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Monday, January 13, 2025

Oliviero Toscani (1942-2025). Altro che influencer, un artista con l'orrore della banalità

Le sue campagne pubblicitarie erano arte e impegno politico, il suo connubio con Benetton un successo mondiale. Parlava in dialetto ma poi girava il pianeta a fotografare e raccogliere premi. Da genuino cosmopolita, detestava i sovranisti. Da figlio del popolo, non sopportava i populisti. Ogni tanto scivolava in una dichiarazione non meditata, preso dall'abituale foga

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 13 gennaio 2025

Non si faceva pagare poco. Ma quella volta lo fece quasi gratis. Trent'anni fa, nel febbraio 1995, Oliviero Toscani venne per l'ultima volta nella redazione dell'Europeo, in via Rizzoli a Milano. Il settimanale stava per chiudere dopo mezzo secolo, per scellerata decisione di qualche burocrate editoriale. E lui, che ci amava, fece posare tutti noi giornalisti per una foto di gruppo.

Era all'apice del successo. Cinquantenne, da 15 anni dominus delle campagne pubblicitarie più belle del mondo: quelle Benetton. Erano così creative, sorprendenti, rivoluzionarie, che quasi il marchio spariva e tutti dicevano: "Ecco l'ultimo lavoro di Toscani". Naturalmente non era così, e il furbo patron Luciano lo sapeva. La sua multinazionale dei maglioni colorati risplendeva ancora di più, grazie al genio di Oliviero. Ormai il prodotto si era separato dalla sua immagine, il significato dal significante, come dicono i semiologi. 

La rivista Colors, venduta solo nei negozi Benetton e diretta da Toscani, parlava di tutto tranne che di abbigliamento: razzismo, Aids, violenza, eguaglianza, libertà, giustizia, anoressia. Messaggi universali sui quali il mecenate di Treviso dava carta bianca al suo artista rinascimentale. Ricoprivano i muri del pianeta, e non si sapeva bene se fosse pubblicità, arte, politica, cultura. 

Oliviero era la manna di noi giornalisti. Se entravi nel suo cono di simpatia era sempre disponibile, gli potevi telefonare a qualsiasi ora e chiedergli un parere su qualsiasi argomento. E lui, come Sgarbi o Pannella, Cossiga o Busi, ti regalava al volo una pepita di originalità spiazzante con cui confezionare il titolo dell'articolo.

Dylaniamente forever young, nessuno si era accorto, per lui come per Gianni Morandi, che fosse arrivato agli 80. Era milanesissimo e benevolmente bauscia, una specie di René Vallanzasca perbene, facciotuttoio, energia da dinamo senza bisogno di coca. Parlava in dialetto ma poi girava il pianeta a fotografare e raccogliere premi. Da genuino cosmopolita, detestava i sovranisti. Da figlio del popolo, non sopportava i populisti. 

Andò negli Stati Uniti per ritrarre i condannati a morte in attesa dell'esecuzione. Poi i parenti di alcuni di loro lo denunciarono perché dissero di ignorare che quella fosse una campagna pubblicitaria. In realtà ignoravano che Toscani ignorava il confine fra pubblicità e impegno politico. Ma Benetton dovette chiudere centinaia di negozi per colpa sua, e questo causò la prima rottura nel 2000.

Candidato radicale due volte alle politiche, assessore alla creatività di Sgarbi sindaco in un paese siciliano, ma anche - per tutti gli anni '70, prima della svolta impegnata - fotografo di moda per Elle, Vogue, e rastrellatore di Palme d'oro ai festival della pubblicità di Cannes. 

Ogni tanto scivolava in una dichiarazione non meditata, preso dall'abituale foga. Come nel 2020, quando riuscì a dire "A chi importa che un ponte [Morandi] cada?". Poi si scusò, ma Benetton dovette cacciarlo per la seconda e ultima volta. Tante le cause per diffamazione. Vinta quella contro i veneti, definiti "popolo di ubriaconi atavici", e la Chiesa ("sembra un club sadomaso"). Perse quelle contro Salvini e Gasparri, "insultati gratuitamente". 

Suo padre Fedele, fotografo del Corriere della Sera, è autore di una foto diventata statua: quella di Indro Montanelli seduto mentre scrive a macchina, collocata nei giardini milanesi di piazza Cavour e periodicamente imbrattata con vernice da attivisti per cause varie. Sanno che a Toscani senior si devono anche le immagini più atroci di Mussolini appeso a piazzale Loreto? 

Al Toscani junior il giornalismo è rimasto nelle vene. L'attualità diventa materia prima per i suoi messaggi di advertising, tanto che per lui viene coniata la definizione shockvertising. Va a studiare fotografia e grafica alla scuola delle arti di Zurigo dal 1960 al '65. Tornerà nella città svizzera per ritirare una delle sue lauree honoris causa. Poi eccolo a New York, vincendo un concorso fotografico. Lì comincia a lavorare per Pan Am e Harper's Bazaar. Ma ritrae anche gli afroamericani e l'ambiente scatenato dei club di Manhattan negli anni della liberazione sessuale. Nel 1970 entra nella Factory di Andy Warhol. 

