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Friday, February 17, 2006

Intervista a Turki

A NEW YORK LA PRIMA DEL PRINCIPE AMBASCIATORE, MAESTRO D’AMBIGUITA’ SAUDITA

Il Foglio, giovedi 16 febbraio 2006, pag.3

New York. “Una cattiva stabilità è meglio di un buon caos”: è tutto concentrato in questa frase, il realismo scettico del principe Turki Al-Feisal. Il quale, fresco di nomina come ambasciatore saudita a Washington, ha scelto per la sua prima uscita pubblica il Council on Foreign Relations. Si è presentato come un vecchio amico degli Stati Uniti, anzi “uno di noi”, visto che ha compiuto quasi tutti gli studi in America negli anni Sessanta: quattro anni di liceo nel New Jersey, poi altri quattro alla Georgetown university. Il 16 febbraio festeggia 61 anni, e con la sua pronuncia impeccabile adula i presenti: “Sono tornato nel vostro grande Paese per imparare ancora e completare la mia educazione...”

Parla a braccio, il principe, sciolto e disinvolto come nessun altro dignitario saudita: “A dicembre, quando ho presentato le mie credenziali a Condi Rice, le ho ripetuto la frase che Churchill rivolse a Roosevelt, quando questi si imbattè in lui nudo per un corridoio mentre era ospite alla Casa Bianca: ‘Un premier britannico non ha nulla da nascondere all’America’. Ecco, io penso che anche i rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita debbano essere aperti al massimo. Perchè non ci lega solo un rapporto petrolio/sicurezza: in questi decenni centinaia di migliaia di sauditi sono approdati in America per studiare, curarsi, fare affari. E gli affari li abbiamo conclusi con mutua soddisfazione”.

Il principe tuttavia sa bene che una buona metà dell’establishment statunitense guarda con sospetto all’Arabia Saudita, ai suoi finanziamenti alle madrasse di tutto l’Islam, all’ambiguità di parte della famiglia reale, e alla mancanza di libertà che continua a caratterizzare Riad: “Nonostante quel che leggete sul New York Times o sul Wall Street Journal, stiamo procedendo con le riforme politiche: fra tre anni voteranno anche le donne, che già oggi da noi si laureano più dei maschi. Quanto alle accuse al wahabismo, i nostri preti hanno condannato gli attentati suicidi ben prima dell’11 settembre. E noi musulmani siamo rimasti sorpresi quanto voi occidentali per la cultura di morte propalata da un culto islamico assolutamente minoritario. Perchè non è vero, come qualcuno crede in Occidente, che dietro ogni moschea c’è un giovane kamikaze pronto a farsi saltare in aria. Ogni religione ha avuto nella storia le sue sette di fanatici pronti a sacrificarsi. Ma il Corano proibisce l’uccisione di civili innocenti.”

L’Egitto rinvia di due anni le elezioni locali temendo un successo dei Fratelli Musulmani dopo l’exploit di Hamas in Palestina. Cosa chiede Riad ad Hamas? “Di mantenere tutti gli impegni assunti dall’Autorità palestinese, e quindi di riconoscere il processo di Oslo, da cui è nata proprio quell’Autorità. Di accettare il piano di pace arabo, con la soluzione dei due stati. E di rispettare la Road map”. Turki non parla esplicitamente di rinuncia al terrorismo nè di riconoscimento di Israele (che peraltro non è riconosciuto neppure dall’Arabia Saudita), ma dà questi due punti come inclusi nei precedenti.

