SCHERZO SU YOU TUBE
di Mauro Suttora
Oggi, 27 agosto 2010
La più sfrontata si chiama Ann Coulter. Adora titillare le fantasie erotiche del maschio reazionario medio americano facendosi fotografare seminuda vicino alla canna di un fucile. Per fare propaganda alla Nra (National Rifle Association), il bastione fascistoide che difende la libertà di portare armi, ossessione degli Stati Uniti.
Ma la Coulter non è l’unica bella donna della destra americana. La più famosa è Sarah Palin, l’ex governatrice dell’Alaska candidata repubblicana alla vicepresidenza con John McCain alle presidenziali del 2008, vinte dal democratico Barack Obama. Secondo alcuni McCain perse anche perché la Palin è di una destra troppo estrema. Ma invece di essere per questo emarginata dal partito, dopo il ko la pugnace Sarah si è rialzata, ha pubblicato un’autobiografia di successo (oltre due milioni di copie vendute), e adesso minaccia Obama alle elezioni di metà mandato di novembre, sull’onda del successo del movimento antitasse «Tea party».
Qualche giorno fa il responsabile di un sito di propaganda del partito repubblicano ha messo per scherzo su YouTube un video con una sequenza di belle donne di destra come la Coulter, la Palin e varie altre, fra cui l’attrice Bo Derek. In colonna sonora, la canzone di Tom Jones She’s a Lady.
Poi la musica cambia: arriva il brano Who let the dog out? (Chi ha tolto il guinzaglio al cane?), e una serie di foto distorte di donne politiche di sinistra: la segretaria di stato (ministra degli Esteri) Hillary Clinton, Madeleine Albright che la precedette nella stessa carica sotto la presidenza del marito Bill, la ministra Janet Napolitano, ministra dell’Interno e già governatrice dell’Arizona, e perfino la first lady Michelle Obama (contrapposta a un’altra donna di colore, Condoleezza Rice, considerata invece bella perché di destra). Apriti cielo: dopo una valanga di proteste YouTube ha censurato il video, ritenuto offensivo. Negli Usa non è considerato «politicamente corretto» scherzare sull’aspetto fisico delle persone.
In effetti, a destra negli Stati Uniti le bellezze abbondano. Ma non si tratta soltanto di «bionde sciocche», secondo lo stereotipo di Marilyn Monroe. Laura Ingraham, per esempio, ha sei milioni di ascoltatori per il suo programma conservatore alla radio. Ma è anche rimasta in testa alla classifica dei libri più venduti per tutta quest’estate, grazie ai suoi Obama’s Diaries. Lei è una che non le manda a dire: chiamava i gay «sodomiti», fino a quando ha scoperto che pure suo fratello lo è.
Anche i libri molto aggressivi della Coulter diventano subito bestseller. Entrambe hanno inoltre la lingua sciolta, per cui sono la delizia dei talk show politici tv sulla rete Fox di estrema destra di Rupert Murdoch, che scandalizzano ogni sera il popolo di sinistra.
Mauro Suttora
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Thursday, September 09, 2010
Wednesday, June 18, 2008
Obama vince le primarie
Elezioni usa. Cosa significa la vittoria di Obama
A 40 anni dalla morte di Bob Kennedy, gli Stati Uniti hanno un nuovo mito: Barack. Ora un nero può diventare presidente. Una rivoluzione
di Mauro Suttora
New York (Stati Uniti), 6 giugno 2008
Una coincidenza da fare accapponare la pelle: il 5 giugno Barack Obama ha conquistato la candidatura del partito democratico per le presidenziali americane di novembre. In quello stesso giorno, 40 anni prima a Los Angeles, veniva assassinato Robert Kennedy, dopo avere ottenuto anche lui quella candidatura. Due miti che si stringono la mano, due leggende che si saldano a distanza di quattro decenni: quella del primo possibile presidente di colore degli Stati Uniti, e quella del secondo dei fratelli Kennedy che tentò la scalata alla stessa poltrona, pagando anch' egli con la vita come il fratello John cinque anni prima a Dallas.
"Mi sono accorto che stiamo vivendo un momento storico solo ieri mattina, quando in autobus un passeggero sconosciuto ha commentato la vittoria di Obama con il conducente", dice Hector Garcia, un nero che gestisce una bisteccheria ad Harlem, il quartiere dei neri di New York. "Anche i miei clienti hanno cominciato a parlare di Obama, e perfino i miei vicini di negozio, un barbiere e un ottico, mi hanno fermato sul marciapiede elettrizzati dall' accaduto".
Negli Stati Uniti il 12 per cento della popolazione è di colore. Ma è dai tempi dei Kennedy, dagli anni Sessanta appunto, che per loro l' orologio sembrava essersi fermato. Infatti, dopo l' abolizione dell' apartheid negli Stati del Sud e la parità dei diritti civili ottenuta da Martin Luther King (assassinato due mesi prima di Robert Kennedy in quell' orrendo 1968), la minoranza di colore non ha fatto grandi progressi sociali.
Certo, si è formata una media borghesia di colore che in molte città conduce una vita paragonabile a quella della middle class bianca. Certo, in molte professioni l' accesso dei neri è ormai garantito: lo stesso Obama e sua moglie Michelle sono entrambi avvocati. Certo, dopo l' ambasciatore Andrew Young nominato dal presidente Jimmy Carter nel ' 76, e dopo i segretari di Stato Colin Powell e Condoleezza Rice nominati da George Bush nel 2000, anche in politica quasi tutte le porte sono state aperte. E perfino nel big business qualche nero si è fatto strada, come Richard Parsons che dal ' 95 guida il gigante dei media Cnn Time Warner. Ma in generale le statistiche sono incresciose. Nei ghetti neri la criminalità è altissima, così come gli stupri e le ragazze madri. Una normale famiglia con padre e madre che non divorziano dopo qualche anno è quasi una rarità. E i neri perdono la gara anche con le nuove minoranze: surclassati da asiatici e ispanici.
"Smettiamola di lamentarci e di dare la colpa alla società dei bianchi per le nostre condizioni d' inferiorità", ha ammonito il personaggio televisivo Bill Cosby nel 2005, "la responsabilità è nostra: rimbocchiamoci le maniche e smettiamola di pensare che la nostra cultura è quella dei ragazzotti ignoranti della musica rap". Parole dure, ma che che hanno colto nel segno. Perfino Obama, oggi, non vuole più che l' emancipazione dei neri sia affidata solo alle "quote" obbligatorie delle cosiddette affirmative action, cioè i posti garantiti ai neri nelle migliori università e in molti posti di lavoro pubblici.
La storia della sua vita, d' altronde, è lì a garantire per lui: figlio di uno dei tanti neri che non si sono assunti la responsabilità di fare il padre, e che quindi spariscono dopo avere messo incinte le madri dei loro figli, si è fatto strada studiando. Laureato alla Columbia di New York, specializzato ad Harvard, quando fu preso per una sostituzione estiva in uno studio legale di Chicago venne affidato alla supervisione dell' unica altra avvocata di colore dello studio, anche lei con un curriculum brillante (Princeton e Harvard): Michelle Robinson. "L' ho invitata a pranzo e poi a vedere il film Fai la cosa giusta di Spike Lee. Ora è mia moglie", ha raccontato lui. Barack, che aveva sette anni quando Robert Kennedy morì, ha fatto la cosa giusta anche in questi ultimi mesi, quando ha sbaragliato poco a poco Hillary Clinton. "Lei era troppo aggressiva e piena di sé all' inizio delle primarie", spiegano gli analisti, "si è addolcita troppo tardi".
Per le prossime settimane l' interrogativo è: Obama prenderà Hillary come vicepresidente ? Lo sognano molti democratici, anche se alcuni come l' ex presidente Carter avvertono: "Metterebbero assieme soltanto le loro debolezze". Vinta, ma ancora orgogliosa, nel discorso in cui ha dovuto ammettere la sconfitta, Hillary ha promesso un pieno appoggio a Barack contro il candidato repubblicano John McCain. Però sa che non pochi dei 18 milioni di statunitensi che hanno votato per lei alle primarie potrebbero scegliere alla fine McCain. Quindi sta trattando con gli uomini di Obama, e il prezzo del suo impegno sarà alto. Innanzitutto l' ex avversario vittorioso dovrà aiutarla a pagare i 30 milioni di dollari di debiti della sua campagna. Finora Obama si è impegnato per 12, ma non è abbastanza. E poi, se non la vicepresidenza, qualcosa spunterà. Per esempio la carica che adesso è della Rice: quella di Segretario di Stato.