In Italia comincia da cornetti Algida e vestiti confezionati Facis. Poi l'esplosione dei jeans con la scritta "Chi mi ama mi segua". Il bacio di una suora a un prete. E un catalogo infinito di clienti.

Una delle ultime mostre, un anno fa allo scalo Farini Milano, l'ha dedicata alla cacca: "L'unica cosa che l'uomo fa senza copiare gli altri. Non c'è niente di più personale. E ogni volta è un'opera d'arte". Espone foto di escrementi umani e di scimpanzé, mucche, giraffe, iene, maiali, leoni, anatre, pesci rossi, pitoni, bufali, tigri e grilli scattate per la rivista Colors nel 1998 ma rimaste inedite.

Oliviero Toscani aveva orrore della banalità. Forse anche per questo è morto di amiloidosi, malattia rara.

Wednesday, April 25, 2012

Artisti rockstar

I TRUCCHI PER CREARE DIVI DA MILIONI DI DOLLARI: HIRST, CATTELAN, KOONS (E DALI', WARHOL, BASQUIAT)

Oggi, 18 aprile 2012

di Mauro Suttora

«Per Damien Hirst si può parlare di “grande truffa dell’arte”: una colossale messinscena mediatica, capace di cavalcare l’onda della cronaca con operazioni a effetto».
«Maurizio Cattelan è la prova vivente che un fallito può farcela più di un mediocre, che un pigro la spunta su un iperattivo, e che l’artista stupido è preferibile al presunto genio».

Non le manda a dire il critico d’arte Luca Beatrice nel suo nuovo libro: Pop, l’invenzione dell’artista come star (Rizzoli). Dove esamina a fondo e spiega il successo dei più importanti artisti contemporanei, partendo dagli scomparsi Salvador Dalì, Andy Warhol e Michel Basquiat, per arrivare alle tre superstar dei nostri giorni: Jeff Koons, Hirst e Cattelan.

Tutti accomunati da quotazioni milionarie e da un gusto per la provocazione continua. Hirst in questi giorni è massacrato da critici di tutto il mondo, in occasione della sua mostra retrospettiva (70 opere per 30 anni di carriera) al museo Tate Modern di Londra, aperta in previsione delle Olimpiadi e fino al 9 settembre: «Non è arte», «È solo uno speculatore», «È il re del plagio», «Non crea lui le sue opere, le fa fare da altri».

Risultato: biglietti (da 14 sterline) a ruba, obbligo di prenotazione anticipata. «Non c’è miglior pubblicità della cattiva pubblicità» è regola di marketing, e Hirst sa che fa parte del gioco: «Elvis Presley ha guadagnato tanti soldi sia dalle t-shirt con su scritto “Amo Elvis” sia con quelle “Odio Elvis”, e questa idea mi è sempre piaciuta», sorride il furbacchione.

«Basso, tarchiatello, dalla fisiognomica tipica del bad boy proveniente dalla working class», scrive Beatrice, «Hirst non ha per nulla il physique du role dell’artista predestinato al successo. Eppure è riuscito a tracciare la strada verso la gloria. Oggi gli artisti hanno sostituito le rock star in rapida e inesorabile estinzione».

Lanciato dal pubblicitario Charles Saatchi, Hirst è passato dallo squalo (vero) conservato sotto formaldeide e valutato 12 milioni di euro al teschio tempestato di diamanti del 2007 che ha battuto ogni record di quotazione: 78 milioni.
«Sviluppare un marchio così forte su un’arte così povera è qualcosa di immensamente creativo, addirittura rivoluzionario»: così la femminista australiana Germaine Greer loda la cialtronaggine.

L’unico accenno di normalità di Hirst sta nella vita familiare. La compagna californiana Maia Norman, stilista, surfista e ciclista, fa l’uomo di casa che prende le decisioni. Lui preferisce dedicarsi alla passione per i fornelli, e cucinare per i tre figli maschi: Connor, Cassius e Cyrus.

Cattelan baby pensionato a 51 anni?

«Basta, mi ritiro». Alla vigilia della definitiva consacrazione mondiale nel super gotha dell’arte, con la mostra al Guggenheim di New York dell’autunno 2011, Cattelan ha annunciato il suo addio alle scene. «E, come Veronica Lario, sceglie la Repubblica per diffondere la clamorosa decisione», commenta perfido Beatrice. Il quale ovviamente non crede al ritiro della nostra maggiore star artistica, annunciato guarda caso il 1° aprile.

Cattelan approda al successo con la Biennale di Venezia del 1993. Per farsi notare inventa un gesto clamoroso: affitta il “suo” spazio a un’azienda di cosmetici che pubblicizzava uno dei suoi prodotti. Però lo firma, titolandolo Lavorare è un brutto mestiere.