Il principe Turki è stato capo dei servizi segreti esteri di Riad per un quarto di secolo, dal '77 all’11 settembre, quando venne prudentemente spedito a Londra come ambasciatore. E’ l’uomo di governo che più di ogni altro conosce Osama bin Laden, avendolo finanziato, incoraggiato e incontrato personalmente cinque volte. «Ma l’ultima fu nel ‘90, dopo la vittoria contro i sovietici in Afghanistan, quando lui e i suoi reduci tornati in Arabia mi proposero di mandarli a combattere nello Yemen del Sud, contro il governo allora comunista. Dopo il mio rifiuto lo persi di vista, venne arrestato varie volte, poi tornò in Afghanistan, e nel ‘93 dal Sudan cominciò la sua guerra contro noi sauditi. Lo privammo della cittadinanza, gli sequestrammo i beni, la sua famiglia lo sconfessò, e nel ‘95 il primo attentato di Al Qaeda colpì proprio l’Arabia Saudita, con la morte degli undici soldati americani. Oggi in Iraq gli estremisti sfruttano l’insofferenza per le truppe straniere, ma mi sembra che la stragrande maggioranza della popolazione voglia andare avanti, guardando al futuro”.

L’unico argomento su cui il principe non parla è l’Iran: “Abbiamo in corso delicate trattative”. Sulla possibilità che i cristiani possano praticare liberamente la propria religione in Arabia Saudita, dice che in privato dovrebbero essere liberi di farlo. E lancia una curiosa proposta: “Noi islamici riconosciamo tutti i vostri libri sacri, Bibbia e Vangelo. Perchè, reciprocamente, voi non accettate anche il Corano?”

Mauro Suttora

Monday, November 21, 2005

Kristol/Fukuyama al Cfr

Al Council on Foreign Relations incontro sulle prospettive della destra statunitense in Iraq. Kristol a confronto con Fukuyama

UNA SERATA TRA CONSERVATORI CHE CHIEDONO A BUSH PIU' DECISIONE

Il Foglio, 23 novembre 2005

di Mauro Suttora

New York. "Sull'Iraq sono moderatamente ottimista. Abbiamo risolto un problema - Saddam - e sono convinto che alla fine vinceremo. Non vedo perchè dovremmo fare autocritica. E se dovessi muoverne una al presidente George Bush, è quella semmai di non essere abbastanza ambizioso: sulla democratizzazione dovremmo essere più pressanti, sia con i nostri alleati Egitto e Arabia Saudita, sia con la Siria". William Kristol, direttore del settimanale di Rupert Murdoch Weekly Standard e leader neocon, era tranquillissimo l'altra sera al Council on Foreign Relations. Anche perchè una volta tanto giocava in casa: il titolo del dibattito infatti era "Guerra in Iraq: le prospettive dalla destra". I suoi interlocutori: Gary Rosen, vicedirettore del mensile Commentary fondato da Norman Podhoretz, e Francis Fukuyama, professore di economia politica alla Johns Hopkins University. Perfino il moderatore non era neutrale: Roger Hertog, finanziere di Wall Street e finanziatore della stampa conservatrice.

E' stato Fukuyama, quindici anni fa avventato teorico della "fine della storia" (dopo il crollo dell'Urss), a fare il controcanto ai neocon: "Ora mi considerano quasi un apostata, ma mi stupisce che proprio loro, avversari ideologici di un qualsiasi progetto di ingegneria sociale in politica interna, per quella estera propugnino invece il progetto più straordinariamente ambizioso di questo tipo: democratizzare il Medio Oriente. Impresa nobile e auspicabile, ma la cui fattibilità è ancora tutta da dimostrare."

A Kristol le attuali polemiche sulla presenza o meno di armi di distruzione di massa in Iraq e i fallimenti dell'intelligence importano poco: "Bush non si è certo svegliato una mattina dicendo 'Hey, andiamo a farci questa bella avventura in Iraq'. Non era neanche inevitabile andarci. Secondo gli europei, per esempio, abbiamo fatto una cosa terribile. Ma anche rispettati conservatori americani come Brent Scowcroft dopo l'11 settembre continuavano a ragionare con la mentalità del containement, che bene o male ci ha assicurato mezzo secolo di pace. A tutti costoro però dobbiamo chiedere: qual era l'alternativa alla rimozione di Saddam? Avremmo dovuto tenere le nostre truppe sul suolo sacro dell'Arabia Saudita per continuare a proteggerla dal dittatore. Le sanzioni all'Iraq stavano per essere tolte..."

