simili alle proteste di Martin Luther King e degli studenti americani…
E poi?
Poi mi trasferii a Udine, e lì nell’estate ’75 fece tappa l’annuale marcia antimilitarista radicale: fu una serata straordinaria, con un concerto in piazza degli allora sconosciuti Napoli Centrale (con Pino Daniele tecnico del suono). Suonavano per i radicali anche Battiato, Bennato e De Gregori. Io però al liceo di Udine ero l’unico radicale. In Friuli c’erano molte caserme e servitù militari, così invitai a un’assemblea studentesca due obiettori che erano finiti in carcere: il radicale Renato Fiorelli di Gorizia e lo storico del Movimento Nonviolento di Vicenza Matteo Soccio. Ogni sabato pomeriggio c’era una riunione nella sede radicale udinese di via Mantica, ma le discussioni mi sembravano un po’ noiose. Inoltre c’erano troppi omosessuali del Fuori, e io al sabato pomeriggio preferivo uscire con le ragazze. Il 6 maggio 1976 finalmente c’era la prima tribuna elettorale del partito radicale: avrei potuto vedere Pannella in tv. Ma alle 9 di sera, pochi minuti prima dell’inizio, ci fu il terremoto del Friuli.
Un incontro mancato quindi… come continua la storia?
Sono stato un convinto attivista radicale fino al 1981. Mi elessero segretario dell’associazione di Udine a 20 anni, perché i giovani erano molto valorizzati. Partecipai al mio primo congresso radicale nel ’79 a Genova, e lì scoprii che Pannella nella vita interna del partito si trasformava da libertario in dittatore. Lo conobbi personalmente, mi invitò nella sua famosa mansarda a Roma, mi corteggiò non corrisposto, al congresso del 1981 a Firenze intervenni usando i miei 5 minuti per suonare con la chitarra una canzone antimilitarista di Donovan tradotta da me (Universal Soldier). Nel frattempo ero diventato segretario nazionale della Lega per il disarmo di Rutelli e dello scrittore Carlo Cassola. Ero molto impegnato nel coordinamento antimilitarista europeo che organizzava una marcia ogni estate: nel 79 la Carovana Bruxelles-Berlino-Varsavia, nell’80 la Lione-La Spezia-Livorno-Lubiana, nell’81 in Olanda contro gli euromissili, nell’82 in Spagna contro il confine bloccato di Gibilterra (mi arrestarono e finii in carcere).
Dopo l’81 che è successo?
Fra Natale e Capodanno 1982 camminammo da Catania a Comiso (Ragusa), dove gli americani volevano installare i missili Cruise atomici contro gli SS20 sovietici. Centinaia di pacifisti da tutta Europa scesero in Sicilia, dormivano in sacco a pelo nelle palestre delle scuole ad Augusta, Siracusa, Noto, Avola, Ragusa. Infine bloccammo i cancelli della base Usa di Comiso, ci furono arresti, finimmo sulle tv di tutto il mondo. Ma Pannella dal 1979 si era fissato con la battaglia contro la fame nel mondo (anzi lo “sterminio” per fame, come lui voleva si dicesse), e pretendeva che i radicali si occupassero soprattutto di quello. Comunque venne alla conferenza stampa iniziale della marcia a Catania, fu l’unico politico nazionale ad appoggiarci. Nel 1983 cominciai a lavorare a tempo pieno come giornalista (MessaggeroEuropeo) e smisi di iscrivermi al partito radicale per due motivi: innanzitutto non condividevo molto la linea di Pannella (preferivo Melega); in più, pensavo che i giornalisti non dovessero iscriversi a partiti, per rimanere neutrali. Ciononostante rimasi amico di Pannella e dei radicali. Ogni volta che potevo scrivevo articoli su di loro nell’Europeo: sull’obiettore totale Olivier Dupuis, sul congresso antiproibizionista di Bruxelles del 1988. E nel 1993, quando Pier Luigi Vercesi (allora caporedattore della Stampa, oggi direttore di Sette del Corsera) mi chiese di scrivere una biografia per la sua neonata casa editrice Liber, gli dissi che l’unico politico con una storia non noiosa era Pannella, e la scrissi.
