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Thursday, January 07, 2021

Usa: tanti corpi di polizia, zero sicurezza

L'ETERNA DEBOLEZZA INTERNA DEGLI STATI UNITI

di Mauro Suttora

HuffPost, 7 gennaio 2021

Sette colpi in cinque secondi. Tanti ne riuscì a sparare John Hinckley al presidente Ronald Reagan nel 1981. Quel mancato assassinio fu perfino più grave dell’omicidio Kennedy, perché dimostrò l’assoluta perforabilità della sicurezza attorno all’uomo più potente del mondo. A Dallas, infatti, il killer sparò dal sesto piano, a centinaia di metri di distanza. A Washington, invece, Reagan fu colpito da pochi metri.

Quarant’anni dopo, il problema è sempre lo stesso. Quant’è vulnerabile l’impero americano? Gli Stati Uniti dominano il pianeta, spendono 800 miliardi di dollari ogni anno per le forze armate (Cina ed Europa 260, la Russia 70).

Eppure centinaia di pazzoidi addobbati da bisonti cornuti riescono a entrare nel cuore del loro sistema, il palazzo del Congresso, proprio mentre Camera e Senato sono riuniti in sessione congiunta per una delle occasioni più sacre: la proclamazione del nuovo presidente.

I grillini promettevano di aprire il nostro Parlamento “come una scatola di tonno”. I complottisti trumpiani lo hanno fatto.

Così, blindatissimi all’esterno, gli Usa si ritrovano indifesi all’interno. Gli americani, allibiti, scoprono che a proteggere il Campidoglio c’è una forza apposita, la Capitol police, forte di duemila agenti. I quali tuttavia ieri erano impotenti quanto i vigili urbani. Dotati di manganello, ma impediti dall’usare “lethal force” contro l’onda di assalitori. 

Un video di HuffPost Usa mostra un povero agente di colore che arretra davanti agli energumeni provvisti di aste di bandiera: scappa su per le scale, non osa menare la prima randellata perché sa che avrebbe la peggio.

Mai sottovalutare l’idiozia della burocrazia. Nella sola Washington coesistono ben sei corpi di polizia locale. Con lo stesso affiatamento che affratella e coordina i nostri carabinieri e poliziotti. Poi c’è l’Fbi federale. Poi la Guardia nazionale, che però dipende dal Pentagono. Quella di Washington ha solo mille effettivi, quindi ieri sera (dopo ore e ore) sono scesi in campo gli stati vicini, Virginia e Maryland. Fino alla mossa comica del governatore di New York, che ha inviato un suo contingente.

Gli Usa spendono ogni anno 115 miliardi per le varie forze dell’ordine. Ma a controllare le manifestazioni politiche ci sono anche i servizi segreti. E qui, ecco l’ulteriore barzelletta: l’intelligence statunitense è divisa in sedici agenzie. Cia, Dia, Nsa, sicurezza interna ed esterna, ogni arma ha le proprie spie, e poi il ministero dell’Energia, e volete mettere la Home Security, il nuovo ministero dell’Interno federale inventato dopo l′11 settembre 2001? Il suo bilancio è di altri 50 miliardi, più i 78 totali dell’intelligence.

Quanto all’intelligenza, quella vera, non poteva prevedere che il capo dei nuovi terroristi all’assalto del Palazzo in questo inverno non fosse un imam islamista, ma un vecchio signore che ieri ha aizzato per un’ora 40mila persone, invitandole ad andare poi al Congresso a dimostrare. E quelli hanno dimostrato, mandati dal capo dei poliziotti che avrebbero dovuto fermarli.

Il nero George Floyd è stato fermato per un biglietto falso da venti dollari, lo scorso maggio. È finito soffocato. La povera Ashley Babbitt, penetrata nel Senato contro il voto “rubato”, ieri è stata uccisa da un poliziotto terrorizzato. Ora anche i trumpiani potranno sventolare la loro martire. Ma “legge e ordine”, lo slogan di Trump, non è più utilizzabile dalla destra Usa: i “patrioti” cospirazionisti si sono fatti male da soli.

Mauro Suttora

Friday, November 13, 2020

Prima di Conte la letterina di Natale arrivò a Kennedy

I potenti hanno sempre ricevuto centinaia di missive dai bambini. Anche Stalin

Huffington Post, 13 novembre 2020

Non è la prima volta che un bambino, preoccupato per Babbo Natale, si rivolge a un politico. Sessant’anni prima di Tommaso Z., 5 anni, di Cesano Maderno (Monza Brianza), che ha chiesto a Giuseppe Conte di garantire al vecchio Santa Claus “un’autocertificazione speciale per consegnare i doni a tutti i bambini del mondo”, Michelle Rochon, 8 anni, scrisse una lettera dal suo Michigan a John Kennedy: “Ferma i russi, per favore. Se bombardano il polo Nord uccideranno Babbo Natale”.

“Non preoccuparti, ieri ho parlato con lui e sta bene. Farà di nuovo il suo giro questo Natale”, le rispose il presidente Usa, più sintetico del nostro premier. Era il 28 ottobre 1961. Due giorni dopo i sovietici sganciarono la bomba Zar, il più potente ordigno all’idrogeno mai sperimentato, sull’isola Nuova Zemlja, oltre il circolo polare artico. Era sei volte più devastante di quella di Hiroshima, il fungo atomico raggiunse l’altezza di 64 chilometri e il lampo fu visto a mille chilometri di distanza. L’onda d’urto rase al suolo le case di legno di paesi lontani centinaia di chilometri e danneggiò finestre anche in Finlandia.

Le circostanze oggi sono serie (virus), ma non così drammatiche. E Conte non ha rinunciato a farsi un po’ di propaganda pubblicando su Facebook la sua lunga risposta a Tommaso, prodigio già alfabetizzato: “Voglio rassicurarti, Babbo Natale mi ha garantito che già possiede un’autocertificazione internazionale: può viaggiare dappertutto e distribuire regali a tutti i bambini del mondo. Senza nessuna limitazione. Mi ha poi confermato che usa sempre la mascherina e mantiene la giusta distanza per proteggere se stesso e tutte le persone che incontra. L’idea di fargli trovare sotto l’albero, oltre al latte caldo e ai biscotti, anche del liquido igienizzante mi sembra ottima. Una buona strofinata gli permetterà di disinfettare ben bene le mani e di ripartire in piena sicurezza».

