A NEW YORK LA PRIMA DEL PRINCIPE AMBASCIATORE, MAESTRO D’AMBIGUITA’ SAUDITA
Il Foglio, giovedi 16 febbraio 2006, pag.3
New York. “Una cattiva stabilità è meglio di un buon caos”: è tutto concentrato in questa frase, il realismo scettico del principe Turki Al-Feisal. Il quale, fresco di nomina come ambasciatore saudita a Washington, ha scelto per la sua prima uscita pubblica il Council on Foreign Relations. Si è presentato come un vecchio amico degli Stati Uniti, anzi “uno di noi”, visto che ha compiuto quasi tutti gli studi in America negli anni Sessanta: quattro anni di liceo nel New Jersey, poi altri quattro alla Georgetown university. Il 16 febbraio festeggia 61 anni, e con la sua pronuncia impeccabile adula i presenti: “Sono tornato nel vostro grande Paese per imparare ancora e completare la mia educazione...”
Parla a braccio, il principe, sciolto e disinvolto come nessun altro dignitario saudita: “A dicembre, quando ho presentato le mie credenziali a Condi Rice, le ho ripetuto la frase che Churchill rivolse a Roosevelt, quando questi si imbattè in lui nudo per un corridoio mentre era ospite alla Casa Bianca: ‘Un premier britannico non ha nulla da nascondere all’America’. Ecco, io penso che anche i rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita debbano essere aperti al massimo. Perchè non ci lega solo un rapporto petrolio/sicurezza: in questi decenni centinaia di migliaia di sauditi sono approdati in America per studiare, curarsi, fare affari. E gli affari li abbiamo conclusi con mutua soddisfazione”.
Il principe tuttavia sa bene che una buona metà dell’establishment statunitense guarda con sospetto all’Arabia Saudita, ai suoi finanziamenti alle madrasse di tutto l’Islam, all’ambiguità di parte della famiglia reale, e alla mancanza di libertà che continua a caratterizzare Riad: “Nonostante quel che leggete sul New York Times o sul Wall Street Journal, stiamo procedendo con le riforme politiche: fra tre anni voteranno anche le donne, che già oggi da noi si laureano più dei maschi. Quanto alle accuse al wahabismo, i nostri preti hanno condannato gli attentati suicidi ben prima dell’11 settembre. E noi musulmani siamo rimasti sorpresi quanto voi occidentali per la cultura di morte propalata da un culto islamico assolutamente minoritario. Perchè non è vero, come qualcuno crede in Occidente, che dietro ogni moschea c’è un giovane kamikaze pronto a farsi saltare in aria. Ogni religione ha avuto nella storia le sue sette di fanatici pronti a sacrificarsi. Ma il Corano proibisce l’uccisione di civili innocenti.”
L’Egitto rinvia di due anni le elezioni locali temendo un successo dei Fratelli Musulmani dopo l’exploit di Hamas in Palestina. Cosa chiede Riad ad Hamas? “Di mantenere tutti gli impegni assunti dall’Autorità palestinese, e quindi di riconoscere il processo di Oslo, da cui è nata proprio quell’Autorità. Di accettare il piano di pace arabo, con la soluzione dei due stati. E di rispettare la Road map”. Turki non parla esplicitamente di rinuncia al terrorismo nè di riconoscimento di Israele (che peraltro non è riconosciuto neppure dall’Arabia Saudita), ma dà questi due punti come inclusi nei precedenti.
Il principe Turki è stato capo dei servizi segreti esteri di Riad per un quarto di secolo, dal '77 all’11 settembre, quando venne prudentemente spedito a Londra come ambasciatore. E’ l’uomo di governo che più di ogni altro conosce Osama bin Laden, avendolo finanziato, incoraggiato e incontrato personalmente cinque volte. «Ma l’ultima fu nel ‘90, dopo la vittoria contro i sovietici in Afghanistan, quando lui e i suoi reduci tornati in Arabia mi proposero di mandarli a combattere nello Yemen del Sud, contro il governo allora comunista. Dopo il mio rifiuto lo persi di vista, venne arrestato varie volte, poi tornò in Afghanistan, e nel ‘93 dal Sudan cominciò la sua guerra contro noi sauditi. Lo privammo della cittadinanza, gli sequestrammo i beni, la sua famiglia lo sconfessò, e nel ‘95 il primo attentato di Al Qaeda colpì proprio l’Arabia Saudita, con la morte degli undici soldati americani. Oggi in Iraq gli estremisti sfruttano l’insofferenza per le truppe straniere, ma mi sembra che la stragrande maggioranza della popolazione voglia andare avanti, guardando al futuro”.
