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Tuesday, August 22, 2023

Viva la diversità, abbasso la normalità



Se bacchettiamo il generale bacchettone, trasformandolo in vittima ululante alla censura, in provocatore contro il "Mondo al contrario", rischiamo di regalargli il fascino di Franti

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 22 agosto 2023

Ho letto per curiosità il libro del generale Roberto Vannacci. Tutti criticano la sua frase "I gay non sono normali". Lui ci mette cinque pagine per arrivare a questa conclusione, consultando le stime sulla percentuale di gay nei vari Paesi, pare sotto il 5%. Certo, tutto dipende dal valore che si dà alla parola "normale". Se la "norma" fosse quella stabilita o praticata dal 95%, i gay sarebbero "anormali". Ma questo il generale non lo scrive, suonerebbe offensivo.

Nel 1974, quando cominciai a frequentare la sede del partito radicale a Udine, i ragazzi del Fuori (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano) erano invece orgogliosi di essere 'diversi', rivendicavano la loro 'non normalità'. Se qualcuno li avesse definiti normali, lo avrebbero insultato. "Diversi ma non perversi", era lo slogan del leader radicale Marco Pannella e del fondatore del Fuori Angelo Pezzana. Era mezzo secolo fa. Il mio nonno liberale (anzi, da laico illuminato votava più a sinistra: per il repubblicano Ugo La Malfa) definiva i gay "pederasti, invertiti, degenerati". 

Nel mio liceo ero l'unico radicale. Questo bastava perché alcuni compagni buontemponi mi prendessero in giro mettendosi spalle al muro quando mi incrociavano, dicendo "Occhio al culo, arriva il 'fenulli' (finocchio in friulano, ndr)". I radicali non hanno mai fatto campagna per il matrimonio gay. Una volta chiesi a Pannella perché. "Il matrimonio etero non ci interessa, perché dovremmo batterci per estenderlo agli omosessuali?".

Insomma, forse perché i gay radicali (cioè quasi tutto il movimento gay prima dell'Arcigay) si consideravano anche rivoluzionari, le nozze erano fuori dal loro orizzonte. Non avevano ansia di accettazione, anzi detestavano ogni "omologazione", concetto pasoliniano che era la loro (e nostra) stella polare. 

È morto da poco Francesco Alberoni. Per comprendere la parabola dei gay ci soccorre la sua descrizione del passaggio inevitabile dei movimenti dalla fase di stato nascente a quella di istituzione. Tutti i movimenti di liberazione, dagli omosessuali alle femministe, dai neri d'America agli antimilitaristi, hanno seguito lo stesso percorso. Dopo il riconoscimento hanno voluto posti in parlamento, cattedre universitarie, finanziamenti pubblici, spazi politici. Il potere, insomma. Perché va bene la controcultura degli anni 60-70 e i figli dei fiori, ma "flowers have no power", come ammonì Herbert Marcuse. Così, per esempio, perfino Martin Luther King fu contestato da Malcolm X e accusato di 'ziotommismo' dalle Pantere Nere che ne contestavano il cauto riformismo con sponda nei presidenti John Kennedy e Lyndon Johnson. 

Oppure, si parva licet componere magnis, ricordo personalmente la degenerazione del movimento antimilitarista in Italia dopo la conquista del diritto all'obiezione di coscienza contro il servizio militare nel 1972. Nacque la Loc (Lega obiettori di coscienza), che fatalmente smise di contestare le spese militari, cioè di "fare politica", riducendosi a sindacato degli obiettori. Normalizzata. 

Questo a sinistra. Ma anche a destra si ripetono a cent'anni di distanza le stesse dinamiche, ogni volta che i rivoluzionari entrano nelle istituzioni, e ancor più quando conquistano il potere. Le ghette che Benito Mussolini per la prima volta indossò per ricevere dal re l'incarico di primo ministro equivalgono alla soggezione di Giorgia Meloni nei confronti di Joe Biden e Ursula von der Leyen. 