A questo punto il povero Tommaso già dorme, tramortito dalla logorrea del premier. Che però va avanti: “Sono contento di sapere che tu e i tuoi compagni rispettate con scrupolo tutte le regole, in modo da proteggere anche mamma e papà, i nonni, e le persone più care. Per questo motivo ti annuncio che non sarà necessario precisare nella letterina a Babbo Natale che sei stato bravo: gliel’ho detto io. Gli ho raccontato che quest’anno in Italia è stato un anno molto difficile e tu e tutti i bambini siete stati adorabili. Ho saputo anche che vuoi chiedere a Babbo Natale di mandare via il coronavirus. Non sprecare l’occasione di chiedere un regalo in più. A cacciare via il coronavirus ci riusciremo noi adulti, tutti insieme. Così tu e i tuoi compagni potrete tornare presto a giocare liberi e felici e ad abbracciarvi tutti. Spensierati come sempre».

Sui social naturalmente si è scatenata l’ironia. Anche perché i bambini sembrano essere diventati grafomani in tempi recenti: un certo Manuel da Settimo Torinese avrebbe inviato la sua personale solidarietà a Matteo Salvini per il processo di Catania sulla nave Gregoretti.

Così Luca Bizzarri ha scritto una parodia di lettera: «Caro Luca, sono Adelmo, un bambino di 6 mesi, e ho una domanda da farti. Secondo te il nostro presidente del Consiglio pensa davvero che siamo tutti così coglioni? Perché già ci aveva provato quell’altro signore, ti ricordi, quello che diceva che un bambino gli aveva scritto una lettera perché lo vogliono processare. E io ho pensato va be’ dai, è un po’ un pirlone, ci sta. Ora ci prova anche questo signore, ma commette un errore banalissimo: un bambino di 5 anni non scrive così. Per vedere come scrive un bambino di 5 anni deve leggere i post su Instagram del suo ministro degli Esteri. Ciao, salutami Babbo Natale, che magari non esiste, ma non esiste neanche il ciondolo anti Covid, il senso dello Stato, il rispetto della carica istituzionale, un’opposizione decente, il senso del ridicolo». 

Bizzarri ha pubblicato anche la propria risposta: «Caro Adelmo, come darti torto. Ma se puoi scrivere a qualcun altro che io i bambini finti non li sopporto. Sopporto a malapena quelli veri”.

In realtà presidenti democratici e dittatori hanno sempre ricevuto lettere dai ragazzini, più o meno imboccate dai loro genitori. Claretta Petacci scrisse al suo idolo Benito Mussolini già a 14 anni, nel 1926, dopo l’attentato di Violet Gibson al duce che l’aveva impressionata. Ne sarebbe diventata l’amante solo dieci anni dopo.

Innumerevoli furono anche le richieste d’intercessione, come questa inviata il 5 gennaio 1942 da tre ragazze ad Anna Maria, figlia di Mussolini, per farsi autografare tre cartoline col suo ritratto: “Ci troviamo per poco a Roma per poi ritornare nella nostra amata Sicilia. Siamo fiere di essere in prima linea a fronteggiare le offese nemiche, e volentieri sopportiamo qualche sacrificio perché presto arrida la vittoria alia Patria nostra diletta. Ci permettiamo inviarti tre foto del tuo grande Papà perché Egli voglia compiacersi di apporvi la sua firma che noi terremo come carissimo ricordo”.

Più tragica la vicenda di Engelsina Markizova, fotografata nel 1936 a sei anni con uno Stalin bonario e sorridente. Lei era figlia di un dirigente comunista dell’estremo oriente sovietico. La foto ebbe un tale successo che venne pubblicata dai giornali del regime con la scritta ‘Grazie, compagno Stalin, per la nostra infanzia felice’. Dalla foto venne addirittura tratta una statua, eretta a Mosca e intitolata a ‘Stalin, l’amico dei bambini’.

Engelsina ha potuto raccontare la vera storia della sua vita soltanto a 60 anni, nel 1990, dopo il crollo del comunismo. Un anno dopo quella foto suo padre, Sergei Markizov, venne arrestato come presunto agente dei giapponesi e fucilato. Sua madre, che non sapeva dell’esecuzione, fece scrivere alla bambina una patetica lettera a Stalin, per ricordargli la foto e chiedere clemenza verso un vero comunista. 

Il dittatore rispose facendo arrestare anche la madre di Engelsina, che venne esiliata in Kazakistan come nemica del popolo e morì a 32 anni, probabilmente sgozzata dalla polizia segreta. Engelsina fu affidata a una zia. La sua identità nella famosa foto venne cambiata con quella di un’altra bambina, Tagiki Mamlakat Nakhangova.

Ma i principali destinatari delle lettere dei bambini sono i loro idoli di musica e cinema. Gigliola Cinquetti ha depositato al museo Storico di Trento il suo archivio con ben 150mila lettere di ammiratori e ammiratrici. Ecco una delle più divertenti, spedita dalla tredicenne R.S. l’8 dicembre 1966: “lo ti ho scritto questa lettera per dirti si mi vuoi aiutarmi a farmi venire con te dove stai tu, perché io vorrei scrivermi a farmi cantanta, e io sono sicura che tu l’accetterai”.

Mauro Suttora

Wednesday, July 15, 2020

Se il tribalismo colpisce anche il NY Times

La responsabile degli op-ed si dimette


Mauro Suttora

15 luglio 2020, Huffington Post


articolo sull'HuffPost

Povero John Kennedy. “Un Paese che ha paura di far scegliere ai propri cittadini il vero e il falso in un mercato libero è un Paese che ha paura dei propri cittadini”, disse nel 1962 per il ventennale di Voice of America, la radio del governo Usa usata contro i nazifascisti e poi contro i comunisti.

Pensavamo tutti che gli Stati Uniti fossero il non plus ultra della libertà, e in particolare della libertà d’informazione. Invece le dimissioni quasi contemporanee di Bari Weiss dal New York Times e di Andrew Sullivan dal New York Magazine ci ricordano che gli statunitensi possono essere anche intolleranti: dalla Lettera scarlatta al proibizionismo, dal Ku Klux Klan al maccartismo.

La 36enne Bari Weiss non era una semplice giornalista del Times, né un’opinionista. Era una editor delle pagine op-ed del principale quotidiano Usa. Il quale ha l’ottima abitudine non solo di separare perfino fisicamente, in pagine e redazioni diverse, le notizie dalle opinioni (pratica per noi esotica), ma anche di distinguere i commenti fra quelli che esprimono la linea ufficiale del giornale (editoriali) e quelli aperti a qualsiasi tendenza (op-ed, appunto: open editorials).

Eugenio Scalfari ricorse alla testatina “Diverso parere” quando quasi 40 anni fa ospitò il liberale Alberto Ronchey su Repubblica, orientata a sinistra. E ogni tanto anche oggi qualche direttore affianca un proprio articolo a un altro che lo contraddice. Ma non è frequente, nell’Italia delle parrocchie contrapposte. Ammettiamolo: non siamo popperiani.