La verità di cui nessuno può apertamente parlare negli Stati Uniti, perché le questioni razziali sono tabù, è che molti ispanici e asiatici democratici che hanno votato per la Clinton sceglierebbero McCain piuttosto che votare per un nero come Obama. Oppure si asterranno. Questo il furbo McCain l' ha capito, e ora si è messo incredibilmente a corteggiare gli elettori di Hillary amareggiati per la sconfitta. Loda la Clinton, sottolinea che sul ritiro dei soldati dall' Iraq lei è meno decisa di Obama. E non parliamo dell' assistenza sanitaria, che Hillary vorrebbe gratuita per tutti come in Europa, mentre Obama è più cauto.
Insomma, i giochi sono ancora aperti. E non è per niente sicuro che Obama vinca l' elezione a presidente. Per questo Barack sta pensando ad altre mosse a sorpresa. Come la vicepresidenza a Caroline Kennedy, figlia di John. Per riunirsi al mito della grande famiglia.
Didascalia
Obama. famiglia da leggenda Barack Obama, 47 anni, con la moglie Michelle, 44, e le figlie Malia Ann, 10, (a sinistra) e Natasha, 7.
Mauro Suttora
A 40 anni dalla morte di Bob Kennedy, gli Stati Uniti hanno un nuovo mito: Barack. Ora un nero può diventare presidente. Una rivoluzione
di Mauro Suttora
New York (Stati Uniti), 6 giugno 2008
Una coincidenza da fare accapponare la pelle: il 5 giugno Barack Obama ha conquistato la candidatura del partito democratico per le presidenziali americane di novembre. In quello stesso giorno, 40 anni prima a Los Angeles, veniva assassinato Robert Kennedy, dopo avere ottenuto anche lui quella candidatura. Due miti che si stringono la mano, due leggende che si saldano a distanza di quattro decenni: quella del primo possibile presidente di colore degli Stati Uniti, e quella del secondo dei fratelli Kennedy che tentò la scalata alla stessa poltrona, pagando anch' egli con la vita come il fratello John cinque anni prima a Dallas.
"Mi sono accorto che stiamo vivendo un momento storico solo ieri mattina, quando in autobus un passeggero sconosciuto ha commentato la vittoria di Obama con il conducente", dice Hector Garcia, un nero che gestisce una bisteccheria ad Harlem, il quartiere dei neri di New York. "Anche i miei clienti hanno cominciato a parlare di Obama, e perfino i miei vicini di negozio, un barbiere e un ottico, mi hanno fermato sul marciapiede elettrizzati dall' accaduto".
Negli Stati Uniti il 12 per cento della popolazione è di colore. Ma è dai tempi dei Kennedy, dagli anni Sessanta appunto, che per loro l' orologio sembrava essersi fermato. Infatti, dopo l' abolizione dell' apartheid negli Stati del Sud e la parità dei diritti civili ottenuta da Martin Luther King (assassinato due mesi prima di Robert Kennedy in quell' orrendo 1968), la minoranza di colore non ha fatto grandi progressi sociali.
Certo, si è formata una media borghesia di colore che in molte città conduce una vita paragonabile a quella della middle class bianca. Certo, in molte professioni l' accesso dei neri è ormai garantito: lo stesso Obama e sua moglie Michelle sono entrambi avvocati. Certo, dopo l' ambasciatore Andrew Young nominato dal presidente Jimmy Carter nel ' 76, e dopo i segretari di Stato Colin Powell e Condoleezza Rice nominati da George Bush nel 2000, anche in politica quasi tutte le porte sono state aperte. E perfino nel big business qualche nero si è fatto strada, come Richard Parsons che dal ' 95 guida il gigante dei media Cnn Time Warner. Ma in generale le statistiche sono incresciose. Nei ghetti neri la criminalità è altissima, così come gli stupri e le ragazze madri. Una normale famiglia con padre e madre che non divorziano dopo qualche anno è quasi una rarità. E i neri perdono la gara anche con le nuove minoranze: surclassati da asiatici e ispanici.
"Smettiamola di lamentarci e di dare la colpa alla società dei bianchi per le nostre condizioni d' inferiorità", ha ammonito il personaggio televisivo Bill Cosby nel 2005, "la responsabilità è nostra: rimbocchiamoci le maniche e smettiamola di pensare che la nostra cultura è quella dei ragazzotti ignoranti della musica rap". Parole dure, ma che che hanno colto nel segno. Perfino Obama, oggi, non vuole più che l' emancipazione dei neri sia affidata solo alle "quote" obbligatorie delle cosiddette affirmative action, cioè i posti garantiti ai neri nelle migliori università e in molti posti di lavoro pubblici.
La storia della sua vita, d' altronde, è lì a garantire per lui: figlio di uno dei tanti neri che non si sono assunti la responsabilità di fare il padre, e che quindi spariscono dopo avere messo incinte le madri dei loro figli, si è fatto strada studiando. Laureato alla Columbia di New York, specializzato ad Harvard, quando fu preso per una sostituzione estiva in uno studio legale di Chicago venne affidato alla supervisione dell' unica altra avvocata di colore dello studio, anche lei con un curriculum brillante (Princeton e Harvard): Michelle Robinson. "L' ho invitata a pranzo e poi a vedere il film Fai la cosa giusta di Spike Lee. Ora è mia moglie", ha raccontato lui. Barack, che aveva sette anni quando Robert Kennedy morì, ha fatto la cosa giusta anche in questi ultimi mesi, quando ha sbaragliato poco a poco Hillary Clinton. "Lei era troppo aggressiva e piena di sé all' inizio delle primarie", spiegano gli analisti, "si è addolcita troppo tardi".
Per le prossime settimane l' interrogativo è: Obama prenderà Hillary come vicepresidente ? Lo sognano molti democratici, anche se alcuni come l' ex presidente Carter avvertono: "Metterebbero assieme soltanto le loro debolezze". Vinta, ma ancora orgogliosa, nel discorso in cui ha dovuto ammettere la sconfitta, Hillary ha promesso un pieno appoggio a Barack contro il candidato repubblicano John McCain. Però sa che non pochi dei 18 milioni di statunitensi che hanno votato per lei alle primarie potrebbero scegliere alla fine McCain. Quindi sta trattando con gli uomini di Obama, e il prezzo del suo impegno sarà alto. Innanzitutto l' ex avversario vittorioso dovrà aiutarla a pagare i 30 milioni di dollari di debiti della sua campagna. Finora Obama si è impegnato per 12, ma non è abbastanza. E poi, se non la vicepresidenza, qualcosa spunterà. Per esempio la carica che adesso è della Rice: quella di Segretario di Stato.
La verità di cui nessuno può apertamente parlare negli Stati Uniti, perché le questioni razziali sono tabù, è che molti ispanici e asiatici democratici che hanno votato per la Clinton sceglierebbero McCain piuttosto che votare per un nero come Obama. Oppure si asterranno. Questo il furbo McCain l' ha capito, e ora si è messo incredibilmente a corteggiare gli elettori di Hillary amareggiati per la sconfitta. Loda la Clinton, sottolinea che sul ritiro dei soldati dall' Iraq lei è meno decisa di Obama. E non parliamo dell' assistenza sanitaria, che Hillary vorrebbe gratuita per tutti come in Europa, mentre Obama è più cauto.
Insomma, i giochi sono ancora aperti. E non è per niente sicuro che Obama vinca l' elezione a presidente. Per questo Barack sta pensando ad altre mosse a sorpresa. Come la vicepresidenza a Caroline Kennedy, figlia di John. Per riunirsi al mito della grande famiglia.
Didascalia
Obama. famiglia da leggenda Barack Obama, 47 anni, con la moglie Michelle, 44, e le figlie Malia Ann, 10, (a sinistra) e Natasha, 7.
Mauro Suttora
Wednesday, November 28, 2007
Hillary Clinton lesbica?
VOCI DI UN FLIRT CON LA SEGRETARIA
Washington, 27 novembre 2007
Oggi
La prima a insinuarlo era stata Gennifer Flowers, l’ex amante di Bill Clinton che per poco, con lo scandalo delle sue rivelazioni, non gli impedì l’elezione a presidente degli Stati Uniti nel 1992: «Hillary è lesbica», scrisse nella sua autobiografia del ’95, «e Bill una volta mi ha detto scherzando: “Ha avuto più donne lei di me...”».
