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Friday, October 04, 2024

L'eterna storia delle accise, da Mussolini a Meloni

di Mauro Suttora

La premier fino a due anni fa voleva imitare la generosità del duce, l'unico ad averle diminuite nella storia d'Italia, e registrò un simpatico video cabaret di propaganda che le procurò parecchi voti. La dura realtà dei conti da far quadrare l'ha costretta a defascistizzarsi

Huffingtonpost.it, 4 ottobre 2024

L'unico che ha diminuito le accise nella storia d'Italia fu Benito Mussolini: nel 1925 dimezzò quella sulla benzina, da 60 a 30 lire al quintale. Fu una delle mosse che consolidarono la dittatura fascista. Altro dimezzamento nel 1936, per festeggiare la nascita dell'impero. Nel frattempo però l'aveva decuplicata, con la scusa della depressione del 1929 e poi della guerra in Etiopia.

Giorgia Meloni fino a due anni fa voleva imitare la generosità del duce, e registrò un simpatico video cabaret di propaganda che le procurò parecchi voti.

La dura realtà dei conti da far quadrare l'ha costretta a defascistizzarsi. Quindi niente diminuzione delle accise, né tantomeno abolizione come aveva populisticamente promesso. E ora siamo all'inversione a U: l'accisa sui carburanti aumenterà. Poche ore dopo averlo annunciato, ha dovuto fare di nuovo marcia indietro. Le proteste hanno trasformato la stangata in una "rimodulazione". Nessuno sa cosa significhi. Probabilmente l'accisa sul gasolio aumenterà di dieci centesimi al litro, per pareggiare quella sulla benzina a 72 cent. 

È da quando siamo piccoli che le accise ci perseguitano. Leggendari gli aumenti con il pretesto della crisi di Suez nel 1956, poi del Vajont (1963) e dell'alluvione di Firenze (1966). Ma almeno erano solo dieci lire in più al litro. Invece il terremoto in Friuli ci costò cento lire al litro, e da allora ogni sisma ha fatto aumentare il prezzo della benzina, fino a quello in Emilia nel 2012. 

E le missioni Onu? Quando facciamo il pieno ricordiamoci che stiamo pagando i nostri soldati in Libano dal 1982. Loro sono ancora lì, e pure le 200 lire in più, e le 22 lire per i caschi blu in Bosnia dal '95. Devono ringraziare le pompe di benzina anche i ferrotranvieri per il loro contratto del 2004, e fra i più balzani motivi di aumento ci sono acquisti di bus ecologici, l'arrivo di migranti libici e finanziamenti alla cultura. 

Il risultato di questo variopinto minestrone è che oggi, come mostrava la vispa Giorgia nel suo video, su ogni litro di benzina vanno allo stato un euro e sei centesimi (quasi i due terzi del prezzo finale). Perché oltre all'accisa di 72 cent c'è l'Iva di 34. Su un totale di 71 miliardi annui che sborsiamo per i carburanti, 38 sono le tasse. Cosicché abbiamo il gasolio più costoso d'Europa, e per la benzina siamo superati solo da Danimarca, Olanda e Grecia.

 Gli unici a fregarsene sono i maggiori consumatori di carburante: le compagnie aeree, esentasse per il loro kerosene, e i camionisti, beneficiari di sconti sulle accise per vari miliardi annui.

Ogni volta che, anche per motivi ecologici, si cerca di far pagare agli inquinanti tir almeno lo stesso prezzo dei normali automobilisti, scoppia la rivoluzione. Le lobbies degli autotrasportatori sono potentissime, nel 1973 fecero cadere più loro che Pinochet il governo Allende. E il povero presidente francese Emmanuel Macron si è visto bruciare gli Champs-Élysées dai gilet gialli quando ha provato a imporre loro la carbon tax nel 2018.

