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Wednesday, April 10, 2013

Luca Beatrice: 'Sex'

Il critico fa il punto sul rapporto eros-porno nell'arte contemporanea
di Mauro Suttora
Oggi, 3 aprile 2013

La storia dell’arte è ricca di dipinti  ad alto tasso erotico: dalla Venere di Urbino di Tiziano (1538) alle Tre grazie  di Rubens di un secolo dopo, fino alla Venere allo specchio di Velazquez (1648). Ma è con L’origine du monde di Gustave Courbet del 1866 che avviene la svolta epocale: sesso femminile in primo piano, e viso della donna fuori dal quadro. È pornografia?

«L’EROS È COLTO E RAFFINATO»
Se lo sono domandati in tanti, nell’ultimo secolo e mezzo. Per ultimo il critico Luca Beatrice, che schiaffa lo scandaloso quadro sulla copertina del suo ultimo libro: Sex (Rizzoli). «Dipende da dove poniamo il confine fra erotismo e pornografia», risponde Beatrice. «Il primo è non solo tollerato, ma anche intrigante, perché colto, raffinato e privo di volgarità. La seconda, invece, è pratica illecita, appannaggio di un pubblico che si nasconde o quanto meno non si dichiara».
Dal 1995 il quadro di Courbet è tranquillamente in bella vista al museo d’Orsay a Parigi, e nessuno lo bolla più con l’etichetta del porno. Me se lo mettessimo in un sito web a luci rosse, verrebbe considerato il progenitore degli attuali video di YouPorn.
«Quel che oggi differenzia il porno dall’eros sta soprattutto nella rappresentazione del membro maschile», spiega Beatrice. «Un pene in evidenza, infatti, difficilmente passa la scure della censura, mentre c’è più tolleranza per seni, glutei e vagine. Un tempo accadeva il contrario: dalle antiche statue greche fino al XIX secolo ai nudi maschili veniva concessa l’esposizione senza veli del membro».
E oggi? A che punto siamo? Una delle opere erotiche più celebri degli ultimi anni è Siren dello scultore Marc Quinn (2008). Ritrae la modella Kate Moss in posa da contorsionista: «Non esattamente un archetipo di sensualità ed erotismo», commenta Beatrice.
«Cercavo l’incarnazione attuale dell’archetipo di Venere Afrodite», spiega Quinn, «uno specchio di noi stessi, delle nostre ossessioni, dei nostri desideri e sogni». Ma perché proprio questa posa? «Kate è scolpita dal desiderio collettivo, quindi immortalarla mentre si contorce ha a che fare con il modo in cui la società rivolta e manipola la sua immagine».
La scultura originale è in oro e pesa quanto la stessa Kate Moss: circa 50 chili. Valore: un milione di sterline. La Moss è stata anche ritratta distesa sul letto con le gambe aperte da Lucian Freud: una replica de L’origine du monde. Il dipinto è stato acquistato nel 2005 per 3,9 milioni di dollari da un misterioso collezionista privato. Qualcuno pensa sia la stessa Moss.

FREUD NONNO E NIPOTE
Il nonno di Lucian Freud, Sigmund, affermò: «Dove c’è un tabù c’è un desiderio». «L’arte figurativa ha raccontato per prima storie di corpi e desideri che altri linguaggi hanno affrontato senza una rappresentazione esplicita», scrive Beatrice, «ed è quindi grazie ad essa che oggi il porno ha definitivamente concluso il processo di accettazione nell’ufficialità».



Wednesday, December 05, 2012

Kate Moss, la più bella del mondo

LA SUPERMODELLA CELEBRATA CON UN LIBRO FOTOGRAFICO RIZZOLI. MA SECONDO SGARBI E MUGHINI...

di Mauro Suttora

Oggi, 5 dicembre 2012

«Certo che Kate Moss è la più bella del mondo. Ma lo è perché possiede il fascino perverso delle bad girls, le cattive ragazze. Se una donna non ha rovinato la vita a qualcuno, io non la considero neanche».
Originale come sempre, Giampiero Mughini vota Kate anche perché ha appena scritto un libro sull’argomento: Addio gran secolo dei nostri vent’anni: città, eroi e bad girls del Novecento (Bompiani). In cui racconta i sogni provocati da donne inarrivabili come Marilyn Monroe, Brigitte Bardot, Sophia Loren.
E oggi, chi ha preso il posto di quelle dee? C’è una bellezza che passerà alla storia come la più bella del primo decennio del terzo millennio? Quello degli “anni Zero”, come sono stati definiti spregiativamente da chi ne denuncia il vuoto, come Mughini. Ora che siamo ben inoltrati negli “anni Dieci”, riusciamo a non avere nostalgia per le icone del recente passato?
«A ben pensarci anche Kate Moss è figlia del ’900», dice Mughini, «perché era già lei a 16 anni. Quindi è una creatura degli anni ’90».