Poi, quest’estate, lo ha scritto Michael Musto, re del gossip di New York, sul settimanale Village Voice: «Hillary ha una storia con la sua segretaria personale, la bellissima Huma Abedin, dea indopakistana. Passa così tanto tempo con lei che l’Observer l’ha soprannominata “guardia del corpo di Hill”».
Musto è gay, conosce tutto di quel mondo, e i sussurri si sono moltiplicati. La Abedin è single, non le si conoscono amicizie intime maschili, e per di più è stata fotografata con la Clinton e la conduttrice tv Ellen DeGeneres (la lesbica più famosa d’America) durante una loro serata a tre a New York.
Quale pettegolezzo potrebbe essere più appetitoso? Siamo a un anno esatto dalle elezioni presidenziali. Hillary è in testa a tutti i sondaggi. A gennaio cominciano le primarie per il voto di novembre. Il presidente George W. Bush non è più rieleggibile dopo due mandati, e fra i candidati repubblicani soltanto l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani riesce a non farsi distanziare troppo dalla Clinton.
Fra i democratici Hillary spopola. Il suo rivale Barack Obama è di pella nera, e anche se nessuno osa dirlo, gli Stati Uniti non sembrano ancora maturi per eleggere il primo presidente di colore. I repubblicani hanno già i fucili puntati: «Avremo un presidente quasi islamico che si chiama quasi Osama?», scherzano rischiando querele per diffamazione, perché il padre di Osama, ex pastore di capre immigrato dal Kenya, era agnostico e comunque divorziò quando lui aveva solo due anni.
Ma gli americani sono pronti per il loro primo presidente donna? E proprio «quella» donna, uscita massacrata dagli scandali sexy del marito quand’era first lady? «Non pensavo che Hillary potesse superare Bill in fatto di avventure sessuali», scrive acido il commentatore Robert Morrow. Per di più, i sondaggi danno sì la Clinton in testa, però oltre che la candidata più amata risulta anche la più odiata. Insomma, non lascia nessuno indifferente.
Anche Mary Cheney, figlia del vicepresidente Dick, è omosessuale. Non solo: lo scorso maggio è diventata mamma con la propria compagna, grazie all’inseminazione artificiale. Ma gli Stati Uniti, per quanto tolleranti, difficilmente manderebbero alla Casa Bianca una lesbica. Lo era Eleanor Roosevelt, moglie di Franklin. Ma non si è mai candidata. Per i repubblicani, quindi, queste voci su Hillary sono manna dal cielo. La Clinton è corsa ai ripari. Improvvisamente, Huma Abedin è scomparsa. Non la si vede più accanto a lei. Licenziata? Diplomaticamente «malata»? L’argomento è tabù.
Hillary non ama i giornalisti. Fredda e altezzosa, non risponde alle domande sgradite. Però come senatrice (eletta a New York nel 2000, rieletta trionfalmente l’anno scorso) è brava.
Ma chi è Huma Abedin? Nata a Kalamazoo (Michigan) 32 anni fa da padre indiano e madre pakistana, musulmana, a due anni ha seguito i genitori che si erano trasferiti a Gedda, in Arabia Saudita. È tornata negli Stati Uniti solo a 18 anni, per frequentare la George Washington University. «È sempre perfetta, elegante, con le sue borsette Yves Saint-Laurent, non suda mai»: così la descrive ironicamente il New York Observer.
Ha iniziato a lavorare con i Clinton alla Casa Bianca undici anni fa come stagista, proprio come Monica Lewinski che mise nei guai Bill. Così la lodava in agosto Hillary in un articolo su Vogue: «Huma ha l’energia di una ventenne, la sicurezza di una trentenne, l’esperienza di una quarantenne e la grazia di una cinquantenne: non ha orari, la sua combinazione di gentilezza e intelligenza sono senza pari e sono fortunata ad averla nella mia squadra»
Huma era la prima a rispondere al telefono al mattino dalla sua casa di Washington, l’ultima a salutarla la sera. Su un rapporto così intimo nessuno probabilmente saprà mai la verità. D’altra parte, anche di Condoleezza Rice, segretaria di Stato repubblicana, si dice che sia lesbica. Che questa diceria sia una «vendetta» per qualsiasi donna «colpevole» di arrivare ai vertici?
Mauro Suttora
Washington, 27 novembre 2007
Oggi
La prima a insinuarlo era stata Gennifer Flowers, l’ex amante di Bill Clinton che per poco, con lo scandalo delle sue rivelazioni, non gli impedì l’elezione a presidente degli Stati Uniti nel 1992: «Hillary è lesbica», scrisse nella sua autobiografia del ’95, «e Bill una volta mi ha detto scherzando: “Ha avuto più donne lei di me...”».
Poi, quest’estate, lo ha scritto Michael Musto, re del gossip di New York, sul settimanale Village Voice: «Hillary ha una storia con la sua segretaria personale, la bellissima Huma Abedin, dea indopakistana. Passa così tanto tempo con lei che l’Observer l’ha soprannominata “guardia del corpo di Hill”».
Musto è gay, conosce tutto di quel mondo, e i sussurri si sono moltiplicati. La Abedin è single, non le si conoscono amicizie intime maschili, e per di più è stata fotografata con la Clinton e la conduttrice tv Ellen DeGeneres (la lesbica più famosa d’America) durante una loro serata a tre a New York.
Quale pettegolezzo potrebbe essere più appetitoso? Siamo a un anno esatto dalle elezioni presidenziali. Hillary è in testa a tutti i sondaggi. A gennaio cominciano le primarie per il voto di novembre. Il presidente George W. Bush non è più rieleggibile dopo due mandati, e fra i candidati repubblicani soltanto l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani riesce a non farsi distanziare troppo dalla Clinton.
Fra i democratici Hillary spopola. Il suo rivale Barack Obama è di pella nera, e anche se nessuno osa dirlo, gli Stati Uniti non sembrano ancora maturi per eleggere il primo presidente di colore. I repubblicani hanno già i fucili puntati: «Avremo un presidente quasi islamico che si chiama quasi Osama?», scherzano rischiando querele per diffamazione, perché il padre di Osama, ex pastore di capre immigrato dal Kenya, era agnostico e comunque divorziò quando lui aveva solo due anni.
Ma gli americani sono pronti per il loro primo presidente donna? E proprio «quella» donna, uscita massacrata dagli scandali sexy del marito quand’era first lady? «Non pensavo che Hillary potesse superare Bill in fatto di avventure sessuali», scrive acido il commentatore Robert Morrow. Per di più, i sondaggi danno sì la Clinton in testa, però oltre che la candidata più amata risulta anche la più odiata. Insomma, non lascia nessuno indifferente.
Anche Mary Cheney, figlia del vicepresidente Dick, è omosessuale. Non solo: lo scorso maggio è diventata mamma con la propria compagna, grazie all’inseminazione artificiale. Ma gli Stati Uniti, per quanto tolleranti, difficilmente manderebbero alla Casa Bianca una lesbica. Lo era Eleanor Roosevelt, moglie di Franklin. Ma non si è mai candidata. Per i repubblicani, quindi, queste voci su Hillary sono manna dal cielo. La Clinton è corsa ai ripari. Improvvisamente, Huma Abedin è scomparsa. Non la si vede più accanto a lei. Licenziata? Diplomaticamente «malata»? L’argomento è tabù.
Hillary non ama i giornalisti. Fredda e altezzosa, non risponde alle domande sgradite. Però come senatrice (eletta a New York nel 2000, rieletta trionfalmente l’anno scorso) è brava.
Ma chi è Huma Abedin? Nata a Kalamazoo (Michigan) 32 anni fa da padre indiano e madre pakistana, musulmana, a due anni ha seguito i genitori che si erano trasferiti a Gedda, in Arabia Saudita. È tornata negli Stati Uniti solo a 18 anni, per frequentare la George Washington University. «È sempre perfetta, elegante, con le sue borsette Yves Saint-Laurent, non suda mai»: così la descrive ironicamente il New York Observer.