L’unico argomento su cui il principe non parla è l’Iran: “Abbiamo in corso delicate trattative”. Sulla possibilità che i cristiani possano praticare liberamente la propria religione in Arabia Saudita, dice che in privato dovrebbero essere liberi di farlo. E lancia una curiosa proposta: “Noi islamici riconosciamo tutti i vostri libri sacri, Bibbia e Vangelo. Perchè, reciprocamente, voi non accettate anche il Corano?”
Mauro Suttora
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Friday, February 17, 2006
Sunday, September 25, 2005
Saud al Faisal
INTERVISTA AL PRINCIPE SAUD AL FAISAL, MINISTRO DEGLI ESTERI DELL'ARABIA SAUDITA
mercoledi 21 settembre 2005
Il Foglio
New York. "Americani e inglesi stanno consegnando l'Iraq all'Iran. Nel sud del Paese, che è in larga parte pacificato, emissari iraniani installano i loro uomini a capo delle amministrazioni locali, e organizzano milizie private. Come potete permetterlo? Nel 1991, dopo aver combattuto assieme, rinunciammo a marciare su Bagdad proprio per evitare un risultato simile".
Il principe Saud Al Faisal, 65 anni, ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita ininterrottamente dal '75 (record mondiale), lancia questo monito al Council on Foreign Relations. "Non darei alcun consiglio sull'Iraq al presidente Bush in pubblico, ma sarebbe bene che gli Stati Uniti individuassero con precisione l'obiettivo da ottenere, e che poi facessero seguire i fatti alle parole, invece di farsi trainare dai fatti. Non è un problema di elezioni o di costituzione. Si parla di sciiti e sunniti come se fossero due entità separate, ma sono tutti arabi. Le differenze religiose percorrono ogni tribù. E i sunniti non sono i 'cattivi'".
Il direttore di Newsweek Fareed Zakaria chiede al principe: "Cosa pensa dei discorsi di Bush all'American Enterprise Institute e per l'inaugurazione del secondo mandato, in cui ha identificato la principale causa del terrorismo nei regimi tirannici?" "Il terrorismo purtroppo esiste anche nelle democrazie - risponde Saud - e viceversa una dittatura come l'Urss non ha prodotto terroristi durante la Guerra fredda. Quindi non sono d'accordo". Il principe, laureato a Princeton nel '64, indossa giacca e cravatta e fa parte dell'ala occidentalista della famiglia reale saudita. Così come il nuovo ambasciatore negli Usa, Turki Al Faisal, studi a Georgetown prima dei flirt pericolosi con Osama Bin Laden. Ma l'estremismo wahabita è attizzato da molti predicatori in Arabia Saudita. "Abbiamo dichiarato guerra agli estremisti - assicura Saud - e introdotto il reato di istigazione al terrorismo. Siamo stati colpiti duramente anche noi da quei fanatici, ma siamo riusciti a sventare 55 attentati. Il terrorismo è un problema mondiale, ha bisogno di una cooperazione globale. Soprattutto fra gli Stati Uniti, unica superpotenza, e il nostro Paese, culla dell'Islam".
Come definirebbe il terrorismo islamico? "Uso le parole pronunciate dal giudice John Roberts durante le audizioni al Senato quando gli hanno chiesto di definire la pornografia: 'So cos'è quando la vedo'. E' inutile perdere tempo a cercare di definire il terrorismo, è necessario piuttosto individuarne le cause. Il che è importante quanto combattere i terroristi, come ha concluso la conferenza antiterrorismo tenuta a Riyadh lo scorso febbraio con 60 Paesi". E qui il principe si lancia nell'abituale requisitoria contro Israele. Con toni moderati, tuttavia, stando attento a bilanciare le "sofferenze" patite dal popolo palestinese con quelle del popolo israeliano.