Nel 1923 i sansepolcristi protestarono inutilmente per l'imborghesimento del fascismo; oggi, sempre si parva..., non sarà un Gianni Alemanno a rinfocolare la fiamma nel cuore di Giorgia. E allora, figurarsi Guido Crosetto, che fascista non è mai stato: ci ha messo tre secondi a far liquidare il generale della Folgore e il suo linguaggio, appunto, da caserma.

Il povero Vannacci tutto sommato nelle sue 350 pagine autopubblicate (un po' da pezzente: neanche un editore ha trovato?) si è limitato a mettere insieme la paccottiglia che i giornali di centrodestra e i talk di Rete4 ci ammanniscono ogni giorno. Ma viene impiccato per due o tre scivolate semantiche. E quella sui gay, paradossalmente, è massimamente rivelatrice. Perché dice di più sulla normalizzazione degli omosessuali che non su quella dei fascisti.  

Mezzo secolo fa i perbenisti stavano a destra e gli scostumati (altra parola desueta) che li scandalizzavano si collocavano a sinistra. L'odioso 'Signor Censore' della canzone di Edoardo Bennato era un democristiano clericale. Oggi è il contrario: nell'era della suscettibilità (copyright Guia Soncini) a offendersi per la parola "anormale" reclamando sanzioni è la sinistra. 

Il problema è che se bacchettiamo il generale bacchettone, trasformandolo in vittima ululante alla censura, in provocatore contro il 'Mondo al contrario' (titolo del suo libro), rischiamo di regalargli il fascino di Franti. La stessa aura da ribelle che avvolgeva Pannella e che mi attrasse quindicenne, curioso allora come oggi, in quella sede radicale piena di 'diversi' a Udine. Anche se io, a dire il vero, cercavo più che altro belle ragazze femministe. Poco importa se normali o anormali.

Wednesday, November 02, 2022

Riccardo Lombardi, capo socialista

Cosa facevano gli antifascisti nel 1922? La storia di Riccardo Lombardi

di Mauro Suttora

Nel suo ultimo libro Antonio Alosco racconta il Lombardi ventunenne, figlio di un capitano dei carabinieri toscano, studente di ingegneria al Politecnico di Milano e attivista del partito popolare, negli anni della sua formazione politica attraverso posizioni che lo rendono un personaggio "amletico"

HuffPost, 2 Novembre 2022

La marcia su Roma, i fascisti, va bene. Ma cosa facevano gli antifascisti, nel 1922? Quelli che poi sarebbero diventati i capi partigiani, i padri della Repubblica?

Su uno di loro ferma l'attenzione Antonio Alosco, già docente di Storia contemporanea all'università di Napoli, col suo ultimo libro 'Riccardo Lombardi, un personaggio amletico' (ed. la Bussola).

Nelle famose foto della Liberazione a Milano, aprile 1945, Lombardi è lo spilungone che sovrasta gli altri leader antifascisti in parata: Pertini, Parri, Longo, Mattei, Solari, La Malfa. 

Aveva partecipato all'ultimo drammatico incontro con Mussolini in arcivescovado per conto del suo partito d'Azione, e poi divenne prefetto di Milano. 

Tutti lo ricordiamo come massimo dirigente del Psi fino alla morte, nel 1984 (soffriva ancora i postumi di un pestaggio fascista). 

Ma nel 1922 il ventunenne Lombardi, figlio di un capitano dei carabinieri toscano e della figlia del notaio di Regalbuto (Enna), era studente di ingegneria al Politecnico di Milano e attivista del partito popolare. Che gli andava stretto, contrariamente al fratello Ruggero diventato poi deputato dc fino al 1968 e sottosegretario al Turismo e spettacolo nei primi centrosinistra di Moro e Fanfani.

Riccardo invece, eterno dissenziente, già allora scalpitava. Tanto da meritarsi le attenzioni poco benevole di Giovanni Gronchi, futuro presidente e allora capo del sindacato cattolico, incline a espellerlo perché troppo vicino ai socialisti. 

In quella Milano ribollente Lombardi si trovò a difendere la redazione dell'Avanti! assaltata dagli squadristi dell'ex direttore Mussolini.