 Quindi è probabile che qualsiasi aumento delle accise ci venga fatto ingoiare, travestito da "riallineamento", sarà giustificato dal governo con le solite accuse contro Europa, verdi e Green deal. Per poi sprecare i maggiori introiti in bonus, clientele e regalie varie. Almeno il duce usò i soldi delle accise per uno scopo concreto: conquistare Addis Abeba.

Friday, May 05, 2023

Il déjà-vu. Che peccato, non conosciamo più né i francesi né il francese

Se, come fino a pochi anni fa, ricominciassimo a studiare Molière e Camus, o ad ascoltare Brassens, forse litigheremmo meno. Brevi cenni a una fratellanza che è un peccato smarrire

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 5 maggio 2023

Il predecessore del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, il quale offeso cancella un incontro con la sua omologa francese, andò a Parigi per congratularsi con i teppisti in gilet giallo che mettevano a ferro e a fuoco i boulevards, in odio a Emmanuel Macron. Tanto sgarbo istituzionale non impedì però al presidente francese di incontrare l’ineffabile Luigi Di Maio il quale, dopo un miracolo e due o tre capriole, decise infine di indossare il gilet dell’apprendista statista (e, per scusarsi, si dichiarò ammiratore della “millenaria” democrazia francese. Forse si era confuso con Atene). 

Il problema però, al di là del cabaret politico, esiste e resiste: non pochi italiani detestano i francesi. Quanti italiani? Sicuramente sono aumentati più di qualche decennio fa. Perché? Una delle ragioni, la più semplice e banale, è che non li conosciamo più. 

Fino agli anni Ottanta metà delle cattedre di lingua straniera alle medie inferiori erano di francese (compresa quella di mia madre). Poi ha prevalso l’inglese, giustamente, cosicché oggi quasi nessun italiano under 50 parla francese. E quel che è peggio ignora la cultura della Francia, da Molière ad Albert Camus. Perfino in zone di frontiera come Ventimiglia solo il 10 per cento dei nostri studenti impara il francese.

Risultato: quelli che erano i nostri fratelli, assieme agli spagnoli, ora ci sembrano estranei. Nessuno pronuncia bene menu e déjà-vu, non parliamo di Champs-Élysées. I romani poi, soprattutto in Rai, dicono Courmayer per impedimento glottologico. Dalida, Sylvie Vartan e Françoise Hardy erano ogni settimana in tv, i nostri attori preferiti erano Alain Delon e BB. Ora qualcuno conosce un cantante francese?

È subentrato addirittura astio: ho visto la finale mondiale Francia-Croazia del 2018 in un albergo pugliese, quasi tutti stavano per i croati. Ho chiesto perché: mi risposero che era Africa-Croazia, troppi neri francesi.

I nostri antifascisti, da Sandro Pertini ai fratelli Rosselli, si rifugiavano in Francia. Più recentemente con discutibili motivazioni Parigi ha concesso asilo a ex terroristi. Ma comunque è lì che scappa chi ha problemi con la giustizia: dietro casa, quasi a casa. 

Un mese fa il Salone del libro francese ha onorato l’Italia, celebrandola come Paese ospite d’onore. In quella occasione Alessandro Baricco ha ricordato che per lui e i giovani torinesi era più facile, rapido e semplice andare in treno a Parigi che a Roma, se si voleva raggiungere una capitale europea. Adesso invece qualche esagitato protesta contro il Tav che dimezzerà le otto ore del Torino-Parigi, così come l’alta velocita ha fatto col Torino-Roma.

Pure io andavo ogni anno a Parigi e ogni estate in Costa Azzurra, come tanti sono cresciuto quasi bilingue, ora leggo Michel Houellebecq in originale. La controcultura, cioè la cultura moderna, è nata in Inghilterra con i Beatles e negli Stati Uniti con la contestazione studentesca. Ma tutti ricordano il Maggio ’68 di Parigi, non il ’64 di Berkeley. E gli esistenzialisti francesi degli anni Cinquanta, da Jean-Paul Sartre a Georges Brassens (padre di Fabrizio De André), alla distanza dimostrano più spessore culturale dei poeti beat Usa Allen Ginsberg o Jack Kerouak. 