Per l'Arabia Saudita la soluzione al problema palestinese resta quella presentata da re Abdullah al summit della Lega Araba a Beirut: riconoscimento immediato di Israele da parte di tutti gli stati arabi in cambio della rinuncia totale ai Territori. "Il ritiro da Gaza è un barlume di speranza - dice Saud - ma le recenti dichiarazioni di Ariel Sharon all'Onu, su Gerusalemme sotto controllo totale di Israele e sul muro di separazione, non sono i segnali giusti da dare in questo momento cruciale." Quanto alla modernizzazione del regime saudita, "la nostra non sarà una democrazia nell'accezione occidentale, ma stiamo ampliando la partecipazione dei cittadini con le elezioni".
Mauro Suttora
mercoledi 21 settembre 2005
Il Foglio
New York. "Americani e inglesi stanno consegnando l'Iraq all'Iran. Nel sud del Paese, che è in larga parte pacificato, emissari iraniani installano i loro uomini a capo delle amministrazioni locali, e organizzano milizie private. Come potete permetterlo? Nel 1991, dopo aver combattuto assieme, rinunciammo a marciare su Bagdad proprio per evitare un risultato simile".
Il principe Saud Al Faisal, 65 anni, ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita ininterrottamente dal '75 (record mondiale), lancia questo monito al Council on Foreign Relations. "Non darei alcun consiglio sull'Iraq al presidente Bush in pubblico, ma sarebbe bene che gli Stati Uniti individuassero con precisione l'obiettivo da ottenere, e che poi facessero seguire i fatti alle parole, invece di farsi trainare dai fatti. Non è un problema di elezioni o di costituzione. Si parla di sciiti e sunniti come se fossero due entità separate, ma sono tutti arabi. Le differenze religiose percorrono ogni tribù. E i sunniti non sono i 'cattivi'".
Il direttore di Newsweek Fareed Zakaria chiede al principe: "Cosa pensa dei discorsi di Bush all'American Enterprise Institute e per l'inaugurazione del secondo mandato, in cui ha identificato la principale causa del terrorismo nei regimi tirannici?" "Il terrorismo purtroppo esiste anche nelle democrazie - risponde Saud - e viceversa una dittatura come l'Urss non ha prodotto terroristi durante la Guerra fredda. Quindi non sono d'accordo". Il principe, laureato a Princeton nel '64, indossa giacca e cravatta e fa parte dell'ala occidentalista della famiglia reale saudita. Così come il nuovo ambasciatore negli Usa, Turki Al Faisal, studi a Georgetown prima dei flirt pericolosi con Osama Bin Laden. Ma l'estremismo wahabita è attizzato da molti predicatori in Arabia Saudita. "Abbiamo dichiarato guerra agli estremisti - assicura Saud - e introdotto il reato di istigazione al terrorismo. Siamo stati colpiti duramente anche noi da quei fanatici, ma siamo riusciti a sventare 55 attentati. Il terrorismo è un problema mondiale, ha bisogno di una cooperazione globale. Soprattutto fra gli Stati Uniti, unica superpotenza, e il nostro Paese, culla dell'Islam".
Come definirebbe il terrorismo islamico? "Uso le parole pronunciate dal giudice John Roberts durante le audizioni al Senato quando gli hanno chiesto di definire la pornografia: 'So cos'è quando la vedo'. E' inutile perdere tempo a cercare di definire il terrorismo, è necessario piuttosto individuarne le cause. Il che è importante quanto combattere i terroristi, come ha concluso la conferenza antiterrorismo tenuta a Riyadh lo scorso febbraio con 60 Paesi". E qui il principe si lancia nell'abituale requisitoria contro Israele. Con toni moderati, tuttavia, stando attento a bilanciare le "sofferenze" patite dal popolo palestinese con quelle del popolo israeliano.
Per l'Arabia Saudita la soluzione al problema palestinese resta quella presentata da re Abdullah al summit della Lega Araba a Beirut: riconoscimento immediato di Israele da parte di tutti gli stati arabi in cambio della rinuncia totale ai Territori. "Il ritiro da Gaza è un barlume di speranza - dice Saud - ma le recenti dichiarazioni di Ariel Sharon all'Onu, su Gerusalemme sotto controllo totale di Israele e sul muro di separazione, non sono i segnali giusti da dare in questo momento cruciale." Quanto alla modernizzazione del regime saudita, "la nostra non sarà una democrazia nell'accezione occidentale, ma stiamo ampliando la partecipazione dei cittadini con le elezioni".
Mauro Suttora
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