Ha iniziato a lavorare con i Clinton alla Casa Bianca undici anni fa come stagista, proprio come Monica Lewinski che mise nei guai Bill. Così la lodava in agosto Hillary in un articolo su Vogue: «Huma ha l’energia di una ventenne, la sicurezza di una trentenne, l’esperienza di una quarantenne e la grazia di una cinquantenne: non ha orari, la sua combinazione di gentilezza e intelligenza sono senza pari e sono fortunata ad averla nella mia squadra»
Huma era la prima a rispondere al telefono al mattino dalla sua casa di Washington, l’ultima a salutarla la sera. Su un rapporto così intimo nessuno probabilmente saprà mai la verità. D’altra parte, anche di Condoleezza Rice, segretaria di Stato repubblicana, si dice che sia lesbica. Che questa diceria sia una «vendetta» per qualsiasi donna «colpevole» di arrivare ai vertici?
Mauro Suttora
Friday, February 17, 2006
Intervista a Turki
A NEW YORK LA PRIMA DEL PRINCIPE AMBASCIATORE, MAESTRO D’AMBIGUITA’ SAUDITA
Il Foglio, giovedi 16 febbraio 2006, pag.3
New York. “Una cattiva stabilità è meglio di un buon caos”: è tutto concentrato in questa frase, il realismo scettico del principe Turki Al-Feisal. Il quale, fresco di nomina come ambasciatore saudita a Washington, ha scelto per la sua prima uscita pubblica il Council on Foreign Relations. Si è presentato come un vecchio amico degli Stati Uniti, anzi “uno di noi”, visto che ha compiuto quasi tutti gli studi in America negli anni Sessanta: quattro anni di liceo nel New Jersey, poi altri quattro alla Georgetown university. Il 16 febbraio festeggia 61 anni, e con la sua pronuncia impeccabile adula i presenti: “Sono tornato nel vostro grande Paese per imparare ancora e completare la mia educazione...”
Parla a braccio, il principe, sciolto e disinvolto come nessun altro dignitario saudita: “A dicembre, quando ho presentato le mie credenziali a Condi Rice, le ho ripetuto la frase che Churchill rivolse a Roosevelt, quando questi si imbattè in lui nudo per un corridoio mentre era ospite alla Casa Bianca: ‘Un premier britannico non ha nulla da nascondere all’America’. Ecco, io penso che anche i rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita debbano essere aperti al massimo. Perchè non ci lega solo un rapporto petrolio/sicurezza: in questi decenni centinaia di migliaia di sauditi sono approdati in America per studiare, curarsi, fare affari. E gli affari li abbiamo conclusi con mutua soddisfazione”.
Il principe tuttavia sa bene che una buona metà dell’establishment statunitense guarda con sospetto all’Arabia Saudita, ai suoi finanziamenti alle madrasse di tutto l’Islam, all’ambiguità di parte della famiglia reale, e alla mancanza di libertà che continua a caratterizzare Riad: “Nonostante quel che leggete sul New York Times o sul Wall Street Journal, stiamo procedendo con le riforme politiche: fra tre anni voteranno anche le donne, che già oggi da noi si laureano più dei maschi. Quanto alle accuse al wahabismo, i nostri preti hanno condannato gli attentati suicidi ben prima dell’11 settembre. E noi musulmani siamo rimasti sorpresi quanto voi occidentali per la cultura di morte propalata da un culto islamico assolutamente minoritario. Perchè non è vero, come qualcuno crede in Occidente, che dietro ogni moschea c’è un giovane kamikaze pronto a farsi saltare in aria. Ogni religione ha avuto nella storia le sue sette di fanatici pronti a sacrificarsi. Ma il Corano proibisce l’uccisione di civili innocenti.”
L’Egitto rinvia di due anni le elezioni locali temendo un successo dei Fratelli Musulmani dopo l’exploit di Hamas in Palestina. Cosa chiede Riad ad Hamas? “Di mantenere tutti gli impegni assunti dall’Autorità palestinese, e quindi di riconoscere il processo di Oslo, da cui è nata proprio quell’Autorità. Di accettare il piano di pace arabo, con la soluzione dei due stati. E di rispettare la Road map”. Turki non parla esplicitamente di rinuncia al terrorismo nè di riconoscimento di Israele (che peraltro non è riconosciuto neppure dall’Arabia Saudita), ma dà questi due punti come inclusi nei precedenti.
Il principe Turki è stato capo dei servizi segreti esteri di Riad per un quarto di secolo, dal '77 all’11 settembre, quando venne prudentemente spedito a Londra come ambasciatore. E’ l’uomo di governo che più di ogni altro conosce Osama bin Laden, avendolo finanziato, incoraggiato e incontrato personalmente cinque volte. «Ma l’ultima fu nel ‘90, dopo la vittoria contro i sovietici in Afghanistan, quando lui e i suoi reduci tornati in Arabia mi proposero di mandarli a combattere nello Yemen del Sud, contro il governo allora comunista. Dopo il mio rifiuto lo persi di vista, venne arrestato varie volte, poi tornò in Afghanistan, e nel ‘93 dal Sudan cominciò la sua guerra contro noi sauditi. Lo privammo della cittadinanza, gli sequestrammo i beni, la sua famiglia lo sconfessò, e nel ‘95 il primo attentato di Al Qaeda colpì proprio l’Arabia Saudita, con la morte degli undici soldati americani. Oggi in Iraq gli estremisti sfruttano l’insofferenza per le truppe straniere, ma mi sembra che la stragrande maggioranza della popolazione voglia andare avanti, guardando al futuro”.
L’unico argomento su cui il principe non parla è l’Iran: “Abbiamo in corso delicate trattative”. Sulla possibilità che i cristiani possano praticare liberamente la propria religione in Arabia Saudita, dice che in privato dovrebbero essere liberi di farlo. E lancia una curiosa proposta: “Noi islamici riconosciamo tutti i vostri libri sacri, Bibbia e Vangelo. Perchè, reciprocamente, voi non accettate anche il Corano?”
Mauro Suttora
Il Foglio, giovedi 16 febbraio 2006, pag.3
New York. “Una cattiva stabilità è meglio di un buon caos”: è tutto concentrato in questa frase, il realismo scettico del principe Turki Al-Feisal. Il quale, fresco di nomina come ambasciatore saudita a Washington, ha scelto per la sua prima uscita pubblica il Council on Foreign Relations. Si è presentato come un vecchio amico degli Stati Uniti, anzi “uno di noi”, visto che ha compiuto quasi tutti gli studi in America negli anni Sessanta: quattro anni di liceo nel New Jersey, poi altri quattro alla Georgetown university. Il 16 febbraio festeggia 61 anni, e con la sua pronuncia impeccabile adula i presenti: “Sono tornato nel vostro grande Paese per imparare ancora e completare la mia educazione...”
Parla a braccio, il principe, sciolto e disinvolto come nessun altro dignitario saudita: “A dicembre, quando ho presentato le mie credenziali a Condi Rice, le ho ripetuto la frase che Churchill rivolse a Roosevelt, quando questi si imbattè in lui nudo per un corridoio mentre era ospite alla Casa Bianca: ‘Un premier britannico non ha nulla da nascondere all’America’. Ecco, io penso che anche i rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita debbano essere aperti al massimo. Perchè non ci lega solo un rapporto petrolio/sicurezza: in questi decenni centinaia di migliaia di sauditi sono approdati in America per studiare, curarsi, fare affari. E gli affari li abbiamo conclusi con mutua soddisfazione”.
Il principe tuttavia sa bene che una buona metà dell’establishment statunitense guarda con sospetto all’Arabia Saudita, ai suoi finanziamenti alle madrasse di tutto l’Islam, all’ambiguità di parte della famiglia reale, e alla mancanza di libertà che continua a caratterizzare Riad: “Nonostante quel che leggete sul New York Times o sul Wall Street Journal, stiamo procedendo con le riforme politiche: fra tre anni voteranno anche le donne, che già oggi da noi si laureano più dei maschi. Quanto alle accuse al wahabismo, i nostri preti hanno condannato gli attentati suicidi ben prima dell’11 settembre. E noi musulmani siamo rimasti sorpresi quanto voi occidentali per la cultura di morte propalata da un culto islamico assolutamente minoritario. Perchè non è vero, come qualcuno crede in Occidente, che dietro ogni moschea c’è un giovane kamikaze pronto a farsi saltare in aria. Ogni religione ha avuto nella storia le sue sette di fanatici pronti a sacrificarsi. Ma il Corano proibisce l’uccisione di civili innocenti.”
