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Friday, August 06, 2021

Rossi e Buffon: quanto è doloroso il viale del tramonto. Viva Aznavour

È sempre difficile dire basta per un campione. Ma una stella cometa c'è: Aznavour

di Mauro Suttora

HuffPost, 5 agosto 2021


Evviva la sincerità. Gigi Buffon, 44 anni a gennaio, oggi ha spiegato a Repubblica perché continua a giocare. Lascia la Juve e va al Parma in serie B. Perché? “Mi sento un artista, quindi ho sempre il desiderio di mettere in mostra il gesto. Per appagamento personale e una certa dose di narcisismo”. 

Auguriamo al grande campione lo stesso successo che ha avuto il ritorno del 39enne Ibrahimovic al Milan.

Poche ore dopo, un altro mito dello sport mondiale rende invece noto il proprio ritiro a fine stagione: Valentino Rossi. Chi ha ragione? Il portierone o il dottore? Qual è il momento giusto per andarsene?

“Devi sapere lasciar la tavola/ la dignità devi salvar/ Alzarti con indifferenza/ mentre in silenzio soffri tu”, cantava Aznavour. Il quale peraltro si è esibito fino a 94 anni, pochi mesi prima di morire. Nello sport, nell’arte, in politica e in tutti i campi della vita compreso l’amore, è difficile dire basta. A volte impossibile. 

“Non vi preoccupate, sono morto tante volte”, dice Charlie Chaplin alla fine di ‘Luci della ribalta’. Ma in realtà, soltanto Gesù Cristo è risorto. E non per finire in serie B. 

Fa bene Buffon a giocare fino a quando si diverte. E a fregarsene di chi sentenzia che è meglio lasciare quando si è ancora all’apice del successo. Per evitare mestizie come quelle capitate a Valentino nelle ultime due stagioni.

Ma in fondo, cosa cambia? Se Napoleone non fosse scappato dall’Elba avrebbe evitato Waterloo, però avrebbe continuato l’esilio in un’isola vicina invece che lontana. 

Sono scommesse, qualcuno le vince: Muhammad Ali contro Foreman, Amintore ‘rieccolo’ Fanfani ancora premier a 79 anni, i ritorni di Churchill e De Gaulle negli anni ’50, Scalfari editorialista 97enne del suo giornale.

Buffon ha davanti a sé l’esempio del portiere inglese Shilton in campo fino a 47 anni, e anche il laziale Ballotta ne aveva quasi 44 quando disputò l’ultima partita in Champions. 

Quanto a Valentino Rossi, probabilmente lo ha tenuto in pista la voglia di raggiungere Giacomo Agostini (ritiratosi a 35 anni) nel numero dei GP vinti: 122 a 115, record inarrivabile perché allora si gareggiava contemporaneamente in due classi. O forse l’esempio di Max Biaggi, campione mondiale di Superbike a 41 anni.

Alla fine, comunque, decide il mercato. Oppure Spalletti, nel caso del suo martire personale Totti. Finché una squadra o una scuderia ti vogliono, perché no? 

La verità è che Sunset Boulevard è uno dei viali più belli e lunghi di Los Angeles, nessuna attinenza al malinconico film sul ‘Viale del Tramonto’ della patetica attrice che non vuole mollare. 

Ecco, piuttosto: “Non mollare mai”. Uno dei più agghiaccianti e popolari slogan degli ultimi tempi. Finché lo sventolano sventurati e svalvolati atleti vincitori alle Olimpiadi, li perdoniamo: sono solo vittime dei loro mental coach, ai quali tocca gasarli per guadagnarsi lo stipendio.

Il dramma è quando questa cieca ostinazione si impossessa di tutti noi. Raggiungendo lo zenit fra gli innamorati respinti, e allora gli esiti possono essere tragici: dalle molestie allo stalking, giù fino al femminicidio. 

Rischio che non corre il nostro amatissimo Buffon, felice marito di una delle donne più belle e intelligenti d’Europa.

Mauro Suttora

Wednesday, July 15, 2020

Se il tribalismo colpisce anche il NY Times

La responsabile degli op-ed si dimette


Mauro Suttora

15 luglio 2020, Huffington Post


articolo sull'HuffPost

Povero John Kennedy. “Un Paese che ha paura di far scegliere ai propri cittadini il vero e il falso in un mercato libero è un Paese che ha paura dei propri cittadini”, disse nel 1962 per il ventennale di Voice of America, la radio del governo Usa usata contro i nazifascisti e poi contro i comunisti.

Pensavamo tutti che gli Stati Uniti fossero il non plus ultra della libertà, e in particolare della libertà d’informazione. Invece le dimissioni quasi contemporanee di Bari Weiss dal New York Times e di Andrew Sullivan dal New York Magazine ci ricordano che gli statunitensi possono essere anche intolleranti: dalla Lettera scarlatta al proibizionismo, dal Ku Klux Klan al maccartismo.

La 36enne Bari Weiss non era una semplice giornalista del Times, né un’opinionista. Era una editor delle pagine op-ed del principale quotidiano Usa. Il quale ha l’ottima abitudine non solo di separare perfino fisicamente, in pagine e redazioni diverse, le notizie dalle opinioni (pratica per noi esotica), ma anche di distinguere i commenti fra quelli che esprimono la linea ufficiale del giornale (editoriali) e quelli aperti a qualsiasi tendenza (op-ed, appunto: open editorials).

Eugenio Scalfari ricorse alla testatina “Diverso parere” quando quasi 40 anni fa ospitò il liberale Alberto Ronchey su Repubblica, orientata a sinistra. E ogni tanto anche oggi qualche direttore affianca un proprio articolo a un altro che lo contraddice. Ma non è frequente, nell’Italia delle parrocchie contrapposte. Ammettiamolo: non siamo popperiani.

Ammiravamo per questo il giornalismo anglosassone. E invece anche per loro è arrivato il momento del “tribalismo”, come lo definisce la Weiss nella sua brillante lettera di dimissioni, che andrebbe tradotta e proposta a tutti gli opinionisti fai-da-te nei social.

Weiss, ex Wall Street Journal, era stata imbarcata dal sussiegoso Times quattro anni fa per proporre un “diverso parere” ai propri lettori, disorientati dalla vittoria di Trump. Da allora ha scritto e fatto pubblicare opinioni di destra su un giornale di sinistra. Esercizio intellettualmente stimolante (“vediamo cos’hanno da dire questi zoticoni di trumpiani”), ma neurologicamente devastante per lei. Soprattutto dopo le due recenti ondate di ‘correttezza politica’ che hanno sommerso gli Usa. O perlomeno Manhattan, dove si concentrano i lettori del Times e Trump non arriva al 20%.

Il primo tornado è stato nel 2017 il ‘Me too’: la riscossa antimaschilista dopo lo scandalo Weinstein. Anche solo sospettare che qualche attrice potesse avere usato invece che subìto il divano del produttore era impensabile. La lettera S di sessismo stava lì pronta per essere marchiata a fuoco sul grasso pancione del maiale, come Noomi Rapace in ‘Uomini che odiano le donne’.

Da due mesi invece infuria il ‘Black Lives Matter’, la riscossa antirazzista dopo l’omicidio Floyd. E una delle vittime è stato il diretto superiore della Weiss, il capo degli editoriali del NY Times spinto alle dimissioni per aver osato pubblicare l’op-ed di un senatore repubblicano favorevole all’intervento dell’esercito per fronteggiare sommosse violente.

La Weiss è stata a sua volta sommersa di tweet con ogni tipo di insulto e accusa, dall’ormai inflazionato ‘razzista’ al simpatico ‘nazista’, visto che è ebrea.

Stessa storia per Andrew Sullivan, altro storico commentatore controcorrente: vent’anni fa provocò borborigmi nei benpensanti di sinistra Usa perché proprio lui, progressista (e gay, anche se c’entra poco), appoggiò le guerre di Bush junior (come Biden, d’altronde, anche se ora non gli piace ricordarlo).

Sullivan e Weiss probabilmente ora fonderanno un sito dei senzapatria. Impresa voltairiana rischiosissima, perché sia nel giornalismo che in politica, e sia negli Usa che in Italia, vince invece il tribalismo. O di qua o di là, ciascuno nella propria tribù. Felici di sentirsi ripetere le rispettive “narrazioni” (sinonimo di fandonie propagandiste) di destra e sinistra. I politici devono farsi votare ogni quattro anni, i giornali devono farsi comprare o cliccare ogni giorno. Ma il principio è lo stesso: attirare e fidelizzare i già convinti. Così il mercato si estremizza e scompaiono, al centro, neutrali e moderati. Politicamente e commercialmente sciapi, asettici, poco interessanti.

In tv o Fox o Cnn. Nella stampa o Washington Post (di Jeff Bezos, Amazon) e New York Times (di editore puro) a sinistra; oppure New York Post e Wall Street Journal (di Murdoch) a destra.
Tertium non datur. Per certi progressisti ora il tumore alla cervice non è più prerogativa femminile, perché così si discriminano i maschi trans, ex donne. 
E secondo certi conservatori Biden è in combutta con Bill Gates per vaccinare (avvelenare) il mondo intero con la scusa del covid.

A pensarci bene, però, la sinistra Usa ha già vinto. Perché la da loro detestata Bari Weiss non si definisce di destra. Dice che è “di centro”. Quindi perfino per lei “destra” è una parola vergognosa. Non ha neppure il coraggio e l’onestà di confessare la propria tribù. Pretende di essere al di sopra delle parti. Perché in fondo anche lei è una giornalista privilegiata, addirittura pagata per distillare opinioni. Perciò irrimediabilmente radical chic, è la sentenza finale del Napalm 51 americano (di entrambe le tifoserie: contrapposte, ma simmetricamente eguali).
Mauro Suttora

Monday, May 23, 2016

Perché Pannella non lo votava nessuno?