Sì, lo so che i francesi usano la locuzione italiana “dolcefarniente” per definirci fra l’invidia e il fastidio, che le cose fatte male per loro sono “grossomodò”. La speranza è che grazie a Erasmus e ai voli low cost la conoscenza diretta riprenda e le cose si sistemino. Le Alpi non sono alte, e comunque Emmanuel Macron e Giorgia Meloni sono alti uguale. 

Tuesday, April 11, 2023

Xi e Macron, postura e impostura



Alcuni satrapi sono candidamente sinceri, non si vergognano di annunciare i propri futuri genocidi. L'appeasement francese, dopo il bacio della pantofola a Pechino, assomiglia a quello di Neville Chamberlain 85 anni fa, quando si convinse di aver scongiurato la guerra cedendo i Sudeti a Hitler

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 11 aprile 2023

"Indipendenza di Taiwan e pace sono incompatibili". Il grave di questa chiarissima minaccia di guerra non è che l'abbia pronunciata il dittatore cinese, ma che al resto del mondo sia scivolata via come niente fosse. Eppure siamo ammaestrati. Alcuni satrapi sono candidamente sinceri, non si vergognano di annunciare i propri futuri genocidi. Adolf Hitler ce li anticipò perfino per iscritto nel Mein Kampf: ebrei e spazio vitale. Slobodan Milosevic vaneggiava di grande Serbia compresi Bosnia, Sarajevo e Kosovo molti anni prima della strage di Srebrenica. 

Vladimir Putin ha dovuto invadere l'Ucraina perché gli credessimo: finché ammassava truppe e inscenava manovre al confine ci illudevamo fosse solo "posturing", come dicono gli esperti di geopolitica quando vogliono impressionarci con parole difficili. In realtà significa abbaiare, ma non ditelo al Papa: lui ha suggerito che sia stata la pecorella aggredita a trasformarsi in cane provocatore, con la Nato.

I latrati di Xi Jinping contro Taiwan vanno avanti da dieci anni, ma il volume è aumentato da quando i taiwanesi hanno osato eleggere presidente una signora che non vuole farsi finlandizzare. Soprattutto oggi che la Finlandia si è definlandizzata, emancipandosi dallo stato di soggezione e libertà provvisoria cui l'aveva costretta l'Urss (esempi concreti: Helsinki dovette togliere dalle biblioteche 1700 libri ritenuti antisovietici, e l'Arcipelago Gulag del Nobel Aleksandr Solgenitsin fu stampato nel 1974 in finlandese, ma in Svezia). 

Quindi ora che la Finlandia si è taiwanizzata entrando nella Nato, la Cina vorrebbe che invece Taiwan stesse a cuccia. E potrebbe essere anche ragionevole non aizzare l'arrogante vicino, se non ci fosse lo spiacevole esempio di Hong Kong: lì la drammatica fine dei diritti civili più elementari dimostra che Pechino è incapace di tollerare qualsiasi isola di libertà ai propri confini. Come ogni dittatura, teme il contagio del virus democratico.

Per capire il tremendo dilemma dei taiwanesi (ma la campana suona per tutti noi) consiglio di vedere su Netflix il film "Monaco, sull'orlo di una guerra" (2022). In cui Jeremy Irons impersona il premier britannico Neville Chamberlain, applaudito dal mondo intero perché nel settembre 1938 era convinto di avere evitato la guerra mondiale con/cedendo i Sudeti a Hitler. Il quale solo cinque mesi dopo ripagò la sua sprovveduta fiducia invadendo tutta la Cecoslovacchia, e poi la Polonia.

Confesso che anch'io, come chiunque senza il senno di poi, ascoltando le ingenue ma sincere parole di Chamberlain/Irons gli avrei dato ragione: aborrire la replica di un'altra carneficina dopo quella della Grande Guerra era ragionevole, non occorreva essere pacifisti. Per la pace si possono pagare prezzi anche alti. 