L’Egitto rinvia di due anni le elezioni locali temendo un successo dei Fratelli Musulmani dopo l’exploit di Hamas in Palestina. Cosa chiede Riad ad Hamas? “Di mantenere tutti gli impegni assunti dall’Autorità palestinese, e quindi di riconoscere il processo di Oslo, da cui è nata proprio quell’Autorità. Di accettare il piano di pace arabo, con la soluzione dei due stati. E di rispettare la Road map”. Turki non parla esplicitamente di rinuncia al terrorismo nè di riconoscimento di Israele (che peraltro non è riconosciuto neppure dall’Arabia Saudita), ma dà questi due punti come inclusi nei precedenti.
Il principe Turki è stato capo dei servizi segreti esteri di Riad per un quarto di secolo, dal '77 all’11 settembre, quando venne prudentemente spedito a Londra come ambasciatore. E’ l’uomo di governo che più di ogni altro conosce Osama bin Laden, avendolo finanziato, incoraggiato e incontrato personalmente cinque volte. «Ma l’ultima fu nel ‘90, dopo la vittoria contro i sovietici in Afghanistan, quando lui e i suoi reduci tornati in Arabia mi proposero di mandarli a combattere nello Yemen del Sud, contro il governo allora comunista. Dopo il mio rifiuto lo persi di vista, venne arrestato varie volte, poi tornò in Afghanistan, e nel ‘93 dal Sudan cominciò la sua guerra contro noi sauditi. Lo privammo della cittadinanza, gli sequestrammo i beni, la sua famiglia lo sconfessò, e nel ‘95 il primo attentato di Al Qaeda colpì proprio l’Arabia Saudita, con la morte degli undici soldati americani. Oggi in Iraq gli estremisti sfruttano l’insofferenza per le truppe straniere, ma mi sembra che la stragrande maggioranza della popolazione voglia andare avanti, guardando al futuro”.
L’unico argomento su cui il principe non parla è l’Iran: “Abbiamo in corso delicate trattative”. Sulla possibilità che i cristiani possano praticare liberamente la propria religione in Arabia Saudita, dice che in privato dovrebbero essere liberi di farlo. E lancia una curiosa proposta: “Noi islamici riconosciamo tutti i vostri libri sacri, Bibbia e Vangelo. Perchè, reciprocamente, voi non accettate anche il Corano?”
Mauro Suttora
Condi: 75 milioni per l'Iran
PER IL REGIME CHANGE NONVIOLENTO DEI MULLAH
Il Foglio, venerdi 17 febbraio 2006
New York. Michael Ledeen ha vinto. L’esponente neoconservatore che da anni si batte per aiutare di più l’opposizione democratica in Iran ha viste infine accolte le sue proposte da Condi Rice: “Intraprendiamo un nuovo sforzo per assecondare le aspirazioni del popolo iraniano”, ha detto il segretario di Stato al Senato, “e utilizzeremo 85 milioni di dollari nello sviluppo di reti per i riformatori, i dissidenti politici e gli attivisti dei diritti umani”.
Si tratta di una svolta storica. L’anno scorso gli Stati Uniti avevano stanziato soltanto tre milioni e mezzo di dollari per iniziative di pressione nonviolenta in Iran. Per quest’anno la cifra era triplicata a dieci milioni. Ma a questo punto il dipartimento di Stato sembra puntare tutto su questo tipo di opzione, ed ha aumentato geometricamente i fondi. La maggior parte, 50 milioni, verranno spesi per potenziare le trasmissioni in lingua farsi di alcune tv e radio via satellite basate a Los Angeles. Condi Rice ha annunciato partnership con canali privati, che trasmettono soprattutto musica, ma anche un ampliamento a 24 ore su 24 delle trasmissioni in Iran di Voice of America e radio Farda.
Ai sindacati iraniani, ai dissidenti e alle Ong (Organizzazioni non governative) per i diritti umani andranno 25 milioni. Passeranno soprattutto attraverso la Ned (National endowment for democracy), l’organizzazione parastatale bipartisan Usa che promuove la democrazia nel mondo, finanziando movimenti d’opposizione. All’attivo della Ned ci sono i successi delle transizioni democratiche in Serbia, Georgia e Ucraina. Meno fortuna stanno avendo i programmi ad Haiti.
I dirigenti del dipartimento di Stato però non intendono ripetere gli stessi errori compiuti con l’Iraq, dove gli Stati Uniti si erano affidati a personaggi della diaspora senza un reale seguito in patria, come Ahmed Chalabi. Pochi fondi andranno quindi ai monarchici iraniani, che vorrebbero reinstallare al potere la famiglia dello scià cacciato nel ‘79 da Ruhollah Khomeini. E proprio all’intervento statunitense del ‘53 contro Mossadeq e in favore di Reza Pahlavi fa ossessivo riferimento la propaganda degli ayatollah, che accusa Washington di indebita interferenza negli affari interni di uno stato sovrano.
Cinque milioni di dollari vengono stanziati per rianimare programmi di scambio e borse di studio in favore dei giovani iraniani che vogliono recarsi in America, congelati da un quarto di secolo. Verranno ripristinati massicciamente anche gli inviti a studiosi, scienziati e intellettuali di Teheran per partecipare a conferenze e seminari negli Stati Uniti. Una delle conseguenze non volute e controproducenti dell’embargo economico, infatti, è l’estrema difficoltà per ottenere visti, peggiorata dopo l’11 settembre 2001. Cinque milioni, infine, andranno al potenziamento dei siti internet.
“E’ la mossa giusta da fare in questo momento”, applaude il senatore repubblicano del Kansas Sam Brownback, che aveva chiesto cento milioni per promuovere la democrazia in Iran. Alcuni attivisti iraniani avevano criticato l’amministrazione Bush per la mancanza di aiuti, ma Brownback difende le scelte di questi anni: “Stiamo combattendo il terrorismo con metodo: prima l’Afghanistan, poi l’Iraq, e adesso ci concentriamo di più sull’Iran”.
Un altro senatore repubblicano, Lincoln Chafee del Rhode Island, ha invece criticato gli sforzi pro-democrazia dell’amministrazione: “Non abbiamo fatto nulla per tutto il 2005, e ora abbiamo una situazione disastrosa in Palestina, con i terroristi di Hamas che hanno vinto le elezioni”. Sull’Iran, in particolare, il democratico Martin Indyk della Brookings Institution avverte che già Bill Clinton cercò senza successo di aiutare le forze anticlericali locali. E Michael McFaul, professore della Stanford University, invita a non rivelare i nomi dei destinatari degli aiuti in Iran: “Rischiano la prigione se non la vita, perchè verranno additati come agenti degli americani”.
E’ una partita delicata, insomma, quella annunciata dalla Rice. La quale però ha escluso qualsiasi opzione militare sull’Iran. Contro un regime che, come ha ammesso ieri per la prima volta perfino il ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy, vuole dotarsi della bomba atomica.
Mauro Suttora
Il Foglio, venerdi 17 febbraio 2006
New York. Michael Ledeen ha vinto. L’esponente neoconservatore che da anni si batte per aiutare di più l’opposizione democratica in Iran ha viste infine accolte le sue proposte da Condi Rice: “Intraprendiamo un nuovo sforzo per assecondare le aspirazioni del popolo iraniano”, ha detto il segretario di Stato al Senato, “e utilizzeremo 85 milioni di dollari nello sviluppo di reti per i riformatori, i dissidenti politici e gli attivisti dei diritti umani”.
Si tratta di una svolta storica. L’anno scorso gli Stati Uniti avevano stanziato soltanto tre milioni e mezzo di dollari per iniziative di pressione nonviolenta in Iran. Per quest’anno la cifra era triplicata a dieci milioni. Ma a questo punto il dipartimento di Stato sembra puntare tutto su questo tipo di opzione, ed ha aumentato geometricamente i fondi. La maggior parte, 50 milioni, verranno spesi per potenziare le trasmissioni in lingua farsi di alcune tv e radio via satellite basate a Los Angeles. Condi Rice ha annunciato partnership con canali privati, che trasmettono soprattutto musica, ma anche un ampliamento a 24 ore su 24 delle trasmissioni in Iran di Voice of America e radio Farda.
Ai sindacati iraniani, ai dissidenti e alle Ong (Organizzazioni non governative) per i diritti umani andranno 25 milioni. Passeranno soprattutto attraverso la Ned (National endowment for democracy), l’organizzazione parastatale bipartisan Usa che promuove la democrazia nel mondo, finanziando movimenti d’opposizione. All’attivo della Ned ci sono i successi delle transizioni democratiche in Serbia, Georgia e Ucraina. Meno fortuna stanno avendo i programmi ad Haiti.