ALLE ULTIME ELEZIONI DEL 2013 I RADICALI HANNO PRESO LO 0,3%

di Mauro Suttora

Oggi, 25 maggio 2016

Ma chi era veramente Marco Pannella? Come mai abbiamo santificato un uomo politico al quale nelle ultime elezioni, tre anni fa, abbiamo dato appena lo 0,3% dei nostri voti?

Nel 2013 i radicali non sono riusciti neppure a raccogliere le firme per presentarsi in metà delle regioni. Perciò oggi, quando la sua compagna Emma Bonino dice che «alcuni omaggi sanno di ipocrisia», si riferisce a tutti gli italiani, e non solo ai politici: «Amateci di meno e votateci di più», ha invitato, da concreta piemontese.

Il problema è che i radicali sono sempre stati un disastro, nelle urne. Il partito fondato  60 anni fa da Pannella ed Eugenio Scalfari (fra gli altri) alle prime politiche nel 1958 racimolò appena l’1,4%. Ed era alleato con i repubblicani, che da soli al voto precedente avevano preso l’1,1. Quindi, anche allora valevano lo 0,3%.
Alle comunali del ’60 riuscirono a eleggere l’attore Arnoldo Foà a Roma e Scalfari con lo scrittore Elio Vittorini a Milano (a Torino candidavano Norberto Bobbio). 

Un risultato che sperano di replicare il prossimo 5 giugno, sull’onda del ricordo di Pannella: Marco Cappato corre a Milano e il segretario di Radicali Italiani Riccardo Magi a Roma, in una lista di appoggio al pd Roberto Giachetti (ex radicale). 
Ma dovranno superare il 3%. E questo è successo solo tre volte nella storia: nel 1979 con Leonardo Sciascia, nell’84 grazie a Enzo Tortora, e nel ’99 con la lista Bonino che toccò l’8%.

Come mai Pannella non lo ha mai votato quasi nessuno? La risposta, curiosamente, arriva dal cantante Enrico Ruggeri. Che radicale non è, ma nel 2003 presentò a Sanremo la canzone Nessuno tocchi Caino contro la pena di morte (una delle innumerevoli campagne radicali): «A Pannella non interessava il consenso. Tutti i politici parlano con lo scopo di essere votati, lui no. Lui voleva solo ottenere risultati per le sue iniziative».

Lo spiegava Pannella stesso: «Io non “faccio” politica. Non “prendo posizioni”. Io lotto». Eppure non era un antipolitico come Beppe Grillo. Al contrario: prese la sua prima tessera di partito (liberale) a 15 anni, nel 1945. E per tutta la sua vita è stato un politico a tempo pieno, tranne qualche anno come giornalista (per Il Giorno nel 1959-62 e per l’Espresso nel 1973, quando seguì Mitterrand in Francia).

Ma ha sempre combattuto i politici se degenerano in Casta. Trent’anni prima del fortunato libro di Rizzo e Stella lottava contro la «partitocrazia» e il finanziamento pubblico ai partiti (quasi vinto il primo referendum del ’78). Per questo è riuscito a mantenere la fama di politico atipico e onesto.

Lo stesso è successo per un’altra battaglia di Pannella: l’anticlericalismo. Come mai è diventato amico di papa Francesco, lui legalizzatore di aborto e divorzio, superlaico, fautore dell’eutanasia, che ancora pochi anni fa sventolava cartelli “No Vatican no Taleban” contro il cardinale Ruini che lo aveva sconfitto nel referendum sulla fecondazione assistita del 2005? «Perché il clericalismo è solo una degenerazione del vero sentimento religioso. E noi radicali siamo sempre stati credenti. In altro che nella “roba”».
Mauro Suttora


Wednesday, December 09, 2015

Intervista a Forattini

Nuovo libro-antologia del padre della satira contemporanea. Che continua a sparare a zero. Renzi? «Un fenomeno passeggero» Grillo? «Meglio resti in teatro» La Boschi? «Non so disegnare donne belle». E così via, sbeffeggiando

di Mauro Suttora

Oggi, 2 dicembre 2015

È il suo 58esimo libro. Dopo cinque milioni di copie vendute, il Forattone (Mondadori) è anche un po’ antologia «perché le mie prime raccolte non si trovano più». In più, asta per il Fai delle sue vignette.

Giorgio Forattini, 84 anni, è il padre della satira italiana. Prima di lui, in Francia, Plantu e Wolinski: «I miei modelli. Poco testo, disegni muti».

Cominciò tardi.
«A 40 anni. Prima ero rappresentante di commercio. Sempre in giro per l’Italia in auto. I cortei del ’68 mi infastidivano: bloccavano il traffico».

Però cominciò in un giornale comunistissimo.
“Sì, Paese Sera. Facevo il grafico. Poi Panorama, divenni famoso per il Fanfani tappo di spumante eiettato col referendum del divorzio».

Fondatore di Repubblica esattamente 40 anni fa: gennaio 1976.
«Mi chiamò Melega, ex di Panorama. Sto nella foto della prima copia in tipografia, col direttore Scalfari».

Lo legge?
«No. Scrive ancora Scalfari? Pare che ora parli solo col papa e con Dio». 
 
E D’Alema?
«C’è ancora D’Alema? Fu per causa sua che me ne andai da Repubblica».

Cosa successe?
«Lui querelò me, ma non il giornale. Caso unico. Il direttore Ezio Mauro non mi difese. Così andai alla Stampa: Agnelli mi offriva la prima pagina».

Anche i giornalisti furono freddi.
«Ordine, sindacato: tutti zitti».

Il fax le cambiò la vita.
«Non dovevo più andare in redazione ogni giorno. Disegnavo da casa, da Roma, Milano, Parigi. Ero libero».

Si fa per dire.
«No, veramente. Quasi mai censurato. Al massimo Scalfari mi telefonava: “Ce ne mandi un’altra?”»

Ora mette le sue vignette sul web.
«Sì, nel mio sito. Gratis. Mi viene un’idea al giorno, disegno e pubblico. Quella sulla strage di Parigi l’ha fatta vedere Porro su Virus, a Rai2».

Che pensa di Renzi?
«Lo ritraggo col naso di Pinocchio».

Bugiardo?
«Non lo condidero importante. È un fenomeno passeggero».

La Boschi?
«Non riesco a disegnarla. Le belle donne non sono caricaturabili».

La Bindi?
«C’è ancora la Bindi? E la Jotti? Con loro sì che mi divertivo».

Grillo?
«Che torni al teatro. Sarebbe un ottimo personaggio della tragedia greca».

Lei, come Pansa, è passato dalla sinistra alla destra. Perché?
«A destra hanno più senso dell’humour. E a sinistra, troppi radical chic».

Ora vanno in barca, fanno vino.
«Avevo previsto questa involuzione. Misi Berlinguer in vestaglia: scandalo, qualcuno voleva linciarmi».

La accusano di essersi inacidito.
«Chi? Per strada mi salutano tutti con simpatia».

Quelli di sinistra.
«Solo loro mi considerano un nemico. A destra al massimo si lamentano».

Chi preferisce, fra i colleghi?
«Altan, Vincino. Crozza. Giannelli: lo mandai io al Corriere della Sera».

Che personaggi ha risparmiato?
«Ho preso in giro papi su singoli episodi. Ma Dio per me è un vecchio bonario. Non sono mai stato blasfemo».

Il politico più tollerante con lei?
«Spadolini. Mi chiedeva sempre i miei disegni più perfidi su di lui».

Il più irascibile?
«Craxi. Ma era un vero politico».

Perché, oggi non sono veri?
«Non ci sono più i partiti. La partitocrazia ha perso».

Quindi lei ha vinto.
«Eh. Magari».
Mauro Suttora

Wednesday, November 12, 2014

Chi sono gli anti-Renzi


I NEMICI? IN CASA
Le opposizioni fanno il loro mestiere. Ma le vere minacce per il premier arrivano dalle minoranze Pd e dai sindacalisti di sinistra Camusso e Landini. I "rottamati" ex comunisti potrebbero andarsene e fondare un nuovo partito

Oggi, 5 novembre 2014

di Mauro Suttora

«Dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io». I problemi, per il premier Matteo Renzi, arrivano più dai suoi compagni del Partito democratico che dagli avversari. Di qualunque cosa si discuta, infatti - riforma del Senato, nuova legge elettorale, articolo 18 dello Statuto dei lavoratori - le resistenze più forti, fastidiose e inaspettate giungono dall’interno del Pd.

Gianni Cuperlo, suo avversario alle primarie per la segreteria un anno fa (prese il 18% dei voti, contro il 67% di Renzi): «Il progetto di Renzi è vecchio, ma resto nel partito per rilanciare la sinistra», ha detto, preferendo andare alla manifestazione Cgil contro il governo del 25 ottobre, piuttosto che a quella contemporanea dei renziani all’ex stazione Leopolda di Firenze.

Anche Pippo Civati, forte del suo 14% alle primarie, è in odore di scissione: potrebbe confluire in un nuovo partito di sinistra con quel che resta di Sel (Sinistra, ecologia e libertà) di Nichi Vendola, gli ex grillini, la Fiom di Maurizio Landini e dissidenti Pd come l’ex giornalista Corradino Mineo o l’ex magistrato Felice Casson. Il suo prossimo campo di battaglia è il Jobs Act (riforma del lavoro): «È di destra. Voterò contro».

