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Friday, October 04, 2024

L'eterna storia delle accise, da Mussolini a Meloni

di Mauro Suttora

La premier fino a due anni fa voleva imitare la generosità del duce, l'unico ad averle diminuite nella storia d'Italia, e registrò un simpatico video cabaret di propaganda che le procurò parecchi voti. La dura realtà dei conti da far quadrare l'ha costretta a defascistizzarsi

Huffingtonpost.it, 4 ottobre 2024

L'unico che ha diminuito le accise nella storia d'Italia fu Benito Mussolini: nel 1925 dimezzò quella sulla benzina, da 60 a 30 lire al quintale. Fu una delle mosse che consolidarono la dittatura fascista. Altro dimezzamento nel 1936, per festeggiare la nascita dell'impero. Nel frattempo però l'aveva decuplicata, con la scusa della depressione del 1929 e poi della guerra in Etiopia.

Giorgia Meloni fino a due anni fa voleva imitare la generosità del duce, e registrò un simpatico video cabaret di propaganda che le procurò parecchi voti.

La dura realtà dei conti da far quadrare l'ha costretta a defascistizzarsi. Quindi niente diminuzione delle accise, né tantomeno abolizione come aveva populisticamente promesso. E ora siamo all'inversione a U: l'accisa sui carburanti aumenterà. Poche ore dopo averlo annunciato, ha dovuto fare di nuovo marcia indietro. Le proteste hanno trasformato la stangata in una "rimodulazione". Nessuno sa cosa significhi. Probabilmente l'accisa sul gasolio aumenterà di dieci centesimi al litro, per pareggiare quella sulla benzina a 72 cent. 

È da quando siamo piccoli che le accise ci perseguitano. Leggendari gli aumenti con il pretesto della crisi di Suez nel 1956, poi del Vajont (1963) e dell'alluvione di Firenze (1966). Ma almeno erano solo dieci lire in più al litro. Invece il terremoto in Friuli ci costò cento lire al litro, e da allora ogni sisma ha fatto aumentare il prezzo della benzina, fino a quello in Emilia nel 2012. 

E le missioni Onu? Quando facciamo il pieno ricordiamoci che stiamo pagando i nostri soldati in Libano dal 1982. Loro sono ancora lì, e pure le 200 lire in più, e le 22 lire per i caschi blu in Bosnia dal '95. Devono ringraziare le pompe di benzina anche i ferrotranvieri per il loro contratto del 2004, e fra i più balzani motivi di aumento ci sono acquisti di bus ecologici, l'arrivo di migranti libici e finanziamenti alla cultura. 

Il risultato di questo variopinto minestrone è che oggi, come mostrava la vispa Giorgia nel suo video, su ogni litro di benzina vanno allo stato un euro e sei centesimi (quasi i due terzi del prezzo finale). Perché oltre all'accisa di 72 cent c'è l'Iva di 34. Su un totale di 71 miliardi annui che sborsiamo per i carburanti, 38 sono le tasse. Cosicché abbiamo il gasolio più costoso d'Europa, e per la benzina siamo superati solo da Danimarca, Olanda e Grecia.

 Gli unici a fregarsene sono i maggiori consumatori di carburante: le compagnie aeree, esentasse per il loro kerosene, e i camionisti, beneficiari di sconti sulle accise per vari miliardi annui.

Ogni volta che, anche per motivi ecologici, si cerca di far pagare agli inquinanti tir almeno lo stesso prezzo dei normali automobilisti, scoppia la rivoluzione. Le lobbies degli autotrasportatori sono potentissime, nel 1973 fecero cadere più loro che Pinochet il governo Allende. E il povero presidente francese Emmanuel Macron si è visto bruciare gli Champs-Élysées dai gilet gialli quando ha provato a imporre loro la carbon tax nel 2018.

 Quindi è probabile che qualsiasi aumento delle accise ci venga fatto ingoiare, travestito da "riallineamento", sarà giustificato dal governo con le solite accuse contro Europa, verdi e Green deal. Per poi sprecare i maggiori introiti in bonus, clientele e regalie varie. Almeno il duce usò i soldi delle accise per uno scopo concreto: conquistare Addis Abeba.

Saturday, October 09, 2021

Sarajevo e l'eterno tradimento dell'Europa




La Ue respinge ancora la città fatale della nostra storia


di Mauro Suttora


HuffPost, 9 ottobre 2021

L'Europa non vuole Sarajevo, neanche a partire dal 2030. Il vertice Ue in Slovenia di mercoledì non poteva essere più chiaro: i cinque Paesi ex jugoslavi e l'Albania, che da vent'anni bussano alla porta di Bruxelles, dovranno aspettare ancora parecchio. E più di tutti la Bosnia con la sua capitale Sarajevo, ultima della lista. Il presidente bosniaco non è riuscito neppure a ottenere una data indicativa per l'entrata nell'Unione.

