Le sue campagne pubblicitarie erano arte e impegno politico, il suo connubio con Benetton un successo mondiale. Parlava in dialetto ma poi girava il pianeta a fotografare e raccogliere premi. Da genuino cosmopolita, detestava i sovranisti. Da figlio del popolo, non sopportava i populisti. Ogni tanto scivolava in una dichiarazione non meditata, preso dall'abituale foga
di Mauro Suttora
Huffingtonpost.it, 13 gennaio 2025
Non si faceva pagare poco. Ma quella volta lo fece quasi gratis. Trent'anni fa, nel febbraio 1995, Oliviero Toscani venne per l'ultima volta nella redazione dell'Europeo, in via Rizzoli a Milano. Il settimanale stava per chiudere dopo mezzo secolo, per scellerata decisione di qualche burocrate editoriale. E lui, che ci amava, fece posare tutti noi giornalisti per una foto di gruppo.
Era all'apice del successo. Cinquantenne, da 15 anni dominus delle campagne pubblicitarie più belle del mondo: quelle Benetton. Erano così creative, sorprendenti, rivoluzionarie, che quasi il marchio spariva e tutti dicevano: "Ecco l'ultimo lavoro di Toscani". Naturalmente non era così, e il furbo patron Luciano lo sapeva. La sua multinazionale dei maglioni colorati risplendeva ancora di più, grazie al genio di Oliviero. Ormai il prodotto si era separato dalla sua immagine, il significato dal significante, come dicono i semiologi.
La rivista Colors, venduta solo nei negozi Benetton e diretta da Toscani, parlava di tutto tranne che di abbigliamento: razzismo, Aids, violenza, eguaglianza, libertà, giustizia, anoressia. Messaggi universali sui quali il mecenate di Treviso dava carta bianca al suo artista rinascimentale. Ricoprivano i muri del pianeta, e non si sapeva bene se fosse pubblicità, arte, politica, cultura.
Oliviero era la manna di noi giornalisti. Se entravi nel suo cono di simpatia era sempre disponibile, gli potevi telefonare a qualsiasi ora e chiedergli un parere su qualsiasi argomento. E lui, come Sgarbi o Pannella, Cossiga o Busi, ti regalava al volo una pepita di originalità spiazzante con cui confezionare il titolo dell'articolo.
Dylaniamente forever young, nessuno si era accorto, per lui come per Gianni Morandi, che fosse arrivato agli 80. Era milanesissimo e benevolmente bauscia, una specie di René Vallanzasca perbene, facciotuttoio, energia da dinamo senza bisogno di coca. Parlava in dialetto ma poi girava il pianeta a fotografare e raccogliere premi. Da genuino cosmopolita, detestava i sovranisti. Da figlio del popolo, non sopportava i populisti.
Andò negli Stati Uniti per ritrarre i condannati a morte in attesa dell'esecuzione. Poi i parenti di alcuni di loro lo denunciarono perché dissero di ignorare che quella fosse una campagna pubblicitaria. In realtà ignoravano che Toscani ignorava il confine fra pubblicità e impegno politico. Ma Benetton dovette chiudere centinaia di negozi per colpa sua, e questo causò la prima rottura nel 2000.
Candidato radicale due volte alle politiche, assessore alla creatività di Sgarbi sindaco in un paese siciliano, ma anche - per tutti gli anni '70, prima della svolta impegnata - fotografo di moda per Elle, Vogue, e rastrellatore di Palme d'oro ai festival della pubblicità di Cannes.
Ogni tanto scivolava in una dichiarazione non meditata, preso dall'abituale foga. Come nel 2020, quando riuscì a dire "A chi importa che un ponte [Morandi] cada?". Poi si scusò, ma Benetton dovette cacciarlo per la seconda e ultima volta. Tante le cause per diffamazione. Vinta quella contro i veneti, definiti "popolo di ubriaconi atavici", e la Chiesa ("sembra un club sadomaso"). Perse quelle contro Salvini e Gasparri, "insultati gratuitamente".
Suo padre Fedele, fotografo del Corriere della Sera, è autore di una foto diventata statua: quella di Indro Montanelli seduto mentre scrive a macchina, collocata nei giardini milanesi di piazza Cavour e periodicamente imbrattata con vernice da attivisti per cause varie. Sanno che a Toscani senior si devono anche le immagini più atroci di Mussolini appeso a piazzale Loreto?
Al Toscani junior il giornalismo è rimasto nelle vene. L'attualità diventa materia prima per i suoi messaggi di advertising, tanto che per lui viene coniata la definizione shockvertising. Va a studiare fotografia e grafica alla scuola delle arti di Zurigo dal 1960 al '65. Tornerà nella città svizzera per ritirare una delle sue lauree honoris causa. Poi eccolo a New York, vincendo un concorso fotografico. Lì comincia a lavorare per Pan Am e Harper's Bazaar. Ma ritrae anche gli afroamericani e l'ambiente scatenato dei club di Manhattan negli anni della liberazione sessuale. Nel 1970 entra nella Factory di Andy Warhol.
In Italia comincia da cornetti Algida e vestiti confezionati Facis. Poi l'esplosione dei jeans con la scritta "Chi mi ama mi segua". Il bacio di una suora a un prete. E un catalogo infinito di clienti.
Una delle ultime mostre, un anno fa allo scalo Farini Milano, l'ha dedicata alla cacca: "L'unica cosa che l'uomo fa senza copiare gli altri. Non c'è niente di più personale. E ogni volta è un'opera d'arte". Espone foto di escrementi umani e di scimpanzé, mucche, giraffe, iene, maiali, leoni, anatre, pesci rossi, pitoni, bufali, tigri e grilli scattate per la rivista Colors nel 1998 ma rimaste inedite.
Oliviero Toscani aveva orrore della banalità. Forse anche per questo è morto di amiloidosi, malattia rara.
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