Ammiravamo per questo il giornalismo anglosassone. E invece anche per loro è arrivato il momento del “tribalismo”, come lo definisce la Weiss nella sua brillante lettera di dimissioni, che andrebbe tradotta e proposta a tutti gli opinionisti fai-da-te nei social.

Weiss, ex Wall Street Journal, era stata imbarcata dal sussiegoso Times quattro anni fa per proporre un “diverso parere” ai propri lettori, disorientati dalla vittoria di Trump. Da allora ha scritto e fatto pubblicare opinioni di destra su un giornale di sinistra. Esercizio intellettualmente stimolante (“vediamo cos’hanno da dire questi zoticoni di trumpiani”), ma neurologicamente devastante per lei. Soprattutto dopo le due recenti ondate di ‘correttezza politica’ che hanno sommerso gli Usa. O perlomeno Manhattan, dove si concentrano i lettori del Times e Trump non arriva al 20%.

Il primo tornado è stato nel 2017 il ‘Me too’: la riscossa antimaschilista dopo lo scandalo Weinstein. Anche solo sospettare che qualche attrice potesse avere usato invece che subìto il divano del produttore era impensabile. La lettera S di sessismo stava lì pronta per essere marchiata a fuoco sul grasso pancione del maiale, come Noomi Rapace in ‘Uomini che odiano le donne’.

Da due mesi invece infuria il ‘Black Lives Matter’, la riscossa antirazzista dopo l’omicidio Floyd. E una delle vittime è stato il diretto superiore della Weiss, il capo degli editoriali del NY Times spinto alle dimissioni per aver osato pubblicare l’op-ed di un senatore repubblicano favorevole all’intervento dell’esercito per fronteggiare sommosse violente.

La Weiss è stata a sua volta sommersa di tweet con ogni tipo di insulto e accusa, dall’ormai inflazionato ‘razzista’ al simpatico ‘nazista’, visto che è ebrea.

Stessa storia per Andrew Sullivan, altro storico commentatore controcorrente: vent’anni fa provocò borborigmi nei benpensanti di sinistra Usa perché proprio lui, progressista (e gay, anche se c’entra poco), appoggiò le guerre di Bush junior (come Biden, d’altronde, anche se ora non gli piace ricordarlo).

Sullivan e Weiss probabilmente ora fonderanno un sito dei senzapatria. Impresa voltairiana rischiosissima, perché sia nel giornalismo che in politica, e sia negli Usa che in Italia, vince invece il tribalismo. O di qua o di là, ciascuno nella propria tribù. Felici di sentirsi ripetere le rispettive “narrazioni” (sinonimo di fandonie propagandiste) di destra e sinistra. I politici devono farsi votare ogni quattro anni, i giornali devono farsi comprare o cliccare ogni giorno. Ma il principio è lo stesso: attirare e fidelizzare i già convinti. Così il mercato si estremizza e scompaiono, al centro, neutrali e moderati. Politicamente e commercialmente sciapi, asettici, poco interessanti.

In tv o Fox o Cnn. Nella stampa o Washington Post (di Jeff Bezos, Amazon) e New York Times (di editore puro) a sinistra; oppure New York Post e Wall Street Journal (di Murdoch) a destra.
Tertium non datur. Per certi progressisti ora il tumore alla cervice non è più prerogativa femminile, perché così si discriminano i maschi trans, ex donne. 
E secondo certi conservatori Biden è in combutta con Bill Gates per vaccinare (avvelenare) il mondo intero con la scusa del covid.

A pensarci bene, però, la sinistra Usa ha già vinto. Perché la da loro detestata Bari Weiss non si definisce di destra. Dice che è “di centro”. Quindi perfino per lei “destra” è una parola vergognosa. Non ha neppure il coraggio e l’onestà di confessare la propria tribù. Pretende di essere al di sopra delle parti. Perché in fondo anche lei è una giornalista privilegiata, addirittura pagata per distillare opinioni. Perciò irrimediabilmente radical chic, è la sentenza finale del Napalm 51 americano (di entrambe le tifoserie: contrapposte, ma simmetricamente eguali).
Mauro Suttora

Thursday, November 23, 2017

L'ultima bufala su Hitler



Desecretato un rapporto Cia del 1955: finta foto dalla Colombia

di Mauro Suttora

Oggi, 16 novembre 2017

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha fatto desecretare migliaia di documenti riservati della Cia (Central intelligence agency). Si aspettavano novità sensazionali sull’assassinio di John Kennedy. Ma la verità sull’omicidio di Dallas (22 novembre 1963) è probabilmente rimasta nei 500 «files» che Cia e Fbi hanno ottenuto di non divulgare ancora, in nome del «segreto di stato».

Però possiamo consolarci con un documento che riguarda un altro dei grandi misteri del ’900: la fine di Adolf Hitler. Non pochi, infatti, hanno sostenuto che il dittatore nazista sia riuscito a fuggire in Sud America nel 1945.

Siamo nel 1955. Il 29 settembre un agente col nome in codice Cimelody-3 viene contattato da un amico fidato che aveva lavorato sotto di lui in Europa. Cimelody non ne rivela il nome: scrive solo che risiede a Maracaibo (Venezuela).

Questa fonte racconta che nella seconda metà di settembre un certo Phillip Citroen, ex SS tedesco, gli ha detto che «Adolph [sic] Hitler è ancora vivo». Citroen lo avrebbe incontrato in Colombia, durante un viaggio di lavoro da Maracaibo come dipendente di una società olandese di trasporti marittimi. E si sarebbe anche fatto fotografare con lui, ma non gli mostra la foto.

Secondo Citroen Hitler lasciò la Colombia per l’Argentina nel gennaio del 1955. E non avrebbe più potuto essere processato come criminale di guerra, perché erano passati dieci anni dalla fine del conflitto.

«Sottrasse la foto»
Il 28 settembre l’amico di Cimelody riesce a sottrarre la foto di Citroen con Hitler. E il giorno dopo la mostra all’agente segreto statunitense. David Brixnor, capo della stazione Cia di Caracas, il 3 ottobre 1955 scrive nel suo rapporto alla sede centrale: «Naturalmente Cimelody-3 non è stato in grado di esprimere alcuna valutazione sulla possibile veridicità di questa storia fantastica. Tuttavia, ha preso in prestito la foto per farne delle copie, prima di restituirla al proprietario il giorno dopo».