Questo per quanto riguarda la “prima puntata”, e le successive?
Dopo il successo della lista Bonino alle europee 1999 (8%, 12% al nord) proposi una biografia di Emma Bonino ai principali editori italiani, ma tutti rifiutarono tranne Kaos. Per il quale quindi scrissi Pannella & Bonino Spa(2001), aggiungendo la storia di Emma a quella di Marco. Continuai a frequentare i radicali e Pannella, e a scriverne soprattutto sul Foglio. Quando Pannella e Capezzone vennero a New York (dove ho lavorato dal 2002 al 2006) ci vedemmo a cena.
Dopo la morte di Pannella nel maggio 2016 Edoardo Montolli, editore di Algama, mi ha chiesto una sua biografia. Così ho aggiunto gli ultimi 15 anni dal 2001, attingendo soprattutto ai miei articoli sul Foglio, su Oggi (quello del 2006 su Piero Welby) e sul settimanale Diario di Enrico Deaglio.
Nell’introduzione leggo: “Alcuni hanno considerato Pannella un genio, altri un impostore. Per molti è stato un profeta, per qualcuno un buffone. Ma tutti concordano su un giudizio: era un artista della politica e un maestro dello spettacolo”. Questa frase era già presente nell’edizione del 2001 (allora riferita pure a Bonino): in 15 anni per lei il ritratto davvero non è cambiato?
No
Dal suo libro – lei stesso parla alla fine di “biografia imparziale” – emerge un’immagine decisamente composita di Marco Pannella: per lei chi era o com’era? Cosa riconoscerebbe come maggior pregio e come maggior difetto?
Era un politico molto intelligente, colto e onesto, ma assolutamente privo della maggior qualità in un politico: la ricerca del consenso. Non gli interessava raccoglierlo, alle elezioni. La percentuale che otteneva il suo partito radicale gli serviva soltanto come podio per i suoi discorsi. O come batteria per il suo megafono. Purtroppo però anche in politica vale il motto dello sport: “Chi vince ha ragione, chi perde è un coglione”. Il suo maggior pregio? La capacità di provocare: ottima in un giornalista (qual era Pannella) o in un intellettuale, pessima in un politico. Maggior difetto: l’esibizionismo. Ricordo quando verso gli 80 anni cominciò a bere la sua pipì, ad addobbarsi con una canottiera nera e a farsi crescere il codone di capelli bianchi. Magnifico e orrendo.
Per Massimo Fini Pannella era “un prete”, per Gianni Riotta è stato prima “profeta”, poi “papa”: la lettera di “commiato” a Papa Francesco è perfettamente in linea con questo? E’ una lettera “tra pari”?
Purtroppo Pannella negli ultimi anni si considerava alla pari con papi e presidenti. Questo non gli impediva di continuare a parlare con tutti, su piazze e marciapiedi, ma avere come interlocutori Napolitano o papa Francesco lo elettrizzava. Il povero Mattarella si è dovuto sorbire un suo monologo di mezz’ora quando ha avuto la malaugurata idea di invitarlo al Quirinale pochi giorni dopo la sua elezione, nel febbraio 2015.
Ammesso che sia possibile distinguere tra la storia di Pannella e quella radicale, esistono battaglie vinte direttamente da Pannella, più che dal partito?
Il tormentone sullo “sterminio per fame nel mondo” con cui ci fracassò i marroni dal 1979 al 1985, e la battaglia suicida per l’amnistia con cui ha imperversato negli ultimi 10 anni della sua vita (dopo la batosta del referendum sulla fecondazione assistita del 2005), alienandosi tutti i radicali tranne qualche centinaio di “pannellati”, i quali dopo la sua morte hanno cominciato a fare la guerra ai radicali normali (Bonino, Cappato, Spadaccia, Cicciomessere, Staderini, Magi).