Ma proprio ora che di anni ne ha quasi 39, Kate celebra il proprio trionfo planetario. Perché nel 2012 è stata scelta come testimonial da ben tre marchi (Mango, Supreme e Liu-Jo) che si rivolgono alle giovanissime. Perché è appena uscito un libro che raccoglie tutte le foto che le hanno scattato in un quarto di secolo i migliori fotografi del mondo. Perché continua a collezionare copertine su copertine (Vanity Fair Usa di dicembre). E perché qualunque cosa faccia e dica (anzi: non dica, perchè parla pochissimo, e le poche cose che sussurra non vanno oltre qualche banalità dispensata a giornalisti adoranti), il suo status di icona globale ne esce rafforzato.

Ristorante nell’Upper East Side

Conferma Romolo Algeni, che spesso la ospita nel suo ristorante Paola’s dell’Upper East Side a Manhattan: «Ha un fascino incredibile anche di persona, l’ultima volta è venuta a cena a settembre con un’amica che vive qua dietro, su Park Avenue. Era a New York per gli U.S. Open di tennis. È bassina, ma ha un viso molto dolce».

«È più difficile oggi, rispetto a 50 anni fa, individuare un modello unico di bellezza femminile», ci dice Vittorio Sgarbi, «perché in tutti i campi c’è una moltiplicazione di promotori. Anche nell’arte: ora perfino per Picasso sarebbe più complicato emergere. Quindi sì, certo, Kate Moss. Ma allora anche Angelina Jolie, o Monica Bellucci... Secondo me, per esempio, oggi la più bella del mondo è la rumena Madalina Ghenea, che ho ammirato a Ballando sotto le stelle».

«Come scelta personale allora io dico Léa Seydoux», vota Mughini, «una francese splendida nel film Midnight in Paris di Woody Allen e nell’ultimo Mission impossible con Tom Cruise».

La parola a un altro critico d’arte, Luca Beatrice: «Distinguiamo: una cosa è un’icona, un’altra una ficona. Kate Moss appartiene alla prima categoria: immagine potentissima, ma non fa sognare. Io preferisco donne morbide, curve e sesso vero: Laetitia Casta, Belen Rodriguez, la Bellucci».

«La bellezza non è mai un valore assoluto», ragiona il fotografo di moda Settimio Benedusi, «e Kate Moss come modella ha tanti limiti: è piccolina, seno minuscolo,  troppo anglosassone. Insomma, non si può dire che sia di una bellezza incredibile. Però emerse grazie al fidanzato-fotografo Mario Sorrenti perché era diretta e naturale. Poi, quando raggiungi lo status di icona, puoi permetterti tutto. Oggi ci sono decine di modelle più belle di lei, l’italiana Bianca Balti per prima. Ma, così come Madonna è un’icona della musica anche se non sa cantare, Kate Moss va al di là della bellezza».

E infatti: «Preferisco Scarlett Johansson, burrosetta e proporzionata, anche se ha troppi tatuaggi», ci dice Beppe Severgnini.

«Kate Moss è sempre una divina», obietta Gianemilio Mazzoleni, vicedirettore di Style, mensile del Corriere della Sera, «anche se è così sovraesposta che ti pare un po’ di conoscerla, come tua moglie. Io sono un grande fan di Eva Green. Ma tra le donne “patinate” poche hanno il fascino di Rachel Weisz, anche se è ormai sulla quarantina».

Insomma, sì a Kate Moss ma con riserva. E le riserve si moltiplicano se si esamina la biografia della nostra “divina”. La quale, contrariamente a un’altra ex modella diventata attrice da Oscar, Charlize Theron, non vanta alcuna altra dote tranne il proprio viso e magnetismo: non sa cantare, non sa recitare.

