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Monday, January 23, 2017

Trump: le prime mosse

di Mauro Suttora

Washington, 23 gennaio 2017

«Oggi il potere non passa solo da un presidente o da un partito all’altro. Oggi il potere torna a voi, popolo». Donald Trump, come tutti i politici, vorrebbe marcare l’inizio di una nuova era. E per dimostrarlo non misura le parole. Così il 20 gennaio, subito dopo il giuramento da presidente Usa, non ha pronunciato un discorso: ha annunciato una rivoluzione.

«COMPRA E ASSUMI AMERICANO». Il suo slogan è “America first”, prima l’America. Cioè preferire i prodotti made in Usa, e precedenza ai lavoratori statunitensi sugli immigrati. Nazionalismo economico. In concreto: imporre dazi doganali alle importazioni, ed espellere i clandestini. Dal liberismo al protezionismo.

SANITÀ. Il primo decreto firmato abolisce la riforma sanitaria di Obama, che allargava l’assistenza medica a una ventina di milioni di persone, non così povere o anziane da usufruire dell’assistenza gratuita, e non così ricche da essere coperte con le assicurazioni private obbligatorie. Ma è stata una firma simbolica: ora la parola passa ai 50 stati.
   
MELANIA/IVANKA. La terza moglie slovena Melania è tornata a New York. Si trasferirà a Washington solo a giugno, quando il figlio Barron finirà la quinta elementare. Il vuoto è colmato da Ivanka, solo 10 anni meno della matrigna, figlia della prima moglie ceca Ivana. Le due donne sono state impeccabili durante le cerimonie, ma hanno scambiato poche parole nelle lunghe ore in cui sono rimaste una accanto all’altra, presenziando alla parata. Rivalità in vista?

EX. All’inaugurazione c’erano tutti gli ex presidenti tranne il 92enne Bush senior, in ospedale. Miracolosa la guarigione del coetaneo Jimmy Carter, sopravvissuto a un tumore del cervello. Bill Clinton stava un po’ troppo con la bocca semiaperta, in debito di ossigeno. Sua moglie Hillary ha voluto esserci nonostante l’umiliante sconfitta, forte dei suoi tre milioni di voti in più di Trump (ha perso a causa dei collegi statali maggioritari). Il più allegro era George Bush junior, che non ha mai nascosto il suo disprezzo per Trump (ricambiato). Ma tutti si sono stretti fintamente la mano.
   
ANTI. Nel primo giorno della sua presidenza Trump si è beccato la prima manifestazione contro. Non era mai successo. «Io non l’ho votato, ma almeno diamogli una possibilità», ha detto l’attore Michael Keaton (in questi giorni nei cinema interpreta un personaggio trumpiano che espulse crudelmente i fratelli McDonald dal loro impero degli hamburger). Niente da fare. Le donne sono già furibonde per il maschilismo di Trump. «Potevano votarmi contro», ha risposto lui.
   
PACCHETTO. La scena più buffa è stata quella di Melania Trump che consegna a Michelle Obama un regalo. Ma l’ex First lady non sa dove metterlo. Si rivolge alle due guardie, che però hanno le mani immobilizzate nel saluto militare. Interviene Barack, sempre gran signore, e fa sparire la scatola azzurra. Cosa c’è dentro? Per ora, mistero. È un pacchetto di Tiffany, la gioielleria accanto alla Trump Tower sulla Quinta avenue di New York.

PACCO. È quello che gli schieramenti avversari temono dal fronte opposto. I democratici sono terrorizzati da quel che combinerà il vecchio Donald (perfino Reagan era più giovane di lui quando divenne presidente). I trumpisti continuano ad accusare i giornalisti di dare notizie false, anche sui numeri del pubblico all’Inaugurazione: neppure l’evidenza delle foto ha sopito la lite sulla minore presenza rispetto al debutto di Obama nel 2008.

Mauro Suttora

Friday, January 20, 2017

Cosa farà Trump nel mondo

Speciale Oggi, 20 gennaio 2017

di Mauro Suttora

Gli Stati Uniti che Donald Trump eredita dopo gli otto anni democratici di Barack Obama sono un Paese in ottima salute. L’indice di Borsa Dow Jones è ai suoi massimi storici di sempre: quasi 20mila punti. Il doppio del boom precedente, quello della New Economy di Bill Clinton alla fine degli anni 90.

La supremazia tecnologica è anch’essa senza precedenti nella storia umana. Mai tanto potere planetario si era concentrato in così pochi chilometri quadri come oggi nella Silicon Valley. Una accanto all’altra, a sud di San Francisco, stanno le sedi dei giganti che controllano la Rete mondiale: Apple, Google, Facebook, Yahoo, Amazon, Whatsapp, Twitter, Instagram.

A nord della California c’è la Microsoft di Bill Gates, con i suoi 22 miliardi di utile annuo su 86 di fatturato: una redditività astronomica. Né ha perso potere la vecchia Ibm, con i suoi 81 miliardi di ricavi.

Le difficoltà della coreana Samsung hanno rafforzato Apple come leader mondiale dei telefonini. E il 32enne Mark Zuckerberg in soli dodici anni è riuscito a connettere quasi due miliardi di persone sulla Terra con la sua Facebook.

Nonostante i progressi del proprio Pil, la Cina rimane a 11mila miliardi di dollari contro i 18mila degli Usa (terzo a grande distanza il Giappone con 4mila). 
Ma il vero indice di ricchezza è il Pil pro capite, e qui ogni americano è (in media) all’ottavo posto con 55mila dollari, superato solo da piccoli paradisi del petrolio come Qatar, Brunei, Kuwait ed Emirati, o europei come Lussemburgo, Norvegia e Svizzera (gli italiani sono 31esimi, i cinesi 84esimi).

Insomma, l’America di Trump continua a essere l’unica superpotenza mondiale, nonostante tutti quelli che da decenni ne annunciano il declino. Le sue università attraggono sempre i migliori cervelli scientifici del mondo, New York è ancora l’approdo preferito di ogni miliardario che voglia acquistare una casa prestigiosa, i film e le serie tv di Hollywood dominano il nostro immaginario.

Tutta questo potere soft è ben sorvegliato con i 600 miliardi di dollari che gli Usa spendono ogni anno per le loro forze armate, più i 500 miliardi destinati ai servizi segreti dopo il 2001 per controllare estremisti islamici e cyberterroristi. 
Per dare l’idea dell’enormità di queste cifre e della distanza rispetto agli altri Paesi, basti dire che le spese militari cinesi sono di 200 miliardi annui, le russe 60, le britanniche 55, le francesi 50.

Quale sarà l’America di Trump? In campagna elettorale lui si è dichiarato protezionista e isolazionista. Questo significa che ostacolerà il liberismo nel commercio internazionale, e non s’immischierà in tutte le crisi in cui viene chiesto l’intervento militare Usa.

Per il primo aspetto, quello economico, il conflitto principale sarà con la Cina. Trump vuole salvare i posti di lavoro che l’America (ma anche l’Europa) perde in favore dei Paesi del Terzo Mondo che producono a costi minori. 
Per giustificare l’introduzione di barriere e tariffe doganali contro i prodotti made in China accusa Pechino di violare gli standard ecologici delle fabbriche occidentali, e le nostre libertà sindacali: «Ci fanno concorrenza sleale distorcendo il mercato!», tuona.
Paradossalmente, quindi, un presidente “reazionario” potrebbe rivelarsi un campione dei diritti ambientali e umani, che se rispettati fanno aumentare i costi dei prodotti.