Non immaginava certo, il giovane Lombardi, che un giorno avrebbe diretto proprio lui il quotidiano del Psi, succedendo a un Nenni carico di livore personale dopo la sconfitta del fronte socialcomunista nel 1948 (anche per questo Alosco definisce Nenni "mediocre politico").

Lombardi difese il capo socialista Turati dai picchiatori fascisti in Galleria, e divenne un Ardito del popolo, corpo paramilitare di sinistra che sfidava le squadre di destra sul loro stesso terreno, la violenza. 

Lasciò i popolari troppo accomodanti con Mussolini per un partitino di cristiani di sinistra che non ebbe fortuna. 

Come dargli torto? Nel partito popolare l'unico ad accorgersi della pericolosità della legge elettorale Acerbo fu il fondatore don Sturzo, che perciò fu fatto fuori dai giovani moderati come Gronchi e, inopinatamente, De Gasperi.

Lombardi invece, dopo una sbandata per il Pci, si aggregò ai fratelli Rosselli in Giustizia e libertà. Incarcerato e torturato per un volantinaggio a Milano nel 1930, durante il ventennio mascherò la sua attività antifascista dietro a una rispettabile attività: ingegnere per una ditta tedesca di pompe idrauliche.

Ma perché Alosco lo definisce "amletico"? Perché Lombardi negli snodi fondamentali della sua vita politica esitò a scegliere. E quando scelse, ottenne a volte risultati opposti a quelli sperati. 

Sciolto il partito d'Azione, per esempio, non seguì La Malfa in quello repubblicano. Né confluì nell'approdo più naturale per un laico progressista come lui: la neonata socialdemocrazia di Saragat. 

Preferì il Psi allora stalinista quanto il Pci, forse influenzato dall'amatissima moglie, ex del dirigente comunista Li Causi. 

Battè Nenni al congresso socialista del 1948, ma poco dopo subì la rivincita dei frontisti di Morandi. Ancora nel 1959 criticò i socialisti tedeschi per la svolta moderata di Bad Godesberg. 

Si impegnò nel movimento per la pace, ma neppure lì scalfì l'egemonia Pci. 

Spinse per il centrosinistra, ma dopo un anno di governo con la Dc se ne dichiarò insoddisfatto. 

Appoggiò i radicali su divorzio e aborto, ma respinse l'iscrizione di Pannella al Psi.

Negli anni '60 e '70 si tenne lontano da incarichi ministeriali, facendo così conquistare alla sua corrente della sinistra Psi un'aura di estraneità al sottogoverno. 

Ma nel 1976 il suo contributo fu decisivo per l'ascesa di Craxi, il quale premiò i lombardiani De Michelis e Signorile. 

E quando negli anni '80 Lombardi sollevò la questione morale ("Abbiamo più socialisti in carcere ora che sotto il fascismo"), era troppo tardi. 

Amareggiato anche per l'iscrizione alla loggia P2 del suo allievo più brillante, Fabrizio Cicchitto, si spense pochi mesi dopo Berlinguer.

Mauro Suttora

Saturday, December 11, 2021

Nicola Chiaromonte, integerrimo politico e quindi necessariamente ‘non politico’

L’intellettuale lucano morto nel 1972 a 67 anni fu iscritto una sola volta a un partito: i neonati radicali, nel 1956 

di Mauro Suttora

HuffPost, 11 dicembre 2021

Google definisce Nicola Chiaromonte “politico”. Niente di più falso. L’intellettuale lucano morto nel 1972 a 67 anni fu iscritto una sola volta a un partito: i neonati radicali, nel 1956. I quali già due anni dopo sparirono dalla scena nazionale, dopo il disastroso debutto elettorale: 1,4% assieme ai repubblicani di La Malfa (il partito radicale si reincarnò poi sotto la guida di Pannella).

Fu questo, nel lungo dopoguerra italiano, il destino di tutti i partiti laici: stritolati dalle due chiese contrapposte, democristiana e comunista. Sorte toccata anche a Chiaromonte e a tanti uomini di pensiero indipendente come lui. E infatti anche la sua memoria è stata cancellata: se si dice Chiaromonte, chi sa un po’ di politica pensa soltanto al suo omonimo Gerardo, senatore Pci scomparso nel 1993 (nessuna parentela).