I dirigenti del dipartimento di Stato però non intendono ripetere gli stessi errori compiuti con l’Iraq, dove gli Stati Uniti si erano affidati a personaggi della diaspora senza un reale seguito in patria, come Ahmed Chalabi. Pochi fondi andranno quindi ai monarchici iraniani, che vorrebbero reinstallare al potere la famiglia dello scià cacciato nel ‘79 da Ruhollah Khomeini. E proprio all’intervento statunitense del ‘53 contro Mossadeq e in favore di Reza Pahlavi fa ossessivo riferimento la propaganda degli ayatollah, che accusa Washington di indebita interferenza negli affari interni di uno stato sovrano.
Cinque milioni di dollari vengono stanziati per rianimare programmi di scambio e borse di studio in favore dei giovani iraniani che vogliono recarsi in America, congelati da un quarto di secolo. Verranno ripristinati massicciamente anche gli inviti a studiosi, scienziati e intellettuali di Teheran per partecipare a conferenze e seminari negli Stati Uniti. Una delle conseguenze non volute e controproducenti dell’embargo economico, infatti, è l’estrema difficoltà per ottenere visti, peggiorata dopo l’11 settembre 2001. Cinque milioni, infine, andranno al potenziamento dei siti internet.
“E’ la mossa giusta da fare in questo momento”, applaude il senatore repubblicano del Kansas Sam Brownback, che aveva chiesto cento milioni per promuovere la democrazia in Iran. Alcuni attivisti iraniani avevano criticato l’amministrazione Bush per la mancanza di aiuti, ma Brownback difende le scelte di questi anni: “Stiamo combattendo il terrorismo con metodo: prima l’Afghanistan, poi l’Iraq, e adesso ci concentriamo di più sull’Iran”.
Un altro senatore repubblicano, Lincoln Chafee del Rhode Island, ha invece criticato gli sforzi pro-democrazia dell’amministrazione: “Non abbiamo fatto nulla per tutto il 2005, e ora abbiamo una situazione disastrosa in Palestina, con i terroristi di Hamas che hanno vinto le elezioni”. Sull’Iran, in particolare, il democratico Martin Indyk della Brookings Institution avverte che già Bill Clinton cercò senza successo di aiutare le forze anticlericali locali. E Michael McFaul, professore della Stanford University, invita a non rivelare i nomi dei destinatari degli aiuti in Iran: “Rischiano la prigione se non la vita, perchè verranno additati come agenti degli americani”.
E’ una partita delicata, insomma, quella annunciata dalla Rice. La quale però ha escluso qualsiasi opzione militare sull’Iran. Contro un regime che, come ha ammesso ieri per la prima volta perfino il ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy, vuole dotarsi della bomba atomica.
Mauro Suttora
Wednesday, March 05, 2003
Iraq: è guerra
Durerà 3 giorni, e sarà un inferno veramente intelligente
Scenari di guerra: il conflitto con l' Iraq segnerà una svolta nella storia militare, per l' uso massiccio di nuove armi e dell' elettronica
Tra le tre opzioni, nel caso gli sforzi per la pace siano vani, è questa l' ipotesi più realistica. "I combattimenti saranno guidati dalla rivoluzionaria Rete centrale informativa" "Perciò serviranno meno soldati e meno tempo che nel 1991", prevedono gli strateghi. L' esordio delle E Bomb, che con le onde magnetiche "accecheranno" Saddam
dal nostro corrispondente Mauro Suttora
New York (Stati Uniti), 5 marzo 2003
Durerà tre giorni, tre settimane, tre mesi o tre anni ? "Solo una cosa è sicura: non sapremo nemmeno che è iniziata", dice della guerra in Iraq il generale Lewis McKenzie. Lui, canadese, ha comandato le truppe Onu nell' ex Jugoslavia. Ma l' attacco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein, se ci sarà, questa volta difficilmente verrà condotto in nome delle Nazioni Unite. Come accadde già nel 1999, quando la Russia mise il veto alla guerra in Kosovo. Il presidente statunitense George Bush jr, quindi, dovrà combattere da solo la Seconda guerra del Golfo.
Suo padre vinse la prima, 12 anni fa. E anche questa volta la vittoria è sicura: il primo esercito del mondo, che costa 380 miliardi di dollari l' anno (più di tutte le altre forze armate del pianeta messe assieme) e che allinea armi segrete di inaudita potenza, non si farà certo sconfiggere dagli iracheni, che hanno la metà degli armamenti rispetto al ' 91 e sono indeboliti da dieci anni di sanzioni. Ma è proprio la solitudine degli Stati Uniti a rendere importante il fattore tempo. Perché se Saddam se ne andrà dopo tre giorni, per Washington sarà un trionfo. Mentre se si supereranno i tre mesi diventerà un disastro. Ecco quindi i vari scenari, dal più ottimista al più pessimista.
Guerra di tre giorni.
Improvvisamente, ai 19 milioni di iracheni non arriveranno più notizie. A questo si riferisce il generale McKenzie, parlando dell' incertezza sull' inizio del conflitto. Le tv smetteranno di funzionare e le radio nelle case capteranno solo qualche emittente estera, sulle onde medie. Poi però, dopo qualche ora, la voce di Saddam inviterà tutti a deporre le armi e a non opporre resistenza. Attenzione: la "voce" del dittatore iracheno, non lui. Perché, una volta messi fuori uso i media del regime, gli americani trasmetteranno falsi comunicati già confezionati dalla Cia con la voce "campionata" di Saddam.
Nel frattempo i commandos penetrati in Iraq da settimane (non è un mistero che già adesso incursori e 007 angloamericani stiano operando nel Nord, controllato dai curdi) si impadroniranno dei principali pozzi petroliferi. O comunque impediranno agli iracheni di farli saltare in aria. Il primo attacco, come sempre, arriverà dall' aria e di notte. Dopo che gli aerei a stelle e strisce EA 6B avranno neutralizzato i radar nemici, gli F 16 modello CJ si occuperanno di distruggere metodicamente le batterie antiaeree.
Per ironia della sorte, molte delle tremila spedizioni aeree che gli Stati Uniti sono in grado di far partire nelle prime 48 ore di guerra proverranno dalla base Principe Sultan. Cioè proprio dall' installazione militare che Osama Bin Laden odia di più, perché si trova sul suolo "sacro" della sua Arabia Saudita. Gli altri velivoli (in particolare i Super Hornet, i nuovi caccia della Marina che dispongono di sensori che inquadrano 4 bersagli alla volta) partiranno dalle portaerei, dalla Turchia e dal Qatar.
In tutto, gli Stati Uniti questa volta hanno portato nel Golfo Persico 200 mila soldati: meno della metà rispetto a quelli che combatterono nella coalizione della Prima guerra del Golfo. Come mai ? Basteranno ? "Certo", rispondono fiduciosi al Pentagono, "perché quello fu un conflitto pianificato ancora con la mentalità della guerra fredda: grandi quantità di mezzi corazzati che avanzano lentamente nel deserto, a 15 chilometri l' ora.
La prossima, invece, sarà la prima E war, la prima guerra elettronica". "Una battaglia basata sull' uso delle più moderne tecnologie dell' informazione", prevede il generale dell' esercito italiano Carlo Jean, "in cui sarà regina la rivoluzionaria Rete centrale informativa basata sulla fusione dei dati forniti dai vari "sensori", dai satelliti ai ricognitori non pilotati". Questi ultimi sono gli ormai noti Predator, già usati in Afghanistan.
Guerra di tre settimane.
Si tratta dell' ipotesi più probabile: gli stessi strateghi americani ammettono che la guerra potrebbe durare di meno solo se Saddam fuggisse o fosse rovesciato con un golpe. Ma sarebbe comunque una durata ridotta rispetto alle altre guerre degli ultimi dieci anni: sia nel Golfo che in Kosovo e in Afghanistan, infatti, i bombardamenti aerei sono durati più di un mese prima che le truppe di terra si arrischiassero ad attaccare. "Questa volta, invece, 9 bombe su 10 saranno teleguidate", assicura il generale Robert Scales, "rispetto a una proporzione di 1 su 10 che avevamo nel ' 91. Quindi gli obiettivi saranno raggiunti assai più in fretta".