«Non lamentarti e non spiegare mai»

«Never explain, never complain»: non spiegare mai, non lamentarti mai, le aveva insegnato l’ex fidanzato Johnny Depp, prima di mollarla spezzandole il cuore. Cioè: mantieni un profilo basso, non dire gli affari tuoi ai giornalisti, fai la misteriosa come Greta Garbo.

Obiettivo raggiunto: grazie alle rarissime interviste, concesse solo per obblighi contrattuali quando fa la testimonial superpagata per qualche marchio, Kate Moss non ha dovuto spiegare nulla sulle sue avventure con cocaina, anoressia e mariti vari di scarsa qualità (altro che i partner fiammeggianti di una Liz Taylor o di BB).

Così i giornali tabloid possono sfogarsi solo mostrandone le bucce d’arancia sulle gambette stortignaccole, e lei può continuare a folleggiare nei party privati della sua Londra. Tanto, è un’icona.
Mauro Suttora   

   

Wednesday, April 25, 2012

Artisti rockstar

I TRUCCHI PER CREARE DIVI DA MILIONI DI DOLLARI: HIRST, CATTELAN, KOONS (E DALI', WARHOL, BASQUIAT)

Oggi, 18 aprile 2012

di Mauro Suttora

«Per Damien Hirst si può parlare di “grande truffa dell’arte”: una colossale messinscena mediatica, capace di cavalcare l’onda della cronaca con operazioni a effetto».
«Maurizio Cattelan è la prova vivente che un fallito può farcela più di un mediocre, che un pigro la spunta su un iperattivo, e che l’artista stupido è preferibile al presunto genio».

Non le manda a dire il critico d’arte Luca Beatrice nel suo nuovo libro: Pop, l’invenzione dell’artista come star (Rizzoli). Dove esamina a fondo e spiega il successo dei più importanti artisti contemporanei, partendo dagli scomparsi Salvador Dalì, Andy Warhol e Michel Basquiat, per arrivare alle tre superstar dei nostri giorni: Jeff Koons, Hirst e Cattelan.

Tutti accomunati da quotazioni milionarie e da un gusto per la provocazione continua. Hirst in questi giorni è massacrato da critici di tutto il mondo, in occasione della sua mostra retrospettiva (70 opere per 30 anni di carriera) al museo Tate Modern di Londra, aperta in previsione delle Olimpiadi e fino al 9 settembre: «Non è arte», «È solo uno speculatore», «È il re del plagio», «Non crea lui le sue opere, le fa fare da altri».

Risultato: biglietti (da 14 sterline) a ruba, obbligo di prenotazione anticipata. «Non c’è miglior pubblicità della cattiva pubblicità» è regola di marketing, e Hirst sa che fa parte del gioco: «Elvis Presley ha guadagnato tanti soldi sia dalle t-shirt con su scritto “Amo Elvis” sia con quelle “Odio Elvis”, e questa idea mi è sempre piaciuta», sorride il furbacchione.

«Basso, tarchiatello, dalla fisiognomica tipica del bad boy proveniente dalla working class», scrive Beatrice, «Hirst non ha per nulla il physique du role dell’artista predestinato al successo. Eppure è riuscito a tracciare la strada verso la gloria. Oggi gli artisti hanno sostituito le rock star in rapida e inesorabile estinzione».

Lanciato dal pubblicitario Charles Saatchi, Hirst è passato dallo squalo (vero) conservato sotto formaldeide e valutato 12 milioni di euro al teschio tempestato di diamanti del 2007 che ha battuto ogni record di quotazione: 78 milioni.
«Sviluppare un marchio così forte su un’arte così povera è qualcosa di immensamente creativo, addirittura rivoluzionario»: così la femminista australiana Germaine Greer loda la cialtronaggine.

L’unico accenno di normalità di Hirst sta nella vita familiare. La compagna californiana Maia Norman, stilista, surfista e ciclista, fa l’uomo di casa che prende le decisioni. Lui preferisce dedicarsi alla passione per i fornelli, e cucinare per i tre figli maschi: Connor, Cassius e Cyrus.

Cattelan baby pensionato a 51 anni?