Invece Nicola Chiaromonte è stato un importante uomo di pensiero, come dimostrano le 1800 pagine del Meridiano che gli ha dedicato Mondadori. Fu anche un integerrimo politico, in realtà, e quindi necessariamente ‘non politico’. Un po’ come il ‘non tessuto’ con cui proteggiamo le nostre piante d’inverno, o come l’unica intuizione degna di nota di Casaleggio, fondatore dei grillini: il quale li definì ‘non partito’ dotandoli di un ‘non statuto’, essendo gli statuti dei partiti perlopiù truffaldini.

Durante il fascismo Chiaromonte stette nell’unico posto dove un deciso antifascista poteva stare: all’estero. Ma anche quando tornò in Italia dall’esilio in Francia e Usa rimase straniero in patria. E infatti fu amico stretto di Camus: il loro carteggio è stato anch’esso appena pubblicato da Neri Pozza.

Diversamente dallo Straniero per eccellenza degli anni ’50, tuttavia, Chiaromonte scampò all’epiteto di ‘rinnegato’: non fu mai comunista. Socialista libertario, negli anni ’30 aderì a Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli, ma la lasciò quando si trasformò da movimento in partito e si avvicinò troppo ai comunisti (che stavano massacrando gli anarchici in Spagna).

Fu tuttavia marchiato dall’accusa di ‘venduto’. Purtroppo vera, perché la sua rivista Tempo presente, fondata nel 1956 con Ignazio Silone (lui sì traditore del Pci), risultò finanziata dagli Usa. Più precisamente dal Congress for cultural freedom, organizzazione che nel 1967 un’inchiesta giornalistica rivelò essere aiutata dalla Cia.

Peccato che oggi ci appare risibile, per due motivi: primo, perché quasi tutti erano ‘pagati’, i comunisti da Mosca, Dc e Psdi da Washington; secondo, perché in tempo di guerra, seppur fredda, è lecito essere aiutati dagli alleati, come lo furono i partigiani contro i nazisti.

Ma Chiaromonte, ignaro dei soldi occulti, soffrì molto quando vennero alla luce e s’imbufalì con l’amministratore del giornale che lo aveva tenuto all’oscuro. Lui personalmente non aveva bisogno di quell’aiuto, poiché sbarcava il lunario come critico teatrale del Mondo e dell’Espresso. E lo ferì essere associato alla Cia, proprio lui che negli anni a New York aveva combattuto con il suo maestro anarchico Caffi non solo il nazifascismo, ma anche l’establishment capitalista Usa. E che su Tempo Presente non aveva lesinato critiche al maccartismo ed elogi a sacerdoti come Balducci e Milani, fautori dell’obiezione di coscienza al servizio militare.

Insomma, in questi tempi di polemiche strampalate contro un supposto mainstream vaccinista, è interessante leggere le pagine scritte da Chiaromonte, che mainstream non lo fu mai perché rifiutò l’arruolamento non in una corrente principale, ma in due contemporaneamente: la maggioranza democristiana e l’opposizione comunista. Lui e pochissimi altri stettero all’opposizione dell’opposizione. E pagarono con la sparizione, in vita e in morte.

Mauro Suttora 

Wednesday, July 11, 2012

parla Oscar Giannino

LA RICETTA LIBERISTA DEL CERVELLO DELL'ISTITUTO BRUNO LEONI

di Mauro Suttora

Oggi, 20 giugno 2012

«Lo stato non è padre e neanche padrone: è padrino!» «Vendere subito il patrimonio immobiliare statale per alleggerire debito e tasse!»

Se si googla «Oscar», subito dopo il premio del cinema e Wilde esce lui, con mezzo milione di citazioni: Oscar Fulvio Giannino da Torino. Ogni giorno alle nove del mattino e della sera (in replica) conduce un programma di successo su Radio 24, scagliandosi contro politici, stato e imposte. Lo fa stando in piedi, vestito da dandy come il suo omonimo Wilde.