Nel libro ricorda che fu Pannella il vero inventore della riforma elettorale maggioritaria (e non Segni): quale rilievo ha questo passaggio, secondo lei?
Un rilievo nullo, come tutte le battaglie interne alla partitocrazia. Il metodo maggioritario sarebbe stato importante prima del crollo del comunismo (1989), per sbloccare il sistema politico italiano ingessato per 45 anni dall’impossibilità del Pci di andare al governo (per ragioni di schieramento internazionale).  Dopo, l’alternanza fra schieramenti è venuta automaticamente. E il Parlamento dovrebbe essere lo specchio rappresentativo del Paese, quindi eletto con metodo proporzionale, senza premi di maggioranza che distorcono la volontà popolare. Inoltre, i collegi uninominali maggioritari senza primarie sono una truffa (ricordo il primo voto del 1994, quando tutti gli schieramenti paracadutarono nei collegi amici, colleghi e famigli, nominandoli invece di eleggerli).
La governabilità (garantita automaticamente dal maggioritario che regala la maggioranza a uno schieramento), dev’essere invece assicurata dai politici con trattative per allearsi, dopo voti col metodo proporzionale. E’ il loro mestiere, il compromesso è l’essenza della politica. Infatti i grillini non vogliono allearsi con nessuno, perché sono antipolitici e antidemocratici, intimamente autoritari.
Mi ha colpito leggere che Montanelli disse di Pannella la stessa cosa che una volta disse di (e a) Guareschi: “Non ti spacco la testa solo perché temo di non trovarci nulla”. Mero artificio retorico-giornalistico o c’è qualcosa di più?
Straordinaria frase di Montanelli, che amava-odiava entrambi.
In questo libro il titolo è solo Pannella, ma dalla versione precedente ha mutuato la frase “Una biografia di Pannella non può prescindere dalla Bonino”. Sono davvero figure inscindibili, a dispetto di quanto sarebbe avvenuto negli ultimi due anni?
Sì, perché Bonino rappresenta la parte razionale di Pannella. È falsa la rappresentazione che danno alcuni radicali della divisione, al loro interno, fra ‘radicali-nonviolenti’ (Pannella e quelli che facevano gli scioperi della fame) e ‘radicali-democratici’ (Bonino, Teodori, Melega e tutti quelli alieni da certi metodi da fachiri indiani). In realtà anche Pannella è stato un grande radical-democratico, attentissimo alla “forma” della democrazia, alle procedure interne al partito radicale ed esterne (quelle del sistema politico italiano). Ricordo certi congressi radicali in cui Pannella spaccava il capello in quattro su questioni formali, senza mai scadere nel formalismo. Perché, come lui stesso ripeteva, in politica la forma è sostanza. La Bonino senza Pannella sarebbe una efficiente e banale socialdemocratica. Pannella senza la concretezza della Bonino (e prima di lei di Ernesto Rossi) sarebbe stato un eccentrico santone.
Venendo al partito radicale, nella sua seconda – e più famosa – vita era stato pensato come “uno strumento agile per condurre battaglie su singoli temi”. Cos’è diventato in seguito, cos’è ora e come ha fatto, secondo lei, a diventare così?
Il partito radicale resta quello dello statuto del 1967: partito libertario, senza probiviri, espulsioni, disciplina interna. Ci si iscrive per un anno, e ogni anno il congresso stabilisce una o più priorità. Chi le condivide ci lavora, chi non le condivide non si iscrive, se ne va per un anno, oppure resta preparando una battaglia interna per prevalere al congresso successivo.
Separazione fra eletti e cariche interne. Autofinanziamento.
Dopo la scissione del 1988 fra partito radicale transnazionale transpartito (praticamente una ong) e le varie incarnazioni per la politica interna (lista Pannella, nel 1999-2000 lista Bonino, dal 2001 Radicali italiani, nel 2006 Rosa nel pugno, liste Agl – Amnistia giustizia libertà), il Pr è diventato qualcosa di ideologico (i vaneggiamenti sulla “stella gialla” di un regime simile a quello antiebraico, quello della “peste italiana”). Più laica e potabile la declinazione italiana dei radicali, che però dal 2014 ha messo in minoranza Pannella, causando il dissidio con Bonino.