Ma oggi l'appeasement di Emmanuel Macron, dopo il suo bacio della pantofola di Xi a Pechino, assomiglia un po' troppo a quello di Chamberlain 85 anni fa. Il presidente francese si dice felice per il gran riguardo che gli avrebbe riservato il tiranno cinese: aspettare la sua partenza prima di iniziare le grandi manovre militari che hanno accerchiato Taiwan simulandone l'invasione. 

Quanto al resto, la Cina non è più vicina, quindi chi se ne importa della sua aggressiva e reiterata rivendicazione su Taiwan. L'atteggiamento di Pechino è solo irredentismo passé, di posa? La realtà ci dice il contrario: dal 2012 la Cina ha raddoppiato le sue spese militari, che oggi superano quelle di tutti i suoi tredici vicini asiatici messi assieme. E allora, se quella di Xi non è una postura, quella di Macron è una benintenzionata impostura.


Saturday, March 30, 2019

La linea del Piave grillina: 19%

CAOS M5S/ IL 19,9% È LA LINEA DEL PIAVE: CHE SIGNIFICA LA MORTE DI DI MAIO (E RAGGI)

Il Movimento 5 Stelle si dibatte in una crisi interna ed esterna: se non supera le elezioni europee è la fine

29 marzo 2019

intervista a Mauro Suttora


Le elezioni europee rappresentano l'ultima ancora di salvataggio di un Movimento 5 Stelle ormai allo sfascio. 
Lo dice Mauro Suttora, giornalista, esperto delle dinamiche interne dei pentastellati: “Se scendono al 19,9% Di Maio è morto internamente ed esternamente, se vanno tra il 20 e il 25% possono galleggiare ancora un po’”. 
Le continue débâcle a livello regionale mostrano i segnali. Prima delle europee ci sono le elezioni comunali in Sicilia, dice ancora Suttora: “A Bagheria, uno dei primi comuni conquistati dai 5 Stelle, gli avvisi di garanzia per abusi edilizi ad assessori e consiglieri in questi anni si sono sprecati. Sarà una batosta che aprirà la strada anche al crollo di Roma”.

Di Maio è negli Stati Uniti. Ci è andato per ricucire i rapporti dopo le critiche americane per la firma del memorandum con la Cina?

Il viaggio è stato programmato da tempo, prima del disastro Cina. C’è da chiedersi invece chi riuscirà a vedere: se riesce a farsi ricevere dal consigliere per la sicurezza John Bolton è un successo. Di Maio cerca ogni volta di accreditarsi, ma in America non lo prende sul serio nessuno. Se poi parla con Bolton, che è un mastino neocon, lo riduce in polpette.

Ha definito la firma del memorandum “disastro”. Quella firma è stata un guaio del trio Conte-Di Maio-Geraci?

Il memorandum Cina è in mano al sottosegretario Michele Geraci, un personaggio dal curriculum strano, come tanti di questi nuovi, compreso il premier Conte. Probabilmente non si rendevano conto neanche loro di quello che hanno fatto, cioè il cavallo di Troia della Cina in Europa.

In che senso?

Non è tanto il numero dei contratti, tutti hanno diritto di farli, infatti anche Macron ha firmato una fornitura di Airbus per centinaia di milioni di euro, quanto la visione politica che non sta in piedi. La Via della Seta significa la seta cinese che arriva in Italia, non la seta italiana che va da loro.

Geraci è quello che ha messo in piedi questo “disastro”?

L’accordo è stato un'invenzione di Geraci, di cui si è fidato inizialmente anche Salvini che però negli ultimi tempi, ben istruito da Giorgetti, uno dei pochi con la testa sulle spalle, si è tirato indietro. Invece Di Maio ci è caduto dentro mani e piedi.

Ci sono evidenti malumori interni ai 5 Stelle. Quali correnti ci sono? E’ Fico a spingere?