Punto debole: il senato

Alla Camera Renzi può permettersi che qualche dissidente non voti le numerose fiducie che il suo governo impone (strozzando i dibattiti) per stare nei tempi dei decreti legge: 60 giorni dalla loro emanazione. Ma al Senato la maggioranza Pd-Ncd-Udc-Scelta civica ha solo una ventina di senatori in più dell’opposizione, quindi i voti sono spesso sul filo del rasoio.

Ormai gli ex pesi massimi del Pd sono stati rottamati e umiliati in ogni modo da Renzi: da Massimo D’Alema a Pier Luigi Bersani, da Rosy Bindi a Walter Veltroni ed Enrico Letta. Normale, quindi, che non perdano occasione per criticarlo. Ma le loro correnti ormai si sono sfaldate: chi è passato dalla parte del segretario-premier è stato premiato (con la presidenza del Pd Matteo Orfini, con il ministero della Cultura Dario Franceschini). Quelli che resistono, come l’ex viceministro dell’Economia nel governo Letta, Stefano Fassina, si sentono sempre più stranieri in casa loro.

Forte del 40,8% ottenuto alle Europee di cinque mesi fa, e dei sondaggi che lo vedono sempre con una popolarità personale del 50-60%, Renzi avanza baldanzoso, noncurante delle critiche. Che però cominciano ad arrivargli da personaggi che finora lo avevano guardato con simpatia. Ferruccio de Bortoli a settembre lo accusò di inconcludenza. Da allora comunque il suo Corriere della Sera non si è accanito contro il governo, pur avendone il motivo: il raddoppio delle tasse sulle pensioni integrative previsto dalla legge di stabilità. L’altro grande quotidiano, Repubblica, continua a pubblicare ogni domenica le reprimende del fondatore Eugenio Scalfari.

Ma, in campo giornalistico, è soprattutto la tenaglia fra la sinistra del Fatto (Antonio Padellaro e Marco Travaglio) e la destra di Libero (Maurizio Belpietro) ad angustiare Renzi. Non passa giorno senza che questi due quotidiani lo accusino come minimo di golpismo e bancarotta.

Anche Il Giornale di Alessandro Sallusti non è tenero, ma deve tener conto della posizione del proprio editore. E la famiglia Berlusconi, dopo il famoso patto del Nazareno siglato a inizio anno fra Silvio e Renzi, è gentile con il premier. Conta su di lui per non arrivare a elezioni nel 2015, che vedrebbero il tracollo di Forza Italia (data al 15-17% nei sondaggi). Ma, soprattutto, c’è la simpatia personale di Berlusconi verso Renzi. «Peccato che sia di sinistra», ripete spesso il Cavaliere. Il quale tende a considerare il premier quasi un figlioccio, più affidabile dei vari traditori Fini e Alfano.

Così, sulla scia del capo anche i berlusconiani - in teoria all’opposizione - sono benevoli con Renzi. Alcuni addirittura entusiasti (Giuliano Ferrara e Denis Verdini, che tiene i contatti giornalieri col governo). Altri con scetticismo, come Vittorio Feltri e Daniela Santanchè. Irriducibili antirenziani rimangono solo il presidente dei deputati Renato Brunetta, Raffaele Fitto e Daniele Capezzone. Ma, in caso di difficoltà del governo con i numeri al Senato, i forzisti potrebbero arrivare in aiuto.

Insomma, alla fine gli unici veri oppositori di Renzi sono Susanna Camusso, segretaria della Cgil lanciata verso lo sciopero generale, Beppe Grillo, Matteo Salvini della Lega e Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia. Ma è normale che facciano il loro lavoro. Più insidioso, per Renzi, è il fronte interno. Quello di un Pd che si sta sfaldando (iscritti crollati dai 500 mila di un anno fa ai 200 mila di oggi), di giornali del suo partito che chiudono (Unità, Europa), e di suoi parlamentari che non vedono l’ora di logorarlo sui singoli provvedimenti, come fece Vannino Chiti a luglio sulla riforma del Senato.

Per questo è possibile che a gennaio, finito il semestre europeo e con un presidente Giorgio Napolitano stanco per ragioni d’età, Renzi rompa gli indugi e convochi un voto anticipato primaverile. Con qualsiasi legge elettorale, sperando di replicare il 41% dello scorso maggio. E di piazzare in Parlamento dei veri amici.
Mauro Suttora

Sunday, January 06, 2013

-50 giorni dal voto


Oggi, 2 gennaio 2013

di Mauro Suttora

La «salita in politica» di Mario Monti ha sorpreso molti. Il premier preferisce dire così, invece di «scendere in campo», per rispetto all’attività che ha abbracciato da un anno. Ma il risultato non cambia. La decisione di partecipare direttamente alle elezioni del 24 febbraio, invece di restare «sopra le parti», ha scatenato le reazioni più diverse.

Entusiasti, ovviamente, i centristi. Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e tutti coloro che coltivavano da tempo la speranza di agganciarsi a Monti ora possono usare nelle loro liste il nome del premier. In concreto, secondo i sondaggi, questo significa quadruplicare i voti: dal 5 fino al 20 per cento.

Il centrosinistra invece è perplesso. Pier Luigi Bersani non critica la scelta del premier, ma sperava che non si schierasse. In cambio della sua neutralità probabilmente gli avrebbe offerto la presidenza della Repubblica. Ora ha un avversario in più, che potrebbe impedirgli di avere la maggioranza al Senato (quella alla Camera sembra abbastanza sicura per il Pd).

Sivio Berlusconi invece è scatenato: «Monti ha tradito la sua posizione di tecnico», lo accusa. E promette addirittura una commissione d’inchiesta sul «golpe» che lo avrebbe disarcionato nel 2011, ispirato da poteri forti europei e dalla detestata Angela Merkel, cancelliera tedesca.

Alle ali, Beppe Grillo come sempre non fa distinzioni fra Monti, Pd e Pdl: tutti da cacciare. Idem la Lega, che ha una sola parola d’ordine: «Il 75 per cento delle nostre tasse resti al Nord». E all’estrema sinistra si candida Antonio Ingroia, magistrato antimafia: con lui Antonio Di Pietro e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris.

Ma forse i più delusi dall’inedito Monti che smette i panni di Cincinnato per gettarsi nella mischia sono i due suoi ex sostenitori più importanti: il presidente Giorgio Napolitano ed Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica. Il primo ha cercato di dissuaderlo, senza esito. Il secondo adesso lo implora: «Non creare una nuova Dc».

Il Vaticano, in effetti, ha già «benedetto» il nuovo Centro montiano. Sperando che non finisca stritolato dal bipolarismo, come accadde a Partito popolare e patto Segni nel 1993. C’è anche un altro curioso indizio che porta alla Dc. La prima riunione dei montiani è stata ospitata nel convento delle suore di Sion a Trastevere (Roma): a poche decine di metri c’è un altro convento, Santa Dorotea, dove nel ’59 nacque la maggiore corrente democristiana.

Padrone di casa è stato il ministro Andrea Riccardi, della vicina comunità di Sant’Egidio. E lì, in sole tre ore, si è consumata la prima clamorosa rottura fra i centristi. Corrado Passera, considerato finora il ministro tecnico più disponibile a trasformarsi in politico, ha subito rinunciato dopo il rifiuto di Casini a formare una lista unica.

Così, alla Camera si presenteranno varie formazioni unite soltanto dal comune richiamo all’Agenda Monti: Udc, Fli di Fini, Italia Futura di Luca Montezemolo. Ma anche il presidente della Ferrari, come Passera, non si candida. Al massimo i due verranno ripescati come ministri.

Tutto, naturalmente, dipenderà dal voto. Se il Pd avrà la maggioranza assoluta anche al Senato, potrà governare da solo. Unico alleato: Nichi Vendola di Sel (Sinistra e libertà). Ma se si ripetesse la situazione del 2006, quando Romano Prodi dipendeva dal voto dei senatori a vita per la sua risicata maggioranza, Bersani dovrà chiedere aiuto a Monti e Casini. In cambio, potrebbe concedere loro il Quirinale e vari ministeri.

Fra i ministri del centrosinistra, pare che rientreranno dalla finestra i big usciti dalla porta: Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Non più parlamentari, per loro si parla di dicasteri importanti come Esteri e Interni.

Nel centrodestra non ci si aspetta granché da queste elezioni. I sondaggi sono quello che sono. Sarà già tanto conquistare il secondo posto dietro al Pd, senza essere superati dal Movimento 5 stelle di Grillo e dal Centro di Monti. Berlusconi è alla sua sesta candidatura, dopo tre vittorie (1994, 2001, 2008) e due sconfitte (1996, 2006). Forse Monti spera di attirare nella propria orbita altri big berlusconiani, oltre agli ex ministri Giuseppe Pisanu e Franco Frattini. Ma per ora il carniere è semivuoto. Anzi, l’attacco più duro contro il premier viene proprio da destra: «Monti è come le banche, che ti massacrano tutto l’anno e a Natale ti regalano un’inutile agenda», è la perfida battuta di Daniela Santanché.
Mauro Suttora

Monday, February 07, 2011

I radicali salvano Berlusconi

Pannella stangherà i pm per conto del Cav

Sempre in bilico fra destra e sinistra, il leader radicale promette nove voti al premier

di Mauro Suttora

Libero, 7 febbraio 2011

Se Silvio Berlusconi cerca l'elisir della giovinezza, meglio Marco Pannella di Ruby. L’ottantunenne leader radicale esibisce l’energia di un ventenne, in questi giorni. Con la sua coda di cavallo bianca da capo indiano, è felice per essere tornato a fare notizia. E che notizia: sarà lui a nominare il prossimo ministro della Giustizia. Se Alfano diventerà coordinatore unico del Pdl, di fatto delfino di Berlusconi, il candidato potrebbe essere un «tecnico d’area radicale»: Mario Patrono, consigliere Csm di area socialista negli anni ‘90. Il quale in via Arenula si occuperà dei tre argomenti che stanno a cuore a Pannella: carceri, separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati (referendum vinto nell’87 sull’onda del caso Tortora, ma depotenziato da legge poco applicata).

