LA PERSONALE AL GUGGENHEIM
di Mauro Suttora
Oggi, 14 dicembre 2011
Grande successo per la mostra retrospettiva personale di Maurizio Cattelan al museo Guggenheim di New York (fino al 22 gennaio). Nonostante la stroncatura del critico del New York Times l’affluenza di pubblico è tale che gli orari serali sono stati prolungati di due ore per tutti i lunedì e martedì, fino a dopo Natale.
● Le Monde il 2 dicembre ha definito l’artista padovano «santo patrono dei sovversivi», e lo colloca con Jeff Koons (ex marito statunitense di Cicciolina), l’inglese Damien Hirst e il giapponese Takashi Murakami nell’olimpo dei quattro maggiori artisti contemporanei.
● 130 opere di Cattelan sono appese dal soffitto dell’edificio costruito 50 anni fa da Frank Lloyd Wright. L’effetto è giudicato strabiliante.
● L’ultimo artista italiano che ebbe l’onore di una mostra personale al Guggenheim fu, nel 1999, Francesco Clemente
della Transavanguardia.
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Wednesday, December 21, 2011
'Poveri' più ricchi dei Trans
GLI ARTISTI DELL'ARTE POVERA SONO PIU' QUOTATI DI QUELLI DELLA TRANSAVANGUARDIA
Aste di Cristie's e Sotheby's: record per Boetti, Pistoletto, Pascali. Le due mostre antologiche parallele a Milano
di Mauro Suttora
Oggi, 14 dicembre 2011
Grandi emozioni due mesi fa, il 13 ottobre, nel salone dalla casa d’aste Sotheby’s di Londra. Altro che crisi. La vendita di arte contemporanea italiana stabilisce il record d’incassi: 62 milioni di dollari. Più di tutte le vendite di contemporanea dell’intero 2010. Record per Alberto Burri: la sua Combustione Legno del 1957 se l’aggiudica un anonimo cliente al telefono, dopo una fiera battaglia con altri quattro collezionisti che provoca un rialzo del 300 per cento.
Straccia la base d’asta e stabilisce il record personale anche Michelangelo Pistoletto, decano biellese dell’Arte povera: 800 mila dollari per il suo Muro del ’67 (vedere la classifica a pag.92). Ma è un trionfo per tutta l’Arte povera, da Alighiero Boetti «battuto» l’anno scorso per 2,7 milioni di dollari, al povero Pino Pascali, scomparso in un incidente di moto a 33 anni nel ’68.
Fino alla fine di gennaio è possibile visitare una grande mostra sull’Arte Povera alla Triennale di Milano. E, contemporaneamente, paragonarla all’altra corrente pittorica che ha dominato la scena italiana negli ultimi trent’anni: la Transavanguardia, in mostra a Palazzo Reale.
Anche quest’ultima ha raccolto notevoli soddisfazioni commerciali: cinque anni fa Enzo Cucchi è stato battuto per un milione di dollari da Christie’s a Londra, e nel 2007 Sandro Chia ha toccato il mezzo milione.
Però, volendo fare una semplice e semplicistica hit parade dei prezzi, vincono i «poveri». Perché?
«Il motivo è semplice», risponde la art advisor Patrizia Manici: «Molti artisti dell’Arte povera purtroppo sono scomparsi: Pascali, Boetti, Merz, Fabro. Le quotazioni aumentano sempre, dopo la morte. Anche perché gli artisti non possono produrre più, inflazionando il mercato. Il riconoscimento alla qualità del loro lavoro è arrivato anche grazie ai media. E comunque l’arte povera è meno compiacente della Transavanguardia, frutto di una ricerca più intellettuale: per questo dura di più».
Il successo commerciale di un artista è costruito o facilitato da critici, galleristi, grandi collezionisti e curatori di musei. Non è un mistero, per esempio, che per riconquistare il titolo di «artista vivente più quotato» sottrattogli da Lucian Freud (vedi sotto) Damien Hirst nel 2008 orchestrò con un consorzio l’acquisto del suo Cranio con diamanti.