Sul secondo aspetto, ricordiamo che l’isolazionismo trionfò negli Usa durante gli anni 30, quando movimenti come America First di Charles Lindbergh (il primo uomo che volò sull’Atlantico) non volevano che «giovani americani andassero a morire in Europa» una seconda volta, dopo i 116mila soldati statunitensi uccisi nella Prima guerra mondiale. 
Ci volle l’attacco di Pearl Harbour per convincere gli Usa a intervenire contro i nazifascisti nel dicembre 1941, ben due anni dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Questa volta, sono i disastri combinati da Bush junior in Iraq e Afghanistan a tenere gli americani lontani da ulteriori interventi. Già Obama non si è immischiato in Siria, in Libia si è limitato a far rispettare una no fly zone, e anche contro l’Isis impiega aerei e droni invece dei «boots on the ground» (stivali sul terreno, interventi con soldati).

Se Trump proseguirà in questo disimpegno, ecco un secondo paradosso: un repubblicano potrebbe rivelarsi il presidente Usa più pacifista dopo i democratici Carter e Clinton. Quel che è certo, è che chiederà a noi europei di aumentare le spese militari cui destiniamo il 2% del loro Pil, mentre gli Usa superano il 4. 
Ma che può fare se rifiutassimo? Chiudere le basi americane in Italia e Germania? Sarebbe curioso che proprio un presidente di destra come lui attui il vecchio sogno dei comunisti: sciogliere la Nato.

L’unica cosa certa è che Trump non crede al riscaldamento globale della Terra, e quindi non ridurrà le emissioni di combustibili fossili (petrolio, carbone e gas). Proseguirà nello sfruttamento dello shale gas, il gas da argille estratto dalle rocce bituminose che ha già reso gli Usa indipendenti energeticamente e abbassato il prezzo del petrolio. Inoltre darà un giro di vite contro gli immigrati clandestini dal Messico.

Ma da un personaggio creativo, pragmatico e imprevedibile come Trump c’è da aspettarsi di tutto. Anche che litighi con il russo Putin, che ora passa per suo grande amico, ma che inevitabilmente prima o poi entrerà in collisione con gli interessi americani nel mondo.

Mauro Suttora

Thursday, March 10, 2011

Libia: che può fare l'Italia?

Oggi, 9 marzo 2011

Cosa sta succedendo?

1) GUERRA CIVILE

Inutile giocare con le parole: in Libia è guerra civile. A Ovest Gheddafi controlla la Tripolitania, e ha attaccato le città ribelli Zawiya e Misurata. A Est è sorto un nuovo governo con capitale Bengasi che si estende su tutta la Cirenaica. Il fronte è fra Sirte e Ras Lanuf. Gli insorti chiedono un solo aiuto: la «No fly zone». Non vogliono un intervento terrestre.

Cosa può fare l’Italia?

2) NO FLY ZONE

«È urgente impedire di volare agli aerei ed elicotteri assassini di Gheddafi», avverte Bernard-Henry Lévy, unico intellettuale europeo andato a Bengasi. La «no fly zone» è già stata applicata dall’Onu negli anni ’90 all’Iraq, per evitare che Saddam Hussein bombardasse i curdi al nord e gli sciiti al sud. E nel ’99 dalla Nato per proteggere i kosovari dai serbi di Slobodan Milosevic. Il veto russo impedì che la protezione del Kosovo dal genocidio avesse anche l'imprimatur dell'Onu, ma Mosca venne immediatamente coinvolta dall'allora presidente Usa Clinton, che affidò ai russi una zona di occupazione del Kosovo liberato.

La No fly zone è il minimo che la comunità internazionale può fare per proteggere gli insorti della Cirenaica. I quali stanno combattendo una guerra asimmetrica: in ogni momento sono vulnerabili dal cielo, privi come sono di aerei e dotati solo di contraerea artigianale. Gheddafi non si farà scrupolo di colpire anche i civili (lo ha già fatto a Zawiya, lo sta facendo a Misurata). Inoltre occorre bloccare l’arrivo di merci e mercenari dal cielo, soprattutto nell’aeroporto di Sebha, nel deserto del Fezzan.

C’è poi l’opzione «serba»: bombardare le basi militari di Gheddafi, o almeno le piste dei suoi aeroporti, per impedire il decollo dei bombardieri. In Serbia ci furono danni «collaterali» (morti di civili), ma in Libia il deserto permette colpi più chirurgici. In ogni caso, l’Italia da sola non può far nulla. Ma deve sollecitare Onu e Nato, e soprattutto mettere a disposizione le nostre basi per gli aerei Usa, come fece per il Kosovo 12 anni fa.
In mancanza di un «ombrello» Onu, a causa dei veti di Cina (preoccupata per i suoi «affari interni» Tibet e Xinkiang) e Russia (Cecenia), la Nato deve assicurarsi almeno un endorsement di Lega Araba e Unione Africana.

Se la comunità internazionale non interviene in Libia, potrebbero verificarsi stragi come quelle in Ruanda (1994) e Bosnia (1995).

3) RICONOSCERE IL NUOVO GOVERNO

I politici italiani hanno qualcosa da farsi perdonare: il trattato d’amicizia con Gheddafi del 2009 (votato anche dal Pd). Possono rimediare riconoscendo subito il governo provvisorio della Libia libera, nato a Bengasi. Abbandonare le cautele diplomatiche è il minimo che politici lungimiranti possano fare per proteggere non solo donne e bambini della Cirenaica, ma anche i nostri interessi economici.

Essere i primi a dichiararci amici della nuova Libia, dopo essere stati gli ultimi ad abbandonare l’«amico» Gheddafi: un riconoscimento che porterà riconoscenza. Per i nuovi contratti, ma anche per i futuri controlli dei clandestini su frontiere e coste. È un rischio? Forse. Ma c’è un precedente incoraggiante: la Germania nel ’90 riconobbe per prima le neonate Slovenia e Croazia. Che oggi sono – economicamente – province tedesche.

Qualsiasi presenza non militare nella Libia libera (come la nave Libra) è positiva: medici, cooperanti, tecnici, volontari. Tenendo però presente che la Libia è un Paese ricco, grazie al petrolio. Quindi non offendiamoli portando roba da Terzo mondo. Astenersi anche affaristi, almeno per un po’: che saltino un giro.

4) RIFUGIATI

Troppo tardi. Non c’è più tanto bisogno del progettato Villaggio Italia alla frontiera Tunisia-Libia: i rifugiati (lavoratori stranieri scappati dalla Libia) sono quasi tutti tornati a casa. Comunque l’idea è buona. Al di là della retorica umanitaria, infatti, stare in Tunisia ci fa ottenere quattro risultati:
A) Ricucire i rapporti con l'Agenzia Onu dei profughi, finora polemici. Ora l'Italia mette soldi e infrastrutture, regalando all'Unhcr la gestione.
B) Mettere il piede in un Paese che, dopo la cacciata del dittatore Ben Ali, soffre un vuoto di potere. Potremo controllare direttamente, alla fonte, coste e partenze di clandestini.
C) avvantaggiarsi sulla Francia, tradizionale «madrina» di Tunisi come ex potenza coloniale, ma ora in difficoltà Ben Alì era appoggiato da Parigi. La potente ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie ha dovuto dimettersi per le sue vacanze natalizie tunisine pagate dal dittatore.
D) Bypassare la Ue, la cui inefficiente commissaria agli Aiuti umanitari è stata quasi presa a botte alla frontiera Tunisia/Libia per la sua inerzia.

Il Villaggio Italia potrà servire in caso di guerra civile prolungata in Libia, sempre che Gheddafi non sigilli le frontiere. Ma solo temporaneamente: i sei milioni di libici (pochi, in confronto agli 80 milioni di egiziani) non hanno interesse a lasciare il proprio Paese, dove grazie al petrolio si pagano pochissime tasse, sanità e istruzione sono gratis, e non occorre (quasi) lavorare, se non in impieghi dirigenziali pubblici e ben retribuiti. Tutto il resto lo facevano gli stranieri. Che torneranno, quando tornerà la pace.