Nella foto appare Citroen accanto allo pseudo-Hitler. Nel retro c’è scritto: «Adolf Schrittelmayor, Tunga, Colombia, 1954».
Che a Tunja nel dopoguerra si fossero rifugiati dei nazisti, è possibile. Ma che quell’ometto con i baffetti e i capelli ancora nerissimi potesse essere un 65enne Hitler, è assai improbabile. Infatti quel rapporto finì nella cantine della Cia, e fu riesumato nel 1963 solo per essere microfilmato e tornare nel giusto oblio. Soltanto uno stupido, infatti, avrebbe potuto conservare i baffi che lo identificavano immediatamente. E Hitler stupido non era.

Fantasie complottiste
Naturalmente sono stati decine gli avvistamenti del dittatore tedesco da parte dei più fantasiosi complottisti, fino agli anni 70. E c’era chi li prendeva sul serio. Per esempio Edgar Hoover, potente capo dell’Fbi  fino al 1972: faceva investigare a fondo su tutte le segnalazioni, provenienti soprattutto dal Sud America, dove in effetti trovarono rifugio diversi ex gerarchi nazisti. Anche il presidente Usa Dwight Eisenhower sospettava che il Führer fosse sopravvissuto.

Ma alla fine la verità più probabile è che Hitler sia veramente morto suicida nel suo bunker di Berlino il 30 aprile 1945, poche ore prima che arrivassero i soldati sovietici.
Stalin ordinò che i cadaveri del capo nazista e della sua Eva Braun fossero distrutti, per evitare che una eventuale tomba diventasse luogo di culto per i nostalgici. I sovietici diffusero la foto di un corpo prima che venisse bruciato. Ma pare che fosse quello di un sosia (che Hitler si teneva sempre vicino, per sviare gli attentati), perché i nazisti avevano già cremato il loro capo, come lui aveva ordinato.

Il cranio di una donna
I sovietici dicevano di aver conservato alcuni resti di Hitler. Lo scienziato statunitense Nick Bellantoni (Università del Connecticut) esaminò quei frammenti di teschio nel 2009: è risultato che appartenessero a una donna tra i 20 e i 40 anni. Il Führer ne aveva già 56 quand’è morto.
Mauro Suttora


Tuesday, November 08, 2016

I segreti della Casa Bianca

di Mauro Suttora

Washington, 8 novembre 2016



Donald Trump, appena eletto 45esimo presidente degli Stati Uniti, si trasferirà in questo palazzo bianco il 20 gennaio 2017. E per quattro anni (al massimo otto) governerà non solo il proprio Paese, ma anche il mondo, visto che gli Usa ne sono ancora la principale superpotenza.

Ma come si svolge la vita quotidiana alla Casa Bianca? Diciamo anzitutto che il famodo Studio ovale, con la scrivania presidenziale, non si trova nel corpo centrale del palazzo, costruito nel 1801, bruciato dagli inglesi nel 1814 e ricostruito.

Studio Ovale nascosto dagli alberi

La Oval room sta nella West Wing della Casa Bianca, aggiunta nel 1902. Questa Ala ovest non si vede mai nelle foto, perché è alta solo due piani ed è nascosta dagli alberi del parco interno.
Il presidente la raggiunge ogni mattina dai suoi appartamenti privati, al secondo e terzo piano del corpo centrale. Ma attenzione: nessuno, per ragioni di sicurezza, sa più esattamente in quale stanza dorma.

L’attuale President Room, infatti, fino al 1974 ospitava di solito le First Lady, che dormivano separate dal marito fino alla presidenza di Gerald Ford. Era la camera da letto di Jacqueline Kennedy, e John stava nella stanza accanto, che adesso è la Private sitting room (salotto privato).

La West Wing ospita tutti gli uffici operativi, compresa la Situation room per le riunioni d’emergenza, da dove Barack Obama nel 2011 ordinò l’uccisione di Osama bin Laden.
Obama è stato particolarmente severo nel proteggere la privacy della sua famiglia. Nessuno, tranne i parenti e gli amici strettissimi, sa neppure se le due figlie, la moglie Michelle e la suocera abbiano le stanze da letto al secondo o al terzo piano.

«Mi sveglio ogni mattina in un palazzo costruito da schiavi afroamericani come me»: queste parole della First Lady hanno infiammato la Convenzione democratica lo scorso luglio. Ed è vero: i lavori durarono nove anni, tanto che il primo presidente George Washington non riuscì mai ad abitarci (prima la capitale era Filadelfia). Ma al secondo piano c’è pure la stanza di Abraham Lincoln, che nel 1865 abolì la schiavitù (e fu assassinato).

Ogni stanza della Casa Bianca racconta un pezzo di storia. L’ex studio di Lincoln era anche il preferito di Richard Nixon, unico presidente a essere cacciato con l’impeachment nel 1974 per lo scandalo Watergate.

Sempre al secondo piano, la Yellow Oval room fu lo studio ovale usato dal presidente Franklin Delano Roosevelt che, costretto in carrozzina, non andava fino alla West Wing: qui gli giunse la terribile notizia dell’attacco di Pearl Harbor nel 1941.
E al piano terra la Map room era la Situation room della Seconda guerra mondiale, con tutte le cartine del mondo.

Mauro Suttora

Friday, September 09, 2011

11 settembre, no tower

PERCHÉ LA RICOSTRUZIONE DI GROUND ZERO RITARDA?

di Mauro Suttora per il settimanale Oggi

New York, settembre 2011

Hanno fatto prima ad andare sulla Luna che a ricostruire le Twin Towers, gli americani. Passarono otto anni, da quando il presidente John Kennedy lo promise, fino all'allunaggio del 1969. Ci saranno voluti invece dodici anni quando, nel 2013, verrà inaugurata la Freedom Tower, alta più di mezzo chilometro (1.776 piedi, come l'anno di nascita degli Stati Uniti).

Ma non sarà il grattacielo più alto del mondo, superato da quelli a Dubai e La Mecca (primato islamico, per lo sconforto dei conservatori). E non si chiamerà più Torre della Libertà, bensì burocraticamente One World Trade Center, per non diventare bersaglio di altri fanatici.

«Ricostruiremo le torri in tre anni!», avevano proclamato le autorità il 12 settembre 2001. Poi, la triste realtà: nessuno voleva riaprire uffici in quel posto maledetto. E, senza contratti d' affitto, nessuno negli Usa costruisce: impera il dio dollaro. In extremis si sono offerti enti pubblici, i cinesi, l'editore Conde Nast. E i lavori sono partiti.

Wednesday, September 30, 2009

Via dall'Afghanistan

L'ESPERTO: "NON VINCEREMO"

L'opinione di Rory Stewart

di Mauro Suttora

Oggi, 23 settembre 2009

«In Afghanistan non esistono attività economiche rilevanti, tranne la produzione di droghe: il 92 per cento dell'oppio (eroina) e il 35% della cannabis mondiale provengono da qui. Per il resto, il Paese è dipendente dagli aiuti internazionali. Quindi è impossibile ricostruire uno Stato, per lo meno nel futuro prossimo».