«In 40 anni i prezzi dell’Arte povera si sono rivalutati mediamente del 300 per cento», spiega Marina Mojana, critico del Sole 24 Ore, «conferma la regola d’oro del mercato dell’arte: il consolidamento arriva dopo una trentina d’anni dall’esordio, ma soltanto se intorno agli artisti si crea la felice congiunzione di un critico intelligente e di galleristi coraggiosi e lungimiranti».
Sia l’Arte povera, sia la Transavanguardia hanno avuto i loro numi tutelari in due critici, che le hanno «inventate» dando loro il nome: il genovese Germano Celant (nel 1968) e il salernitano Achille Bonito Oliva (1979). A decenni di distanza, le due mostre antologiche di Milano sono ancora curate da loro.
«Erano veramente poveri»
«L’Arte povera, però, non è mai stata una costruzione a tavolino», precisa Roberto Coda Zabetta, uno dei pittori italiani più apprezzati e “internazionali” della generazione dei trentenni. «Prima di essere risconosciuti, quegli artisti hanno sofferto. Alcuni di loro erano poveri sul serio, vivevano in campagna, scolpivano con le mani. Usavano materiali poveri anche per necessità: semplicemente, l’immondizia costava meno delle tele. E se un giornalista voleva intervistarli, magari lo mandavano a quel paese.
«La Transavanguardia, invece, nacque come operazione di marketing. Dopo i concettualismi degli anni ’70 le avanguardie artistiche erano in crisi. Di qui il nome del movimento, che “supera” l’avanguardia e recupera la pittura. Nel 1980 Bonito Oliva e i suoi ‘magnifici cinque’ hanno studiato perfettamente momento, motivo e modo per arrivare al successo. Che infatti hanno raggiunto subito, alla Biennale di Venezia. E dicendo questo non voglio sminuire la genialità del critico e dei pittori».
Adesso sia i «poveri», sia i «transavanguardisti» sono star internazionali. Su di loro vengono girati film, come quello del tedesco Georg Brintrup su Enzo Cucchi. Pistoletto, 78 anni, gira il mondo, ma nella sua Biella ha messo in piedi una fondazione (Cittadellarte) che offre borse di studio Unesco a giovani artisti di tutto il pianeta. Altre Fondazioni curano i lasciti di Boetti e Merz.
Trasferiti a New York
Sandro Chia vive fra New York e la Toscana, dove produce vino. Anche Francesco Clemente (che da giovane fu assistente del «povero» Boetti) ormai si è stabilito a Manhattan: lì il museo Guggenheim gli fece già nel 1999 (vedere il riquadro sopra) l’onore di una retrospettiva personale. Dalla quale è reduce il suo collega Mimmo Paladino, nel milanese Palazzo Reale (con la grande montagna di sala accanto al Duomo), dopo che l’anno scorso ha curato la scenografia del grande tour di Francesco de Gregori e Lucio Dalla.
Oltre che a Milano, i Transavanguardisti sono in mostra singolarmente a Modena (Chia, fino al 29 gennaio), Prato (Nicola De Maria, fino al 4 marzo), Catanzaro (Cucchi al Marca dal 17 dicembre a fine marzo), Roma (Paladino il prossimo marzo all’ex Gil) e Palermo (Clemente dal 15 marzo a palazzo Sant’Elia).