Mauro Suttora

Wednesday, November 04, 2009

Tina Brown

Ci mancava solo la vecchia Tina a farci la lezione: Tina Brown, 56 anni, personaggio sconosciuto in Italia ma ancora con qualche seguito fra i radical chic di New York.

Giornalista di pettegolezzi, e direttrice di mensili già a 25 anni per meriti più di talamo che di calamaio: prima dello snobbissimo inglese Tatler, poi del Vanity Fair americano, che non ha niente a che vedere con quello italiano tranne il nome e l’editore Conde Nast. Infine, lo scandalo: nel ’92 la Conde Nast la mette alla guida del New Yorker, cioè la Bibbia del giornalismo letterario statunitense. Come se piazzassero Signorini a dirigere la Treccani. Lei se la cava più con la grinta che con la cultura, e si guadagna la meritata fama di «total bitch» («stronza totale»).

Ebbene, la simpatica signora l’altro giorno, dopo un convegno a Firenze, si è avventurata a definire «preistorico» Silvio Berlusconi, uno che «fa tornare indietro le donne» con le sue vicende fra «gossip e soap opera».

Toh, il bue che dà del cornuto all’asino. Perché tutti ce la ricordiamo, l’arrampicatrice Tina che già all’università si portava a letto i suoi intervistati per la rivista letteraria studentesca, come il columnist Auberon Waugh. Poi fu la volta dello scrittore Martin Amis, prima di planare a 21 anni fra le lenzuola di Harold Evans, direttore del Sunday Times di un quarto di secolo più anziano. La Noemi britannica viene subito assunta, fa divorziare Harold e se lo sposa.

Negli anni Novanta, più che per le pagine del New Yorker, Tina si fa notare per lo strenuo appoggio ai suoi amici Clinton, contro quei cattivoni di giudici che avevano scoperto il penchant del presidente per il sesso orale sotto la scrivania. E, soprattutto, per il suo eterno duello con il sito internet Drudge Report, scopritore del Monica Lewinsky-gate.

Ma, ancora una volta, Tina Brown scivola su se stessa. Specializzata nel farsi dare soldi da uomini per avventure editoriali finanziariamente disastrose, dopo la sua uscita dal New Yorker nel ’99 sifona i fratelli Weinstein della Miramax per mettere in piedi la costosissima rivista Talk. Dura appena due anni, facendo perdere milioni di dollari. Cerca di pubblicare un libro sui gusti sessuali privati degli inquirenti del Monicagate, a cominciare dal procuratore Kenneth Star, per vendicare Bill Clinton. Ma la Disney, proprietaria della Miramax, la stoppa per attentato alla pubblica decenza.

Negli ultimi anni la tignosa Tina, rimasta disoccupata, si è consolata dilapidando i soldi dell’ormai ottantenne marito in megaparties nella loro casa di Manhattan e agli Hamptons (la Portofino di New York). È tornata in pista un mese fa con il sito The Daily Beast. Specializzato nel «preistorico» gossip politico, ovviamente.

Wednesday, June 10, 2009

Sartori su Berlusconi

"E' un sultano. Ma furbissimo, si salverà"

di Mauro Suttora

Oggi, 3 giugno 2009

«Berlusconi ormai è un sultano. Mi diverto a chiamarlo così perché il termine islamico evoca, insieme, fasto e potere dispotico. Il Cavaliere sultaneggia su un partito prostrato ai suoi piedi. Nomina ministri e ministre chi vuole. Li caccia come se fossero personale di servizio. Nessuno fiata. I ministri del partito di sua proprietà sono tali per grazia ricevuta. E tornano a casa senza nemmeno un gemito, se così decide il padrone. Non manca nemmeno un gradevole harem di belle donne. Il sultanato era un po’ così».

Perfido toscano, il professor Giovanni Sartori, 85 anni, è il massimo politologo italiano. E commenta il «caso Noemi» che scuote l’Italia, suscitando commenti sghignazzanti nel resto del mondo. Le parole riportate sopra, però, non ce le ha dette adesso. «Le ho scritte in prefazione al mio ultimo libro, Il sultanato, pubblicato tre mesi fa da Laterza. E mi pare vadano benissimo per commentare il ‘caso Noemi’. Che è una storia sgradevole su cui non ho scritto né scriverò editoriali sul Corriere della Sera. Ma in qualsiasi altro Paese occidentale, un presidente del Consiglio impelagato in un infortunio del genere o si discolpa, o si dimette».
Berlusconi si è discolpato.
«Perché non è tipo da dimettersi. Ma continua a dare versioni diverse».
Sono fatti suoi, dicono i suoi.
«Non dopo che lui stesso è andato in tv a Porta a Porta rendendo pubblica questa vicenda scandalosa».
C’è una somiglianza con il caso Monica Lewinsky, che undici anni fa portò il presidente Usa Bill Clinton sull’orlo dell’impeachment?
«Clinton spergiurò davanti a un tribunale. Poteva rifiutarsi di rispondere, e sarebbe stato condannato per disprezzo della corte. Ma condannato a che? Il presidente era lui. Invece cadde nella trappola: fu incriminato non per il fatto in sè, ma per la menzogna sul fatto».
Sua moglie Hillary lo difese, mentre ora Veronica Berlusconi chiede il divorzio lanciando accuse tremende contro il marito.
«Ma Berlusconi è un genio della furbizia, ha trovato subito un diversivo. Per distrarre l’opinione pubblica i dittatori arrivavano a scatenare guerre. Lui non ne ha bisogno, perché controlla quasi tutti i mass media. Quindi, con un colpo d’ala, lancia l’idea di ridurre a cento i deputati, come nel Senato degli Stati Uniti. E tutti parlano di quello. È la trovata di un uomo di spettacolo genuino».
Berlusconi ha commesso reati?
«La ragazza era sicuramente minorenne all’epoca dei fatti, ma bisogna appurare quali fatti».
Succederà?
«Ne dubito. Ormai Berlusconi è riuscito a creare una fede attorno alla propria persona. Repubblica può insistere finché vuole, ma lui come sempre si atteggia a vittima. I media gli garantiscono consenso. E gli italiani - i maschi, almeno - dicono “Boh, chi non ha peccato scagli la prima pietra”».
I politici hanno diritto alla privacy, oppure la loro vita privata dev’essere irreprensibile?
«Ma Berlusconi non è un politico qualunque. È il presidente del Consiglio. Dev’essere al di sopra di ogni sospetto. Invece lui ha fatto l’esatto contrario: si è messo al di sopra di ogni legge. Il lodo Alfano gli garantisce l’impunità».
A volte i sultani affogano nel ridicolo.
«Berlusconi merita di essere cacciato. Ma non per le sue marachelle sessuali».
Mauro Suttora

Friday, July 11, 2008

Raffaello Follieri in carcere

Stavolta non lo salva neppure Padre Pio

Arrestato l' ex fidanzato italiano della Hathaway

Raffaello Follieri, faccendiere di San Giovanni Rotondo, aveva conquistato New York (e l' attrice) spacciandosi per "direttore finanziario del Vaticano". L' ha fatta franca per cinque anni. Poi l' Fbi...

Oggi, 9 luglio 2008

di Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), luglio

Aveva portato l' illustre fidanzatina in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo (Foggia), nel paese dove lui era nato esattamente trent' anni fa. Ma lei, Anne Hathaway, una delle giovani attrici più famose d' America (Il Diavolo veste Prada), confessò onestamente di avere preferito la gita in aliscafo alle vicine isole Tremiti.

La esibiva orgoglioso in tutte le feste che organizzava, a New York e in Italia, per celebrare il proprio status di immigrato "arrivato" in alto che più in alto non si può: Raffaello Follieri da Foggia, non solo conquistatore della Audrey Hepburn del terzo millennio, ma anche amico delle due persone più importanti del mondo (il Papa, il presidente degli Stati Uniti). E ricchissimo.