Su quanto le bombe (dalla Bat alla Blackout alle CBU 97) possano essere "intelligenti" è lecito restare scettici, dopo i numerosi "danni collaterali" subiti dai civili in Serbia quattro anni fa. Certo è che negli ultimi 24 mesi il presidente Bush ha concesso alle sue gerarchie militari un aumento di spesa del 25 per cento, fatto senza precedenti in tempo di pace (unica eccezione, il regime di Hitler), proprio per sviluppare al massimo le armi sofisticate.
Alcuni esempi ? Il sistema Longbow che, montato sui vecchi elicotteri Apache, permette di mirare contemporaneamente a 16 carri armati nemici. O la bomba Jdam, ordigno supertecnologico a guida satellitare (l' 80 per cento delle armi americane usano ormai il sistema di posizionamento Gps collegato ai satelliti), capace di colpire l' obiettivo con uno scarto di errore di appena 5 metri: il Pentagono ha ordinato alla Boeing di Saint Charles (Missouri) ben 174 mila di questi ordigni, dal modello "light" (227 kg) alle taglie più forti (450 e 1.000 kg). O la cosiddetta E bomb, un ordigno digitale a microonde in grado di far saltare i bunker di comando iracheni spegnendo luci, mettendo fuori uso telefoni, radio e tv, sciogliendo computer: in sostanza la E bomb, progettata per "uccidere i computer risparmiando uomini", porterà ad "accecare" Saddam, e gli impedirà qualsiasi comunicazione coi suoi comandi.
Sarà importante, per vincere in fretta, impedire alle divisioni dell' esercito iracheno (che Saddam, temendo colpi di Stato, tiene da sempre lontane da Baghdad) di convergere sulla capitale in caso di estrema resistenza. In realtà, calcolano gli statunitensi, anche la tanto declamata fedeltà della Guardia al dittatore è tutta da dimostrare. Pare che il nucleo duro degli irriducibili non sia composto da più di tremila soldati: quelli che comunque non sopravviverebbero alle vendette personali dopo tutti i crimini commessi, e che quindi combatterebbero fino alla morte non avendo nulla da perdere.
"L' aspetto psicologico di questa guerra sarà importantissimo", conferma il comandante in capo americano Tommy Franks, "noi dobbiamo riuscire a far capire, in pochi giorni, che non combattiamo contro l' Iraq ma solo contro Saddam e i suoi fedeli. Per tutti gli altri ci sarà un posto nel nuovo Iraq liberato e democratico, com' è avvenuto a Kabul".
Parole di speranza. Ma paradossalmente tanto più facile sarà raggiungere questo obiettivo di pacificazione quanto più tremenda e rapida sarà la prima ondata di bombardamenti, che deve servire a demoralizzare i fedeli di Saddam. Dopodiché gli americani mirano a "redimere" quanti più soldati nemici possibile, per arruolarli subito in un esercito alleato, utile per mantenere l' ordine in una situazione che sarà comunque difficile. E perfino a Saddam lasciano aperta una porta, per non spingerlo a una vendetta estrema del tipo "muoia Sansone con tutti i filistei": in caso di fuga, gli garantirebbero (malvolentieri) un esilio come quello concesso al caudillo panamense Manuel Noriega nel 1989.
Guerra di tre mesi.
È lo scenario pessimista. Saddam non cede, i bombardamenti mirati fanno flop, ma soprattutto si avvera uno dei seguenti due incubi. Primo: gli iracheni usano le armi di distruzione di massa chimiche e batteriologiche che giuravano di non avere più. Contro gli americani o contro la propria popolazione civile, non importa: la tattica criminale della terra bruciata è stata già usata troppo ampiamente da Saddam contro i "fratelli musulmani" curdi e iraniani negli Anni ' 80 per non considerarlo capace di simili atrocità. I soldati americani, soldati tutti "nuovi" (ultraletali, ultraspietati, intessuti di tecnologie come un cyborg, un vero superguerriero), hanno tute e maschere antigas, anche se di dubbio funzionamento, ma il vero dramma sarebbe dover soccorrere decine di migliaia di civili iracheni agonizzanti, e contemporaneamente combattere.
Secondo incubo: gli irriducibili si trincerano dentro Baghdad, si proteggono con "scudi umani" occidentali (pacifisti, ostaggi), si nascondono in basi militari sotto o accanto a chiese, scuole, ospedali, musei, siti archeologici. E anche Saddam può confondere le onde radio delle comunicazioni americane. Senza contare che più i congegni tecnologici sono avanzati, più si rivelano fragili. E, in un deserto, i granelli di sabbia capaci di bloccare un mirabile ingranaggio abbondano.
Guerra di tre anni.
Significherebbe, per gli Stati Uniti, aver perso la guerra. Una resistenza endemica, come quella già subita dagli americani in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan, metterebbe a dura prova i nervi delle opinioni pubbliche occidentali. Gli stessi elettori statunitensi non sono teneri con i propri presidenti che perdono: lo dimostrarono contro Jimmy Carter nel 1980, dopo la crisi degli ostaggi in Iran. Per questo Condoleezza Rice, la consigliera più ascoltata da Bush, non prevede in ogni caso per gli Stati Uniti un impegno oltre i 18 mesi in Iraq.
Ma disastri come un missile chimico di Saddam che colpisce Israele, e Sharon che si vendica con un' atomica su Baghdad, potrebbero far sfuggire la situazione di mano perfino alla potenza più forte del pianeta dai tempi dell' Impero romano. Per non parlare di stragi di kamikaze nel nuovo Iraq occupato, ma anche in Europa o di nuovo negli States.
L' Iraq è l' erede dei primi imperi della storia: quelli di sumeri, assiri e babilonesi che prosperarono in Mesopotamia, culla di civiltà. Sarebbe una tragica coincidenza se si candidasse a esserne anche la tomba.
Mauro Suttora
Scenari di guerra: il conflitto con l' Iraq segnerà una svolta nella storia militare, per l' uso massiccio di nuove armi e dell' elettronica
Tra le tre opzioni, nel caso gli sforzi per la pace siano vani, è questa l' ipotesi più realistica. "I combattimenti saranno guidati dalla rivoluzionaria Rete centrale informativa" "Perciò serviranno meno soldati e meno tempo che nel 1991", prevedono gli strateghi. L' esordio delle E Bomb, che con le onde magnetiche "accecheranno" Saddam
dal nostro corrispondente Mauro Suttora
New York (Stati Uniti), 5 marzo 2003
Durerà tre giorni, tre settimane, tre mesi o tre anni ? "Solo una cosa è sicura: non sapremo nemmeno che è iniziata", dice della guerra in Iraq il generale Lewis McKenzie. Lui, canadese, ha comandato le truppe Onu nell' ex Jugoslavia. Ma l' attacco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein, se ci sarà, questa volta difficilmente verrà condotto in nome delle Nazioni Unite. Come accadde già nel 1999, quando la Russia mise il veto alla guerra in Kosovo. Il presidente statunitense George Bush jr, quindi, dovrà combattere da solo la Seconda guerra del Golfo.
Suo padre vinse la prima, 12 anni fa. E anche questa volta la vittoria è sicura: il primo esercito del mondo, che costa 380 miliardi di dollari l' anno (più di tutte le altre forze armate del pianeta messe assieme) e che allinea armi segrete di inaudita potenza, non si farà certo sconfiggere dagli iracheni, che hanno la metà degli armamenti rispetto al ' 91 e sono indeboliti da dieci anni di sanzioni. Ma è proprio la solitudine degli Stati Uniti a rendere importante il fattore tempo. Perché se Saddam se ne andrà dopo tre giorni, per Washington sarà un trionfo. Mentre se si supereranno i tre mesi diventerà un disastro. Ecco quindi i vari scenari, dal più ottimista al più pessimista.
Guerra di tre giorni.
Improvvisamente, ai 19 milioni di iracheni non arriveranno più notizie. A questo si riferisce il generale McKenzie, parlando dell' incertezza sull' inizio del conflitto. Le tv smetteranno di funzionare e le radio nelle case capteranno solo qualche emittente estera, sulle onde medie. Poi però, dopo qualche ora, la voce di Saddam inviterà tutti a deporre le armi e a non opporre resistenza. Attenzione: la "voce" del dittatore iracheno, non lui. Perché, una volta messi fuori uso i media del regime, gli americani trasmetteranno falsi comunicati già confezionati dalla Cia con la voce "campionata" di Saddam.