Ora ha ottenuto un successo: il premier Mario Monti promette massicce dismissioni del patrimonio pubblico. Che lui invocava da mesi: «Avrebbe dovuto farlo il primo giorno di governo, invece di aspettare mezzo anno caricandoci di altre tasse».

Questa sua piccola vittoria personale ha spinto Giuseppe Cruciani, altro conduttore di Radio 24 (La zanzara), a lanciare lo slogan «Oscar for president». Scherzoso ma non troppo. Giannino infatti, che è anche editorialista di Panorama e dei quotidiani di Caltagirone (Messaggero, Mattino, Gazzettino), da vent'anni fa il giornalista: capo dell'economia al Foglio di Giuliano Ferrara e a Libero di Vittorio Feltri. Ma prima era in politica: «Mi sono iscritto al Pri a tredici anni, affascinato da Ugo La Malfa. Poi, con Spadolini, ero segretario dei giovani repubblicani. Quando i giovani facevano politica sul serio: eravamo 15 mila. Infine, portavoce del partito».

Gli altri portavoce si chiamavano Mastella, Martelli, Veltroni, e Giannino li rintuzzava ogni giorno. Con l'eloquio torrenziale ma preciso che oggi esibisce nella radio degli industriali. Dove qualcuno storce il naso: troppo aggressivo contro il governo, troppo estremista, liberista, quasi leghista.

«È una beffa della storia», dice incurante lui, «che dopo vent'anni proprio ora la Lega Nord, messa in ginocchio dal Trota, veda trionfare le proprie tesi sul Financial Times, che prevede un Euro diviso in due: quello attorno alla Germania, cui si aggrega la Padania, e quello mediterraneo per il resto d'Italia».

Giannino è uno dei cervelli più brillanti dell'Istituto Bruno Leoni, think tank libertario ma non berlusconiano. E ogni mattina demolisce quelli che definisce «miti»: «Il primo è che la colpa della crisi sarebbe di Angela Merkel. Ma i tedeschi ci hanno avvisato per anni che non avrebbero mai assunto debiti di altri Paesi. L'hanno scritto perfino nella Costituzione. Loro nel 2002-2006 hanno tagliato di sei punti spesa pubblica e tasse, alzando reddito e produttività. Sacrifici che hanno rafforzato l'export. Da noi nulla, invece. E pensare che il nostro Nordest ha una forza industriale perfino superiore alla loro».

Gli altri miti?
«Stampiamo moneta, dateci una Bce come la Fed statunitense. È una fesseria colossale, finché i mercati restano separati e senza unità politica, o almeno una politica economica comune. A meno che non si voglia un’Europa come l’Impero Romano d’Oriente, con moneta in perenne svalutazione. O come l’Italietta dopo gli anni Sessanta. Mito numero tre: è un complotto della grande finanza mondiale che specula, restituiamo alla politica il potere di battere moneta. È una teoria complottista degna di Giacobbo».

La parola magica è «crescita».
«Sì, ma sostenuta come? Estremisti keynesiani come Krugman propongono un deficit pubblico anche a doppia cifra pur di finanziarla. Ma la ricetta non è applicabile all'Italia, con debito al 120%. Il nostro Stato succhia per sé già troppe risorse. Rispetto a vent’anni fa il nostro prodotto procapite è cresciuto del 9%. Eppure il reddito procapite è sceso del 4%. Dove sono finiti, quei 13 punti che mancano nelle tasche degli italiani? Se li è pappati il signor stato, per pagare una spesa pubblica in perenne crescita, oggi oltre il 60% del Pil legale, cioè di chi le tasse le paga».

Ma l'euro è stato un affare?
«Ecco un altro luogo comune! Certo, da quando c'è l'euro ci siamo impoveriti. Ma la colpa, come ho appena spiegato, è della spesa statale. L’euro ci ha regalato 7 punti di Pil annui di minori interessi sul debito, prima che esplodesse lo spread dall’estate scorsa. Ma questi soldi hanno aumentato la spesa pubblica, invece di creare più investimenti con meno tasse. L’euro non è un bene assoluto: se i mercati restano separati e non funzionano come vasi comunicanti per costi e produttività, l’euro non può e anzi non deve reggere. Ma noi siamo il secondo Paese esportatore manifatturiero del continente, e operare a moneta unificata nel più grande mercato di consumo mondiale - l’Europa è ancora questo, non per molto - è stato un grande vantaggio per moltissime imprese».