"Spendeva decine di migliaia di dollari per le spese della sua fidanzata, per pagare il dog runner [quello che porta a passeggio i cani, da non confondere con il dog sitter, che si limita a sorvegliare le bestie in casa, ndr], per l' affitto di due lussuosi appartamenti, uno da 37 mila dollari nella Trump Tower sulla Quinta avenue e un altro a due piani nell' Olympic Tower", ha annotato scrupoloso l' agente speciale dell' Fbi Theodore Cacioppi nelle tredici pagine del dettagliato mandato che ha fatto finire Follieri agli arresti domiciliari.

"Casino totale": solo un film?

La fragile Anne avrebbe dovuto venire in Italia proprio nei prossimi giorni per presentare il suo nuovo film: Agent Smart Casino totale (nelle sale italiane dal 9 luglio). Non si sa se confermerà la sua presenza, ma mai titolo fu più appropriato. Subodorando infatti il casino totale in cui stava precipitando il suo amato Raffaello, la molto smart (furba) Anne ha pensato bene di mollarlo una settimana prima delle manette.

Così lui è rimasto da solo a fronteggiare i poliziotti che sono arrivati a prelevarlo all' alba. All' esame dell' urina, in commissariato, gli hanno trovato tracce di oppiacei. "È una medicina a base di codeina che gli ha prescritto il dottore contro la sinusite", ha cercato di spiegare la sua addetta stampa. Dopodiché, il ragazzo si è fatto ricoverare al Saint Vincent Hospital di Manhattan per un mancamento.

Il giudice ha fissato per lui una cauzione altissima: 21 milioni di dollari. E solo per poter uscire da casa con due mete: il suo medico, o la chiesa. Forse ha voluto fare lo spiritoso, quel giudice, perché proprio grazie agli sbandierati legami con la Chiesa cattolica Follieri è riuscito a fare fortuna.

Si esibiva infatti come "direttore finanziario" del Vaticano, vantava conoscenze, e grazie all' intercessione di un suo amico, semplice commesso del Vaticano, riusciva a procurare posti in prima fila alle udienze papali per i fessi americani che turlupinava.

Il nome più prestigioso di cui si serviva per accreditarsi era quello dell' ingegner Andrea Sodano da Asti, nipote del cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato fino al 2006. Un vero artista della truffa, insomma. Un misto fra il Totò che vendeva il Colosseo ai turisti e Leonardo DiCaprio, finto pilota che sfuggiva a Tom Hanks nel film Prova a prendermi del 2001. Gli agenti dell' Fbi durante una perquisizione a casa sua gli hanno trovato nell' armadio addirittura due vesti talari da cardinale, da fare indossare ai complici che lo accompagnavano per impressionare i suoi interlocutori.

A una delle sue feste newyorkesi riuscì ad attirare perfino l' allora ministro degli Esteri Massimo D' Alema, in città per l' assemblea dell' Onu. "Proprio il giorno dopo uscì sul Sole 24 Ore il primo articolo che rivelava le accuse contro Follieri di un suo ex socio d' affari, il quale reclamava decine di milioni di dollari. Ma il povero D' Alema era ignaro di tutto, e fu imbarazzato dalla compagnia", rivela a Oggi Gianluca Galletto, finanziere italiano a Manhattan.

Democratici e repubblicani

Come Zelig, Follieri si intrufolava ovunque, dalle feste per Valentino, alle cene in casa Angiolillo a Roma, alle gite in yacht con John McCain, candidato repubblicano alla Casa Bianca.

Ma il pesce più grosso che abboccò fu l' ex presidente Usa Bill Clinton con sua moglie Hillary. L' asserito business di Follieri era farsi vendere proprietà immobiliari dalle diocesi cattoliche americane, in difficoltà finanziarie a causa dei cospicui risarcimenti alle vittime dei preti pedofili, per poi rivenderle a prezzi maggiorati. E ci sono voluti vari anni prima che la bolla di sapone scoppiasse. Ora Raffaello rischia vari anni di carcere per truffa e bancarotta.

Mauro Suttora

Wednesday, June 04, 2008

Il ballo delle vergini

Stravaganze d'America: il voto di purezza

«No sex in the city»: i padri s’impegnano a difendere la castità delle figlie fino alle nozze. È un’idea delle nuove chiese evangeliche, che fa discutere. Ma tra i suoi fan c’è anche il presidente degli Stati Uniti Bush

New York (Stati Uniti), 4 giugno 2008

Ci mancavano i «balli della purezza». Dagli Stati Uniti, fonte inesauribile di stravaganze, arriva la notizia che si stanno moltiplicando i cosiddetti purity ball: cerimonie annuali simili a serate di gala in cui gli adepti delle nuove chiese cristiane evangeliche si impegnano pubblicamente e solennemente a proteggere e preservare la verginità delle proprie figlie teen-ager. Compito arduo, in un Paese dove tutte le statistiche indicano che l’età del primo rapporto sessuale è attorno ai 14-15 anni. E dove i giovani che eventualmente si ritrovassero vergini a 18 anni finiscono in quei college descritti nell’ultimo libro di Tom Wolfe, Io sono Charlotte Simmons: «Sesso, sesso! Si respirava ovunque, insieme all’azoto e all’ossigeno! Tutto il campus era sempre pronto, inumidito e lubrificato. Si ingozzava di sesso, in un arrapamento continuo!».

Per reagire a questi eccessi, nel profondo Sud religioso dell’America sono nati nel 1998 i «Balli della purezza». «Io, padre di Elizabeth, scelgo di fronte a Dio di proteggere mia figlia con autorità nel campo della purezza. Sarò puro nella mia vita come uomo, marito e padre. Sarò una persona integra e onesta nel guidare mia figlia e pregare per lei, come il sacerdote della mia casa. E questa promessa verrà usata nel nome di Dio per influenzare le prossime generazioni». Queste sono, letteralmente, le parole che i padri pronunciano in giuramento con tanto di spadoni in difesa dell’illibatezza della figlia teen-ager. I loro eventuali fidanzatini sono avvertiti: niente rapporti sessuali prima del matrimonio.

Già negli Anni 80 erano nati alcuni gruppi di giovani religiosi che sventolavano con orgoglio la propria castità. Ma solo con la presidenza di George Bush alcuni Stati della «cintura della Bibbia» sono arrivati a finanziare con soldi pubblici corsi di educazione sessuale in cui l’astinenza viene propagandata come il miglior anticoncezionale, la migliore protezione contro le malattie veneree e il baluardo più efficace contro il fenomeno dilagante delle ragazze madri di 16-18 anni, diffuso soprattutto nei ghetti neri.

Ma questi «Balli della purezza», con l’entrata in campo diretta dei padri, segnano un ulteriore passo per le chiese del Texas, del Dakota o del Missouri.
Così li critica la femminista Eve Ensler: «Alle ragazze che affidano la propria verginità al padre viene di fatto tolto il diritto alla sessualità. Fino a quando non firmano un contratto con un altro uomo: il marito. Diventano invisibili. Non esistono più».

Che per evitare gli eccessi della promiscuità sessuale non si debba cadere in eccessi opposti lo sostengono anche molti cristiani evangelici, come Betsy Hart: «Sono cristiana e credo fermamente che il sesso sia riservato al matrimonio. Ma non farei mai una cosa simile per i miei figli, maschi o femmine. Questa fissazione per la verginità finisce con l’essere controproducente. Cristo, condannando l’ipocrisia dei farisei esibizionisti, ci ha insegnato che il peccato non è ciò che entra in una persona, ma ciò che esce dal suo cuore».