«Basta, mi ritiro». Alla vigilia della definitiva consacrazione mondiale nel super gotha dell’arte, con la mostra al Guggenheim di New York dell’autunno 2011, Cattelan ha annunciato il suo addio alle scene. «E, come Veronica Lario, sceglie la Repubblica per diffondere la clamorosa decisione», commenta perfido Beatrice. Il quale ovviamente non crede al ritiro della nostra maggiore star artistica, annunciato guarda caso il 1° aprile.

Cattelan approda al successo con la Biennale di Venezia del 1993. Per farsi notare inventa un gesto clamoroso: affitta il “suo” spazio a un’azienda di cosmetici che pubblicizzava uno dei suoi prodotti. Però lo firma, titolandolo Lavorare è un brutto mestiere.

Da allora, passando per papi atterrati, bimbi impiccati e diti medi che mandano aff... la Borsa di Milano, Cattelan non ha mai smesso di far parlare di sé. E di far alzare le quotazioni.

«Lui e Berlusconi sono due facce della stessa medaglia», decreta Beatrice, «personaggi controversi che annoverano fan entusiasti e feroci detrattori, icone italiche degli ultimi vent’anni. Cattelan è frutto dell’antiarte: niente scuola, nessuna accademia, furbissimo, capisce che nell’arte contemporanea bisogna picchiare sodo, provocare, inseguire la notizia. L’altro è figlio dell’antipolitica, pratica l’incoerenza come valore assoluto, leader dei conservatori e moderati che però nei comportamenti pubblici e privati rasenta il modello irriverente e irregolare delle rockstar».

Fidanzato con la collega Vanessa Beecroft, Cattelan poi è stato per qualche tempo con la conduttrice tv Victoria Cabello di 15 anni più giovane, che gli ha permesso di “scollinare” dalle riviste d’arte ai magazine di gossip: per la prima volta ha avuto a che fare con un tipo più mediatico di lui. Non è durata molto.

PRECURSORI DECADENTI A NEW YORK

Beatrice individua in Dalì e Warhol i precursori dell’attuale tendenza a far diventare personaggi gli artisti, al di là della loro arte: «Uno slogan di Warhol è “Pensare da ricco, sembrare povero”. Mette a punto un’invenzione di Dalì: uno stile diventa tale quando viene diffuso dai media (stampa, foto, tv). L’artista, oltre alle opere, deve creare una propria immagine, quindi dal 1963 chiama nel suo studio newyorkese vari fotografi per raccontare la sua banale quotidianità. Posa con l’abilità consumata di un divo, è un guru che detta le proprie regole alla moda degli Anni 60».

Fra le sue tante «muse» (maschi e femmine, da Lou Reed a Nico), il gay decadente Warhol incontra nel 1981 anche Loredana Berté. La conosce nel negozio Fiorucci a Manhattan, la soprannomina Pasta Queen per l’abilità culinaria, e realizza un video per il suo disco Made in Italy.

Basquiat, il graffitaro maledetto

Un anno dopo la morte di Warhol nel 1987, per i postumi di un banale intervento alla cistifellea, scompare ancora più prematuramente nella stessa New York Jean-Michel Basquiat. Entra anche lui nel “club dei 27” (uccisi dall’eroina a quell’età) con Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones, Kurt Cobain, di recente Amy Winehouse.

«Basquiat è il primo artista di colore a diventare famoso a livello internazionale», afferma Beatrice, «e l’unico a essere riconosciuto come celebrità da un pubblico ben più ampio di quello dell’arte. Prima della sua straordinaria inventiva e originalità pittorica, ciò che affascina il pubblico giovane è la vicenda biografica, ribelle e autodistruttiva [...]. Le sue donne sono tutte bianche e in gran parte bionde. Nell’82 Madonna diventa la sua amante fissa».

Ma dopo pochi mesi la cantante si stufa: lui si droga e dorme di pomeriggio, lei vive con disciplina rosicchiando carote.

E Jeff sposa la pornostar

Stessa città, New York. Stessa epoca, Anni 80. A poche decine di metri da Basquiat vive Jeff Koons. Ma è agli antipodi dei mondi di Warhol e Basquiat: «Lui sostituisce il disincanto con il cinismo, l’economia con la finanza», scrive Beatrice. «Koons è considerato l’artista americano più “compromesso” con affari e quattrini. Nel suo studio di 1.400 metri quadri a Chelsea ha 40 dipendenti. Assomiglia a un ufficio commerciale. Koons è noto per la precisione maniacale: un perfezionista al di là di ogni ragionevole limite che controlla tutti i minimi dettagli. Le sue opere raggiungono i 25 milioni di dollari.