In cambio, nelle votazioni topiche Berlusconi avrà nove voti in più: i sei radicali alla Camera, e i tre senatori. Difficile per Emma Bonino seguire Marco anche in questo suo ultimo giro di valzer: lei è vicepresidente del Senato, in quota centrosinistra. Con qualche obbligo in più verso chi l’ha eletta, quindi. Ma se Fini ha fatto il salto della quaglia, può farlo anche lei in direzione opposta. Magari astenendosi, oppure con qualche provvidenziale assenza. Già adesso Emma risulta fra i senatori meno presenti. Gli altri parlamentari radicali obbediranno, come sempre. Anche quelli col mal di pancia.

Sbaglia chi carica il «tradimento» radicale di significati politici. Come sempre, Pannella agisce soprattutto in base a umori personali. Gli dà fastidio che Bersani lo snobbi. Mentre lo hanno galvanizzato i due incontri personali con Berlusconi, e poi quello con Alfano.

Il premier è in difficoltà? In Pannella scatta immediatamente l’istinto della crocerossina: «Io ti salverò», gli promette hitchcockianamente. Lo aveva fatto anche con Craxi nel ‘93: «Consegnati, fatti incarcerare, stai in prigione qualche settimana, e alla fine verrai liberato a furor di popolo». Con tutti i parlamentari inquisiti di Tangentopoli, Marco si era dimostrato accogliente. Li aveva combattuti per trent’anni, democristi e socialisti, ma di fronte alla procura di Milano li aveva difesi, respingendo il voto anticipato che li privava dell’immunità: «Riuniamoci all’alba, resistiamo».

Anche adesso, gli piace apparire come il «salvatore». È tornato a fare il consigliere di Berlusconi, come ai bei tempi del ‘94-96, quando i radicali si allearono a Forza Italia. Poi una rottura parziale, quando non raggiunsero il quorum e rimasero fuori dal Parlamento per dieci anni (1996-2006). E una rottura totale nel 2000, dopo che la lista Bonino conquistò il 14 per cento al nord alle europee, ma Berlusconi la liquidò come «protesi di Pannella».

I radicali sono sempre stati in bilico fra destra e sinistra. Liberisti in economia, ma libertari sui diritti civili. Portafogli a destra, cuore a sinistra. Sessant’anni fa Pannella cominciò nella corrente di sinistra del partito liberale con Eugenio Scalfari. Assieme fondarono il partito radicale nel ‘55, per separarsi sette anni dopo: Scalfari guardava al Psi, Pannella al Pci.

Fino al ‘92 i radicali sono rimasti a sinistra. Poi hanno svoltato a destra organizzando referendum liberisti con la Lega Nord, cui aderì anche Berlusconi. Il ritorno a sinistra è del 2006, dopo il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita. Si allearono con i socialisti, riesumarono il simbolo della Rosa nel pugno, ma non andarono oltre il tre per cento. Nel 2008 Veltroni rifiutò di l’”apparentamento” con loro (come con Rifondazione), costringendoli a un’umiliante contrattazione di posti all’interno delle liste Pd. Ancor peggio l’anno dopo, quando Franceschini li cancellò anche dall’Europarlamento alzando la soglia-ghigliottina al 4 per cento.

L’orgoglioso Pannella non ha dimenticato gli affronti degli «imbecilli del loft», e ora gliela fa pagare.
Con Bersani i rapporti sono rimasti agrodolci fino a poche settimane fa. Il capo Pd ha incontrato Pannella prima del 14 dicembre, quando già c’erano le avvisaglie del cambiamento con i primi abboccamenti dei radicali col centrodestra. Si è sorbito due ore di incontro, in cui ha parlato quasi sempre Pannella. Ma i radicali ce l’hanno con lui perché non li ha appoggiati nella loro battaglia contro le firme false di Formigoni alle regionali della Lombardia la scorsa primavera. «E quando cerchiamo di parlare di giustizia con il Pd, come interlocutori troviamo solo magistrati», si lamenta il deputato radicale Marco Beltrandi.

Ora una cosa è sicura: alle prossime elezioni sarà difficile che il Pd offra nove seggi ai radicali. Fa niente: Pannella li otterrà dal Pdl. Si ritroverà con Daniele Capezzone, suo delfino fino al 2007. E a chi lo accusa di trasformismo, risponde sorridendo: «Omnia immunda immundis. Io lotto per il bene del Paese».

Wednesday, August 18, 2010

Estate calda per i politici

Quest'anno tutti al mare (in attesa di votare...)

VACANZE AVVELENATE: I POLITICI NON SMETTONO DI DIRSELE E DARSELE

Non era mai successo: in pieno agosto governo e opposizione lottano ancora. Ma è soprattutto dentro la maggioranza che la guerra infuria. Così i potenti si rovinano le ferie. Ecco come

di Mauro Suttora

Oggi, 18 agosto 2010

Non era mai successo. Quest' anno la politica non va in vacanza. I politici, in teoria, sì: Gianfranco Fini ad Ansedonia (Grosseto), il presidente Giorgio Napolitano a Stromboli, Pier Luigi Bersani in Ogliastra (Sardegna), Massimo D'Alema a Gallipoli in Puglia dove come sempre troverà l'autoctono Rocco Buttiglione.

Ma, contrariamente agli anni scorsi, i problemi politici rimangono bollenti quanto il sole d' agosto. E continuano a occupare i titoli principali di giornali e telegiornali: «Tregua fra Berlusconi e Fini o rottura?». E in caso di rottura: «Il governo cade?» E se cade: «Un altro governo o elezioni?». E in caso di elezioni: «A novembre o a marzo?»

FERRAGOSTO IN CARCERE
Ormai siamo a Ferragosto. A fine mese, con i festival dei partiti e il meeting di Cl a Rimini, riprende la stagione politica. L'8 settembre riapre la Camera. Ma questa volta l'estate non placa le polemiche. Mai, nel recente passato, le fibrillazioni del Palazzo erano riuscite a fare notizia in modo così ossessivo. Viene registrato ogni sospiro di Italo Bocchino da Panarea, ogni vaticinio di Umberto Bossi dalla Valcamonica, ogni auspicio di Benedetto Della Vedova dalla contigua Valtellina. Il simbolo di questa frenesia senza soste è Silvio Berlusconi. Che rinuncia addirittura alle ferie, e a Villa Certosa (Porto Rotondo) preferisce Tor Crescenza (periferia di Roma). «Sempre di stracchino si tratta...», scherza qualcuno.

L'unico altro politico che rimane nella capitale, perché odia le vacanze, è Marco Pannella: passa come sempre il Ferragosto visitando i carcerati a Regina Coeli. Dovranno invece visitare il premier (non a Regina Coeli come auspicherebbe Antonio Di Pietro dal suo trattore a Montenero di Bisaccia, Molise) gli sfortunati collaboratori più stretti: Sandro Bondi e Denis Verdini pendolari dalla Versilia, Ignazio La Russa dalla Sicilia, Fabrizio Cicchitto pure lui ad Ansedonia, vicino di villa di Fini e Giuliano Amato.

Ma perché tutto questo tourbillon ? «Piaccia o no», risponde Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, «alla maggioranza degli italiani sembra ancora piacere Berlusconi. La realtà è questa. Dunque, niente elezioni anticipate né altri governi». E allora, come se ne esce? «In un solo modo: con un accordo di legislatura fra tutte le componenti del centrodestra: Pdl, Lega, Futuro e Libertà di Fini». Possibile? «Obbligato».

Dissente il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari: «Le lingue dei politici sono biforcute per definizione, ma mai come ora il gioco degli inganni è stato lo strumento principe per la conquista del potere. Berlusconi è il figlio imbarbarito dell' antipolitica, del qualunquismo e dell' anarchismo. Inutile sperare di trasformarlo in un leader liberal-democratico».

INNAMORATO RESPINTO
Paradossalmente, concorda con Scalfari dalla sponda opposta di destra Vittorio Feltri, direttore del Giornale . Anche lui ritiene impossibile un accordo Berlusconi-Fini, perché quest' ultimo dopo l' espulsione dal Pdl «è come un innamorato folle respinto dalla fidanzata: si vendica uccidendola, poi si spara». Elezioni anticipate, allora? «Sarebbe la soluzione più corretta. Ma non è sicuro che Napolitano la adotti. Nulla gli vieta di tentare la formazione di un nuovo esecutivo con dentro tutti: Pd, Idv, finiani, Udc. Al Senato non avrebbero la maggioranza, perché Pdl e Lega conservano un senatore in più. Ma volete che i ribaltonisti non riescano a comprarsi un tizio qualunque per trenta denari?».

Intanto i ministri Alfano, Calderoli, Tremonti e Fitto preparano un accordo Berlusconi-Fini su quattro punti: giustizia, federalismo, fisco e Sud. «Un'intesa può essere raggiunta facilmente», sostiene De Bortoli, «tranne che sulla giustizia. Quello è uno scoglio difficilmente superabile. La saggezza suggerirebbe di accantonare le leggi ad personam e mettere al primo posto le esigenze dei cittadini».