Nel frattempo i commandos penetrati in Iraq da settimane (non è un mistero che già adesso incursori e 007 angloamericani stiano operando nel Nord, controllato dai curdi) si impadroniranno dei principali pozzi petroliferi. O comunque impediranno agli iracheni di farli saltare in aria. Il primo attacco, come sempre, arriverà dall' aria e di notte. Dopo che gli aerei a stelle e strisce EA 6B avranno neutralizzato i radar nemici, gli F 16 modello CJ si occuperanno di distruggere metodicamente le batterie antiaeree.
Per ironia della sorte, molte delle tremila spedizioni aeree che gli Stati Uniti sono in grado di far partire nelle prime 48 ore di guerra proverranno dalla base Principe Sultan. Cioè proprio dall' installazione militare che Osama Bin Laden odia di più, perché si trova sul suolo "sacro" della sua Arabia Saudita. Gli altri velivoli (in particolare i Super Hornet, i nuovi caccia della Marina che dispongono di sensori che inquadrano 4 bersagli alla volta) partiranno dalle portaerei, dalla Turchia e dal Qatar.
In tutto, gli Stati Uniti questa volta hanno portato nel Golfo Persico 200 mila soldati: meno della metà rispetto a quelli che combatterono nella coalizione della Prima guerra del Golfo. Come mai ? Basteranno ? "Certo", rispondono fiduciosi al Pentagono, "perché quello fu un conflitto pianificato ancora con la mentalità della guerra fredda: grandi quantità di mezzi corazzati che avanzano lentamente nel deserto, a 15 chilometri l' ora.
La prossima, invece, sarà la prima E war, la prima guerra elettronica". "Una battaglia basata sull' uso delle più moderne tecnologie dell' informazione", prevede il generale dell' esercito italiano Carlo Jean, "in cui sarà regina la rivoluzionaria Rete centrale informativa basata sulla fusione dei dati forniti dai vari "sensori", dai satelliti ai ricognitori non pilotati". Questi ultimi sono gli ormai noti Predator, già usati in Afghanistan.
Guerra di tre settimane.
Si tratta dell' ipotesi più probabile: gli stessi strateghi americani ammettono che la guerra potrebbe durare di meno solo se Saddam fuggisse o fosse rovesciato con un golpe. Ma sarebbe comunque una durata ridotta rispetto alle altre guerre degli ultimi dieci anni: sia nel Golfo che in Kosovo e in Afghanistan, infatti, i bombardamenti aerei sono durati più di un mese prima che le truppe di terra si arrischiassero ad attaccare. "Questa volta, invece, 9 bombe su 10 saranno teleguidate", assicura il generale Robert Scales, "rispetto a una proporzione di 1 su 10 che avevamo nel ' 91. Quindi gli obiettivi saranno raggiunti assai più in fretta".
Su quanto le bombe (dalla Bat alla Blackout alle CBU 97) possano essere "intelligenti" è lecito restare scettici, dopo i numerosi "danni collaterali" subiti dai civili in Serbia quattro anni fa. Certo è che negli ultimi 24 mesi il presidente Bush ha concesso alle sue gerarchie militari un aumento di spesa del 25 per cento, fatto senza precedenti in tempo di pace (unica eccezione, il regime di Hitler), proprio per sviluppare al massimo le armi sofisticate.
Alcuni esempi ? Il sistema Longbow che, montato sui vecchi elicotteri Apache, permette di mirare contemporaneamente a 16 carri armati nemici. O la bomba Jdam, ordigno supertecnologico a guida satellitare (l' 80 per cento delle armi americane usano ormai il sistema di posizionamento Gps collegato ai satelliti), capace di colpire l' obiettivo con uno scarto di errore di appena 5 metri: il Pentagono ha ordinato alla Boeing di Saint Charles (Missouri) ben 174 mila di questi ordigni, dal modello "light" (227 kg) alle taglie più forti (450 e 1.000 kg). O la cosiddetta E bomb, un ordigno digitale a microonde in grado di far saltare i bunker di comando iracheni spegnendo luci, mettendo fuori uso telefoni, radio e tv, sciogliendo computer: in sostanza la E bomb, progettata per "uccidere i computer risparmiando uomini", porterà ad "accecare" Saddam, e gli impedirà qualsiasi comunicazione coi suoi comandi.
Sarà importante, per vincere in fretta, impedire alle divisioni dell' esercito iracheno (che Saddam, temendo colpi di Stato, tiene da sempre lontane da Baghdad) di convergere sulla capitale in caso di estrema resistenza. In realtà, calcolano gli statunitensi, anche la tanto declamata fedeltà della Guardia al dittatore è tutta da dimostrare. Pare che il nucleo duro degli irriducibili non sia composto da più di tremila soldati: quelli che comunque non sopravviverebbero alle vendette personali dopo tutti i crimini commessi, e che quindi combatterebbero fino alla morte non avendo nulla da perdere.
"L' aspetto psicologico di questa guerra sarà importantissimo", conferma il comandante in capo americano Tommy Franks, "noi dobbiamo riuscire a far capire, in pochi giorni, che non combattiamo contro l' Iraq ma solo contro Saddam e i suoi fedeli. Per tutti gli altri ci sarà un posto nel nuovo Iraq liberato e democratico, com' è avvenuto a Kabul".
Parole di speranza. Ma paradossalmente tanto più facile sarà raggiungere questo obiettivo di pacificazione quanto più tremenda e rapida sarà la prima ondata di bombardamenti, che deve servire a demoralizzare i fedeli di Saddam. Dopodiché gli americani mirano a "redimere" quanti più soldati nemici possibile, per arruolarli subito in un esercito alleato, utile per mantenere l' ordine in una situazione che sarà comunque difficile. E perfino a Saddam lasciano aperta una porta, per non spingerlo a una vendetta estrema del tipo "muoia Sansone con tutti i filistei": in caso di fuga, gli garantirebbero (malvolentieri) un esilio come quello concesso al caudillo panamense Manuel Noriega nel 1989.
Guerra di tre mesi.
È lo scenario pessimista. Saddam non cede, i bombardamenti mirati fanno flop, ma soprattutto si avvera uno dei seguenti due incubi. Primo: gli iracheni usano le armi di distruzione di massa chimiche e batteriologiche che giuravano di non avere più. Contro gli americani o contro la propria popolazione civile, non importa: la tattica criminale della terra bruciata è stata già usata troppo ampiamente da Saddam contro i "fratelli musulmani" curdi e iraniani negli Anni ' 80 per non considerarlo capace di simili atrocità. I soldati americani, soldati tutti "nuovi" (ultraletali, ultraspietati, intessuti di tecnologie come un cyborg, un vero superguerriero), hanno tute e maschere antigas, anche se di dubbio funzionamento, ma il vero dramma sarebbe dover soccorrere decine di migliaia di civili iracheni agonizzanti, e contemporaneamente combattere.
Secondo incubo: gli irriducibili si trincerano dentro Baghdad, si proteggono con "scudi umani" occidentali (pacifisti, ostaggi), si nascondono in basi militari sotto o accanto a chiese, scuole, ospedali, musei, siti archeologici. E anche Saddam può confondere le onde radio delle comunicazioni americane. Senza contare che più i congegni tecnologici sono avanzati, più si rivelano fragili. E, in un deserto, i granelli di sabbia capaci di bloccare un mirabile ingranaggio abbondano.
Guerra di tre anni.
Significherebbe, per gli Stati Uniti, aver perso la guerra. Una resistenza endemica, come quella già subita dagli americani in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan, metterebbe a dura prova i nervi delle opinioni pubbliche occidentali. Gli stessi elettori statunitensi non sono teneri con i propri presidenti che perdono: lo dimostrarono contro Jimmy Carter nel 1980, dopo la crisi degli ostaggi in Iran. Per questo Condoleezza Rice, la consigliera più ascoltata da Bush, non prevede in ogni caso per gli Stati Uniti un impegno oltre i 18 mesi in Iraq.
Ma disastri come un missile chimico di Saddam che colpisce Israele, e Sharon che si vendica con un' atomica su Baghdad, potrebbero far sfuggire la situazione di mano perfino alla potenza più forte del pianeta dai tempi dell' Impero romano. Per non parlare di stragi di kamikaze nel nuovo Iraq occupato, ma anche in Europa o di nuovo negli States.
L' Iraq è l' erede dei primi imperi della storia: quelli di sumeri, assiri e babilonesi che prosperarono in Mesopotamia, culla di civiltà. Sarebbe una tragica coincidenza se si candidasse a esserne anche la tomba.
Mauro Suttora
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