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Wednesday, April 25, 2012

Finanziamento pubblico

360 MILIONI ANNUI DI SOLDI STATALI AI PARTITI. CHE STANNO UCCIDENDO LA POLITICA

di Mauro Suttora

Oggi, 18 aprile 2012

È da 40 anni che promettono. «Grazie al finanziamento pubblico non prenderemo più tangenti», disse il personalmente onestissimo Ugo La Malfa, segretario Pri, dopo che nel 1973 si scoprì che i petrolieri davano il 5 per cento a tutti i partiti di governo. I quali ci misero solo 16 giorni a confezionare la legge per incassare 45 miliardi di lire l'anno (250 milioni in euro odierni). «La Voce Repubblicana è salva», gioì La Malfa. Ancora oggi il giornale del Pri sopravvive con 630 mila euro annui di contributi statali.

Ma è da 20 anni che truffano. Nel 1993, infatti, il 90 per cento degli italiani bocciò il finanziamento pubblico. Percentuale altissima, mai raggiunta nella storia d'Italia. Ribadita con il 71% di un altro referendum radicale nel 2000, senza quorum. E confermata ancor oggi da tutti i sondaggi.

Eppure, i partiti continuano a prendere soldi statali. Dal '97 hanno cercato di farlo con il 4 per mille: chi voleva indicava il proprio contributo sulla dichiarazione Irpef. Un fiasco colossale: solo l'8 per cento aderì, 56 milioni di introito previsti, solo 5 incassati. Allora hanno inventato il trucco dei «rimborsi elettorali»: 200 milioni annui. Che si aggiungono ai 36 che la Camera dà ai gruppi parlamentari, ai 38 del Senato, ai 45 delle Regioni e ai 41 per i giornali di partito. Totale: 360 milioni.

Niente da fare: continuano a rubare. Lo hanno appena dimostrato i casi clamorosi dei tesorieri della Margherita (confluita nel Pd) Luigi Lusi e della Lega Nord Francesco Belsito. Nonché le proteste di alcuni deputati ex An, che non capiscono bene dove siano finiti vari milioni dopo la fusione con Forza Italia nel Pdl. Ma anche gli scandali che ormai ogni settimana colpiscono politici di ogni partito in ogni parte d'Italia: dalla Lombardia di Roberto Formigoni (consiglio regionale decimato) alla Puglia di Nichi Vendola (due avvisi di garanzia).

«Il finanziamento ai partiti è il cancro della democrazia»: lo dice Guido Rossi, ex presidente della Consob che di solito misura le parole. È preoccupato anche Pier Luigi Bersani, segretario Pd: «L'antipolitica rischia di uccidere i partiti». Beppe Grillo vola nei sondaggi. Ma i politici non danno segni di ravvedimento. Anzi. Sono scesi in campo personalmente i tre più importanti di loro, i segretari dei maggiori partiti (Pdl, Pd, Udc) Bersani, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, per firmare un disegno di legge per la «trasparenza» del finanziamento pubblico. Non un centesimo in meno, ma «controllato» da società di revisione dei conti.

«La verità è che senza soldi pubblici dovremmo chiudere», confessa Antonio Misiani, tesoriere Pd, bocconiano bergamasco. Ma come? I rimborsi elettorali non dovrebbero servire, appunto, per finanziare le campagne elettorali? E non è dimostrato che per le campagne i partiti spendono molto meno, solo 33 milioni l'anno in media? E che quindi tutto il resto finisce (fraudolentemente) all'attività ordinaria dei partiti, per pagare sedi, stipendi, fondazioni (le nuove correnti)?

Le decine di milioni rubate da Lusi o investite da Belsito in Tanzania rappresentano proprio quel surplus di soldi che i politici si vedono piovere addosso (2.300 milioni dal ’94 a oggi), e non sanno più dove mettere. Antonio Di Pietro è accusato da Elio Veltri, ex dirigente del suo partito, di gestione personalistica dei «rimborsi» elettorali. Gli ex margheritini non si sono neppure accorti degli ammanchi milionari di Lusi. «Siamo parte lesa», protestano Francesco Rutelli e Rosy Bindi. «Ma come possono candidarsi a governare dei politici che non riescono neppure a controllare il proprio tesoriere?», domanda perfido Ignazio Marino, loro compagno di partito.