Fico non conta un fico, non ha dietro nessuna corrente nonostante i giornali ci abbiano fantasticato per mesi, sono al massimo due o tre i senatori che gli vanno dietro. 
Ci sono piccoli movimenti interni, come il caso di Paragone, che però suscita fastidio a quelli della vecchia guardia che si vedono scavalcati da uno che è diventato grillino da un anno.

Ma i malumori ci sono. Il caso Di Battista è poi a dir poco inquietante.

C’è un ribollire da vulcano, ma come sempre viene tenuto nascosto. Di Battista per cinque anni ci ha deliziato di tre post e video al giorno, ma  improvvisamente finisce come un desaparecido. E’ evidente che dopo i disastri elettorali lo hanno messo a tacere, e lui obbedisce. 
Di Battista, come ha detto sprezzante Di Maio definendolo il primo degli attivisti, è uno che tira fuori 100mila like a ogni post. Ma ha garantito e promesso a Di Maio e Casaleggio fedeltà assoluta e piuttosto che dire qualcosa contro, sta zitto. Ogni volta che sta zitto vuol dire che ha qualcosa contro che vorrebbe dire, ma non può farlo.

Come andranno le elezioni regionali per il M5s?

Prima delle europee ci sono le comunali in Sicilia a fine aprile. Sarà un’ulteriore batosta. A Bagheria che è una città importante i grillini hanno il sindaco da 5 anni e ci sono stati avvisi di garanzia con assessori che si sono dovuti dimettere per abusi edilizi. 
Alle europee la linea del Piave è il 19,9%, che significa la morte di Di Maio dentro al movimento e fuori. Dal 20 al 25% galleggiano, oltre il 25 sarebbe un successo insperato.

La compagine di governo è compatta?

I ministri si godono la poltrona. Sono quelli che se dovesse cadere il governo rimarrebbero fedeli a Di Maio.

Hanno un piano B per risollevarsi?

Fino al 26 maggio nessuno oserà dire nulla. L’intervista rilasciata da Roberta Lombardi in cui dice che lo stadio di Roma bisogna mollarlo, mentre Virginia Raggi dice che bisogna tenerlo, mostra la completa contraddizione in cui si trovano.

A proposito di Roma, dopo l'arresto del presidente grillino del consiglio comunale Marcello De Vito sembra che la Raggi abbia incassato bene il colpo. O no? Che succederà a Roma?

Assolutamente no. La Raggi non arriva a fine legislatura, cadrà insieme al patatrac che ci sarà a livello nazionale. La stessa Lombardi ha detto che è inutile illudersi, De Vito aveva messo a stipendio grillino la moglie come assessore di municipio e la sorella consigliere regionale. Tutto questo in un partito che aveva sempre detto di essere contro i favoritismi di famiglia. La Raggi cercherà di tener duro fino alle europee, ma non arriverà a fine anno. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Wednesday, April 18, 2018

Macron: inversione a U grillina

di Mauro Suttora


Libero, 18 aprile 2018


«Macron non fa altro che regalare tempo prezioso allo schieramento di plastica dei manichini serventi dell’euro, moneta impossibile».

Così Beppe Grillo soltanto 11 mesi fa stroncava la vittoria di Emmanuel Macron. Ora invece il presidente francese ai grillini piace: «Vuole il coinvolgimento dei cittadini nelle politiche dell’Unione europea, la sovranità digitale, la carbon tax. Dice che l’Italia deve riprendersi il ruolo che la nostra storia e importanza ci impongono. Siamo pronti a collaborare con lui».

Un altro forno in Europa? Agli eurodeputati 5 stelle è bastato ascoltare il primo discorso di Macron al Parlamento di Strasburgo per farsi ammaliare. E pazienza se pochi giorni fa il presidente francese era in prima linea nei bombardamenti sulla Siria. Così si sono precipitati a stilare un documento grondante simpatia: «Siamo pronti a discutere le sue proposte di riforma della Ue, punto per punto». Dimenticando che Macron vuole gli Stati Uniti d’Europa, bestia nera degli antieuropeisti, nel cui gruppo i grillini tuttora siedono.