Tuttavia non avrebbe mai ottenuto l’ampia popolarità che oggi gli viene riconosciuta senza l’incontro con Ilona Staller, la Cicciolina “fondatrice” della pornografia moderna, immortalata in una serie di opere, sposata nel 1991. Infine il brusco e violento divorzio, e la triste disputa sull’affidamento del figlio».

«Innocenza machiavellica» è l’ossimoro più efficace, coniato dall’archistar Rem Koolhaas, per descrivere Jeff Koons. «Ormai è presente nelle collezioni dei maggiori musei del mondo», spiega Beatrice, «ma attira ancora, come tutti i grandi, odii e simpatie in egual misura. Il messaggio della sua opera è ambiguo: c’è una dosata e astuta combinazione fra calcolo e autenticità, tattica e cinismo, persuasione occulta e spiritualismo».
Mauro Suttora

Wednesday, May 05, 2010

Luca Beatrice: 'Da che arte stai?'

Un critico svela i trucchi dell'arte contemporanea

Oggi, 28 aprile 2010

di Mauro Suttora

Incidenti imbarazzanti al sesto piano del Moma (Museum of modern arts) di New York. Il modello nudo di una «performance» dell’artista Marina Abramovich ha avuto un’erezione. A forza di subire gli strusci degli spettatori, che devono passare fra due corpi in piedi, il poveraccio non è riuscito a controllarsi. E ha dovuto essere sostituito. Né sembrano meno «calienti» i visitatori: alcuni di loro, sia uomini che donne, sono stati espulsi dopo aver allungato le mani sui 36 modelli nudi, sia uomini che donne (che si esibiscono otto alla volta, a turno).

I dirigenti del museo non vedono l’ora che la retrospettiva dedicata alla 64enne artista serba finisca, il 31 maggio. «È buffo come la natura si ribelli all’arte», commenta Luca Beatrice, critico e curatore della Biennale di Venezia 2009. «La Abramovich aveva presentato questa performance a Bologna nel ‘77, ma allora il contesto era completamente diverso. Gli artisti usavano i corpi per trasgredire, basti pensare agli happening del Living Theatre o ai sit-in di protesta nelle strade. Oggi si è perso qualsiasi valore di ribellione sociale: riproporre questo tipo di arte è solo un gesto estetico».

Arte contemporanea: chi ci capisce qualcosa? Ci piace affollare le mostre, bere qualcosa alle vernici e visitare musei che anche in Italia si moltiplicano. Ora ce ne sono perfino a Monfalcone (Gorizia) o Isernia, e un mese fa a Gallarate (Varese) ne è stato aperto uno con il solito acronimo «furbo»: Maga (Museo arte Gallarate). Il clou sarà a fine maggio a Roma: il 27 si inaugura il Macro (Museo arte contemporanea Roma) dell’architetta francese Odile Decq, e appena tre giorni dopo il Maxxi (Museo arte XXI secolo) di Zaha Hadid. Dopo anni di rinvii, è curiosa questa apertura contemporanea di spazi d’arte contemporanea in concorrenza fra loro nella stessa città.

«In Italia ormai ci sono più musei che artisti», scherza Beatrice, che ha appena pubblicato il libro Da che arte stai? (Rizzoli). È una bella storia dell’arte italiana degli ultimi quarant’anni, che spiega con parole semplici le ultime tendenze e le rivalità fra le varie correnti. Beatrice infatti, come Vittorio Sgarbi, ama la polemica. E lui ce l’ha contro l’Arte Povera, «che fino al 1979 ha dettato le regole, imponendo le proprie scelte e tagliando le gambe ai non allineati. L’esatto specchio della cultura sessantottina: “Se non sei dei nostri, non esisti”».

Per Beatrice l’anno della svolta è stato il 1979, con la nascita della Transavanguardia. Cinque pittori (Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino) e un critico mentore: Achille Bonito Oliva, che si farà fotografare nudo sulla rivista Frigidaire, disteso sul divano come la Maya di Goya.