Mauro Suttora
Classifiche quotazioni alle aste:
TRANSAVANGUARDIA
1° Enzo CUCCHI
(Ancona, 1949)
1 milione di $
'Quadro Santo' (1980)
aggiudicato da Christie's Londra il 22.6.06
2° Sandro CHIA
(Firenze, 1946)
500 mila $
'Il figlio del farmacista'
Christie's Londra 15.10.07
3° Francesco CLEMENTE
(Napoli, 1952)
400 mila $
'Porta Coeli'
Christie's Londra 23.6.05
4° Mimmo PALADINO
(Benevento, 1948)
300 mila $
'Canto I' (1995)
Christie's Londra 22.6.06
5° Nicola DE MARIA
(Benevento, 1954)
150 mila $
'Regno dei fiori'
Christie's Londra 23.10.01
ARTE POVERA
1° Alighiero BOETTI
(1940-94)
2,7 milioni
'Mappa' (1989)
Christie's Londra, luglio 2010
2° Piero PASCALI
(Bari, 1935-68)
2,6 milioni
'Cannone semovente' (1965)
Christie's Londra ottobre 2003
3° Mario MERZ
(Milano, 1925-2003)
1,4 milioni
'Igloo object cache-toi' (1968)
Christie's Londra febbraio 2005
4° Jannis KOUNELLIS
(Pireo, Grecia 1936)
1,2 milioni
'Untitled' (1960)
Christie's Londra ottobre 2008
5° Luciano FABRO
(Torino, 1936-2007)
900 mila
'Italia carta stradale' (1969)
Sotheby's Londra ottobre 2006
6° Michelangelo PISTOLETTO
(Biella, 1933)
800 mila
'Muro' (1967)
Sotheby's Londra 13 ottobre 2011
Aste di Cristie's e Sotheby's: record per Boetti, Pistoletto, Pascali. Le due mostre antologiche parallele a Milano
di Mauro Suttora
Oggi, 14 dicembre 2011
Grandi emozioni due mesi fa, il 13 ottobre, nel salone dalla casa d’aste Sotheby’s di Londra. Altro che crisi. La vendita di arte contemporanea italiana stabilisce il record d’incassi: 62 milioni di dollari. Più di tutte le vendite di contemporanea dell’intero 2010. Record per Alberto Burri: la sua Combustione Legno del 1957 se l’aggiudica un anonimo cliente al telefono, dopo una fiera battaglia con altri quattro collezionisti che provoca un rialzo del 300 per cento.
Straccia la base d’asta e stabilisce il record personale anche Michelangelo Pistoletto, decano biellese dell’Arte povera: 800 mila dollari per il suo Muro del ’67 (vedere la classifica a pag.92). Ma è un trionfo per tutta l’Arte povera, da Alighiero Boetti «battuto» l’anno scorso per 2,7 milioni di dollari, al povero Pino Pascali, scomparso in un incidente di moto a 33 anni nel ’68.
Fino alla fine di gennaio è possibile visitare una grande mostra sull’Arte Povera alla Triennale di Milano. E, contemporaneamente, paragonarla all’altra corrente pittorica che ha dominato la scena italiana negli ultimi trent’anni: la Transavanguardia, in mostra a Palazzo Reale.
Anche quest’ultima ha raccolto notevoli soddisfazioni commerciali: cinque anni fa Enzo Cucchi è stato battuto per un milione di dollari da Christie’s a Londra, e nel 2007 Sandro Chia ha toccato il mezzo milione.
Però, volendo fare una semplice e semplicistica hit parade dei prezzi, vincono i «poveri». Perché?
«Il motivo è semplice», risponde la art advisor Patrizia Manici: «Molti artisti dell’Arte povera purtroppo sono scomparsi: Pascali, Boetti, Merz, Fabro. Le quotazioni aumentano sempre, dopo la morte. Anche perché gli artisti non possono produrre più, inflazionando il mercato. Il riconoscimento alla qualità del loro lavoro è arrivato anche grazie ai media. E comunque l’arte povera è meno compiacente della Transavanguardia, frutto di una ricerca più intellettuale: per questo dura di più».
Il successo commerciale di un artista è costruito o facilitato da critici, galleristi, grandi collezionisti e curatori di musei. Non è un mistero, per esempio, che per riconquistare il titolo di «artista vivente più quotato» sottrattogli da Lucian Freud (vedi sotto) Damien Hirst nel 2008 orchestrò con un consorzio l’acquisto del suo Cranio con diamanti.