Che fare, allora?
«L’Italia deve abbattere il suo mostruoso debito pubblico dismettendo patrimonio pubblico, e non picchiando nelle tasche dei cittadini. Tutto il mattone statale, cioè per cominciare almeno 400 miliardi, 27 punti di pil, va girato a un fondo immobiliare gestito tramite gara da privati, che lo cederanno nei tempi più adeguati al miglior realizzo. Questo fondo potrebbe emettere obbligazioni per una volta e mezzo almeno la stima del patrimonio».

È questa la ricetta per Monti?
«Sono molto deluso dal governo, che pure nel mio piccolo ho contribuito a legittimare di fronte a centinaia di migliaia di ascoltatori ogni giorno, prima della sua nascita e ai suoi primi atti. Non ha toccato la montagna stregata della pubblica amministrazione. Che pena questi “tecnici” che presentano come gran cosa tagliare 4 miliardi su 700 di spesa pubblica, cioè lo 0,57%, quando decine di migliaia di imprese italiane affrontano crisi in cui si taglia anche il 25-30% di costi da un anno all’altro».

Cosa devono fare, invece?
«Abbattere il debito con le cessioni pubbliche, ma nel frattempo tagliare anche la spesa per un equilibrio di entrate a un livello ben più basso di quello immaginato da Monti con la manovra triennale. Risparmiare in tre anni di impegno pancia a terra 6-7 punti di pil di spesa improduttiva, da tradurre a parità di saldi in abbattimenti fiscali per lavoro e impresa. In ballo c’è la sopravvivenza economica dell’impresa e del lavoro italiani. Con uno Stato molto più magro, e perciò costretto a diventare più efficiente».
Mauro Suttora

Wednesday, April 25, 2012

Finanziamento pubblico

360 MILIONI ANNUI DI SOLDI STATALI AI PARTITI. CHE STANNO UCCIDENDO LA POLITICA

di Mauro Suttora

Oggi, 18 aprile 2012

È da 40 anni che promettono. «Grazie al finanziamento pubblico non prenderemo più tangenti», disse il personalmente onestissimo Ugo La Malfa, segretario Pri, dopo che nel 1973 si scoprì che i petrolieri davano il 5 per cento a tutti i partiti di governo. I quali ci misero solo 16 giorni a confezionare la legge per incassare 45 miliardi di lire l'anno (250 milioni in euro odierni). «La Voce Repubblicana è salva», gioì La Malfa. Ancora oggi il giornale del Pri sopravvive con 630 mila euro annui di contributi statali.

Ma è da 20 anni che truffano. Nel 1993, infatti, il 90 per cento degli italiani bocciò il finanziamento pubblico. Percentuale altissima, mai raggiunta nella storia d'Italia. Ribadita con il 71% di un altro referendum radicale nel 2000, senza quorum. E confermata ancor oggi da tutti i sondaggi.

Eppure, i partiti continuano a prendere soldi statali. Dal '97 hanno cercato di farlo con il 4 per mille: chi voleva indicava il proprio contributo sulla dichiarazione Irpef. Un fiasco colossale: solo l'8 per cento aderì, 56 milioni di introito previsti, solo 5 incassati. Allora hanno inventato il trucco dei «rimborsi elettorali»: 200 milioni annui. Che si aggiungono ai 36 che la Camera dà ai gruppi parlamentari, ai 38 del Senato, ai 45 delle Regioni e ai 41 per i giornali di partito. Totale: 360 milioni.

Niente da fare: continuano a rubare. Lo hanno appena dimostrato i casi clamorosi dei tesorieri della Margherita (confluita nel Pd) Luigi Lusi e della Lega Nord Francesco Belsito. Nonché le proteste di alcuni deputati ex An, che non capiscono bene dove siano finiti vari milioni dopo la fusione con Forza Italia nel Pdl. Ma anche gli scandali che ormai ogni settimana colpiscono politici di ogni partito in ogni parte d'Italia: dalla Lombardia di Roberto Formigoni (consiglio regionale decimato) alla Puglia di Nichi Vendola (due avvisi di garanzia).