Come la velocizzazione della giustizia civile: riforma auspicata anche da Adolfo Urso, viceministro finiano rimasto nel governo assieme ad Andrea Ronchi, e che per questo ha votato diversamente dai 43 fuoriusciti sulla mozione Caliendo. Ma ai berlusconiani stanno molto più a cuore la nuova legge Alfano (di livello costituzionale, dopo la bocciatura della Corte) per l'immunità delle alte cariche dello Stato, e quella sul processo «breve». «È proprio qui il nocciolo del problema: Fini spera che prima o poi le grane giudiziarie eliminino Berlusconi», dice Feltri.

«Sarà Bossi a decidere la partita», prevede Scalfari, «è lui a tenere in pugno il manico del bastone. La giustizia non gli interessa: per la Lega quella è solo merce di scambio, l'ha già ceduta a Berlusconi. I leghisti vogliono invece carta bianca sul federalismo e su fisco e Sud, che ne sono due sfaccettature. Sul federalismo Bossi non accetta condizionamenti».

In effetti, è da 23 anni - da quando entrarono per la prima volta in Parlamento - che i leghisti si battono per il federalismo. E ora che è in dirittura d'arrivo, se non lo ottengono o se lo vedono annacquato, tornerebbero a minacciare la secessione. Ma è difficile che i finiani, in buona parte provenienti dal Sud, accettino il federalismo, che inevitabilmente penalizzerà le loro regioni.

Quindi elezioni anticipate? I leghisti non le temono, i sondaggi dicono che farebbero il pieno al Nord. Anche a spese del Pdl. Quanto al Pd, è quello messo peggio, quindi farà di tutto per evitare il voto. Intanto, prosegue il martellamento dei giornali di Berlusconi contro Fini. «Cacciamo gli affaristi!», è lo slogan con cui il presidente della Camera ha aperto la campagna di iscrizioni per il suo nuovo partito, Futuro e libertà. Ma i berlusconiani gli rinfacciano la casa di Montecarlo lasciata ad An da una ricca ereditiera, e finita chissà come al fratello della compagna di Fini dopo un'apparente svendita a una società caraibica. L'estate è calda.

Mauro Suttora

Wednesday, March 31, 2010

Radicali, geniali perdenti

LE MOSCHE COCCHIERE DELLA SINISTRA

di Mauro Suttora

Libero, 31 marzo 2010

Negli stessi minuti in cui Emma Bonino ha perso per 77 mila voti la sfida laziale con Renata Polverini, una sua omonima trionfava: Emma Marrone, vincitrice di ‘Amici’ su Canale 5. Così ora sono tre le Emme nazionali: non va dimenticata la Marcegaglia di Confindustria.

Ma proprio in quei momenti dopo mezzanotte nei quali è apparso chiaro che i postfascisti ciociari e i reazionari reatini restituivano la transnazionale Emma B. al suo ambiente naturale (Bruxelles, New York, Davos, L’Aia), i radicali si erano già rialzati dal k.o.: riuniti nella loro sede nazionale dietro al Pantheon, ascoltavano Marco Pannella il quale, immune da depressioni e autocritiche, descriveva fino alle tre di notte le «iniziative di lotta che ci impegneranno da domattina».

È questa la terapia che i pannelliani adottano dopo ogni sconfitta: far finta di niente, e ricominciare immediatamente a macinare politica «contro il regime». Hanno fatto così l’anno scorso, quando per la prima volta dopo trent’anni sono stati eliminati dall’Europarlamento (colpa della tagliola veltroberlusconiana al 4%): il giorno dopo stavano già pianificando l’attuale voto regionale. È successo nel 2006, quando la rediviva Rosa nel pugno con i socialisti abortì in un pugno di mosche. L’allora segretario radicale Daniele Capezzone ripartì come un razzo a criticare il suo non ancora capo Berlusconi e, per par condicio, i propri (in teoria) allora alleati Prodi e Fassino. E fu così anche nel 2005, quando dopo la sconfitta del referendum sulla fecondazione assistita concepirono, appunto, la Rosa nel pugno.

È da sessant’anni che Pannella perde. All’inizio degli anni ’50 esordì già in minoranza nel Pli di Malagodi. Con Eugenio Scalfari se ne andò e fondò il partito radicale. Subito batoste: zero eletti al comune di Roma nel ’56, e due anni dopo alle politiche l’1,4%, ma con il Pri. In pratica, votarono per loro solo i lettori dei due settimanali «laici»: Il Mondo e L’Espresso. Non domi, i radicali da allora hanno sempre preteso di dettare la linea politica a tutti (Pci, Psi, Pri, Pli, Psdi) dall’alto del nulla del proprio consenso popolare. «Mosche cocchiere»: così, citando la favola di Fedro, Togliatti liquidava gli intellettuali che volevano comandare, o almeno consigliare e ammonire i capi, senza però sporcarsi le mani con il «sangue e merda» (© Rino Formica) della politica reale, dei voti conquistati porta a porta nelle periferie (anche a Frosinone), del contatto con le miserie della gente e i suoi vizi. Perché il vizio di tutti gli idealisti illuminati d’Italia, da Pisacane al partito d’Azione a Ugo La Malfa, è sempre stato quello che gli scienziati della politica definiscono «minoritarismo».

Ancor oggi, i radicali sono onestamente convinti di aver ragione pur essendo una microminoranza. Vendola è riuscito a strappare il 10% per il suo partitino in Puglia, sull’onda della vittoria personale? I radicali in Lazio si sono fermati al solito tre per cento, nonostante il traino della Bonino.

Nel ’99 Emma & Marco agguantarono il loro unico successo: otto per cento alle europee con punte del 18% in varie città del nord, secondo partito dopo Forza Italia. Allora stavano a destra, liberali e liberisti. Poi però non si accordarono con Berlusconi, e ripiombarono alle percentuali abituali. Chiunque, al loro posto, si sarebbe ritirato da un pezzo. Loro invece, geniali e coriacei, ora vogliono insegnare al povero Bersani come guidare il Pd. Perché solo i radicali sono il sale della democrazia, i partigiani della legalità. Non per nulla stanno dietro al Pantheon, casa di «tutti gli dei».

Mauro Suttora

Wednesday, May 27, 2009

Giampaolo Pansa

"Mi accusano di essere revisionista, io ne vado fiero"

di Mauro Suttora

Oggi, 20 maggio 2009

«Mi accusavano di essere un “revisionista”, quasi fosse il peggiore degli insulti. E allora, come risarcimento beffardo, ho titolato così questo mio libro”.
Giampaolo Pansa, 73 anni, è un principe del giornalismo. L’unico che ha lavorato in tutti i maggiori quotidiani e settimanali italiani: Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Messaggero, Giorno, Espresso, Panorama. E in posizioni di rilievo: inviato speciale, editorialista, condirettore. Da una quindicina d’anni, però, il successo di pubblico gli arriva soprattutto dai suoi libri sulla «guerra civile»: prima romanzi e poi, dal 2003, saggi come Il sangue dei vinti che hanno venduto un sacco di copie (un milione) ma gli hanno anche procurato un sacco di guai.

«Ho cercato di scrivere la verità su un’epoca della storia, fra il 1943 e il ’48, senza le omissioni imposte dalla retorica sulla resistenza e dagli storici del Pci-Pds-Ds-Pd», ci dice dalla sua casa in Toscana.
E così proprio lui, per trent’anni numero due dei giornali più letti a sinistra (Repubblica ed Espresso), è stato contestato come «filofascista» per avere descritto le stragi compiute anche dai partigiani, e anche dopo la fine della guerra nel ’45.

«Già usare la definizione “guerra civile”, invece di “guerra di liberazione”, è un sacrilegio per certi parrucconi postcomunisti. Chi aveva scelto la repubblica di Salò non era degno neppure di essere considerato italiano, ma soltanto collaborazionista dell’occupante tedesco. Nessuno storico ascoltava le versioni dei “repubblichini”, un termine che detesto».

Beh, in confronto alle sanguinosissime guerre civili dell’epoca, la spagnola e la jugoslava, che fecero milioni di morti, quella italiana, con le sue poche decine di migliaia di vittime, è stata poca cosa.
«Vero. Noi non abbiamo avuto quelle carneficine. Consideriamo che in Spagna la guerra è durata dal ’36 al ’39, e in Jugoslavia dal ’41 al ’45. Ma rendiamoci anche conto che dopo il 25 aprile ’45, nonostante la “pace”, in Italia le vendette contro i fascisti e i loro familiari innocenti hanno provocato dai venti ai trentamila morti. Dimenticati per mezzo secolo».

Tranne che dallo storico e senatore del Msi Giorgio Pisanò, che scrisse parecchi libri rivendicando pari dignità per i combattenti di Salò e cercando di accreditare, senza riuscirci, il termine «guerra civile». Poi arriva lei, e da sinistra «sdogana» questa definizione.
«Ho letto tutti i libri di Pisanò, e devo dire che nonostante il nostro diverso punto di vista sono storicamente accurati. I fatti non vengono gonfiati o taciuti per propaganda. Ma lui era finito nel ghetto riservato a chiunque non si conformasse alle versioni ufficiali sulla Resistenza».

Quella di Pansa non è una mania senile. Anzi, la sua tesi di laurea (a Torino in Scienze politiche, nel ’59) fu proprio su questi argomenti: Guerra partigiana fra Genova e il Po. Centodieci e lode, pubblicazione. Ma, come racconta nel libro, dovette aspettare sei anni: «La casa editrice Einaudi di Torino, roccaforte dell’ortodossia comunista, me la tenne bloccata perché avevo osato accennare ai contrasti fra le diverse formazioni partigiane. Così alla fine la diedi a Laterza, che la mandò in libreria nel ‘65».