«In 40 anni i prezzi dell’Arte povera si sono rivalutati mediamente del 300 per cento», spiega Marina Mojana, critico del Sole 24 Ore, «conferma la regola d’oro del mercato dell’arte: il consolidamento arriva dopo una trentina d’anni dall’esordio, ma soltanto se intorno agli artisti si crea la felice congiunzione di un critico intelligente e di galleristi coraggiosi e lungimiranti».
Sia l’Arte povera, sia la Transavanguardia hanno avuto i loro numi tutelari in due critici, che le hanno «inventate» dando loro il nome: il genovese Germano Celant (nel 1968) e il salernitano Achille Bonito Oliva (1979). A decenni di distanza, le due mostre antologiche di Milano sono ancora curate da loro.
«Erano veramente poveri»
«L’Arte povera, però, non è mai stata una costruzione a tavolino», precisa Roberto Coda Zabetta, uno dei pittori italiani più apprezzati e “internazionali” della generazione dei trentenni. «Prima di essere risconosciuti, quegli artisti hanno sofferto. Alcuni di loro erano poveri sul serio, vivevano in campagna, scolpivano con le mani. Usavano materiali poveri anche per necessità: semplicemente, l’immondizia costava meno delle tele. E se un giornalista voleva intervistarli, magari lo mandavano a quel paese.
«La Transavanguardia, invece, nacque come operazione di marketing. Dopo i concettualismi degli anni ’70 le avanguardie artistiche erano in crisi. Di qui il nome del movimento, che “supera” l’avanguardia e recupera la pittura. Nel 1980 Bonito Oliva e i suoi ‘magnifici cinque’ hanno studiato perfettamente momento, motivo e modo per arrivare al successo. Che infatti hanno raggiunto subito, alla Biennale di Venezia. E dicendo questo non voglio sminuire la genialità del critico e dei pittori».
Adesso sia i «poveri», sia i «transavanguardisti» sono star internazionali. Su di loro vengono girati film, come quello del tedesco Georg Brintrup su Enzo Cucchi. Pistoletto, 78 anni, gira il mondo, ma nella sua Biella ha messo in piedi una fondazione (Cittadellarte) che offre borse di studio Unesco a giovani artisti di tutto il pianeta. Altre Fondazioni curano i lasciti di Boetti e Merz.
Trasferiti a New York
Sandro Chia vive fra New York e la Toscana, dove produce vino. Anche Francesco Clemente (che da giovane fu assistente del «povero» Boetti) ormai si è stabilito a Manhattan: lì il museo Guggenheim gli fece già nel 1999 (vedere il riquadro sopra) l’onore di una retrospettiva personale. Dalla quale è reduce il suo collega Mimmo Paladino, nel milanese Palazzo Reale (con la grande montagna di sala accanto al Duomo), dopo che l’anno scorso ha curato la scenografia del grande tour di Francesco de Gregori e Lucio Dalla.
Oltre che a Milano, i Transavanguardisti sono in mostra singolarmente a Modena (Chia, fino al 29 gennaio), Prato (Nicola De Maria, fino al 4 marzo), Catanzaro (Cucchi al Marca dal 17 dicembre a fine marzo), Roma (Paladino il prossimo marzo all’ex Gil) e Palermo (Clemente dal 15 marzo a palazzo Sant’Elia).