«Il finanziamento ai partiti è il cancro della democrazia»: lo dice Guido Rossi, ex presidente della Consob che di solito misura le parole. È preoccupato anche Pier Luigi Bersani, segretario Pd: «L'antipolitica rischia di uccidere i partiti». Beppe Grillo vola nei sondaggi. Ma i politici non danno segni di ravvedimento. Anzi. Sono scesi in campo personalmente i tre più importanti di loro, i segretari dei maggiori partiti (Pdl, Pd, Udc) Bersani, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, per firmare un disegno di legge per la «trasparenza» del finanziamento pubblico. Non un centesimo in meno, ma «controllato» da società di revisione dei conti.

«La verità è che senza soldi pubblici dovremmo chiudere», confessa Antonio Misiani, tesoriere Pd, bocconiano bergamasco. Ma come? I rimborsi elettorali non dovrebbero servire, appunto, per finanziare le campagne elettorali? E non è dimostrato che per le campagne i partiti spendono molto meno, solo 33 milioni l'anno in media? E che quindi tutto il resto finisce (fraudolentemente) all'attività ordinaria dei partiti, per pagare sedi, stipendi, fondazioni (le nuove correnti)?

Le decine di milioni rubate da Lusi o investite da Belsito in Tanzania rappresentano proprio quel surplus di soldi che i politici si vedono piovere addosso (2.300 milioni dal ’94 a oggi), e non sanno più dove mettere. Antonio Di Pietro è accusato da Elio Veltri, ex dirigente del suo partito, di gestione personalistica dei «rimborsi» elettorali. Gli ex margheritini non si sono neppure accorti degli ammanchi milionari di Lusi. «Siamo parte lesa», protestano Francesco Rutelli e Rosy Bindi. «Ma come possono candidarsi a governare dei politici che non riescono neppure a controllare il proprio tesoriere?», domanda perfido Ignazio Marino, loro compagno di partito.

«Non c’è da stupirsi», dice Mario Staderini, segretario di Radicali italiani, «abbiamo lottato da soli per 35 anni contro il finanziamento pubblico, e ora la bomba esplode. Dallo scandalo Lockheed a Tangentopoli, i fatti dimostrano che i soldi pubblici non moralizzano la politica. Anzi. I Lusi e i Belsito non sono mele marce, ma il prodotto di un sistema criminogeno che falsa il gioco democratico».

La soluzione, allora? Il modello liberale, con partiti sorretti da sottoscrizioni private. «Adottiamo il 5 per mille», propone Alfano, dimenticando il flop di 15 anni fa. Provocato però da un difetto: nella dichiarazione Irpef non si poteva indicare il singolo partito da finanziare, era un contributo per tutti. E chi mai vuole dar soldi a partiti per cui non simpatizza? L’obiezione era: non si possono «schedare» i finanziatori di ciascun partito, costringendoli a dichiarare la propria scelta. Ma è un argomento che non tiene, perché l’8 per mille alle varie Chiese garantisce invece la privacy.

«Lo Stato, poi, può contribuire alla politica non dando soldi ai burocrati di partito», propone Staderini, «ma offrendo gratis servizi a tutti i cittadini: luoghi per assemblee e riunioni, autenticatori per le firme, conoscibilità delle proposte grazie a programmi di informazione».

Perché il vero dramma dei partiti è che i soldi pubblici e il professionismo hanno ucciso il volontariato e i contributi spontanei. «Coprono appena il 10 per cento dei nostri costi», ammette Misiani del Pd. Ormai vediamo i politici come una «casta» di privilegiati con stipendi da 12 mila euro netti al mese. «Di politica campano 100 mila persone in Italia», commenta amaro Cesare Salvi, ex senatore Ds autore del libro Il costo della democrazia.