In effetti, le statistiche dimostrano che chi si impegna alla castità conserva la propria verginità «tecnica» solo 18 mesi più a lungo delle altre ragazze, ma ha una probabilità sei volte maggiore di praticare il sesso orale. Che, come arrivò a (sper)giurare l’ex presidente Bill Clinton, secondo alcuni non sarebbe sesso completo.
Non si capisce poi perché i ragazzi maschi non debbano essere oggetto di un’attenzione altrettanto rigorosa di quella riservata alle loro sorelle.

In ogni caso, anche se circoscritto a poche decine di migliaia di persone in un Paese con 300 milioni di abitanti, il ritorno alla verginità sembra un fenomeno in crescita. Forse per reazione ai matrimoni gay, appena legalizzati anche in California dopo il Massachusetts, o all’eutanasia permessa in Oregon.

Insomma, esiste un’America rurale ed economicamente arretrata dove questi messaggi rassicuranti fanno presa. E un tribunale ha appena condannato l’«intro-missione» della polizia che ha liberato le donne di un gruppo religioso che praticava la poligamia in Texas. Massima libertà per tutti, negli Stati Uniti. Anche troppa.

Sbaglia quindi chi immagina che l’America sia tutta libertina come nel film appena uscito 'Sex and the City'. Quella è solo New York: basta attraversare il fiume Hudson per scoprire che le donne disinibite e gli omosessuali di Manhattan non hanno vita facile altrove.

Il 22 luglio, per esempio, si riunirà ad Orlando (Florida) il congresso nazionale del Centro per l’astinenza, fondato nel 1993 da Leslee Unruh, energica biondona del Sud Dakota. In questo quindicennio la sua propaganda per un «nuova verginità» ha fatto proseliti anche nelle università più di sinistra, come Harvard a Boston o Columbia a New York. Si sono formati piccoli gruppi non più tanto catacombali di ragazzi che, spesso delusi dal sesso promiscuo praticato in passato anche da loro stessi, aspettano il matrimonio, o almeno il grande amore, per «donarsi completamente». Proprio come il giocatore del Milan Kakà.

E poiché gli americani sono pragmatici, aumentano gli interventi chirurgici per richiudere l’imene. Ovvero per riguadagnare una verginità perduta. Non siamo nella Sicilia di un secolo fa. Siamo nel Paese guida dell’Occidente, dove c’è ancora l’illusione che, con po’ di fortuna, ottimismo e buona volontà, tutto è possibile. Rivergination compresa.
In fondo, fanno parte del Grande sogno americano anche i simpatici signori di queste foto, convinti di proteggere l’innocenza delle proprie figliole.

● E in Italia, la verginità è ancora un valore? «Il 45 per cento dei giovani tra i 18 e i 25 anni ritiene la verginità un valore importante», dice la psicosessuologa Marinella Cozzolino.
● Meno legati al valore della verginità gli universitari di Teramo, che hanno risposto alla domanda: «Andiamo a letto con tutti/e o aspettiamo l’amore?». Per l’80 per cento la verginità non è un valore.

Mauro Suttora

Saturday, March 04, 2006

Molestie sessuali

Oggi, 1 marzo 2006

Un superiore fa capire a un’impiegata che per conservare il posto deve andare a letto con lui. Un venditore fa commenti osceni su alcune clienti con i propri colleghi. La segretaria di uno studio legale viene messa in imbarazzo da avvocati i quali raccontano abitualmente barzellette spinte in sua presenza. Il cassiere di negozio tocca il sedere e il seno di una collega contro la sua volontà. I colleghi di un’operaia la prendono in giro chiamandola con nomi offensivi e allusivi al sesso. I dipendenti di una filiale inseriscono barzellette pornografiche sul bollettino intranet dell’ufficio. Un impiegato invia ai colleghi e-mail contenenti linguaggio erotico.

Sono sette esempi di condanne recenti per «sexual harassment» in California. Ormai negli Stati Uniti le cause per molestie sessuali sul luogo di lavoro intentate ogni anno sono migliaia. E centinaia di aziende vengono condannate anch’esse, assieme al reo, per «omesso controllo». I risarcimenti per danni morali ammontano a milioni di dollari. Così, dall’inizio dell’anno una legge impone che anche in California, come negli stati di Massachusetts, Connecticut e Maine, ogni società con più di cinquanta dipendenti organizzi un corso «antimolestie» di due ore ogni due anni, con frequenza obbligatoria.

Le situazioni citate all’inizio potrebbero essere punite anche in Italia? Oppure negli Stati Uniti va prendendo piede un nuovo puritanesimo che condanna qualsiasi riferimento al sesso? Per capire dove si situa il confine fra comportamenti leciti e approcci vietati, abbiamo interpellato la maggiore esperta americana del campo: Deborah Rhode, docente di diritto all’università di Stanford.

«Salve ragazze!».

«In questo campo non si può mai generalizzare», spiega la professoressa Rhode, «perchè tutto dipende dal contesto. Perfino un saluto apparentemente innocuo come “Hello girls!”, lanciato da un collega al mattino, può essere sanzionabile se l’ambiente di lavoro è carico di tensione, e se viene intenzionalmente rivolto a una dipendente che ha già subito approcci pesanti, se ne è lamentata in privato e poi con una denuncia formale scritta, ma nonostante questo continua a essere presa in giro e trattata come una ragazzina. Immaginiamo per esempio una distinta dirigente di mezza età la quale venga volutamente e ripetutamente equiparata a una “ragazza” che svolge mansioni inferiori da parte di superiori o colleghi: se risulta chiaro l’intento umiliante, può scattare la denuncia».

Molestare in silenzio.

«La maggior parte dei comportamenti punibili si situa in una zona grigia e ambigua. Per esempio, un dirigente può mettere in serio imbarazzo una dipendente anche solo fermandosi con eccessiva insistenza sulla porta della stanza di lei, continuando a osservarla senza un particolare motivo apparente. Il silenzio a volte è peggio delle parole. I tribunali sanzionano questo tipo di invasione della privacy. In alcuni casi ci sono stati richiami a impiegati che alzavano troppo la testa per spiare colleghe avvenenti sedute ignare alla loro scrivania».

Corteggiamento impossibile?

«Il capitolo dei complimenti e degli atti di cavalleria è immenso. Qui la regola generale è: nessun problema se sono graditi, ma semaforo rosso appena viene segnalato fastidio. Il “Come sei bella con questo vestito” può essere allo stesso tempo una semplice cordialità se detto en passant e sorridendo, oppure una simpatica forma di corteggiamento, oppure ancora un’intollerabile cafonata se pronunciata in modo viscido da un collega cui si è rifiutato un appuntamento la sera prima, e che ti blocca in corridoio guardandoti fisso negli occhi con aria viscida... Stesso discorso per le porte che vengono aperte, i regali, gli inviti, le occhiate, i commenti ad alta voce con altri colleghi. Se sono “unwelcome”, non apprezzati, meglio lasciar perdere subito».

Le avances di San Valentino

«Negli Stati Uniti la festa di San Valentino, 14 febbraio, viene festeggiata molto più che in Europa. Questo è l’unico giorno dell’anno in cui la locuzione “ti amo” cambia significato: ne assume uno molto più ampio, fuori da ogni riferimento romantico. In America anche semplici amici si scambiano cartoline di auguri di Valentine, per dirsi semplicemente “ti voglio bene”. Ma se il collega infatuato appicicaticcio, o peggio il dirigente affamato di sesso, approfitta del San Valentino per lanciare avances impensabili negli altri giorni, il comportamento finisce direttamente nel dossier a suo carico. E’ successo in diverse cause». Forse questo è il destino che attende qualche nostro focoso Romeo italiano che si spinge un po’ troppo oltre il mazzetto di mimose con la scusa della festa della Donna l’8 marzo...

Molestie «ambientali».