Pansa era un rompiballe già da giovane. Si scontrò subito con i tenutari della fede partigiana. In un gustosissimo capitolo de Il revisionista racconta di un convegno di storiografia a Genova in cui lui, sconosciuto ventenne provinciale calato giù da Casale Monferrato (Alessandria), osò contestare i dirigenti del Pci chiedendo una cosa che oggi appare ovvia: che negli studi sulla Resistenza si sentisse anche l’altra campana, quella degli sconfitti. Apriti cielo. L’unico a notarlo e a difenderlo fu un distinto e anziano signore dai capelli bianchi che lgli fece avere una borsa di studio: Ferruccio Parri, comandante partigiano non comunista e primo presidente del Consiglio dell’Italia libera, nel ’45.

Quella stessa tesi vinse un premio finanziato con i diritti d’autore di un altro gigante della politica italiana: Luigi Einaudi, antifascista liberale e presidente della Repubblica dal ’48 al ’55.
«La consegna del premio avvenne a Dogliani (Cuneo) il 20 novembre 1960», racconta Pansa. «Einaudi aveva ottantasei anni ed era un signore piccolino, che si appoggiava a un bastone da contadino. A me e all’altro vincitore, Massimo Salvadori, che aveva scritto una ricerca su Salvemini e che sarebbe diventato ordinario di Storia a Torino, disse che il premio di mezzo milione di lire ciascuno – una somma importante – doveva servire “per finanziare i nostri sogni”. Ci raccomandò di studiare “gli anni della grande speranza”, quelli della guerra per la libertà. Credo di aver mantenuto l’impegno che il presidente mi aveva indicato».

Fu l’ultima uscita pubblica di Einaudi. «Si brindò tutti con il barolo di un’annata indimenticabile: il 1945». Ma Pansa non divenne mai uno storico professionista. Fu fuorviato dal suo professore Alessandro Galante Garrone che lo segnalò al direttore della Stampa. Dopo un mese il 25enne Pansa venne assunto come giornalista praticante nella redazione di Torino.

La sua brillante carriera viene raccontata nel libro, anche se forse i capitoli più divertenti e poetici sono gli iniziali: quelli sulla vita assieme alla nonna Caterina (poverissima), alla mamma Giovanna e a papà Ernesto, che riparava i pali del telegrafo. «Mia madre era ottimista, espansiva, generosa. Non sapeva che cosa fosse la gnagnera, la svogliatezza malinconica». Pansa infarcisce il racconto di affascinanti termini piemontesi, come le prostitute che erano chiamate «sansussì», alla francese, il «goga e migoga» (bagordi), i «cupio e giacufumna» (omosessuali).

Poi ci sono le cose serie. Come la storica intervista a Enrico Berlinguer del 1976, in cui il segretario del Pci regalò a Pansa lo scoop internazionale della frase: «Mi sento più tranquillo sotto l’ombrello della Nato». Fu il primo strappo dall’Unione Sovietica.

Ma oggi Pansa conclude amaramente: «La sinistra non cambierà mai. Sperare che migliori, si modernizzi, si evolva, equivale a cercare di pettinare un porcospino, come diceva mia nonna. E pensare che Eugenio Scalfari, il direttore di Repubblica, ed io, ci abbiamo sperato per trent’anni. Eppure ancora adesso i postcomunisti non hanno perduto il vizio di sentirsi migliori».

A destra invece, grazie ai suoi libri revisionisti, Pansa ha trovato nuovi lettori e ammiratori: «Da quella parte sono più gentili verso gli estranei alla propria parrocchia. Anche se io rimango un anarchico individualista».

Questo vuol dire che smetterà di irritare i suoi ex compagni di sinistra per i quali è un rinnegato o, nel migliore dei casi una pecorella smarrita? «Macché. Come diceva Totò, io insistisco e m’intigno. Devo ancora scrivere una serie di cose e ho già in mente altri libri, sempre sulla scia del Sangue dei vinti».

Pansa adesso è arrabbiato perché l’omonimo film con Michele Placido, tratto dal suo libro, viene distribuito nei cinema italiani in appena quaranta copie: «Equivale a una censura, come hanno fatto con Katyn, il film sulla strage sovietica in Polonia. Mentre il film Vincere di Bellocchio di copie ne ha trecento».

Pansa, possibile che l’Italia sia l’unico Paese al mondo in cui ci si accapiglia ancora su avvenimenti di sessant’anni fa? «Ditelo a quelli che vengono per tapparmi la bocca alle presentazioni dei miei libri».

Mauro Suttora

Friday, August 11, 2000

Intervista a Pannella: Mondo, Romiti, Scalfari

CHI È IL VERO EREDE DEGLI AMICI DEL MONDO: ROMITI, SCALFARI O PANNELLA?

di Mauro Suttora

Il Foglio, 2000

Cesare Romiti, presidente della Rcs (Rizzoli-Corriere della Sera), ha riesumato assieme al direttore editoriale Paolo Mieli l’associazione «Amici del Mondo». L’omonima rivista economica rizzoliana non ha più nulla a che spartire con il glorioso settimanale fondato da Mario  Pannunzio nel 1949, e che per quasi vent’anni fu la bandiera della cultura laica in Italia. Rimane, tuttavia, il prestigio di un nome e di una tradizione che i nuovi promotori tenteranno di ravvivare.

Gli Amici del Mondo, in particolare, affiancarono il giornale organizzando, dal ‘55 al ‘60, dieci convegni che fecero storia nell’asfittico panorama culturale di allora, dominato dagli opposti integralismi dei democristiani bigotti e dei comunisti stalinisti.

Eccone i titoli: Lotta contro i monopolî, Petrolio in gabbia (1955); Processo alla scuola, I padroni della città (‘56); Atomo ed elettricità, Stato e Chiesa (‘57); Stampa in allarme (‘58); La crisi della sinistra, Verso il regime (‘59); Le baronie elettriche (‘60).

L’instancabile organizzatore dei convegni era Ernesto Rossi, colonna del settimanale, antifascista con 12 anni di carcere e confino sulle spalle (suo fu, con Altiero Spinelli, il «Manifesto di Ventotene», vangelo del federalismo europeo) e brillante polemista (inventò la definizione «Padroni del vapore» con cui bollò gli industriali privati monopolisti, protezionisti e in perenne ricerca di assistenza da parte dello stato).

I liberali di sinistra avevano il Mondo sul versante giornalistico. Su quello culturale agitavano le acque con i Convegni. Su quello politico nel 1955 ruppero con il Pli di Giovanni Malagodi infeudato alla Confindustria, e fondarono il Partito radicale: «Avete il potere? Malagodetevelo!», proclamarono andandosene l’ex segretario Bruno Villabruna, il conte Nicolò Carandini, l’ex ministro Leone Cattani, l’avvocato Mario Paggi e due ventenni: Eugenio Scalfari e Marco Pannella. A sua volta, con 40 anni di anticipo su Forza Italia il direttore Pannunzio precettò tutti i giornalisti e i collaboratori del Mondo facendoli iscrivere al nuovo partito, così come Silvio Berlusconi avrebbe arruolato i dirigenti di Publitalia. Ma con esiti ben diversi: alle politiche del ‘56 il Pr alleato al Pri di Ugo La Malfa ottenne un misero 1,4%. Prestigiosi ma pochi, insomma: anche il Mondo non vendette mai più di 80mila copie.

Ciononostante, oggi sono in molti a contendersi l’eredità ideale di quella lobby liberaldemocratica una e trina, che aveva sede proprio di fronte a Montecitorio, nell’ultimo palazzo di via Colonna Antonina: al secondo piano la redazione del Mondo, al terzo la sede radicale.

L’iniziativa di Romiti e Mieli, infatti, ha irritato Eugenio Scalfari, che si ritiene il continuatore unico e universale degli Amici del Mondo, e che sul suo Espresso ha tuonato: «Dubito che possano condividere, sia pure alla lontana, il lascito culturale degli "Amici del Mondo" nomi come quelli di Pellegrino Capaldo, Cesare Geronzi, Cesare Romiti, Lucio Rondelli, Letizia Moratti, Paolo Savona: degne persone, che meglio figurerebbero però nel consiglio di Mediobanca (molte ne fanno parte) o nell'Opus Dei o in una Fondazione dell'Assobancaria. Ernesto Rossi sarebbe perplesso d'una così eterogenea diffusione delle sue idee. E certi clericali a 20 mila carati legati a Comunione e Liberazione farebbero rivoltare nella tomba un laico rigoroso come Pannunzio. Qualcuno confonde le carte in maniera vergognosa. Basta ricordare che il laicismo, ai limiti dell'anticlericalismo, era la bandiera del nostro gruppo».

«Sette», l’allegato del Corriere della Sera di Romiti, ha replicato all’offensiva di Scalfari con un’intervista al giornalista Giovanni Russo, uno dei pochissimi Amici del Mondo presenti sia nella prima versione che nella seconda. E Russo, contrariamente a Paolo Sylos Labini che ha subito abbandonato polemicamente i nuovi Amici vista la preponderanza dei banchieri sugli intellettuali, ha difeso l’operazione romitiana.

Fra la «destra» di Romiti e la «sinistra» di Scalfari, proviamo a sentire cosa pensa di questa disputa Pannella, che sembra il più titolato a farlo. Fondatore del Partito radicale nel ‘55 e segretario dal ‘62, il Marco nazionale è stato infatti il più devoto discepolo di Ernesto Rossi fino alla morte: nel ‘67 al capezzale c’erano lui, Gianfranco Spadaccia e Angiolo Bandinelli. E quando morì Pannunzio, un anno dopo, i parenti non vollero Scalfari al funerale.

«Non mi interessano queste assurde polemiche sulle eredità contese», risponde il leader radicale, «il ripescaggio degli Amici del Mondo è un’operazione artificiosa e falsa».