Rory Stewart, 36 anni, è uno dei massimi esperti internazionali di Afghanistan. Ha scritto due libri: In Afghanistan e I rischi del mestiere, entrambi tradotti in Italia dall'editore Ponte alle Grazie.

Soltanto per mantenere un esercito e una polizia afghana ci vorrebbero due miliardi di dollari all'anno, mentre l'intero bilancio del governo di Kabul è di soli 600 milioni. Inutile, quindi, pensare che possano “difendersi" da soli».

E quindi?

«Quindi rinunciamo all'occupazione militare, e facciamo restare in Afghanistan solo ventimila soldati delle forze speciali per l'antiterrorismo. Cioè per impedire che Al Qaeda ricostruisca dei campi d'addestramento. Tutto il resto è inutile. La guerra contro i talebani non potrà essere mai vinta».

E Osama Bin Laden?

«Non è in Afghanistan. Si nasconde in Pakistan. Ma nessuno ovviamente si sogna di invadere il Pakistan per catturarlo».

Il presidente Usa Obama però ha aumentato i soldati a Kabul.

«Sta sbagliando. L'Afghanistan rischia di diventare per lui ciò che il Vietnam fu per John Kennedy: un tragico errore».

Quindi dovremmo abbandonare l'Afghanistan.

«No, ma dovremmo tenere lì solo dei commandos per catturare Osama e il mullah Omar. E abbandonare l'illusione di portare la democrazia in un posto che non ha la minima idea di che cosa sia».

Stewart non è un pacifista. Anzi, ha fatto parte del reggimento d'élite scozzese Black Watch. Poi è stato diplomatico a Kabul. Ma ora il suo consiglio è: «Andarsene».

Wednesday, November 19, 2008

Leggenda Obama

LA VITA DEL NUOVO PRESIDENTE USA

Oggi, 6 novembre 2008

New York (Stati Uniti)
Non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre kenyota e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo.

Eppure proprio questo è successo nella notte del 4 novembre: la trionfale elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, al di là delle idee politiche sue e dell’avversario sconfitto, John McCain, rappresenta un avvenimento storico.

L’unico voto paragonabile a questo nella storia moderna degli Stati Uniti è stato quello per John Kennedy nel 1960. Ma i Kennedy, seppure cattolici, erano dei miliardari bene incistati nella nomenklatura americana. Obama, invece, è un totale «homo novus». Conviene quindi conoscere bene il suo passato per prevedere che cosa farà in futuro.

«Non ero abbastanza nero per i neri, e abbastanza bianco per i bianchi»: così lo stesso Barack descrive con amarezza la propria gioventù nell’autobiografia I sogni di mio padre (ed. Nutrimenti). Il libro è in vendita in Italia da un anno, ma fu scritto da Obama già nel 1995. E che un politico senta non solo il bisogno di scrivere la storia della propria vita ad appena 34 anni, ma che la compili prima ancora di essere stato eletto a qualsiasi carica (Barack è diventato senatore statale dell’Illinois - paragonabile a un nostro consigliere regionale - solo nel ‘97), e soprattutto che la tiri così per le lunghe da trarne un tomo monumentale con più di 400 pagine, dice tutto sull’ambizione del nostro. Ambizione giustificata, comunque: secondo Joe Klein, che l’ha recensita sul settimanale Time, «si tratta forse della migliore autobiografia mai scritta da un politico americano».

«Era ambizioso anche il padre», raccontano i parenti e i compagni d’università di Barack Obama senior. Il papà di Obama nasce nel 1936 nel profondo Kenya, sulle rive del lago Vittoria: dalla parte opposta rispetto alle spiagge cosmopolite di Malindi. Appartiene alla tribù dei Luo, che fino agli anni Trenta scorrazzava felice nuda per la savana. I maschi indossavano solo un perizoma di cuoio. Leggenda vuole che proprio il nonno di Obama, Hussein Onyango, sia stato fra i primi «eccentrici» a coprirsi di vestiti occidentali, cuciti con stoffe colorate.

Obama senior è descritto dal figlio come «pastore di capre», ma forse è solo civetteria: in realtà pare che la sua fosse una famiglia benestante di allevatori. Il ragazzino comunque camminava dodici chilometri al giorno per andare a scuola. A vent’anni va a Nairobi e scopre che si possono ottenere borse di studio universitarie per gli Stati Uniti. Nel frattempo sposa la prima delle sue quattro mogli e ha due figli (particolare nascosto alla mamma di Obama).
Il programma di 81 borse di studio è finanziato dalla fondazione Kennedy: un altro anello che collega i due presidenti.

Obama senior finisce all’università delle Hawaii, dove con la sua personalità brillante e forte (alcuni dicono prepotente) ammalia la studentessa del primo anno Stanley Ann Dunham, figlia unica di un commesso viaggiatore del Kansas e della moglie Madelyn (la famosa nonna di Obama, morta a 86 anni proprio alla vigilia del voto).

Nel ’61 nasce Barack (in arabo «benedetto», in ebraico «fulmine»), ma poco dopo suo padre lo molla assieme a Ann, se ne va ad Harvard e, da buon poligamo, si mette con un’altra americana. Poi tornerà in Kenya, farà altri due figli con la prima moglie (in totale Obama ha sette fratellastri), e morirà alcolizzato in un incidente d’auto nell’82. Va a trovare il figlio alle Hawaii solo una volta in vita sua, quando Obama ha dieci anni.

Mamma Ann, però, non fa la parte della ragazza madre abbandonata e inacidita. «Papà è dovuto tornare nel suo Paese a lottare per la libertà»: questa è l’immagine da eroe che inculca nel piccolo Obama, per giustificare l’assenza. Poi, sempre ottimista e piena di curiosità ed energia (doti ereditate dal figlio), si risposa con uno studente indonesiano e si trasferisce a Jakarta. Lì Obama frequenta le elementari, ma per le medie la mamma preferisce farlo tornare a Honolulu dai nonni. Che riescono a iscriverlo nella scuola media e liceo più prestigioso delle Hawaii, quello dove vanno i ricchi.

Obama racconta del disagio che provava con i compagni, unico nero, e della loro sorpresa quando videro sua madre: «Ma è bianca!» Ottimo studente, determinatissimo anche nello sport, sogna di diventare campione di basket. Nel ’79, dopo la maturità, emigra in continente: prima a Los Angeles, dove frequenta due anni l’Occidental College, e poi a New York, dove si laurea in relazioni internazionali nella prestigiosa Columbia university. Vive sulla 94esima strada, al confine fra East Harlem e la Manhattan dei ricchi: una scelta carica di significato.