Susan Bisom-Rapp, docente all’università di San Diego (California) è anch’essa una veterana del diritto anti-molestie: «I tribunali statunitensi distinguono due forme di sexual harassment», spiega: «C’è quello diretto, sessuale, con inviti sia espliciti che impliciti. Ma c’è anche la molestia ambientale sul luogo di lavoro, ovvero una condotta continuata nel tempo che crea una situazione intimidente, ostile e offensiva. Per vincere questo secondo tipo di cause, occorre provare che il comportamento - da parte di una o più persone - è stato grave e pervasivo».

Calendari erotici.

«Per esempio», continua la Bisom-Rapp, «se un collega appende un calendario sconcio sopra la sua scrivania, la sua vicina può chiederne la rimozione. E’ un caso isolato, la responsabilità ricade soltanto sul singolo o sui superiori se non intervengono. Ma se tutti gli uomini di quella stanza o zona dell’open space coltivano pubblicamente le proprie piccole perversioni voyeuristiche, mettendosi ad appendere donne nude dappertutto in evidenza, e l’azienda resta inerte nonostante le sollecitazioni, allora la condanna in giudizio è pressochè sicura. Attenti anche a certi salvaschermo troppo spinti dei computer».

Niente sesso? Non ti promuovo.

«Il campo più delicato è quello delle discriminazioni: come provare di non essere stati promosse o di non avere ottenuto un aumento solo perchè non siamo state abbastanza ‘disponibili’? Come accusare qualche collega di essere la favorita del capo, per poi magari scoprire che non di divano si è trattato, ma di semplice amicizia, o sintonia, oppure anche di patente nepotismo - una parente, o figlia di amici - , cosa censurabile ma che non rientra nelle molestie sessuali indirette? In teoria una collega - anche lei stagista non pagata - di Monica Lewinski avrebbe potuto far causa per danni a Bill Clinton... Ma la giurisprudenza in questo campo è scivolosa. Anche se le vittime indirette di avances sessuali rifiutate (ma accettate da altre) a volte hanno ottenuto somme notevoli».

Presidente licenziato.

Per evitare problemi alcune società americane hanno adottato regole draconiane. L’anno scorso, per esempio, il presidente della Boeing ha dovuto dimettersi perchè aveva osato mettersi con una dipendente, sinceramente innamorata di lui: vietato dalle regole aziendali.

Bimbo di sei anni sospeso.

Il 30 gennaio, a Brockton (Massachusetts), un bambino di prima elementare è stato sospeso da scuola per tre giorni: aveva toccato una compagna di classe fra le cosce. «Stava solo giocando, anche la bimba lo ha toccato», ha protestato la madre, Berthena Dorinvil. Niente da fare: forse ora il ragazzino finirà sul Guinness dei primati come il molestatore sessuale più giovane della storia.

Perfino all’Onu...

Anche le Nazioni Unite hanno avuto problemi negli ultimi mesi: Carina Perelli, la dirigente uruguaiana che ha controllato le elezioni in Iraq, è stata denunciata non per avances dirette, ma per le «molestie ambientali» descritte prima. Solo che a lamentarsene non sono state donne, bensì uomini: perchè la Perelli è gay. Lei ha ribattuto fieramente: «Mi attaccano per invidia e per ragioni politiche: sono solo dei frustrati un po’ incapaci».

Mauro Suttora

Friday, February 17, 2006

Condi: 75 milioni per l'Iran

PER IL REGIME CHANGE NONVIOLENTO DEI MULLAH

Il Foglio, venerdi 17 febbraio 2006

New York. Michael Ledeen ha vinto. L’esponente neoconservatore che da anni si batte per aiutare di più l’opposizione democratica in Iran ha viste infine accolte le sue proposte da Condi Rice: “Intraprendiamo un nuovo sforzo per assecondare le aspirazioni del popolo iraniano”, ha detto il segretario di Stato al Senato, “e utilizzeremo 85 milioni di dollari nello sviluppo di reti per i riformatori, i dissidenti politici e gli attivisti dei diritti umani”.

Si tratta di una svolta storica. L’anno scorso gli Stati Uniti avevano stanziato soltanto tre milioni e mezzo di dollari per iniziative di pressione nonviolenta in Iran. Per quest’anno la cifra era triplicata a dieci milioni. Ma a questo punto il dipartimento di Stato sembra puntare tutto su questo tipo di opzione, ed ha aumentato geometricamente i fondi. La maggior parte, 50 milioni, verranno spesi per potenziare le trasmissioni in lingua farsi di alcune tv e radio via satellite basate a Los Angeles. Condi Rice ha annunciato partnership con canali privati, che trasmettono soprattutto musica, ma anche un ampliamento a 24 ore su 24 delle trasmissioni in Iran di Voice of America e radio Farda.

Ai sindacati iraniani, ai dissidenti e alle Ong (Organizzazioni non governative) per i diritti umani andranno 25 milioni. Passeranno soprattutto attraverso la Ned (National endowment for democracy), l’organizzazione parastatale bipartisan Usa che promuove la democrazia nel mondo, finanziando movimenti d’opposizione. All’attivo della Ned ci sono i successi delle transizioni democratiche in Serbia, Georgia e Ucraina. Meno fortuna stanno avendo i programmi ad Haiti.

I dirigenti del dipartimento di Stato però non intendono ripetere gli stessi errori compiuti con l’Iraq, dove gli Stati Uniti si erano affidati a personaggi della diaspora senza un reale seguito in patria, come Ahmed Chalabi. Pochi fondi andranno quindi ai monarchici iraniani, che vorrebbero reinstallare al potere la famiglia dello scià cacciato nel ‘79 da Ruhollah Khomeini. E proprio all’intervento statunitense del ‘53 contro Mossadeq e in favore di Reza Pahlavi fa ossessivo riferimento la propaganda degli ayatollah, che accusa Washington di indebita interferenza negli affari interni di uno stato sovrano.

Cinque milioni di dollari vengono stanziati per rianimare programmi di scambio e borse di studio in favore dei giovani iraniani che vogliono recarsi in America, congelati da un quarto di secolo. Verranno ripristinati massicciamente anche gli inviti a studiosi, scienziati e intellettuali di Teheran per partecipare a conferenze e seminari negli Stati Uniti. Una delle conseguenze non volute e controproducenti dell’embargo economico, infatti, è l’estrema difficoltà per ottenere visti, peggiorata dopo l’11 settembre 2001. Cinque milioni, infine, andranno al potenziamento dei siti internet.

“E’ la mossa giusta da fare in questo momento”, applaude il senatore repubblicano del Kansas Sam Brownback, che aveva chiesto cento milioni per promuovere la democrazia in Iran. Alcuni attivisti iraniani avevano criticato l’amministrazione Bush per la mancanza di aiuti, ma Brownback difende le scelte di questi anni: “Stiamo combattendo il terrorismo con metodo: prima l’Afghanistan, poi l’Iraq, e adesso ci concentriamo di più sull’Iran”.

Un altro senatore repubblicano, Lincoln Chafee del Rhode Island, ha invece criticato gli sforzi pro-democrazia dell’amministrazione: “Non abbiamo fatto nulla per tutto il 2005, e ora abbiamo una situazione disastrosa in Palestina, con i terroristi di Hamas che hanno vinto le elezioni”. Sull’Iran, in particolare, il democratico Martin Indyk della Brookings Institution avverte che già Bill Clinton cercò senza successo di aiutare le forze anticlericali locali. E Michael McFaul, professore della Stanford University, invita a non rivelare i nomi dei destinatari degli aiuti in Iran: “Rischiano la prigione se non la vita, perchè verranno additati come agenti degli americani”.

E’ una partita delicata, insomma, quella annunciata dalla Rice. La quale però ha escluso qualsiasi opzione militare sull’Iran. Contro un regime che, come ha ammesso ieri per la prima volta perfino il ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy, vuole dotarsi della bomba atomica.

Mauro Suttora

Wednesday, April 16, 2003

Onu/1: a che cosa serve?