"I realisti, anche repubblicani, erano disposti a trovare un accordo con un altro dirigente baathista dopo la caduta di Saddam", aggiunge Rosen, "ma sarebbe stato questo un risultato decente? E, parlando di alternative: senza guerra oggi Saddam sarebbe ancora lì. Ma è provato che con uno come lui nè la deterrenza nè il containement funzionavano. Oggi ci confronteremmo con l'incubo non solo delle armi atomiche, chimiche e biologiche irachene, ma anche con il pericolo che Saddam le dia aa Al Qaeda".

A Fukuyama che teme una "metastasi terrorista" dopo l'attentato in Giordania Kristol risponde che non vede questo pericolo: "Ora non è peggio di tre anni fa. Abbiamo seri problemi in Iraq, ma nel resto del mondo gli attentati non sono aumentati. Quanto ai vari sondaggi secondo i quali l'antiamericanismo sarebbe aumentato a causa del nostro intervento, domando: ma 30/40 anni fa, quando certi satrapi mediorientali berciavano contro di noi e volevano espropriarci, le cose andavano meglio? Né oggi mi risulta che improvvisamente i giovani arabi o islamici non vogliano piu venire a studiare negli Stati Uniti. Quanto agli iracheni, l'80 per cento vogliono che restiamo. E allora perchè dovremmo indicare stupidamente una data per il nostro ritiro? Quello sì che sarebbe un disastro, se fosse precipitoso. Sarebbe una tragedia anche se perdessimo l'appoggio degli sciiti: allora sì che dovremmo andarcene. E dove, poi? In una base in Kuwait, per poi tornare se scoppia la guerra civile? Uno scenario da incubo. Tutto questo ci costa 80 morti al mese? Sì, ed è tremendo. Ma se fosse vero che la maggioranza degli iracheni non ci vuole, altro che 80 morti... Non mi preoccuperei neppure eccessivamente per l'aumento dell'isolazionismo qui da noi: una leadership forte riesce a far comprendere al Paese che dopo l'11 settembre è necessario un nostro livello di coinvolgimento più alto all'estero".

Mauro Suttora

Sunday, September 25, 2005

Saud al Faisal

INTERVISTA AL PRINCIPE SAUD AL FAISAL, MINISTRO DEGLI ESTERI DELL'ARABIA SAUDITA

mercoledi 21 settembre 2005

Il Foglio

New York. "Americani e inglesi stanno consegnando l'Iraq all'Iran. Nel sud del Paese, che è in larga parte pacificato, emissari iraniani installano i loro uomini a capo delle amministrazioni locali, e organizzano milizie private. Come potete permetterlo? Nel 1991, dopo aver combattuto assieme, rinunciammo a marciare su Bagdad proprio per evitare un risultato simile".

Il principe Saud Al Faisal, 65 anni, ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita ininterrottamente dal '75 (record mondiale), lancia questo monito al Council on Foreign Relations. "Non darei alcun consiglio sull'Iraq al presidente Bush in pubblico, ma sarebbe bene che gli Stati Uniti individuassero con precisione l'obiettivo da ottenere, e che poi facessero seguire i fatti alle parole, invece di farsi trainare dai fatti. Non è un problema di elezioni o di costituzione. Si parla di sciiti e sunniti come se fossero due entità separate, ma sono tutti arabi. Le differenze religiose percorrono ogni tribù. E i sunniti non sono i 'cattivi'".