Mauro Suttora
Classifiche quotazioni alle aste:
TRANSAVANGUARDIA
1° Enzo CUCCHI
(Ancona, 1949)
1 milione di $
'Quadro Santo' (1980)
aggiudicato da Christie's Londra il 22.6.06
2° Sandro CHIA
(Firenze, 1946)
500 mila $
'Il figlio del farmacista'
Christie's Londra 15.10.07
3° Francesco CLEMENTE
(Napoli, 1952)
400 mila $
'Porta Coeli'
Christie's Londra 23.6.05
4° Mimmo PALADINO
(Benevento, 1948)
300 mila $
'Canto I' (1995)
Christie's Londra 22.6.06
5° Nicola DE MARIA
(Benevento, 1954)
150 mila $
'Regno dei fiori'
Christie's Londra 23.10.01
ARTE POVERA
1° Alighiero BOETTI
(1940-94)
2,7 milioni
'Mappa' (1989)
Christie's Londra, luglio 2010
2° Piero PASCALI
(Bari, 1935-68)
2,6 milioni
'Cannone semovente' (1965)
Christie's Londra ottobre 2003
3° Mario MERZ
(Milano, 1925-2003)
1,4 milioni
'Igloo object cache-toi' (1968)
Christie's Londra febbraio 2005
4° Jannis KOUNELLIS
(Pireo, Grecia 1936)
1,2 milioni
'Untitled' (1960)
Christie's Londra ottobre 2008
5° Luciano FABRO
(Torino, 1936-2007)
900 mila
'Italia carta stradale' (1969)
Sotheby's Londra ottobre 2006
6° Michelangelo PISTOLETTO
(Biella, 1933)
800 mila
'Muro' (1967)
Sotheby's Londra 13 ottobre 2011
Wednesday, May 05, 2010
Luca Beatrice: 'Da che arte stai?'
Un critico svela i trucchi dell'arte contemporanea
Oggi, 28 aprile 2010
di Mauro Suttora
Incidenti imbarazzanti al sesto piano del Moma (Museum of modern arts) di New York. Il modello nudo di una «performance» dell’artista Marina Abramovich ha avuto un’erezione. A forza di subire gli strusci degli spettatori, che devono passare fra due corpi in piedi, il poveraccio non è riuscito a controllarsi. E ha dovuto essere sostituito. Né sembrano meno «calienti» i visitatori: alcuni di loro, sia uomini che donne, sono stati espulsi dopo aver allungato le mani sui 36 modelli nudi, sia uomini che donne (che si esibiscono otto alla volta, a turno).
I dirigenti del museo non vedono l’ora che la retrospettiva dedicata alla 64enne artista serba finisca, il 31 maggio. «È buffo come la natura si ribelli all’arte», commenta Luca Beatrice, critico e curatore della Biennale di Venezia 2009. «La Abramovich aveva presentato questa performance a Bologna nel ‘77, ma allora il contesto era completamente diverso. Gli artisti usavano i corpi per trasgredire, basti pensare agli happening del Living Theatre o ai sit-in di protesta nelle strade. Oggi si è perso qualsiasi valore di ribellione sociale: riproporre questo tipo di arte è solo un gesto estetico».
Arte contemporanea: chi ci capisce qualcosa? Ci piace affollare le mostre, bere qualcosa alle vernici e visitare musei che anche in Italia si moltiplicano. Ora ce ne sono perfino a Monfalcone (Gorizia) o Isernia, e un mese fa a Gallarate (Varese) ne è stato aperto uno con il solito acronimo «furbo»: Maga (Museo arte Gallarate). Il clou sarà a fine maggio a Roma: il 27 si inaugura il Macro (Museo arte contemporanea Roma) dell’architetta francese Odile Decq, e appena tre giorni dopo il Maxxi (Museo arte XXI secolo) di Zaha Hadid. Dopo anni di rinvii, è curiosa questa apertura contemporanea di spazi d’arte contemporanea in concorrenza fra loro nella stessa città.
«In Italia ormai ci sono più musei che artisti», scherza Beatrice, che ha appena pubblicato il libro Da che arte stai? (Rizzoli). È una bella storia dell’arte italiana degli ultimi quarant’anni, che spiega con parole semplici le ultime tendenze e le rivalità fra le varie correnti. Beatrice infatti, come Vittorio Sgarbi, ama la polemica. E lui ce l’ha contro l’Arte Povera, «che fino al 1979 ha dettato le regole, imponendo le proprie scelte e tagliando le gambe ai non allineati. L’esatto specchio della cultura sessantottina: “Se non sei dei nostri, non esisti”».