«Non c’è da stupirsi», dice Mario Staderini, segretario di Radicali italiani, «abbiamo lottato da soli per 35 anni contro il finanziamento pubblico, e ora la bomba esplode. Dallo scandalo Lockheed a Tangentopoli, i fatti dimostrano che i soldi pubblici non moralizzano la politica. Anzi. I Lusi e i Belsito non sono mele marce, ma il prodotto di un sistema criminogeno che falsa il gioco democratico».

La soluzione, allora? Il modello liberale, con partiti sorretti da sottoscrizioni private. «Adottiamo il 5 per mille», propone Alfano, dimenticando il flop di 15 anni fa. Provocato però da un difetto: nella dichiarazione Irpef non si poteva indicare il singolo partito da finanziare, era un contributo per tutti. E chi mai vuole dar soldi a partiti per cui non simpatizza? L’obiezione era: non si possono «schedare» i finanziatori di ciascun partito, costringendoli a dichiarare la propria scelta. Ma è un argomento che non tiene, perché l’8 per mille alle varie Chiese garantisce invece la privacy.

«Lo Stato, poi, può contribuire alla politica non dando soldi ai burocrati di partito», propone Staderini, «ma offrendo gratis servizi a tutti i cittadini: luoghi per assemblee e riunioni, autenticatori per le firme, conoscibilità delle proposte grazie a programmi di informazione».

Perché il vero dramma dei partiti è che i soldi pubblici e il professionismo hanno ucciso il volontariato e i contributi spontanei. «Coprono appena il 10 per cento dei nostri costi», ammette Misiani del Pd. Ormai vediamo i politici come una «casta» di privilegiati con stipendi da 12 mila euro netti al mese. «Di politica campano 100 mila persone in Italia», commenta amaro Cesare Salvi, ex senatore Ds autore del libro Il costo della democrazia.

La vera «antipolitica» è quella dei politici di professione e dei partiti personalisti in cui spadroneggia un «Capo» (quasi tutti, Grillo compreso), che hanno espropriato i cittadini del gusto per la partecipazione diretta alla vita pubblica.
Mauro Suttora

Wednesday, September 09, 2009

I figli di Berlusconi

Barbara, Eleonora e Luigi contro Marina e Pier Silvio: a tutti il 20% del patrimonio, o 17% per i primi e 25% per i secondi?