ONU DE' NOANTRI - SPRECHI, INEFFICIENZE, BILANCI IMBARAZZANTI: ECCO PERCHE' L'ULTIMA COSA DI CUI HANNO BISOGNO GLI IRACHENI E' UN PALAZZO DI VETRO.

16 aprile 2003

Dopo Oriana Fallaci sul Wall Street Journal e Beppe Severgnini sull'Economist, un altro giornalista italiano scrive le proprie opinioni direttamente in inglese sui giornali anglosassoni: Mauro Suttora, corrispondente da New York del settimanale Oggi. Su Newsweek di questa settimana - e oggi su Il Foglio - appare un suo commento sull'Onu in Iraq, dal titolo esplicito: "The last thing Iraqis need" ("L'ultima cosa di cui gli iracheni hanno bisogno").

Suttora si scaglia contro le Nazioni Unite, accusandole di essere un "mostro gogoliano" con 65mila dipendenti e un bilancio di 2,6 miliardi di dollari, "pieno di burocrati pigri e incompetenti che perpetuano i problemi invece di risolverli". Esamina alcuni casi di amministrazione Onu (Palestina, Bosnia, Kosovo) e si stupisce che l'Onu, nonostante abbia gia' dato prova di inefficienza anche in Iraq, sia diventata "l'ultimo ridotto" dei pacifisti che la invocano "come se fosse una parola magica".

Mauro Suttora per Il Foglio

New York. L'ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, vuole l'Onu in Iraq: lo detto domenica sera davanti a tredici milioni di telespettatori americani durante il programma "60 Minutes" della Cbs. Anche il furbo Joe Biden, capo dei Democratici alla commissione Esteri del Senato, favorevole all'Onu: "Perché dobbiamo rischiare le vite dei nostri ragazzi agli incroci di Baghdad? E perché i contribuenti statunitensi dovrebbero continuare a pagare tutto intero il conto del mantenimento dell'ordine in Iraq? Che ci vadano anche i peace-keepers dell'Onu, o almeno quelli della Nato".

Argomenti concreti, che fanno breccia nell'americano medio ormai saziato dalla vittoria su Saddam Hussein. Quindi Onu sarà, lo ha deciso anche l'Amministrazione Bush. Ma la supervisione delle operazioni resterà saldamente in mano agli angloamericani.

Questa volta gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di farsi scippare controllo della situazione. Anche perché bilancio delle altre operazioni Onu in giro per il mondo oscilla fra l'inutile e il disastroso. Altro che "nation rebuilding": ovunque vadano, i funzionari delle Nazioni Unite sembrano posseduti dall'irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.

L'atto d'accusa di Terzani sulla Cambogia

"Dopo il fallimento degli interventi in Somalia e nell'ex Jugoslavia, la missione Onu in Cambogia viene citata come straordinario successo', indicata come modello da seguire e usata per riscattare reputazione di un organismo le cui strutture andrebbero rimesse in discussione.

In realtà, l'operazione si è rivelata carissima (due miliardi e mezzo di dollari, ventiduemila uomini) ed è stata segnata sprechi, inefficienze ed episodi di corruzione senza precedenti: quattrocento milioni di dollari sarebbero finiti nelle tasche di alcuni funzionari - alcuni di altissimo livello - i quali avrebbero messo in piedi un efficiente sistema di ordinazione materiali che non venivano mai consegnati o venivano pagati a loro complici a prezzi fuori mercato (...).

Ancora poche settimane fa gli alberghi di Phnom Penh erano pieni, le ville affittate alla gente dell'Onu per cifre tipo quelle di Tokyo o New York e quasi non c'era famiglia in cui un membro non lavorasse direttamente o indirettamente per l'Onu.

Ora tutto questo è drammaticamente cambiato. Gli alberghi sono vuoti, le ville sfitte, la gente disoccupata, i ristoranti deserti e al calar del sole strade si svuotano perché diventano dominio di ombre senza scrupoli - spesso soldati o poliziotti in borghese - che, pistole alla mano, portano via automobili, motociclette, soldi e a volte la vita a chi osa uscire. Dopo il grande amore per tutto ciò che è Onu, visto come Dio venuto da fuori a salvare la Cambogia, la delusione per quel che l'Onu ha fatto e per il suo stesso partire - visto come un tradimento - si esprime ora in una crescente ostilità verso tutto ciò che è occidentale".

Questo è il bilancio imbarazzante che Tiziano Terzani tracciava qualche anno fa dell'intervento in Cambogia, uno dei primi esperimenti di amministrazione Onu. Ciononostante, oggi "Nazioni Unite" sembra essere diventata una parola magica, l'ultima trincea per i pacifisti sconfitti anch'essi, assieme a Saddam, dalle tre settimane di guerra di Donald Rumsfeld.

Ma che cosa sono in realtà, oggi, le Nazioni Unite? Un mostro burocratico con 65 mila dipendenti fissi con decine di migliaia di collaboratori e consulenti superpagati, che costano 2,6 miliardi di dollari l'anno. Vanno calcolati a parte i costosissimi programmi di "peacekeeping" (mantenimento della pace), pagati direttamente dai paesi che inviano i contingenti, e i sei miliardi annui di dollari in aiuti al Terzo mondo.

Sbaglia chi identifica l'Onu esclusivamente con la sua sede centrale di New York, il grattacielo costruito nel 1952 da Le Corbusier su un terreno regalato dai Rockefeller. Lì hanno sede il segretariato, guidato attualmente da Kofi Annan, l'Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza e l'Ecosoc, il pletorico organismo di consulenza economica e sociale.

Ma la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, Ufficio antidroga), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l'Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program), Gaza (Agenzia profughi palestinesi).

Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c'è l'Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l'Upu (Unione postale universale), a Londra l'Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l'Icao (International Civil Aviation Organization).

Chi si occupa dei Diritti umani?

Gli Stati membri sono 191. Gli ultimi due arrivati sono Timor Est e la Svizzera, che hanno aderito nel settembre del 2002. Dopo il crollo del comunismo la maggioranza degli Stati non appartiene più alle dittature, le quali tuttavia riescono tuttora a impedire il funzionamento di organismi delicati, come la commissione per i Diritti umani. Proprio in questi giorni si sta svolgendo a Ginevra, in avenue de la Paix, l'annuale sessione dell'inutile Commissione, alla cui presidenza quest'anno è stata eletta la Libia.

Fino al 2002, Alto commissario per i Diritti umani era la combattiva ex presidente irlandese Mary Robinson, che per cinque anni ha denunciato l'opera ostruzionistica portata avanti da Cina, Siria, Sudan, Cuba e Vietnam. Quando se n'è andata, consumata dalla frustrazione, Kofi Annan l'ha sostituita con l'assai più malleabile Sergio Vieira de Mello, placido burocrate 55enne, brasiliano con carriera tutta interna all'Onu, reduce da Timor Est. Geoffrey Robertson, avvocato londinese, uno dei massimi esperti mondiali di Diritti umani, è drastico: "Per decenza, l'Onu farebbe meglio ad abolire l'Alto commissariato".

Il fallimento del piano Arlacchi

Un altro organismo dalla dubbia utilità è l'Unodccp (acronimo di stile sovietico che sta per United Nations Office for Drug Control and Crime Prevention), anch'esso attualmente riunito a Vienna in una di quelle conferenze Onu ormai leggendarie per spreco di risorse (si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo).

Questo Ufficio antidroga, presieduto da un anno da quella brava persona che è Antonio Maria Costa (fratello dell'eurodeputato Raffaele di Forza Italia), è reduce dal disastroso mandato di Pino Arlacchi, il quale cinque anni fa aveva avventatamente promesso di sradicare le coltivazioni di droga nel mondo entro il 2008. Siamo a metà del programma, ma la produzione di sostanze stupefacenti invece di diminuire è aumentata. E invece di chiudere per missione fallita, l'Agenzia Onu chiede nuovi fondi.