Il direttore di Newsweek Fareed Zakaria chiede al principe: "Cosa pensa dei discorsi di Bush all'American Enterprise Institute e per l'inaugurazione del secondo mandato, in cui ha identificato la principale causa del terrorismo nei regimi tirannici?" "Il terrorismo purtroppo esiste anche nelle democrazie - risponde Saud - e viceversa una dittatura come l'Urss non ha prodotto terroristi durante la Guerra fredda. Quindi non sono d'accordo". Il principe, laureato a Princeton nel '64, indossa giacca e cravatta e fa parte dell'ala occidentalista della famiglia reale saudita. Così come il nuovo ambasciatore negli Usa, Turki Al Faisal, studi a Georgetown prima dei flirt pericolosi con Osama Bin Laden. Ma l'estremismo wahabita è attizzato da molti predicatori in Arabia Saudita. "Abbiamo dichiarato guerra agli estremisti - assicura Saud - e introdotto il reato di istigazione al terrorismo. Siamo stati colpiti duramente anche noi da quei fanatici, ma siamo riusciti a sventare 55 attentati. Il terrorismo è un problema mondiale, ha bisogno di una cooperazione globale. Soprattutto fra gli Stati Uniti, unica superpotenza, e il nostro Paese, culla dell'Islam".

Come definirebbe il terrorismo islamico? "Uso le parole pronunciate dal giudice John Roberts durante le audizioni al Senato quando gli hanno chiesto di definire la pornografia: 'So cos'è quando la vedo'. E' inutile perdere tempo a cercare di definire il terrorismo, è necessario piuttosto individuarne le cause. Il che è importante quanto combattere i terroristi, come ha concluso la conferenza antiterrorismo tenuta a Riyadh lo scorso febbraio con 60 Paesi". E qui il principe si lancia nell'abituale requisitoria contro Israele. Con toni moderati, tuttavia, stando attento a bilanciare le "sofferenze" patite dal popolo palestinese con quelle del popolo israeliano.

Per l'Arabia Saudita la soluzione al problema palestinese resta quella presentata da re Abdullah al summit della Lega Araba a Beirut: riconoscimento immediato di Israele da parte di tutti gli stati arabi in cambio della rinuncia totale ai Territori. "Il ritiro da Gaza è un barlume di speranza - dice Saud - ma le recenti dichiarazioni di Ariel Sharon all'Onu, su Gerusalemme sotto controllo totale di Israele e sul muro di separazione, non sono i segnali giusti da dare in questo momento cruciale." Quanto alla modernizzazione del regime saudita, "la nostra non sarà una democrazia nell'accezione occidentale, ma stiamo ampliando la partecipazione dei cittadini con le elezioni".

Mauro Suttora

Wednesday, May 05, 2004

Niall Ferguson al Cfr

IMPERO AMERICANO

Il Foglio, mercoledi 5 maggio 2004

"Anglobalizzazione". Dr. Ferguson invita gli Stati Uniti a essere imperialisti (per il bene dell'"Anglobalizzazione", come la chiama il prof scozzese)

New York. "Anglobalizzazione", la chiama lo scozzese Niall Ferguson, 40 anni ma gia' professore a Oxford e alla New York University, nonche' senior fellow della Hoover Institution a Stanford (Palo Alto, California). Lui ne va entusiasta: "Al mondo farebbe bene un lungo periodo di semina delle istituzioni anglosassoni: gli Stati Uniti hanno la responsabilità di continuare l'opera civilizzatrice dell'impero britannico".
Ma i suoi interlocutori al Cfr (Council on Foreign Relations) di New York, dove presenta il suo ultimo libro ("Colossus: the Price of the American Empire") non ne sono convinti: "L'America non e' un impero coloniale, anche se ringraziamo Ferguson per le sue stimolanti provocazioni polticamente scorrette", lo liquida educatamente Alan Brinkley, rettore della Columbia University.

Eppure Ferguson, senza essere un neocon, possiede argomenti che lasciano il segno, e sfidano quel misto di ipocrisia, dissimulazione e falsita' che gli americani chiamano "denial": "Non potete negarlo, ormai anche commentatori di sinistra come Michael Ignatieff ammettono che il vostro e' un impero. La parola ha perso il suo connotato negativo. Ma certo, non e' detto che gli Stati Uniti vogliano essere all'altezza della sfida che viene loro lanciata: quella di raccogliere l'eredita dell'impero liberale britannico, durato tre secoli."