di Mauro Suttora

Oggi, 2 settembre 2009

Fossero soltanto i figli dell’uomo più ricco d’Italia, già farebbero notizia. Poiché papà è anche presidente del consiglio, doppia notizia. Se poi papà diventa «papi», sballottato per mesi da scandali rosa, triplo riflettore. A questo aggiungete che mamma ha chiesto rumorosamente il divorzio: tutti quindi a scrutare il minimo segnale di un loro pencolamento da una parte o dall’altra.
Ma ora i cinque figli di Silvio Berlusconi ci aggiungono del loro. Perché la primogenita ventenne di secondo letto (Barbara) insidia il primato della primogenita quarantenne di primo letto (Marina), dichiarando in pubblico il suo interesse per l’azienda di cui la sorellastra è presidente, mentre lei per ora «soltanto» consigliere d’amministrazione (immaginate il clima alla prossima riunione del cda Mondadori...). E minaccia apertamente: «Se mio padre sarà giusto ed equo nella divisione dei suoi beni, fra noi non ci saranno conflitti».
Con quel «se» si rischia di andare dritti verso uno spiacevole «clima Agnelli», con famiglia scarnificata da lotte e processi. Perché il divorzio anticipa ad adesso tutte le divisioni ereditarie. In breve: quote eguali del 20 per cento a tutti i figli, come vuole Veronica, oppure metà ai due del primo matrimonio (che quindi avrebbero ciascuno il 25%) e metà ai tre del secondo (che varrebbero solo il 17%)? Per non parlare degli eventuali fondi all’estero: dovranno «riemergere» tutti, per essere conteggiati nel patrimonio.
Insomma, estate calda quella 2009 per i berluschini. Ormai pericolosamente divisi: c’è voluta tutta l’arte magica del povero padre (come se non gli bastassero Noemi e Gheddafi, Patty e Fini...) per convincere Marina ad accettare la presenza di Barbara alla sua festa di compleanno del 10 agosto in Sardegna. E se i maggiori se ne stanno lontani e tranquilli nelle ville in Francia e Bermuda, i tre figli di Veronica impazzano con codazzo di amici nei principali locali di Costa Smeralda (Blu Beach, Sottovento e Billionaire, tutto in poche ore) e poi di Milano, al rientro (Ricci, «bar dei ricchi», e ristorante Giannino).
Cosa succede? Tutti gli anni di rigorosa educazione steineriana impartiti dalla mamma si stanno sfaldando all’impatto col glamour? Per capirne di più, consultiamo la massima berlusconologa côté Macherio: Maria Latella, che ha appena aggiornato il suo fortunato libro Tendenza Veronica del 2004. Con una velenosa ipotesi di ricovero di nonno Silvio in una clinica per maniaci sessuali...
«I tre figli di Veronica stanno studiando sodo», ci dice Latella, dissipando i sospetti su un’eventuale sindrome da figli di papà, viziati e sfaccendati: «Barbara, che all’università propendeva per economia gestionale, ha seguito il proprio istinto e ha scelto filosofia. E nonostante i due figli, in autunno si laurea con tesi su Etica aziendale. Relatore: Guido Rossi».
Ah: nemico del padre, parrocchia De Benedetti.
«È stato il suo professore di filosofia del diritto all’università San Raffaele. Eleonora invece si è laureata in Business management alla St. John University di New York, e ora farà uno stage di un anno in una tv americana. Anche Luigi, nonostante studi economia alla Bocconi, è attratto dall’estero: quest’estate e la scorsa ha lavorato a Londra nella finanza, ed è in partenza per un anno di Erasmus in Cina».
Barbara sta fissa con Giorgio Valaguzza, padre dei suoi figli, Eleonora ha fidanzato/i americano, Luigi ha avuto una storia con la nipote di Salvatore Ligresti.
«Non so molto della loro vita privata. Quel che è certo, è che Barbara ha scelto consapevolmente di avere presto i figli, per poi dedicarsi alla carriera».
Il contrario di quel che succede abitualmente.
«Ma sempre più frequente, almeno fra chi se lo può permettere».
E non si è sposata.
«In famiglia il matrimonio ritardato è una costante: è capitato anche a suo padre con Veronica, e a Marina, che ha sposato Maurizio Vanadia soltanto nove mesi fa, ben sei anni dopo la nascita del primo figlio».
Nel libro racconti che Veronica ha seguito molto da vicino l’educazione dei figli.
«Sì. Mai avuto una babysitter. Quand’erano piccoli leggeva loro un paio di articoli di giornale ogni sera a cena, e sollecitava commenti. La passione di Barbara per la carta stampata deriva da lì. Ma Veronica non è mai stata una madre soffocante o apprensiva: quando a 15 anni Luigi volle correre in go-kart glielo permise, anche se è notoriamente pericoloso: “Il rischio i giovani maschi se lo vanno comunque a cercare”, disse, “tanto vale che lo facciano per sport”. Dopo la scuola steineriana a Milano tutti e tre hanno frequentato il liceo Villoresi di Monza...»
Vicino a casa.
«Sì, in tutti loro c’è attaccamento per il territorio. Gli amici dei figli sono in gran parte ancora quelli del liceo, Barbara e Valaguzza si sono conosciuti lì. Spesso i figli dei ricchi vengono mandati in collegio in Svizzera, o in una boarding school americana. Barbara invece non ha voluto neppure prendersi una casa a Milano: vive col suo Giorgio e i figli in una dépendance della villa di Macherio. E Pier Silvio abita ad Arcore con la sua Silvia Toffanin».
Anche papà Silvio sta allestendo un nuovo villone con megaparco a Gerno di Lesmo (Monza), a metà strada fra Arcore e Macherio. Gira e rigira, Bermuda o Portofino, sempre in Brianza si torna. A proposito, lui condivide le scelte dei tre figli minori?
«Penso di sì. L’unico dispiacere di Berlusconi, forse, è che Eleonora, arpista dalla voce bellissima, non canti mai in pubblico. Barbara suona il piano. E Luigi ha fatto teatro con corsi al Piccolo teatro. Quand’era piccolo se ne uscì con questa frase: “Ma come faccio a fare l’attore se non sono gay?”»
Comè che Barbara se n’è uscita con quelle imbarazzanti allusioni sulla Mondadori e la divisione dei beni? Non ha un ufficio stampa che controlla le sue interviste?
«No. Niente addetti stampa. Tutto da soli».

Mauro Suttora