La vera «antipolitica» è quella dei politici di professione e dei partiti personalisti in cui spadroneggia un «Capo» (quasi tutti, Grillo compreso), che hanno espropriato i cittadini del gusto per la partecipazione diretta alla vita pubblica.
Mauro Suttora

Wednesday, March 31, 2010

Radicali, geniali perdenti

LE MOSCHE COCCHIERE DELLA SINISTRA

di Mauro Suttora

Libero, 31 marzo 2010

Negli stessi minuti in cui Emma Bonino ha perso per 77 mila voti la sfida laziale con Renata Polverini, una sua omonima trionfava: Emma Marrone, vincitrice di ‘Amici’ su Canale 5. Così ora sono tre le Emme nazionali: non va dimenticata la Marcegaglia di Confindustria.

Ma proprio in quei momenti dopo mezzanotte nei quali è apparso chiaro che i postfascisti ciociari e i reazionari reatini restituivano la transnazionale Emma B. al suo ambiente naturale (Bruxelles, New York, Davos, L’Aia), i radicali si erano già rialzati dal k.o.: riuniti nella loro sede nazionale dietro al Pantheon, ascoltavano Marco Pannella il quale, immune da depressioni e autocritiche, descriveva fino alle tre di notte le «iniziative di lotta che ci impegneranno da domattina».

È questa la terapia che i pannelliani adottano dopo ogni sconfitta: far finta di niente, e ricominciare immediatamente a macinare politica «contro il regime». Hanno fatto così l’anno scorso, quando per la prima volta dopo trent’anni sono stati eliminati dall’Europarlamento (colpa della tagliola veltroberlusconiana al 4%): il giorno dopo stavano già pianificando l’attuale voto regionale. È successo nel 2006, quando la rediviva Rosa nel pugno con i socialisti abortì in un pugno di mosche. L’allora segretario radicale Daniele Capezzone ripartì come un razzo a criticare il suo non ancora capo Berlusconi e, per par condicio, i propri (in teoria) allora alleati Prodi e Fassino. E fu così anche nel 2005, quando dopo la sconfitta del referendum sulla fecondazione assistita concepirono, appunto, la Rosa nel pugno.

È da sessant’anni che Pannella perde. All’inizio degli anni ’50 esordì già in minoranza nel Pli di Malagodi. Con Eugenio Scalfari se ne andò e fondò il partito radicale. Subito batoste: zero eletti al comune di Roma nel ’56, e due anni dopo alle politiche l’1,4%, ma con il Pri. In pratica, votarono per loro solo i lettori dei due settimanali «laici»: Il Mondo e L’Espresso. Non domi, i radicali da allora hanno sempre preteso di dettare la linea politica a tutti (Pci, Psi, Pri, Pli, Psdi) dall’alto del nulla del proprio consenso popolare. «Mosche cocchiere»: così, citando la favola di Fedro, Togliatti liquidava gli intellettuali che volevano comandare, o almeno consigliare e ammonire i capi, senza però sporcarsi le mani con il «sangue e merda» (© Rino Formica) della politica reale, dei voti conquistati porta a porta nelle periferie (anche a Frosinone), del contatto con le miserie della gente e i suoi vizi. Perché il vizio di tutti gli idealisti illuminati d’Italia, da Pisacane al partito d’Azione a Ugo La Malfa, è sempre stato quello che gli scienziati della politica definiscono «minoritarismo».

Ancor oggi, i radicali sono onestamente convinti di aver ragione pur essendo una microminoranza. Vendola è riuscito a strappare il 10% per il suo partitino in Puglia, sull’onda della vittoria personale? I radicali in Lazio si sono fermati al solito tre per cento, nonostante il traino della Bonino.

Nel ’99 Emma & Marco agguantarono il loro unico successo: otto per cento alle europee con punte del 18% in varie città del nord, secondo partito dopo Forza Italia. Allora stavano a destra, liberali e liberisti. Poi però non si accordarono con Berlusconi, e ripiombarono alle percentuali abituali. Chiunque, al loro posto, si sarebbe ritirato da un pezzo. Loro invece, geniali e coriacei, ora vogliono insegnare al povero Bersani come guidare il Pd. Perché solo i radicali sono il sale della democrazia, i partigiani della legalità. Non per nulla stanno dietro al Pantheon, casa di «tutti gli dei».

Mauro Suttora