Per Beatrice l’anno della svolta è stato il 1979, con la nascita della Transavanguardia. Cinque pittori (Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino) e un critico mentore: Achille Bonito Oliva, che si farà fotografare nudo sulla rivista Frigidaire, disteso sul divano come la Maya di Goya.
«Quell’anno è stato importante perché si usciva dai grigi anni '70», dice Beatrice. E mette assieme quattro donne diversissime fra loro: Nilde Iotti che diventa presidente della Camera dei deputati, Oriana Fallaci che scrive il capolavoro Un Uomo, Gianna Nannini che esplode con America, e l’americana Patti Smith che incendia Bologna e Firenze con due concerti memorabili, dopo un decennio di astinenza e ostracismo contro i gruppi rock stranieri.
La Transavanguardia italiana conquista il mondo, fino alla consacrazione definitiva del ‘99 con la personale di Clemente al Guggenheim di Manhattan. Ma oggi? A parte Maurizio Cattelan, chi sono i nostri nuovi artisti di successo?
«Tutto dipende dal contesto», spiega Beatrice. «Facciamo un gioco. Prendiamo un quadro di buona ma non eccelsa qualità e appendiamolo alle pareti di un ristorante. Quindi trasportiamolo in una galleria media, di quelle che i critici con la puzza al naso definiscono “commerciali”. Infine inseriamolo in una mostra importante, curata da un nome giusto, nelle sale della Fondazione Sandretto di Torino o di un museo egualmente conclamato».
Lo stesso quadro?
«Sì. Nel primo caso avremo l’opera domenicale di un dilettante, che ha chiesto al proprietario del ristorante di ospitarlo e, magari, di provare a venderlo a duecento euro. Nel secondo caso il dipinto aumenterà di valore, fino a qualche migliaia di euro ma non di più, perché la galleria non è così buona e si presume che lì un grande artista non ci lavorerà mai. Nel terzo e ultimo caso il quadrò prenderà la strada del successo, lodato dagli addetti ai lavori e inseguito dai collezionisti disposti a spendere cifre folli per portarselo a casa, perché il suo valorer è stato certificato da un Bonami o Birnbaum, dalla Tate Modern o da White Cube di Londra».
E la qualità del quadro?
«Di tutto sentiremo discutere, tranne che di quello. Perché quando Marcel Duchamp nel 1917 ha piazzato il suo orinatoio in una sala bianca, con gesto geniale e provocatorio, ha dimostrato che qualsiasi cosa sarebbe potuta stare lì. Bastava la certificazione del contesto e l’accordo fra gli attori del circo. Duchamp tutto avrebbe potuto prevedere, tranne che di essere preso così sul serio dai posteri».
E anche oggi...
«Se entriamo in uno qualsiasi dei santuari dell’arte contemporanea, troveremo una sfilza di oggetti in disuso, scarti, pezzi di neon, sculture minimaliste, avanzi di piastrelle, scritte... e a nessuno viene mai il dubbio che non si tratti arte. Se stanno lì, nel museo, sono arte e basta».
Ma un bravo pittore come può essere preso in considerazione dal curatore di una mostra o di un museo?
«È un bel casino. Intanto veda di non essere troppo bravo, capace e virtuoso. Sia sciatto piuttosto, trasandato, incerto, dipinga se può come un incapace o un mentecatto. Se qualcuno gli dà del pittore si deve ribellare, guardarlo in cagnesco e spiegargli che lui è un “artista che usa la pittura”».
Perché questa commedia?
«Perché ai critici, che sono spesso artisti falliti, piace il non finito che fa molto “tormento ed estasi”. Prediligono i fondi bianchi su cui ritagliare figurine incerte o volti dall’espressione idiota. Se collabori con qualche “galleria di mercato” sei finito. Se vivi decorosamente del tuo lavoro ti daranno del “commerciale”».