E' normale che i funzionari pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All'Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungono anche l'80 per cento del bilancio totale, tre anni fa i dipendenti si sono messi in sciopero della fame quando il nuovo segretario voleva tagliare certi sprechi.

Ma i più abili sono i dirigenti dell'Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l'Agenzia che da ben 55 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono quasi quattro milioni. Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 350 mila profughi istriani e dalmati dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza da parte dell'Onu.

Tre generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l'assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l'economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall'Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi.

Ma anche in Bosnia, dopo otto anni, e in Kosovo, dopo quattro, le Nazioni Unite non danno alcun segno di volersene o potersene andare. La criminale omissione di intervento nel 1995 da parte dei soldati Onu provocò - fra le altre - la strage di Srebrenica: settemila morti. I pacifisti vogliono che in Iraq si ripetano altri vergognosi episodi come questo? Un governo è caduto, in Olanda, per le responsabilità di un comandante olandese a Srebrenica. Ma nessun dirigente Onu ha avuto problemi con la propria carriera. Anzi, quello di mettere tutto a tacere sembra un bel vizietto, nel sistema delle Nazioni Unite.

Sempre in Bosnia, quattro anni fa accuse inequivocabili avevano scoperchiato uno scandalo di notevoli proporzioni: funzionari dell'Alto Commissariato Onu per i Diritti umani a Sarajevo erano stati coinvolti nel traffico di donne (anche minorenni) fatte prostituire contro la loro volontà. L'imbarazzante episodio venne salomonicamente risolto rispedendo a casa sia gli accusati, sia gli accusatori.

Un personale sovrabbondante

Alla Commissione Onu dei Rifugiati, che spende ogni anno 740 milioni di dollari, escluse le emergenze, si era andati più in là: quattro suoi funzionari arrestati a Nairobi avevano inventato una specie di programma "Sex for food". Nei campi africani dove sono raccolti gli sventurati scampati alle stragi del Ruanda (anche lì: Onu, dov'eri?) donne e bambine venivano violentate, sfruttate e ricattate in permanenza. Vuoi mangiare? Vieni a letto.

Casi estremi, certo. Ma in tutte le Agenzie Onu l'inefficienza e la pigrizia regnano sovrane. Nel Palazzo di Vetro a New York l'attività principale della maggior parte del sovrabbondante personale diplomatico (in città vivono alla grande ben 35 mila diplomatici) è quella di partecipare a banchetti e gala. Si distinguono in questa attività frenetica i funzionari dei regimi del Terzo mondo, quasi sempre parenti, figli, amici o clienti del dittatorello locale. Non è un mistero: in molti paesi sottosviluppati il posto di ambasciatore all'Onu, che permette di vivere permanentemente negli Stati Uniti con gli agi dell'indennità diplomatica, vale più della carica di ministro degli Esteri.

(1. continua)

Dagospia.com 16 Aprile 2003

Friday, January 04, 2002

Emma, fastidiosa farfalla dell'utopia

Fa nascere il Tribunale internazionale Onu dell'Aia contro la volontà degli Stati Uniti

di Mauro Suttora
Il Foglio, 4 gennaio 2002

Roma. Sta per nascere il Tribunale penale internazionale dell’Onu. Nella sede di «Non c’è pace senza giustizia», l’associazione radicale che da quasi dieci anni si batte per crearlo, Antonella Dentamaro è ottimista: «Ancora poche settimane. Occorrono le ratifiche di 60 Stati, e siamo già a 47. I parlamenti di Portogallo, Slovenia ed Estonia hanno appena votato, devono solo depositare la ratifica. Così il 17 luglio 2002, quarto anniversario del trattato di Roma che ha istituito la Corte, potremo finalmente festeggiare la Giornata della giustizia internazionale».

Porta parecchie firme italiane, il primo tentativo nella storia di far giudicare i crimini di guerra e i genocidi da un tribunale indipendente, non nato «ad hoc» come quelli sulla ex Jugoslavia e il Ruanda, né creato dai vincitori come Norimberga. 

Giovanni Conso ha presieduto la conferenza di Roma che nel 1998 ha scritto lo statuto, Antonio Cassese è stato il primo presidente del Tribunale per l'ex Jugoslavia dal 1993 al '97, Fausto Pocar ne è attualmente giudice. 

Ma soprattutto Emma Bonino gira per il mondo a propagandare l’idea: due mesi fa era in Cambogia, in Thailandia e poi nelle Filippine, un mese fa a Praga con 15 Paesi dell’Est europeo, ora è in Egitto, e il 25 gennaio ad Amsterdam ci sarà un’altra conferenza con Robert Badinter, l’indimenticato «garde des sceaux» di François Mitterrand. 
 
Il principale nemico del Tribunale internazionale permanente si chiama Jesse Helms: un vecchio senatore repubblicano americano che considera la Bonino una fastidiosa farfalla dell’utopia. Il 7 dicembre 2001 è riuscito a far approvare dal Senato Usa a larghissima maggioranza (78-21) una legge che non solo nega qualsiasi aiuto militare a tutti i Paesi che osano ratificare la Corte, ma arriva addirittura a permettere al presidente Usa di «usare ogni mezzo» (cioè la forza) per liberare soldati americani che vengano arrestati dal Tribunale. Per questo la sua legge è stata sarcasticamente battezzata «Hague invasion Act», legge per l’invasione dell’Aia, la città che sarà sede anche della nuova Corte.

Gli Stati Uniti non vogliono che i propri militari possano essere accusati di crimini di guerra durante gli interventi all’estero. Per questo Clinton ha firmato il trattato di Roma solo un anno fa, e la ratifica sembra impossibile. 

Tuttavia il 20 dicembre è avvenuto un colpo di scena: Camera e Senato Usa riuniti hanno bocciato la legge di Helms, rifiutando di inserirla nel bilancio 2002. Poi si vedrà. 

Alla fine, insomma, ha prevalso la posizione aperturista del senatore democratico del Connecticut Christopher Dodd, grande avversario di Helms. E le più di mille Organizzazioni non governative che fanno lobbying a Washington per il Tribunale, da Amnesty a Human Rights Watch, dall’Open Society Institute di George Soros al Partito radicale transnazionale, hanno festeggiato: «È una vittoria importante, perché gli Usa non possono minare la validità di questa istituzione multilaterale proprio mentre chiedono aiuto a tutto il mondo nella lotta contro il terrorismo», dichiara William Pace del Cicc (Coalition for the International criminal court).

Negli Stati Uniti quindi il dibattito è più che mai aperto. Da una parte c’è la consapevolezza orgogliosa di essere l’unica superpotenza mondiale, con annessi oneri e onori. Ma l'isolazionismo americano, che si tramuta in unilateralismo a contatto con le complicate faccende del mondo, si stinge infine in pragmatica ricerca del consenso. 

Per dirla concretamente: certe patate calde gli Usa non hanno voglia di pelarsele da soli. Ecco quindi la Fondazione Ford finanziare la lobby pro-Tribunale internazionale, già innaffiata da contributi (pubblici) di tutti i governi scandinavi, di Germania, Canada e Italia, e perfino dai britannici, i migliori alleati dell’America imperiale. I quali non temono di irritare Washington negando l’estradizione ai terroristi islamici, se rischiano la pena di morte.

Quanto ai fautori della Corte, essi si rendono conto che la collaborazione degli Usa, unici gendarmi mondiali, è indispensabile. Si lavora quindi sui cavilli giuridici, limando per esempio il concetto di «intenzionalità»: i tanto discussi «danni collaterali» non saranno punibili se le vittime civili non vengono colpite intenzionalmente. Come in Bosnia, Serbia e Afghanistan, appunto. Solo bombardamenti indiscriminati tipo Dresda e Hiroshima verranno sanzionati.
Mauro Suttora