Poi il primo impiego nella scintillante New York reaganiana degli anni ’80, soldi facili e cocaina. Lui ammette di avere sniffato e fumato spinelli (meno ipocrita del «Però non ho inalato» clintoniano), ma quell’ambiente non fa per lui. Ha sogni di grandezza, vorrebbe diventare scrittore, cerca dal mondo l’attenzione che non ha avuto da piccolo. Scopre la politica «di base», si offre come volontario e nell’85 emigra a Chicago.

È la sua fortuna: occuparsi dei problemi degli altri è la sua vocazione. Poi, sulle orme del padre, va ad Harvard a specializzarsi in diritto, e lì il suo talento e il suo carisma esplodono: primo presidente nero della prestigiosa Rivista di legge. Il secondo regalo il destino glielo riserva al ritorno a Chicago: appena assunto in un studio legale specializzato in diritti civili, gli mettono accanto la futura moglie Michelle per «tirarlo su».

Anche in politica è fortunatissimo: eletto la prima volta nel ’97 perché gli altri candidati vengono squalificati. Batosta nel 2000, alle primarie per deputato a Washington. Ma lui, testardo, prova e riprova. E nel 2004 diventa l’unico senatore di colore degli Usa (altro che «integrazione») perché il suo avversario è accusato dalla ex moglie: «Mi voleva portare in un club porno!»

In quale altro stato del mondo un politico può essere eletto presidente dopo soli quattro anni di esperienza parlamentare nazionale? Solo in America, baby. La «Terra delle opportunità», come la chiama sempre Obama, grato, nei suoi trascinanti discorsi. Soltanto quattro persone sono riusciti a infiammare come lui gli Stati Uniti con la parola, nell’ultimo mezzo secolo: i due Kennedy, Martin Luther King e Ronald Reagan.

Anche qui, particolare incredibile: il suo speechwriter, quello che gli scrive i discorsi, ha solo 27 anni. Il suo motto «Yes we can» è già diventato leggenda, come la «Nuova frontiera» di Kennedy o la «Grande società» di Lyndon Johnson.

Adesso siamo alla selezione di ministri e funzionari per la Casa Bianca (che fu costruita da schiavi neri nel 1800). Il più potente sarà il capo di gabinetto Rahm Emanuel (detto Rahmbo), 49 anni, figlio di un israeliano, e questo rassicura gli ebrei. Obama non ha fatto il servizio militare (la leva fu abolita nel ’75), in cambio Emanuel è stato volontario dell’esercito d’Israele nella prima guerra del Golfo. La «voce» di Barack invece sarà il fido 37enne Robert Gibbs, suo addetto stampa al Senato.

Gli unici a trattarlo male dopo la vittoria sono stati la Borsa (crollata del dieci per cento nelle 48 ore successive, ma ormai non fa più notizia) e il capo della Russia Vladimir Putin, che da vero maleducato lo ha accolto annunciando l’installazione di nuovi missili a Kaliningrad, 400 chilometri da Berlino.

I problemi stanno per arrivare. Ce ne saranno tantissimi, con la crisi economica e le due guerre (Iraq, Afghanistan) in cui gli Usa sono infognati da troppi anni. I fans di Barack si accorgeranno che non è Superman. Ma, in ogni caso, è iniziata l’Era di Obama.

Mauro Suttora


RIQUADRO: Concepito la notte della vittoria di John Kennedy

Un'incredibile coincidenza lega Barack Obama a John Kennedy. Il nuovo presidente degli Stati Uniti è stato probabilmente concepito la notte in cui Kennedy vinse la sua elezione, l'8 novembre 1960. Esattamente nove mesi dopo, il 4 agosto 1961, a Honolulu la giovanissima Stanley Ann Dunham, 18 anni, dà alla luce Barack Hussein: figlio dello studente 24enne Obama arrivato dal Kenya due anni prima con una borsa di studio per l'università delle isole Hawaii.

Questione di ore, al massimo di giorni. Ma basta per legare le due elezioni che hanno creato più speranze nell'era moderna: quella del 43enne Kennedy, il primo presidente cattolico e il più giovane nella storia degli Stati Uniti (morì che era più giovane di Obama adesso), e quella del primo presidente di colore.


RIQUADRO 2: L'inventore di «Yes we can» ha 27 anni

L’inventore dello slogan di Obama «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts, laureato dai gesuiti: Jon Favreau. Nel 2004 era volontario per la sfortunata campagna presidenziale del democratico John Kerry. Prima dello storico discorso alla Convention con cui Obama si fece conoscere al mondo lui si accorse di un piccolo errore sul «gobbo», segnalandoglielo.

Da allora è stato imbarcato nel suo staff, e nel gennaio di quest’anno ha inserito il motto «Sì, possiamo (farcela)» nel discorso con cui il candidato ringraziava per l’insperata vittoria nella primaria dell'Iowa contro Hillary Clinton. Lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento. Com’è successo anche nel discorso di Chicago dopo la vittoria, quando ha inserito al volo un grazie a McCain dopo i nobili auguri dell’avversario sconfitto. Obama comunque è un bravissimo scrittore, sia di libri sia di discorsi. Potrebbe anche farcela da solo ma, come ha detto a Favreau, «le mie giornate hanno solo 24 ore».

Mauro Suttora

Wednesday, June 18, 2008

Obama vince le primarie

Elezioni usa. Cosa significa la vittoria di Obama

A 40 anni dalla morte di Bob Kennedy, gli Stati Uniti hanno un nuovo mito: Barack. Ora un nero può diventare presidente. Una rivoluzione

di Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), 6 giugno 2008

Una coincidenza da fare accapponare la pelle: il 5 giugno Barack Obama ha conquistato la candidatura del partito democratico per le presidenziali americane di novembre. In quello stesso giorno, 40 anni prima a Los Angeles, veniva assassinato Robert Kennedy, dopo avere ottenuto anche lui quella candidatura. Due miti che si stringono la mano, due leggende che si saldano a distanza di quattro decenni: quella del primo possibile presidente di colore degli Stati Uniti, e quella del secondo dei fratelli Kennedy che tentò la scalata alla stessa poltrona, pagando anch' egli con la vita come il fratello John cinque anni prima a Dallas.