Ma il primo convegno in programma, con una relazione di Alberto Ronchey, sarà sul finanziamento ai partiti: è un vostro cavallo di battaglia.

«Appunto. E a noi radicali, che ci battiamo contro il finanziamento pubblico da 26 anni, non è arrivato neanche un invito».

Pannella, come mai lei non ha scritto neanche un articolo sul Mondo? Eppure poi il giornalista lo ha fatto, è stato corrispondente per il Giorno da Parigi dal ‘59 al ‘62.

«Ogni sera, per tre anni, scendevo dalla sede del partito radicale al piano di sotto, in redazione. E Pannunzio, con quel suo sorriso da toscanaccio, mi diceva: “Pannella, scelga, faccia il giornalista invece che il politico: la ricetta per scrivere buoni articoli è espellere tutto l’Emile Zola che ci portiamo dietro, e metterci dentro al suo posto tanto Gustave Flaubert“».

Ma Pannella nella seconda metà degli anni ‘50 era già capo di tutti gli universitari italiani riuniti nell’Unuri (si misurava con i comunisti Luciana Castellina e Achille Occhetto, e con il socialista Bettino Craxi). E quando Scalfari, vicesegretario radicale, abbandonò il partito per entrare nel Psi nel ‘62, furono lui e Rossi a mantenerlo in vita.

«Ernesto Rossi già nel ‘53 scriveva che i sindacati erano ormai diventati così burocratici e succubi della grande industria, che conducevano una politica reazionaria. Altro che articolo 18! Se fosse vivo, oggi lui ne farebbe cento di referendum contro questi sindacati della “concertazione”».

Ma è veramente Scalfari l’erede principale della tradizione del Mondo?

«Eugenio è soltanto l’erede di se stesso. Lui nel ‘55 fondò l’Espresso con Arrigo Benedetti, e quando al Mondo un articolo veniva scartato perché considerato troppo sensazionalista, si consigliava all’autore di provare con l’Espresso. Fra i due settimanali c’era una leale concorrenza, i Taccuini di Dodo Battaglia sul Mondo polemizzavano sempre contro i cugini dell’Espresso... Ma, ripeto, non voglio entrare in queste dispute».

Poi però Pannella ci racconta per un’ora le vicende del Mondo, e intuiamo che la sua ritrosia è dettata soltanto dal pudore, oltre che dall’immenso orgoglio di avere per quasi mezzo secolo perpetuato le battaglie di quel partito radicale, il «braccio» politico del leggendario settimanale che stava al piano di sotto.

«Il vero motore del Mondo, dei convegni degli Amici e del partito radicale era Ernesto Rossi. Lui, così lieto di esistere, della letizia di un fanciullo, aveva previsto tutto: il corporativismo di stato, la mano pubblica che dà profitti a quella privata, il clientelismo. La sua battaglia contro la Federconsorzi dimostrò che non c’era stata alcuna rottura fra l’Italia di Mussolini e quella democristiana, cioè del fascismo democratico.
Esattamente come oggi non c’è rottura fra prima e seconda Repubblica: siamo solo al secondo tempo della prima. Eppure né Rossi né Pannunzio venivano considerati veri politici, neppure da certi radicali. Erano due borghesi con una qualità insolita per un borghese: il disinteresse per il denaro. Perché di denaro non avevano bisogno. Non avrebbero saputo come spenderlo. Il consumismo non era affar loro... E poi c’erano Mario Paggi, Mario Ferrara, Panfilo Gentile - fu lui e non Maranini a coniare il termine “partitocrazia... Non viene ricordato Alfredo Mezio, e l’altra colonna del Mondo, Giulia Massari, vivente e silente... Tutto il resto, compreso il bravo Giovannino Russo che grazie al Mondo si fece assumere al Corriere della Sera, era solo condimento».

I radicali degli anni ‘50 (fra i quali l’attuale ministro della Pubblica Istruzione Tullio De Mauro e il garante della Privacy nonché ex presidente del Pds Stefano Rodotà, oltre agli scomparsi Franco Libonati, Leopoldo Piccardi, Leo Valiani e Guido Calogero) hanno sempre sostenuto che il partito, dopo che negli anni '60 passò in mano ai giovani come lei, Spadaccia, Bandinelli e Massimo Teodori, divenne un’altra cosa.

«Ma non avremmo potuto concepire le battaglie per i diritti civili», risponde Pannella, «senza la vicinanza e l’esortazione costante di Ernesto Rossi. La vergognosa biografia di Peppino Fiori ha sfigurato la sua memoria. L’editore Laterza ha mandato al macero i suoi libri, da “I padroni del Vapore” agli atti dei convegni degli Amici del Mondo. Ma negli anni ‘60, quando eravamo considerati drogati, omosessuali, scostumati, avevamo sempre Rossi al nostro fianco. Fu lui a tenere per i radicali il discorso alla prima marcia antimilitarista Perugia-Assisi di Aldo Capitini, nel 1961».

E poi l’anticlericalismo: l’editore Kaos ha appena ristampato un libro di Ernesto Rossi, “Il Sillabo”, che sbeffeggia la dottrina cattolica utilizzando soltanto brani delle encicliche papali.

«Ernesto è morto l’8 febbraio ‘67, quando avevamo appena inventato insieme l’“anno anticlericale”, che a certi benpensanti sembrava tanto di cattivo gusto. Andammo in piazza San Pietro a chiedere divorzio, aborto e pillola. Ma lui scomparve pochi giorni prima di pronunciare il suo discorso alla manifestazione inaugurale al teatro Adriano di Roma l’11 febbraio, anniversario del Concordato. Sì, molti, allora come oggi, ci rimproveravano di sporcare un nome, quello del partito radicale, e una tradizione elegante ed austera. Anche Ernesto Rossi veniva giudicato da certi suoi amici una persona squisita, purissima, onestissima, bravo giornalista, ma che di politica non capiva nulla. Perché voleva l’abrogazione del Concordato, azioni di rottura, denunce dei compromessi contro i “padroni del vapore”».

Oggi, sorpresa, sono invece alcuni padroni del vapore a contendersi l’eredità di Ernesto Rossi. Curioso destino. Forse perché anche lui, come scrisse Arrigo Benedetti di Pannella, era «uno di quegli italiani seri nell’intimo che non temono di essere presi per buffoni».

Mauro Suttora

Friday, April 04, 1997

Pannella e l'Ordine dei giornalisti

CINQUANT'ANNI DI ROSE E PUGNI TRA PANNELLA E I GIORNALISTI

IL REFERENDUM CONTRO L'ORDINE È L'ULTIMA FASE Dl UN RAPPORTO CONTRASTATO. L'ANTAGONISMO CON SCALFARI

Il leader radicale si innamorò della stampa a quindici anni. Comprava due copie al giorno di Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli da dove Einaudi attaccava la corporazione. Gli anni del Mondo, del Giorno, e la comune militanza politica con il direttore di Repubblica

Di Mauro Suttora

Il Foglio, 4 aprile 1997

Milano. I milioni di italiani che andranno a votare per il referendum sull'Ordine dei giornalisti lo ignorano, ma quel voto è il risultato finale di un intenso rapporto di amore-odio: quello che da più di mezzo secolo lega Marco Pannella a giornali e giornalisti, e in particolare al più ricco (di gloria e di miliardi) fra loro, Eugenio Scalfari. 

I giornali Marco li ha sempre amati. Da quando, studente 15enne al liceo classico Giulio Cesare di Roma nel '45, si imbatte in Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli. Già eccessivo allora, non si limita a comprarne una copia: "Mi interessò talmente, che da quel giorno ne ho sempre prese due: una per me e una per i miei compagni di scuola". 
Proprio su Risorgimento liberale Luigi Einaudi sferrava quelli che a oggi rimangono i più lucidi attacchi alla corporazione dei giornalisti. 

Marco nel '49 viene folgorato da un secondo giornale: il Mondo, appena fondato da Mario Pannunzio. Pannella si affaccia sempre più spesso nella redazione a Campo Marzio. Ma non è l'unico giovane a essere attratto da quel cenacolo di galantuomini i quali, oltre a confezionare il settimanale più sofisticato dell'epoca, trasformano la redazione in un salotto intellettuale perenne. 
In concorrenza con Marco per farsi notare dagli 'anziani' della cultura liberale italiana infatti c'è Scalfari. E come Marco anche Eugenio, più vecchio di sei anni, è un attivista della corrente di sinistra del Pli.

La competizione fra i due giovani galli nel troppo affollato (d'ingegni) pollaio liberal-radicale è inevitabile. Pannella negli anni 50 diventa il capo degli universitari italiani. Scalfari invece va a lavorare nella banca Commerciale a Milano, scrive articoli per l'Europeo di Arrigo Benedetti e sposa la figlia del direttore della Stampa. Nel 1955 fonda sia l'Espresso con Benedetti, sia il partito radicale con Valiani, Carandini e tanti altri. Compreso Pannella. 

Intanto anche Marco nel '59 debutta nel giornalismo con una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera. Però esagera, calca troppo i toni e viene bocciato: dal Migliore, che lo liquida tre giorni dopo, sempre sul Paese ("Non accettiamo queste polemiche"), ma soprattutto da Scalfari che emette addirittura un comunicato pubblico per sconfessarlo, e perfino dal Mondo che gli dà del "cretino". 

Disgustato, Marco lascia l'Italia. Approda a Parigi dove, a corto di soldi, si presenta alla redazione del Giorno in rue Saint Simon, 7° arrondissement. Comincia a collaborare con la corrispondente in carica Elena Guicciardi. Copre il turno di notte. 
"Era già polemico - ricorderà l'allora caporedattore Angelo Rozzoni - invece di mandare il servizio richiesto inviava tre-quattro cartelle di 'controinformazione'. Era molto bravo e diligente, gli avrei dato un sette, ma aveva l'inveterata abitudine di fare a modo suo".