Insomma, un disastro. Chi si salva, Beatrice?
«Oggi l’artista italiano più importante al mondo, che per classe e inventiva batte Cattelan dieci a uno, è Francesco Vezzoli».
Oddio, quello che un anno fa nella galleria Gagosian di Roma ha esposto la boccetta di un finto profumo?
«Sì. Con lo spot di un minuto girato da Roman Polanski. Vezzoli ti sbatte in faccia l’inutilità dell’arte contemporanea. E si autodefinisce così: “Sono un frocetto di provincia che guarda i film di Visconti e trasforma la propria solitudine e il proprio dolore in una magnifica ossessione».
Mauro Suttora
Oggi, 28 aprile 2010
di Mauro Suttora
Incidenti imbarazzanti al sesto piano del Moma (Museum of modern arts) di New York. Il modello nudo di una «performance» dell’artista Marina Abramovich ha avuto un’erezione. A forza di subire gli strusci degli spettatori, che devono passare fra due corpi in piedi, il poveraccio non è riuscito a controllarsi. E ha dovuto essere sostituito. Né sembrano meno «calienti» i visitatori: alcuni di loro, sia uomini che donne, sono stati espulsi dopo aver allungato le mani sui 36 modelli nudi, sia uomini che donne (che si esibiscono otto alla volta, a turno).
I dirigenti del museo non vedono l’ora che la retrospettiva dedicata alla 64enne artista serba finisca, il 31 maggio. «È buffo come la natura si ribelli all’arte», commenta Luca Beatrice, critico e curatore della Biennale di Venezia 2009. «La Abramovich aveva presentato questa performance a Bologna nel ‘77, ma allora il contesto era completamente diverso. Gli artisti usavano i corpi per trasgredire, basti pensare agli happening del Living Theatre o ai sit-in di protesta nelle strade. Oggi si è perso qualsiasi valore di ribellione sociale: riproporre questo tipo di arte è solo un gesto estetico».
Arte contemporanea: chi ci capisce qualcosa? Ci piace affollare le mostre, bere qualcosa alle vernici e visitare musei che anche in Italia si moltiplicano. Ora ce ne sono perfino a Monfalcone (Gorizia) o Isernia, e un mese fa a Gallarate (Varese) ne è stato aperto uno con il solito acronimo «furbo»: Maga (Museo arte Gallarate). Il clou sarà a fine maggio a Roma: il 27 si inaugura il Macro (Museo arte contemporanea Roma) dell’architetta francese Odile Decq, e appena tre giorni dopo il Maxxi (Museo arte XXI secolo) di Zaha Hadid. Dopo anni di rinvii, è curiosa questa apertura contemporanea di spazi d’arte contemporanea in concorrenza fra loro nella stessa città.
«In Italia ormai ci sono più musei che artisti», scherza Beatrice, che ha appena pubblicato il libro Da che arte stai? (Rizzoli). È una bella storia dell’arte italiana degli ultimi quarant’anni, che spiega con parole semplici le ultime tendenze e le rivalità fra le varie correnti. Beatrice infatti, come Vittorio Sgarbi, ama la polemica. E lui ce l’ha contro l’Arte Povera, «che fino al 1979 ha dettato le regole, imponendo le proprie scelte e tagliando le gambe ai non allineati. L’esatto specchio della cultura sessantottina: “Se non sei dei nostri, non esisti”».
Per Beatrice l’anno della svolta è stato il 1979, con la nascita della Transavanguardia. Cinque pittori (Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino) e un critico mentore: Achille Bonito Oliva, che si farà fotografare nudo sulla rivista Frigidaire, disteso sul divano come la Maya di Goya.
«Quell’anno è stato importante perché si usciva dai grigi anni '70», dice Beatrice. E mette assieme quattro donne diversissime fra loro: Nilde Iotti che diventa presidente della Camera dei deputati, Oriana Fallaci che scrive il capolavoro Un Uomo, Gianna Nannini che esplode con America, e l’americana Patti Smith che incendia Bologna e Firenze con due concerti memorabili, dopo un decennio di astinenza e ostracismo contro i gruppi rock stranieri.