Come motto del Partito radicale si può scegliere “o ci scegli o ci sciogli”, lanciato da Pannella oltre 50 anni fa (prima ancora della “rifondazione” del Pr) o è meglio scegliere qualcos’altro?
“Se i radicali si sciolgono, da stronzi diventano cacarella”, commentò perfidamente Mastella quando Pannella, come al solito drammatizzando, lanciò il colpevolizzante slogan nel 1986. Lo slogan perfetto per i radicali è “Libertà”. Libertà nei diritti civili (libertari), in economia (liberisti), in politica (liberali), e pure a letto (libertini). Ma agli italiani invece piace arruolarsi in qualche fazione (patrizi/plebei, guelfi/ghibellini, comunisti/fascisti/democristiani, e poi berlusconiani, renziani, grillini) al servizio del buffone di turno (Mussolini, Fanfani, Craxi, Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini).
Nel 1982 Salvatore Sechi scrisse “Il pannellismo ha sepolto il radicalismo”: secondo lei era così e ha continuato a essere così?
Solo in parte. Infatti, nonostante la personalità straordinaria, magnetica e debordante di Pannella (che trattava i suoi con la delicatezza del satrapo mesopotamico), in questi decenni il Pr ha continuato a essere una delle migliori scuole politiche italiane, producendo personalità del livello di Rutelli, Capezzone, Della Vedova, Cappato, Staderini.
Leggendo il suo libro, si ha l’impressione di un partito che ha fatto molto, ma ha capitalizzato poco. È così?
Sì. Se tutti quelli che hanno votato radicale almeno una volta nella vita lo rivoltassero tutti assieme, probabilmente il Pr arriverebbe alla maggioranza relativa. Per decenni i radicali hanno svolto la funzione dei grillini: l’ultima spiaggia prima dello schifo per la politica, e dell’astensione. Ma penso che i radicali ci saranno anche dopo che i grillini saranno spariti, come è già capitato ai sessantottini di Manifesto, Pdup e Dp, ai verdi, alla Rete, ai dipietristi, ai girotondini e a tutti i movimenti di opposizione scomparsi in questi decenni.
La storia di Pannella e dell’area radicale è anche una storia e una carrellata di simboli. Quali sono stati, secondo lei, i più efficaci e i più travagliati? E come illustrerebbe il concetto di “biodegradabilità” dei simboli di cui spesso nella storia radicale si è parlato?
La biodegradabilità è una sciocchezza, perché i simboli devono durare per essere riconoscibili. In questo senso, il simbolo storico dei radicali è la Rosa nel pugno, usata dal 1976 al 1988, e poi nel 2006. Prima c’era la Marianna col berretto frigio della rivoluzione francese, oggi recuperata dall’omonimo movimento del redivivo Giovanni Negri. Le altre invenzioni (liste Pannella, Bonino, Agl) non hanno avuto successo. Il simbolo del partito radicale transnazionale (Gandhi in bianco e nero) non può essere usato in competizioni elettorali, perché perderebbe la sua caratteristica super partes e lo status di accreditamento all’Onu (Ecosoc). Pannella, poi, aveva comprato nel 1977 il marchio del Sole che ride, donandolo agli Amici della Terra, e poi lo regalò ai verdi nel 1985.
Se Pannella, di fatto, è stato il collante che ha mantenuto insieme un gruppo a dispetto della vistosa frattura interna, dopo la sua morte è inevitabile domandarsi: che fine farà il partito e l’area radicale?
Continueranno. Perché i radicali sono gli anarchici della politica, e in una forma o nell’altra rappresentano un’esigenza eterna: quella della libertà, contro i tentacoli dello stato, del conformismo, della disciplina, delle gerarchie, del politicamente corretto.