"Mi sono accorto che stiamo vivendo un momento storico solo ieri mattina, quando in autobus un passeggero sconosciuto ha commentato la vittoria di Obama con il conducente", dice Hector Garcia, un nero che gestisce una bisteccheria ad Harlem, il quartiere dei neri di New York. "Anche i miei clienti hanno cominciato a parlare di Obama, e perfino i miei vicini di negozio, un barbiere e un ottico, mi hanno fermato sul marciapiede elettrizzati dall' accaduto".

Negli Stati Uniti il 12 per cento della popolazione è di colore. Ma è dai tempi dei Kennedy, dagli anni Sessanta appunto, che per loro l' orologio sembrava essersi fermato. Infatti, dopo l' abolizione dell' apartheid negli Stati del Sud e la parità dei diritti civili ottenuta da Martin Luther King (assassinato due mesi prima di Robert Kennedy in quell' orrendo 1968), la minoranza di colore non ha fatto grandi progressi sociali.

Certo, si è formata una media borghesia di colore che in molte città conduce una vita paragonabile a quella della middle class bianca. Certo, in molte professioni l' accesso dei neri è ormai garantito: lo stesso Obama e sua moglie Michelle sono entrambi avvocati. Certo, dopo l' ambasciatore Andrew Young nominato dal presidente Jimmy Carter nel ' 76, e dopo i segretari di Stato Colin Powell e Condoleezza Rice nominati da George Bush nel 2000, anche in politica quasi tutte le porte sono state aperte. E perfino nel big business qualche nero si è fatto strada, come Richard Parsons che dal ' 95 guida il gigante dei media Cnn Time Warner. Ma in generale le statistiche sono incresciose. Nei ghetti neri la criminalità è altissima, così come gli stupri e le ragazze madri. Una normale famiglia con padre e madre che non divorziano dopo qualche anno è quasi una rarità. E i neri perdono la gara anche con le nuove minoranze: surclassati da asiatici e ispanici.

"Smettiamola di lamentarci e di dare la colpa alla società dei bianchi per le nostre condizioni d' inferiorità", ha ammonito il personaggio televisivo Bill Cosby nel 2005, "la responsabilità è nostra: rimbocchiamoci le maniche e smettiamola di pensare che la nostra cultura è quella dei ragazzotti ignoranti della musica rap". Parole dure, ma che che hanno colto nel segno. Perfino Obama, oggi, non vuole più che l' emancipazione dei neri sia affidata solo alle "quote" obbligatorie delle cosiddette affirmative action, cioè i posti garantiti ai neri nelle migliori università e in molti posti di lavoro pubblici.

La storia della sua vita, d' altronde, è lì a garantire per lui: figlio di uno dei tanti neri che non si sono assunti la responsabilità di fare il padre, e che quindi spariscono dopo avere messo incinte le madri dei loro figli, si è fatto strada studiando. Laureato alla Columbia di New York, specializzato ad Harvard, quando fu preso per una sostituzione estiva in uno studio legale di Chicago venne affidato alla supervisione dell' unica altra avvocata di colore dello studio, anche lei con un curriculum brillante (Princeton e Harvard): Michelle Robinson. "L' ho invitata a pranzo e poi a vedere il film Fai la cosa giusta di Spike Lee. Ora è mia moglie", ha raccontato lui. Barack, che aveva sette anni quando Robert Kennedy morì, ha fatto la cosa giusta anche in questi ultimi mesi, quando ha sbaragliato poco a poco Hillary Clinton. "Lei era troppo aggressiva e piena di sé all' inizio delle primarie", spiegano gli analisti, "si è addolcita troppo tardi".

Per le prossime settimane l' interrogativo è: Obama prenderà Hillary come vicepresidente ? Lo sognano molti democratici, anche se alcuni come l' ex presidente Carter avvertono: "Metterebbero assieme soltanto le loro debolezze". Vinta, ma ancora orgogliosa, nel discorso in cui ha dovuto ammettere la sconfitta, Hillary ha promesso un pieno appoggio a Barack contro il candidato repubblicano John McCain. Però sa che non pochi dei 18 milioni di statunitensi che hanno votato per lei alle primarie potrebbero scegliere alla fine McCain. Quindi sta trattando con gli uomini di Obama, e il prezzo del suo impegno sarà alto. Innanzitutto l' ex avversario vittorioso dovrà aiutarla a pagare i 30 milioni di dollari di debiti della sua campagna. Finora Obama si è impegnato per 12, ma non è abbastanza. E poi, se non la vicepresidenza, qualcosa spunterà. Per esempio la carica che adesso è della Rice: quella di Segretario di Stato.

La verità di cui nessuno può apertamente parlare negli Stati Uniti, perché le questioni razziali sono tabù, è che molti ispanici e asiatici democratici che hanno votato per la Clinton sceglierebbero McCain piuttosto che votare per un nero come Obama. Oppure si asterranno. Questo il furbo McCain l' ha capito, e ora si è messo incredibilmente a corteggiare gli elettori di Hillary amareggiati per la sconfitta. Loda la Clinton, sottolinea che sul ritiro dei soldati dall' Iraq lei è meno decisa di Obama. E non parliamo dell' assistenza sanitaria, che Hillary vorrebbe gratuita per tutti come in Europa, mentre Obama è più cauto.

Insomma, i giochi sono ancora aperti. E non è per niente sicuro che Obama vinca l' elezione a presidente. Per questo Barack sta pensando ad altre mosse a sorpresa. Come la vicepresidenza a Caroline Kennedy, figlia di John. Per riunirsi al mito della grande famiglia.


Didascalia
Obama. famiglia da leggenda Barack Obama, 47 anni, con la moglie Michelle, 44, e le figlie Malia Ann, 10, (a sinistra) e Natasha, 7.

Mauro Suttora

Friday, August 30, 1991

Boris Eltsin, un po' Pertini un po' Pannella

... E POI LEOLUCA ORLANDO, ANDREOTTI, REAGAN, KENNEDY: ECCO A CHI ASSOMIGLIA IL NUOVO CAPO RUSSO

Europeo, 30 agosto 1991

dal nostro inviato a Mosca Mauro Suttora



Tradotto in italiano, Boris Nicolaievich Eltsin è un misto fra Sandro Pertini, Marco Pannella e Leoluca Orlando. Insomma, ci siamo capiti: una bomba ambulante. Con lui lo spettacolo è sempre assicurato. La noia - principale caratteristica della politica, in Russia come in Italia - è eliminata.

Come Pertini, Eltsin capisce al volo l'umore della gente che ha di fronte, e trova sempre le parole giuste. Parole terra terra: è l'unico leader sovietico a non parlare in politichese. E come il nostro ex presidente, fa impazzire la scorta quando si immerge nella folla, il suo ambiente naturale.