L’inversione a U ha provocato una prevedibile valanga di commenti negativi sulla Rete da parte della base grillina: «È credibile uno che il giorno prima ordina l'attacco al "nemico" in modo unilaterale, senza preoccuparsi minimamente di quello che pensa l’Europa, e il giorno dopo va in Europarlamento a fare la morale sulla necessità di un’Europa unita e riformata?», scrive Daniele ‘Danyda’. «Sta prendendo in giro tutti, M5s incluso. Attenti alle false sirene». E Giorgio Pagano: «Ha bombardato la Siria dietro autocertificazione. Per produrre più disperazione e miseria e poi accollarla a Italia, Spagna e Grecia».


Per rimediare alla scivolata, qualche ora dopo il gruppo 5 stelle precisa: «Abbiamo letto alcune ricostruzioni fantasiose sul nostro rapporto con En Marche di Macron. La nostra linea è sempre la stessa: dialogo con tutti quelli che vogliono rilanciare il progetto dell’Unione. Abbiamo sempre lavorato in modo costruttivo con tutti. Il resto sono speculazioni».

Abbiamo chiesto un’interpretazione autentica a vari eurodeputati 5 stelle. Niente da fare. Il movimento della trasparenza nei momenti d’imbarazzo diventa omertoso. Nessuno osa commentare ufficialmente: manca un anno al voto europeo, si rischia la ricandidatura (e lo stipendio da 40mila euro mensili).


L’unica a parlare è Daniela Aiuto, autosospesa da un anno (altri tre eurodeputati hanno abbandonato il gruppo, ora sceso a 13 eletti): «Non ho visto entusiasmo per Macron da parte degli eurodeputati 5 stelle. Solo un’apertura cordiale verso chi si presenta per la prima volta. Anche perché il presidente francese ha attaccato genericamente tutti i populismi, senza un cenno agli errori da cui sono scaturiti. E ha condannato gli egoismi nazionalisti, ma poi neanche la sua Francia ricolloca i migranti».


E allora, visto che gli europarlamentari grillini non si sono scaldati troppo, chi ha deciso la clamorosa auto-offerta a Macron? Probabilmente si è ripetuto l’infortunio del gennaio 2017 quando, all’insaputa o nella contrarietà di quasi tutti gli eletti, la società Casaleggio decise di farli uscire dal gruppo degli antieuropeisti, passando ai liberali filo-Ue. Per poi essere rifiutati da questi ultimi.

«Quindi questa è solo la seconda puntata del cammino del M5s verso l’europeismo: vogliono mettersi con Macron e i Ciudadanos spagnoli», commenta con Libero Lorenzo Fontana, vicesegretario della Lega appena dimessosi da eurodeputato. 