Nel dicembre '62, dopo i rituali 18 mesi di praticantato, Marco diventa giornalista professionista. Poi contesterà sempre l'Ordine e rifiuterà gli sconti su aerei, treni e autostrade. Il suo stipendio a Parigi è di 20 mila lire il mese. 

Di politica non si può occupare, c'è già la Guicciardi. Ma nelle pagine di cronaca riesce a infilare un'intervista a Jean-Paul Sartre sulla tortura, viene inviato a Cannes al festival del cinema, va a Tolosa per un'inchiesta sulle caserme, si occupa di Dalida.

Una volta, da Milano lo incaricano di cercare Gina Lollobrigida a Parigi. "Le ho lasciato un messaggio in albergo", risponde sbrigativo con un telex che trasuda disinteresse. 

Nel gennaio '63 Pannella si dimette dal Giorno. "Mi licenziarono dopo un'inchiesta sull'Eni e Mattei - è la sua versione - dopodiché fui messo all'indice. Ero vietato da tutti, sia come firma che come notizia". 

Iniziano così 30 anni di giustificata paranoia, con giornali e tv sempre ossessivamente nel mirino. All'interno del Pr, Pannella guida l'opposizione a Scalfari con la propria corrente "Sinistra radicale", di cui fanno parte gli ex goliardi Massimo Teodori (futuro editorialista di Messaggero e Giornale), Gianfranco Spadaccia (giornalista dell'agenzia Italia) e Angiolo Bandinelli, collaboratore del Mondo.

Nel '63 Pannella conquista il partito radicale. Vuoto, però. In quegli anni l'attività ruota attorno a una battagliera agenzia di notizie, visto che la maggior parte del gruppo dirigente è formata da giornalisti. Memorabili le campagne contro l'Eni di Eugenio Cefis e il sindaco di Roma Petrucci (che finirà in galera), oltre a quelle per l'obiezione di coscienza (vinta nel '72) e per il divorzio (vinta nel '70 con la legge, e quattro anni dopo col referendum). 

Ma quest'ultima, iniziata nel '65, ottiene solo l'appoggio del settimanale plebeo-erotico Abc, e anche le altre iniziative radicali vengono snobbate dalla grande stampa. Così lievita il livore di Pannella verso i "colleghi".

La direzione di Lotta continua

La situazione non migliora negli anni 70. Il Pci vede come il fumo negli occhi il referendum sul divorzio, perché rischia di "spaccare le masse" e ostacolare il "compromesso storico" con la Dc. Invece Pannella accentua il suo impegno anticlericale e si riavvicina a Scalfari. 

Nel '71 fondano assieme la Lega per l'abrogazione del Concordato (cui aderiscono Leonardo Sciascia, Eugenio Montale, Ignazio Silone, Ferruccio Parri, Alessandro Galante Garrone) e tengono comizi anticoncordatari in giro per l'Italia. 

Sarà anche a causa di questa eccessiva vicinanza al libertario Pannella, oltre che per l'ostilità di Craxi, che nel 72 Scalfari perderà il seggio di deputato socialista conquistato nel '68 (per sottrarsi al processo sul caso Sifar). 

Intanto a Pannella arrivano una ventina di denunce per avere diretto il giornale sessantottino Lotta continua. Lui concedeva la propria firma a qualsiasi pubblicazione avesse bisogno di un direttore responsabile. Unica condizione: "Non voglio vedere una riga di quel che pubblicate".

Per Lotta continua vengono incriminati anche Pier Paolo Pasolini e Marco Bellocchio. Umberto Eco, Lucio Colletti, Giovanni Raboni, Paolo Mieli, Natalia Ginzburg e altri intellettuali firmano un appello a favore degli imputati. 

Ma il bastian contrario Pannella prende le distanze anche da loro: "Dubito che di 'pensiero', marxista o no, ce ne sia molto in chi pensa di 'fare la rivoluzione impugnando le armi contro lo Stato' [una delle frasi incriminate, ndr]. Questo non un reato: è un'imbecillità, coeva più alle spedizioni fiumane di D'Annunzio che alla lotta politica odierna". 

Nel '73 Pannella torna alla professione di giornalista. Segue per l'Espresso le elezioni in Francia. Ma si arrabbia per i tagli e alcune censure subite dai suoi articoli. Due anni dopo l'Espresso aiuterà il partito radicale a raccogliere le firme per il referendum sull'aborto, e affiderà una rubrica settimanale a Pannella. Ma Marco la interrompe per protesta dopo il licenziamento da via Po del suo amico Lino Jannuzzi. 

Nella seconda metà del '73, in vista del referendum sul divorzio, Pannella fonda il quotidiano Liberazione, sull'esempio del neonato Libération parigino diretto da Sartre (vent'anni dopo cederà la testata a Rifondazione). 
Ma il compito è sovrumano, perché la redazione è composta soltanto da Pannella stesso, da Vincenzo Zeno-Zencovich (poi docente universitario, editorialista sul Sole 24 Ore, avvocato e autore del pamphlet 'Contro la libertà di stampa'), Rolando Parachini e Roberto della Rovere (poi al Corriere della Sera).
Dopo un mese Liberazione diventa bisettimanale, ma nel febbraio '74 chiude. 

Le dimissioni del presidente della Rai 

Nel 1974, sull'onda del referendum vittorioso che conferma la legge sul divorzio, i radicali propongono otto referendum. Uno di questi è contro l'Ordine dei giornalisti. Aderiscono Norberto Bobbio, Arrigo Benedetti, Adele Cambria, Gigi Ghirotti, Adriano Sofri, Giovanni Russo. Ma le firme raccolte si fermano a 170 mila.

In compenso, quell'estate Pannella è il primo a pronunciare alla tv italiana le parole "aborto", "lesbiche" e "omosessuali". Nonostante gli sforzi del capufficio stampa Rai Giampaolo Cresci (poi direttore del Tempo), lo scandalo è enorme. Alla fine il potentissimo presidente Rai Ettore Bernabei si deve dimettere.

Sul caso Pannella intervengono sul Corriere della Sera Pasolini, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Spadolini e Maurizio Ferrara, sull'Espresso Sciascia, Alberto Moravia e Giorgio Bocca. Il leader radicale diventa un personaggio nazionale, e nel '76 deputato. 

Nelle liste del Pr abbondano i giornalisti: Enzo Marzo, Massimo Alberizzi, Riccardo Chiaberge e Cesare Medail del Corsera, Valter Vecellio (oggi inviato del Tg2) e Marco Taradash (per anni al mensile Prima Comunicazione), inventori delle rassegne stampa su Radio radicale. 

Stefano Rodotà, allora editorialista della neonata Repubblica, simpatizza. Ma è l'attuale commentatore di punta del Corriere della Sera Angelo Panebianco, assieme a Teodori, Piero Ignazi (poi editorialista di Repubblica) e al docente universitario Lorenzo Strik Lievers, il teorico più raffinato del radicalismo.

I1 culmine dello scontro tra Marco ed Eugenio

Nelle politiche del '79 alla pattuglia radicale si aggiungono sul versante giornalistico Maria Antonietta Macciocchi, Gigi Melega, Gianni Vattimo, Alfredo Todisco, Fernanda Pivano e Barbara Alberti. Scalfari appoggia Pannella nella battaglia contro la fame nel mondo.

Ma l'ennesima rottura (mai più ricomposta) fra i due avviene nel 1981, sulla "linea della fermezza" durante il sequestro Br del magistrato D'Urso. Pannella scatena i militanti radicali, i quali mandano in tilt i centralini di Repubblica che rifiuta di pubblicare i comunicati brigatisti, condizione per la liberazione. Svela perfino i numeri di casa di Scalfari. 

"I brigatisti hanno definito Pannella 'sciocco demagogo' - risponde furibondo Scalfari in un editoriale - demagogo lo è certamente, sciocco assolutamente no, come può testimoniare chi lo conosce da trent'anni. (...) Pannella è un sovversivo, ne più ne meno delle Br. Le Br usano le pistole, Pannella le parole e lo psicodramma di massa". 

"Da Almirante a Valiani, da Scalfari a Berlinguer, si è ricostituito il partito della forca, come ai tempi di Moro. Hanno bisogno di un cadavere per fare un golpe", replica Pannella da Radio radicale mobilitata giorno e notte dal direttore Jannuzzi. 

Nell'84 Scalfari viene condannato a risarcire Pannella con 70 milioni per un articolo diffamatorio sul caso Cirillo. Il direttore di Repubblica si vendica tre anni dopo, attaccando Pannella per la candidatura di Cicciolina. 

Ma è soprattutto su Bettino Craxi che i due hanno posizioni opposte: Pannella lo corteggia; Scalfari, innamorato del segretario dc Ciriaco De Mita, lo detesta. 
Il culmine dello scontro fra Marco ed Eugenio viene raggiunto nel '93, quando Pannella organizza addirittura un convegno ad hoc contro Scalfari, Caracciolo e De Benedetti: "Sono associati per delinquere - spara - Scalfari è un libertino mascherato da tartufo, che con una mano indica il dio della democrazia e con l'altra tocca le cosce dell'autoritarismo e della corruzione. Ha fornicato per anni con coloro che attaccava". 

Finirà mai la rivalità fra il politico 67enne che non è riuscito a fare il giornalista e il giornalista 73enne che non è riuscito a fare il politico (anche se il primo si illude di distruggere i giornalisti con il referendum, e il secondo spera in un posto da ministro o da senatore a vita)?
Mauro Suttora