Altro che "centro del mondo", "città martire", "Gerusalemme d'Europa": Sarajevo e il suo mezzo milione di abitanti, vittime dal 1992 al 1996 di un assedio di 1.452 giorni, più lungo di Stalingrado e Leningrado, non la vogliamo neanche in memoria e risarcimento per i 100mila morti della guerra, all'80% civili.

I capi serbi Mladic e Karadzic stanno scontando l'ergastolo per genocidio. Ma per quanto tempo gli abitanti di Sarajevo, paria d'Europa, dovranno scontare colpe non loro?

Neanche nel 1914 la capitale bosniaca c'entrava molto con Gavrilo Princip, il serbo che fece scoppiare la Prima guerra mondiale assassinando l'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria lì in visita.

Il vero conflitto in realtà era fra Serbia e Croazia, che l'erede al trono asburgico voleva innalzare a terzo regno dell'impero, sullo stesso livello di Austria e Ungheria. E pochi ricordano che gli austriaci usavano la Croazia non solo contro Belgrado, ma anche contro di noi. Dopo la cessione nel 1866 di Veneto e Friuli, infatti, Vienna perseguitò gli italiani d'Istria e Dalmazia, temendo il loro irredentismo e favorendo i sudditi croati.

Nei secoli quindi Sarajevo si è trovata suo malgrado, solo per la sua centralità geografica, in mezzo a conflitti continentali che l'hanno danneggiata. Nel 1699 addirittura rasa al suolo, assieme agli eleganti minareti innalzati dai turchi suoi fondatori 200 anni prima. Autore del massacro, un italiano: il principe Eugenio di Savoia, condottiero al soldo degli austriaci, irritato perché gli ottomani in città gli avevano ucciso un ufficiale.

Poi l'impero turco tornò, e fino al 1878 la Bosnia sulle cartine rappresentò un cuneo oltre il Danubio: era circondata dalle kraine serbe, territori-bastione di cui si servivano veneziani e austriaci per difendere la cristianità.

Anche oggi la città di Sarajevo si trova su una faglia di confine. Da una parte i serbi ortodossi, dall'altra i croati cattolici. E in mezzo gli islamici, maggioritari in città come in tutta la Bosnia. Che è divisa in tre, con tre presidenti di diversa nazionalità che ruotano ogni otto mesi e frontiere interne frastagliate, piene di enclaves e piccole sacche di minoranze etniche e religiose sfuggite ai massacri della guerra.

È questo l'equilibrio fragile che impensierisce e allontana l'Europa. La varietà, diversità e cosmopolitismo di Sarajevo rappresentavano la sua ricchezza: vicino a moschee e chiese cattoliche e ortodosse sorgevano sinagoghe. Perfino il dittatore jugoslavo Tito amava la Bosnia perché sperava, nonostante il latente odio fratricida serbo-croato, che il suo uomo nuovo comunista scaturisse da quel melting pot. 

Invece sono stati due Pol Pot quelli che Sarajevo ha subìto in mezzo secolo: negli anni '40 Ante Pavelic con gli ustascia croati fascisti che sterminarono musulmani, ebrei e serbi; e negli anni '90 i boia serbi di Srebrenica, la strage di ottomila islamici maschi che provocò i bombardamenti aerei Usa su Belgrado e poi la pace di Dayton.

In mezzo, unico momento di gloria e felicità: le indimenticabili olimpiadi invernali di Sarajevo 1984.

Ieri, 7 ottobre, cadeva il 450esimo anniversario di Lepanto, la vittoria di veneziani e austriaci contro la flotta turca. Nessuno l'ha commemorata, tranne Camillo Langone sul Foglio e i 'lepantisti' di destra, nostalgici delle guerre sante. A combattere la jihad a Sarajevo nel 1992-96 vennero invece, con soldi sauditi, guerriglieri ceceni e hezbollah. 

Oggi arrivano interessati finanziamenti cinesi. Nella latitanza dell'Unione europea, che non arriva perché il suo ultimo allargamento nei Balcani (Romania e Bulgaria, 2007) è stato una delle cause della Brexit. Sarajevo è ancora vittima indiretta dei conflitti politici di un continente che la espelle.

Mauro Suttora

 

Thursday, March 10, 2011

Libia: che può fare l'Italia?

Oggi, 9 marzo 2011

Cosa sta succedendo?

1) GUERRA CIVILE

Inutile giocare con le parole: in Libia è guerra civile. A Ovest Gheddafi controlla la Tripolitania, e ha attaccato le città ribelli Zawiya e Misurata. A Est è sorto un nuovo governo con capitale Bengasi che si estende su tutta la Cirenaica. Il fronte è fra Sirte e Ras Lanuf. Gli insorti chiedono un solo aiuto: la «No fly zone». Non vogliono un intervento terrestre.

Cosa può fare l’Italia?