«Quell’anno è stato importante perché si usciva dai grigi anni '70», dice Beatrice. E mette assieme quattro donne diversissime fra loro: Nilde Iotti che diventa presidente della Camera dei deputati, Oriana Fallaci che scrive il capolavoro Un Uomo, Gianna Nannini che esplode con America, e l’americana Patti Smith che incendia Bologna e Firenze con due concerti memorabili, dopo un decennio di astinenza e ostracismo contro i gruppi rock stranieri.

La Transavanguardia italiana conquista il mondo, fino alla consacrazione definitiva del ‘99 con la personale di Clemente al Guggenheim di Manhattan. Ma oggi? A parte Maurizio Cattelan, chi sono i nostri nuovi artisti di successo?

«Tutto dipende dal contesto», spiega Beatrice. «Facciamo un gioco. Prendiamo un quadro di buona ma non eccelsa qualità e appendiamolo alle pareti di un ristorante. Quindi trasportiamolo in una galleria media, di quelle che i critici con la puzza al naso definiscono “commerciali”. Infine inseriamolo in una mostra importante, curata da un nome giusto, nelle sale della Fondazione Sandretto di Torino o di un museo egualmente conclamato».

Lo stesso quadro?
«Sì. Nel primo caso avremo l’opera domenicale di un dilettante, che ha chiesto al proprietario del ristorante di ospitarlo e, magari, di provare a venderlo a duecento euro. Nel secondo caso il dipinto aumenterà di valore, fino a qualche migliaia di euro ma non di più, perché la galleria non è così buona e si presume che lì un grande artista non ci lavorerà mai. Nel terzo e ultimo caso il quadrò prenderà la strada del successo, lodato dagli addetti ai lavori e inseguito dai collezionisti disposti a spendere cifre folli per portarselo a casa, perché il suo valorer è stato certificato da un Bonami o Birnbaum, dalla Tate Modern o da White Cube di Londra».

E la qualità del quadro?
«Di tutto sentiremo discutere, tranne che di quello. Perché quando Marcel Duchamp nel 1917 ha piazzato il suo orinatoio in una sala bianca, con gesto geniale e provocatorio, ha dimostrato che qualsiasi cosa sarebbe potuta stare lì. Bastava la certificazione del contesto e l’accordo fra gli attori del circo. Duchamp tutto avrebbe potuto prevedere, tranne che di essere preso così sul serio dai posteri».

E anche oggi...
«Se entriamo in uno qualsiasi dei santuari dell’arte contemporanea, troveremo una sfilza di oggetti in disuso, scarti, pezzi di neon, sculture minimaliste, avanzi di piastrelle, scritte... e a nessuno viene mai il dubbio che non si tratti arte. Se stanno lì, nel museo, sono arte e basta».

Ma un bravo pittore come può essere preso in considerazione dal curatore di una mostra o di un museo?
«È un bel casino. Intanto veda di non essere troppo bravo, capace e virtuoso. Sia sciatto piuttosto, trasandato, incerto, dipinga se può come un incapace o un mentecatto. Se qualcuno gli dà del pittore si deve ribellare, guardarlo in cagnesco e spiegargli che lui è un “artista che usa la pittura”».

Perché questa commedia?
«Perché ai critici, che sono spesso artisti falliti, piace il non finito che fa molto “tormento ed estasi”. Prediligono i fondi bianchi su cui ritagliare figurine incerte o volti dall’espressione idiota. Se collabori con qualche “galleria di mercato” sei finito. Se vivi decorosamente del tuo lavoro ti daranno del “commerciale”».

Insomma, un disastro. Chi si salva, Beatrice?
«Oggi l’artista italiano più importante al mondo, che per classe e inventiva batte Cattelan dieci a uno, è Francesco Vezzoli».

Oddio, quello che un anno fa nella galleria Gagosian di Roma ha esposto la boccetta di un finto profumo?
«Sì. Con lo spot di un minuto girato da Roman Polanski. Vezzoli ti sbatte in faccia l’inutilità dell’arte contemporanea. E si autodefinisce così: “Sono un frocetto di provincia che guarda i film di Visconti e trasforma la propria solitudine e il proprio dolore in una magnifica ossessione».

Mauro Suttora