La Transavanguardia italiana conquista il mondo, fino alla consacrazione definitiva del ‘99 con la personale di Clemente al Guggenheim di Manhattan. Ma oggi? A parte Maurizio Cattelan, chi sono i nostri nuovi artisti di successo?
«Tutto dipende dal contesto», spiega Beatrice. «Facciamo un gioco. Prendiamo un quadro di buona ma non eccelsa qualità e appendiamolo alle pareti di un ristorante. Quindi trasportiamolo in una galleria media, di quelle che i critici con la puzza al naso definiscono “commerciali”. Infine inseriamolo in una mostra importante, curata da un nome giusto, nelle sale della Fondazione Sandretto di Torino o di un museo egualmente conclamato».
Lo stesso quadro?
«Sì. Nel primo caso avremo l’opera domenicale di un dilettante, che ha chiesto al proprietario del ristorante di ospitarlo e, magari, di provare a venderlo a duecento euro. Nel secondo caso il dipinto aumenterà di valore, fino a qualche migliaia di euro ma non di più, perché la galleria non è così buona e si presume che lì un grande artista non ci lavorerà mai. Nel terzo e ultimo caso il quadrò prenderà la strada del successo, lodato dagli addetti ai lavori e inseguito dai collezionisti disposti a spendere cifre folli per portarselo a casa, perché il suo valorer è stato certificato da un Bonami o Birnbaum, dalla Tate Modern o da White Cube di Londra».
E la qualità del quadro?
«Di tutto sentiremo discutere, tranne che di quello. Perché quando Marcel Duchamp nel 1917 ha piazzato il suo orinatoio in una sala bianca, con gesto geniale e provocatorio, ha dimostrato che qualsiasi cosa sarebbe potuta stare lì. Bastava la certificazione del contesto e l’accordo fra gli attori del circo. Duchamp tutto avrebbe potuto prevedere, tranne che di essere preso così sul serio dai posteri».
E anche oggi...
«Se entriamo in uno qualsiasi dei santuari dell’arte contemporanea, troveremo una sfilza di oggetti in disuso, scarti, pezzi di neon, sculture minimaliste, avanzi di piastrelle, scritte... e a nessuno viene mai il dubbio che non si tratti arte. Se stanno lì, nel museo, sono arte e basta».
Ma un bravo pittore come può essere preso in considerazione dal curatore di una mostra o di un museo?
«È un bel casino. Intanto veda di non essere troppo bravo, capace e virtuoso. Sia sciatto piuttosto, trasandato, incerto, dipinga se può come un incapace o un mentecatto. Se qualcuno gli dà del pittore si deve ribellare, guardarlo in cagnesco e spiegargli che lui è un “artista che usa la pittura”».
Perché questa commedia?
«Perché ai critici, che sono spesso artisti falliti, piace il non finito che fa molto “tormento ed estasi”. Prediligono i fondi bianchi su cui ritagliare figurine incerte o volti dall’espressione idiota. Se collabori con qualche “galleria di mercato” sei finito. Se vivi decorosamente del tuo lavoro ti daranno del “commerciale”».
Insomma, un disastro. Chi si salva, Beatrice?
«Oggi l’artista italiano più importante al mondo, che per classe e inventiva batte Cattelan dieci a uno, è Francesco Vezzoli».
Oddio, quello che un anno fa nella galleria Gagosian di Roma ha esposto la boccetta di un finto profumo?
«Sì. Con lo spot di un minuto girato da Roman Polanski. Vezzoli ti sbatte in faccia l’inutilità dell’arte contemporanea. E si autodefinisce così: “Sono un frocetto di provincia che guarda i film di Visconti e trasforma la propria solitudine e il proprio dolore in una magnifica ossessione».
Mauro Suttora
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