2) NO FLY ZONE

«È urgente impedire di volare agli aerei ed elicotteri assassini di Gheddafi», avverte Bernard-Henry Lévy, unico intellettuale europeo andato a Bengasi. La «no fly zone» è già stata applicata dall’Onu negli anni ’90 all’Iraq, per evitare che Saddam Hussein bombardasse i curdi al nord e gli sciiti al sud. E nel ’99 dalla Nato per proteggere i kosovari dai serbi di Slobodan Milosevic. Il veto russo impedì che la protezione del Kosovo dal genocidio avesse anche l'imprimatur dell'Onu, ma Mosca venne immediatamente coinvolta dall'allora presidente Usa Clinton, che affidò ai russi una zona di occupazione del Kosovo liberato.

La No fly zone è il minimo che la comunità internazionale può fare per proteggere gli insorti della Cirenaica. I quali stanno combattendo una guerra asimmetrica: in ogni momento sono vulnerabili dal cielo, privi come sono di aerei e dotati solo di contraerea artigianale. Gheddafi non si farà scrupolo di colpire anche i civili (lo ha già fatto a Zawiya, lo sta facendo a Misurata). Inoltre occorre bloccare l’arrivo di merci e mercenari dal cielo, soprattutto nell’aeroporto di Sebha, nel deserto del Fezzan.

C’è poi l’opzione «serba»: bombardare le basi militari di Gheddafi, o almeno le piste dei suoi aeroporti, per impedire il decollo dei bombardieri. In Serbia ci furono danni «collaterali» (morti di civili), ma in Libia il deserto permette colpi più chirurgici. In ogni caso, l’Italia da sola non può far nulla. Ma deve sollecitare Onu e Nato, e soprattutto mettere a disposizione le nostre basi per gli aerei Usa, come fece per il Kosovo 12 anni fa.
In mancanza di un «ombrello» Onu, a causa dei veti di Cina (preoccupata per i suoi «affari interni» Tibet e Xinkiang) e Russia (Cecenia), la Nato deve assicurarsi almeno un endorsement di Lega Araba e Unione Africana.

Se la comunità internazionale non interviene in Libia, potrebbero verificarsi stragi come quelle in Ruanda (1994) e Bosnia (1995).

3) RICONOSCERE IL NUOVO GOVERNO

I politici italiani hanno qualcosa da farsi perdonare: il trattato d’amicizia con Gheddafi del 2009 (votato anche dal Pd). Possono rimediare riconoscendo subito il governo provvisorio della Libia libera, nato a Bengasi. Abbandonare le cautele diplomatiche è il minimo che politici lungimiranti possano fare per proteggere non solo donne e bambini della Cirenaica, ma anche i nostri interessi economici.

Essere i primi a dichiararci amici della nuova Libia, dopo essere stati gli ultimi ad abbandonare l’«amico» Gheddafi: un riconoscimento che porterà riconoscenza. Per i nuovi contratti, ma anche per i futuri controlli dei clandestini su frontiere e coste. È un rischio? Forse. Ma c’è un precedente incoraggiante: la Germania nel ’90 riconobbe per prima le neonate Slovenia e Croazia. Che oggi sono – economicamente – province tedesche.

Qualsiasi presenza non militare nella Libia libera (come la nave Libra) è positiva: medici, cooperanti, tecnici, volontari. Tenendo però presente che la Libia è un Paese ricco, grazie al petrolio. Quindi non offendiamoli portando roba da Terzo mondo. Astenersi anche affaristi, almeno per un po’: che saltino un giro.

4) RIFUGIATI

Troppo tardi. Non c’è più tanto bisogno del progettato Villaggio Italia alla frontiera Tunisia-Libia: i rifugiati (lavoratori stranieri scappati dalla Libia) sono quasi tutti tornati a casa. Comunque l’idea è buona. Al di là della retorica umanitaria, infatti, stare in Tunisia ci fa ottenere quattro risultati:
A) Ricucire i rapporti con l'Agenzia Onu dei profughi, finora polemici. Ora l'Italia mette soldi e infrastrutture, regalando all'Unhcr la gestione.
B) Mettere il piede in un Paese che, dopo la cacciata del dittatore Ben Ali, soffre un vuoto di potere. Potremo controllare direttamente, alla fonte, coste e partenze di clandestini.
C) avvantaggiarsi sulla Francia, tradizionale «madrina» di Tunisi come ex potenza coloniale, ma ora in difficoltà Ben Alì era appoggiato da Parigi. La potente ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie ha dovuto dimettersi per le sue vacanze natalizie tunisine pagate dal dittatore.
D) Bypassare la Ue, la cui inefficiente commissaria agli Aiuti umanitari è stata quasi presa a botte alla frontiera Tunisia/Libia per la sua inerzia.

Il Villaggio Italia potrà servire in caso di guerra civile prolungata in Libia, sempre che Gheddafi non sigilli le frontiere. Ma solo temporaneamente: i sei milioni di libici (pochi, in confronto agli 80 milioni di egiziani) non hanno interesse a lasciare il proprio Paese, dove grazie al petrolio si pagano pochissime tasse, sanità e istruzione sono gratis, e non occorre (quasi) lavorare, se non in impieghi dirigenziali pubblici e ben retribuiti. Tutto il resto lo facevano gli stranieri. Che torneranno, quando tornerà la pace.

Mauro Suttora