L'autore di libri scorrevoli come "La Prima guerra mondiale: il più grande errore della storia mondiale" (pubblicato in Italia da Corbaccio) e "Soldi e potere nel mondo moderno. 1700-2000" (Ponte alle Grazie) constata l'ovvio: "Mai prima d'ora, nella storia umana, una nazione si era trovata cosi' davanti alle altre in tutti i campi: politico, economico, culturale, militare. In politica estera gli Stati Uniti mirano esplicitamente a cambiare i regimi e a ricostruire nazioni. In economia il modello del libero mercato non ha alternative. La cultura pop americana, dal cinema alla musica, e' amata universalmente. E le vostre forze armate hanno una capacita' di dominio globale. Perche' non chiamarlo impero?"

Il pudore nel pronunciare questa parola, sostiene Ferguson, viene da lontano: da quando le tredici colonie ribelli dell'impero che oggi hanno sostituito s'imbarcarono nell'annessione di mezzo continente: "Gli americani si sono sempre considerati messaggeri di liberta'. E se oggi se ne vergognano, e' un brutto segno. Perche' se non esiste la consapevolezza di essere un potere imperiale, con tutti i suoi diritti e i suoi doveri, si resta vittima della cronica disattenzione per le cose del mondo che e' il maggior difetto della classe dirigente statunitense oggi".

Ferguson accusa gli americani di non impegnarsi abbastanza, in sostanza di non essere abbastanza imperialisti, di non possedere la mentalita' coloniale: "Contrariamente agli inglesi di uno e due secoli fa, pochissimi fra i vostri migliori laureati vogliono partire verso i Paesi in via di sviluppo per aiutarli a crescere. Oggi a Bagdad quasi nessun americano conosce l'arabo. Ne' fra i giovani universitari e' aumentato l'interesse verso l'Islam dopo l'11 settembre. Gli americani, quando invadono un Pese, dicono: 'Ce ne andremo il piu' presto possibile'. Invece sarebbe necessario l'esatto contrario: l'Inghilterra pianificava secoli di permanenza, e tutte le sue ex colonie oggi ne godono i frutti. Anche gli Stati Uniti, hanno ottenuto risultati solo nei luoghi dove sono rimasti a lungo: in Giappone sette anni, in Germania dieci, in Corea addirittura per combatterci un'altra guerra. E le truppe americane stazionano ancora in questi tre fortunati Paesi, dopo piu' di mezzo secolo. Viceversa, dov'e' stata adottata la tecnica del mordi e fuggi i risultati sono stati negativi: Libano, Liberia, Cambogia, Somalia. Haiti e' stata occupata dal 1915 al '34, poi di nuovo nel '94: un disastro. E cosi' nella Repubblica Dominicana, amministrata dal 1916 al '24. Per far attecchire concetti come stato di diritto, legalita', sistemi fiscali equi, dipendenti pubblici onesti, separazione dei poteri, liberta' di stampa e istituzioni forti che li proteggano, occorrono decenni, se non secoli. Democrazia non e' improvvisare un'elezione".

Un interlocutore nella platea del Cfr obietta che il mondo islamico non ha mai accettato colonizzazioni, e porta l'esempio delle rivolte algerina contro la Francia, libica contro l'Italia e irachena contro il governo filoinglese nel '58: "Ma l'Indonesia islamica e' stata amministrata per secoli dall'Olanda", risponde Ferguson, "e negli altri Paesi la trasformazione e' stata troppo superficiale per produrre benefici. Londra ha comunque influito sull'Iraq dal 1918 al '58: magari gli Stati Uniti durassero quarant'anni! Invece voi ragionate in termini di cicli elettorali: al massimo quattro anni. E questa e' la miglior ricetta per il disastro. Certo, anche gli imperi liberali commettono errori. La strage britannica di Amritsar in India contro i gandhiani, per esempio: 300 morti. Ma domandiamoci anche qual era la misura degli altri massacri in quegli stessi anni: i centomila morti della strage di Nanchino commessa dai giapponesi nel '37?".

Mauro Suttora