Da allora, passando per papi atterrati, bimbi impiccati e diti medi che mandano aff... la Borsa di Milano, Cattelan non ha mai smesso di far parlare di sé. E di far alzare le quotazioni.

«Lui e Berlusconi sono due facce della stessa medaglia», decreta Beatrice, «personaggi controversi che annoverano fan entusiasti e feroci detrattori, icone italiche degli ultimi vent’anni. Cattelan è frutto dell’antiarte: niente scuola, nessuna accademia, furbissimo, capisce che nell’arte contemporanea bisogna picchiare sodo, provocare, inseguire la notizia. L’altro è figlio dell’antipolitica, pratica l’incoerenza come valore assoluto, leader dei conservatori e moderati che però nei comportamenti pubblici e privati rasenta il modello irriverente e irregolare delle rockstar».

Fidanzato con la collega Vanessa Beecroft, Cattelan poi è stato per qualche tempo con la conduttrice tv Victoria Cabello di 15 anni più giovane, che gli ha permesso di “scollinare” dalle riviste d’arte ai magazine di gossip: per la prima volta ha avuto a che fare con un tipo più mediatico di lui. Non è durata molto.

PRECURSORI DECADENTI A NEW YORK

Beatrice individua in Dalì e Warhol i precursori dell’attuale tendenza a far diventare personaggi gli artisti, al di là della loro arte: «Uno slogan di Warhol è “Pensare da ricco, sembrare povero”. Mette a punto un’invenzione di Dalì: uno stile diventa tale quando viene diffuso dai media (stampa, foto, tv). L’artista, oltre alle opere, deve creare una propria immagine, quindi dal 1963 chiama nel suo studio newyorkese vari fotografi per raccontare la sua banale quotidianità. Posa con l’abilità consumata di un divo, è un guru che detta le proprie regole alla moda degli Anni 60».

Fra le sue tante «muse» (maschi e femmine, da Lou Reed a Nico), il gay decadente Warhol incontra nel 1981 anche Loredana Berté. La conosce nel negozio Fiorucci a Manhattan, la soprannomina Pasta Queen per l’abilità culinaria, e realizza un video per il suo disco Made in Italy.

Basquiat, il graffitaro maledetto

Un anno dopo la morte di Warhol nel 1987, per i postumi di un banale intervento alla cistifellea, scompare ancora più prematuramente nella stessa New York Jean-Michel Basquiat. Entra anche lui nel “club dei 27” (uccisi dall’eroina a quell’età) con Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones, Kurt Cobain, di recente Amy Winehouse.

«Basquiat è il primo artista di colore a diventare famoso a livello internazionale», afferma Beatrice, «e l’unico a essere riconosciuto come celebrità da un pubblico ben più ampio di quello dell’arte. Prima della sua straordinaria inventiva e originalità pittorica, ciò che affascina il pubblico giovane è la vicenda biografica, ribelle e autodistruttiva [...]. Le sue donne sono tutte bianche e in gran parte bionde. Nell’82 Madonna diventa la sua amante fissa».

Ma dopo pochi mesi la cantante si stufa: lui si droga e dorme di pomeriggio, lei vive con disciplina rosicchiando carote.

E Jeff sposa la pornostar

Stessa città, New York. Stessa epoca, Anni 80. A poche decine di metri da Basquiat vive Jeff Koons. Ma è agli antipodi dei mondi di Warhol e Basquiat: «Lui sostituisce il disincanto con il cinismo, l’economia con la finanza», scrive Beatrice. «Koons è considerato l’artista americano più “compromesso” con affari e quattrini. Nel suo studio di 1.400 metri quadri a Chelsea ha 40 dipendenti. Assomiglia a un ufficio commerciale. Koons è noto per la precisione maniacale: un perfezionista al di là di ogni ragionevole limite che controlla tutti i minimi dettagli. Le sue opere raggiungono i 25 milioni di dollari.

Tuttavia non avrebbe mai ottenuto l’ampia popolarità che oggi gli viene riconosciuta senza l’incontro con Ilona Staller, la Cicciolina “fondatrice” della pornografia moderna, immortalata in una serie di opere, sposata nel 1991. Infine il brusco e violento divorzio, e la triste disputa sull’affidamento del figlio».

«Innocenza machiavellica» è l’ossimoro più efficace, coniato dall’archistar Rem Koolhaas, per descrivere Jeff Koons. «Ormai è presente nelle collezioni dei maggiori musei del mondo», spiega Beatrice, «ma attira ancora, come tutti i grandi, odii e simpatie in egual misura. Il messaggio della sua opera è ambiguo: c’è una dosata e astuta combinazione fra calcolo e autenticità, tattica e cinismo, persuasione occulta e spiritualismo».
Mauro Suttora