In questo è differente da Michail Gorbaciov, i cui «colloqui col popolo» sono troppo spesso sapientemente filtrati dal servizio d'ordine. Inoltre, quando Boris si trova di fronte a un operaio, lo ascolta. Gorby invece lo affligge con un monologo prolisso pensando alla tv che inquadra la scena.

Come Pannella, il nuovo «zar della Russia» ama i gesti teatrali. Nei due anni in cui è stato segretario del partito comunista di Mosca (cioè sindaco) gli piaceva improvvisare incursioni nei negozi per scoprire di persona le magagne del mercato nero.

Una volta, nell'87, si mette in fila davanti a una macelleria e, arrivato al banco, ordina un chilo di vitello. «Non c'è», gli risponde stancamente il commesso. Allora Boris, sicuro del contrario, piomba in magazzino e blocca le fettine di vitello che stavano uscendo dal retro verso le dacie della nomenklatura.

Memorabile anche il suo abbandono pubblico del partito comunista in pieno congresso, l'anno scorso: ha attraversato l'immensa sala da solo, a passo lento, in mezzo a un silenzio glaciale e imbarazzato. «Beh», brontolò Gorbaciov, seccatissimo per la figuraccia in diretta tv davanti all'intera Unione Sovietica, «adesso possiamo continuare i lavori». E mezza Russia cambiò canale.

Anche il capo dei radicali russi, come quello italiano, si lamenta sempre per l'ostracismo dei giornalisti. In particolare nei primi mesi di quest'anno, quando i giornali ancora controllati dal partito comunista (quasi tutti, in barba alla glasnost) lo hanno bersagliato con una campagna diffamatoria.

Ma i russi, dopo settant'anni di «disinformazia», sanno leggere fra le righe: chi è attaccato dalla Pravda si guadagna automaticamente la reputazione di brav'uomo. Risultato: alle elezioni del 12 giugno 1991 Eltsin è diventato il primo presidente democraticamente eletto nella storia della Russia, con quasi il 60 per cento dei voti.

Come Leoluca Orlando, anche Corvo bianco (questo il suo soprannome) ha un ciuffo ribelle che gli casca sulla fronte. E pure lui è un ex sindaco estraneo all'apparato: quando fu nominato viveva solo da pochi mesi a Mosca, dove lo ha chiamato da Sverdlovsk Gorbaciov nell'85.

Anche lui è stato cacciato perché pestava i piedi dei potenti, ha abbandonato il suo partito (come Orlando la Dc) ed è stato rieletto trionfalmente dalla città che aveva cercato di ripulire: 89 per cento dei voti come deputato di Mosca nel marzo '89.

«Ho lottato contro la mafia, ma non sono riuscito a colpire i suoi collegamenti con la politica»: frase pronunciata da Eltsin, ma che a Palermo suona familiare. Nei suoi comizi Eltsin suda, ci mette foga e convinzione. Poca sostanza e nessuna concretezza, accusano all'unisono i critici di Boris e Leoluca. Tre parole magiche nella loro bocca: «Democrazia, libertà, pulizia».

Andiamo avanti con i paragoni. Come Ronald Reagan, Eltsin sbadiglia quando i suoi consulenti lo tediano con briefing sull'economia. «Però», si difende lui, «in un anno a Mosca sono riuscito a portare in tribunale 860 apparatchik accusati di corruzione: non è conreta economia, questa?»

Gorbaciov si lesse da cima a fondo le 400 pagine del piano Shatalin che l'anno scorso doveva riformare l'economia sovietica in 500 giorni. Ne discusse per sette ore con l'autore. Alla fine lo buttò nel cestino perché non piaceva ai conservatori. Eltsin invece ammette di non avere studiato il mattone. Però nella sua Russia il piano di liberalizzazione lo sta applicando.

Nei rapporti con le donne, Eltsin è paragonabile a John Kennedy: un mandrillo. Però più romantico: come tutti i russi, sommerge con innumerevoli mazzi di fiori le sue predilette. E poi è anche cardiopatico, ha 60 anni, non può permettersi grandi performances.

Naturalmente in pubblico giura eterno e fedele amore alla moglie Maia che gli ha dato due figlie. E che ha un grosso pregio, per un politico russo: è brutta. Molto più brutta di Raissa Gorbaciova, soprannominata con fastidio «la zarina» dalle invidiose matrone russe.

Per la sua capacità di risorgere sempre dopo sconfitte che avrebbero distrutto un toro, il paragone casereccio lo si può fare con Giulio Andreotti. Alla fine dell'87 fu cacciato non solo dalla poltrona di sindaco di Mosca, ma perse anche la sedia del Politburo. Fu allora che lo soprannominarono «kamikaze della perestroika».

Subì perfino l'umiliazione di vedere pubblicato sulla Pravda il resoconto dell'allucinante processo che gli fecero Gorbaciov e i gerarchi comunisti, in perfetto stile stalinista. Con tanto di autocritica estorta: «Sì è vero, mi ha rovinato l'ambizione».

Gorbaciov gliene ha fatte passare di tutti i colori. Adesso Eltsin si vendica. Ogni giorno lo bacchetta sulle dita, come prima Gorby faceva con lui. «In qualsiasi altro Paese del mondo Eltsin sarebbe da anni al governo. Ma l'Urss è un Paese particolare», ha scritto il Financial Times.

Eppure l'Ovest lo ha sempre snobbato. C'è un signore, in particolare, che adesso dovrebbe nascondersi per la vergogna. Si chiama Jean-Pierre Cot, francese, vicepresidente del parlamento europeo. Pochi mesi fa, quando Eltsin era già leader indiscusso della Russia, gli impedì di parlare di fronte all'Europarlamento. Lo trattò come un mendicante e un ubriacone.

Si dice che Eltsin non è amato dall'intellighenzia perché è un populista. Storie. Fior di intellettuali hanno abbandonato da mesi Gorbaciov per diventare suoi consiglieri: l'economista Oleg Bogomolov, la sociologa Tatiana Zaslavskaia e l'esperto di affari esteri Georgi Arbatov, tutti gorbacioviani schifati dagli alleati trogloditi che Gorby si era scelto.

«Il comunismo? Sì, in Unione sovietica c'è. Però funziona solo per venti persone: i membri del Politburo, quelli con la villa», ha scritto Eltsin nella sua autobiografia (Confessioni sul tema, tradotto in Italia dall'editore Leonardo).

«Quando mi hanno fatto entrare per la prima volta nella mia dacia a Mosca, nell'85, mi sono perso. Avevamo tre camerieri, tre cuochi, un giardiniere». L'ingegnere edile alto 1 e 88 calato dagli Urali ora si dovrà abituare a governare l'Urss (o almeno la Russia) tirandola fuori dal caos.

Mauro Suttora