Thursday, May 04, 2017

Emmanuel e Brigitte Macron

RITRATTO INDISCRETO DELLA NUOVA COPPIA PRESIDENZIALE FRANCESE
Galeotto fu Eduardo
di Mauro Suttora
Oggi, 4 maggio 2017
«Mamma, c’è un pazzo nella mia classe che sa tutto su tutto!». La quindicenne Laurence tornò a casa entusiasta, e fu così che sua madre Bibi (Brigitte) sentì parlare per la prima volta di Manu (Emmanuel).
Era 24 anni fa, 1993. E 24 sono anche gli anni di differenza d’età fra Bibi, prof di francese e latino al liceo gesuita di Amiens, ed Emmanuel Macron, il presidente più giovane nella storia di Francia dopo Napoleone.
Manu è in seconda liceo, figlio di due medici: intelligente, brillante, affamato di cultura. Legge Gide, preferisce Brel e Leo Ferré ai Nirvana. Bibi è la sesta figlia della famiglia Trogneux, catena di pasticcerie, i macaron più rinomati di Francia dopo i Ladurée.
Entrambi appassionati di teatro, lei da regista lo sceglie come attore (qualcuno dice che la sua regista sia ancora lei) per recitare con la compagnia del liceo la piéce di Milan Kundera Jacques e il suo padrone (qualcuno dice che la sua padrona sia ancora lei).
Scatta la scintilla fra Manu e Bibi. Lei lo inizia a Voltaire e Baudelaire, lui è estasiato dagli occhi blu della prof 39enne madre di tre figli, sposata a un banchiere, reputazione impeccabile (fino a quel momento).
L’anno dopo scoppia l’amore grazie a Eduardo De Filippo. «Riscriviamo assieme l’Arte della Commedia per aggiungere qualche ruolo?», propone l’intraprendente Manu a Bibi. Si vedono ogni venerdi pomeriggio per aggiungere dei ruoli. I genitori di Manu pensano che lui vada a casa di Laurence. Invece è della mamma che il ragazzo è innamorato. «Sentivo che scivolavo, e lui anche…», ricorda Bibi.
Scoppia lo scandalo ad Amiens, città di provincia. La dottoressa Macron affronta Bibi a muso duro: «Signora, ma si rende conto? Lei ha già una famiglia. Il mio Manu con lei non potrebbe neanche avere dei figli». La diffida dal riavvicinarsi all’adolescente. «Non posso prometterle niente», risponde l’orgogliosa Bibi. La quale, dalla sua parte, subisce i rimproveri più dei fratelli maggiori che del marito.
Per tagliare, lei chiede a Manu di trasferirsi a Parigi, a finire il liceo e superare la maturità. «Quando torno a 18 anni, qualunque cosa tu faccia ti sposo!», le promette (minaccia) lui.
«Fu uno strazio, eravamo lacerati tutti e due», ricorda Bibi, «ma alla fine ha vinto l’amore e ho divorziato. Impossibile resistere».
Anche lei si trasferisce a Parigi, va a insegnare nel liceo San Luigi Gonzaga del XVI arrondissement, quartiere dei ricchi. Manu il perfetto frequenta tutte le scuole giuste: università a Sciences politiques, specializzazione all’Ena (Ecole nationale d’administration), fucina di tecnocrati. Viene notato da Jacques Attali, grande intellettuale socialista, che lo introduce nei circoli del partito.
Nel 2007 l’ereditiera dei macaron sposa Macron, solo una vocale in meno. I figli di Bibi cominciano ad accettare la nuova realtà. La carriera di Manu parte come un missile. Nel 2010 lascia il ministero delle Finanze e si fa assumere dalla banca Rothschild. Per farsi odiare ancora un po’ di più a sinistra diventa consulente della multinazionale Nestlé. In un anno e mezzo guadagna un milione di euro.
Poi l’Eliseo: consigliere economico del presidente Hollande, nel 2014 ministro dell’Economia. Ma capisce che la barca socialista sta affondando: molla il ministero, poi anche il partito. L’anno scorso ne fonda uno nuovo, tutto suo, con le stesse iniziali: En Marche!
La sera della vittoria al primo turno delle presidenziali Emmanuel Macron pronuncia un discorso con due frasi bellissime. La prima: «Applaudiamo i nostri avversari». Niente politica dell’odio, basta insulti. La seconda: «Ringrazio mia moglie Brigitte. Senza di lei io non sarei io». 
Sotto il palco, Bibi con le sue belle gambe da 64enne in leggings lo applaude commossa. Accanto a lei urlano di gioia due stupende donne bionde: Laurence e Tiphaine, le sue figlie. Manu di figli non ne ha avuti, ma ora sette nipotini lo chiamano daddy.
Ah, anche fra il nuovo presidente Usa Donald Trump e sua moglie Melania ci sono 24 anni di differenza. Che coincidenza. E che differenza con la Première Dame Brigitte Macron Trogneux.
Mauro Suttora