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Thursday, October 26, 2023

Il grillino cannone. Siore e siori, è tornato Di Battista

di Mauro Suttora

Rentrée di Dibba nei talk, stavolta a dire che Israele è pari ai nazisti alle Ardeatine. Ma noi gli vogliamo bene e lo avvertiamo: anche al circo Barnum, dopo i mangiaspade e il nano, l’ultima carta per attrarre il pubblico era la donna cannone

Huffingtonpost.it, 26 ottobre 2023 

Dovrebbe preoccuparsi, il simpatico Alessandro Di Battista. Perché quando al circo Barnum esaurivano il campionario di fenomeni da baraccone, e dopo i mangiafuoco e i mangiaspade non facevano più ridere neanche i gemelli siamesi o il nano imitatore di Napoleone, l’ultima risorsa per attrarre pubblico era la donna cannone.

Allo stesso modo i talk show hanno dovuto resuscitare l’ex deputato grillino, che è riapparso in tv un anno dopo aver deliziato le platee sull’Ucraina. Il copione è lo stesso, e di sicuro effetto. Si intitola "Sì, però". Allora era “Sì, Putin ha invaso l’Ucraina, però non dobbiamo mandarle armi”, o “però l’occidente ha provocato”. Oggi dice “Sì, Hamas ha compiuto la strage del 7 ottobre, però anche Israele ammazza i bambini”, o “però l’occidente dimentica la Palestina occupata”.

Risultato: il piacione di Roma Nord è diventato istantaneamente l’idolo degli estremisti islamici, si è trasformato in Dibbah d’Arabia. Le sue urla di martedì sera, sottotitolate in arabo e titolate “Finalmente un politico italiano dice la verità”, impazzano sulla rete dal Marocco all’Iraq.

Anche a noi, come a Crozza, piace Dibba. È una miniera inesauribile di bufale e gaffes. Il New York Times lo issò in testa alla classifica mondiale delle panzane dopo che riuscì a dire “Metà Nigeria è in mano ai terroristi di Boko Haram, l’altra metà al virus Ebola” (erano venti villaggi e venti casi in tutto). Il folklore continuò con “in Grecia cittadini disperati s’iniettano il virus dell’Aids per prendere il sussidio”.

Poi certi teppisti francesi che indossavano gilet gialli incendiarono i negozi degli Champs-Élysées, e lui trascinò il collega grillino Luigi Di Maio a Parigi a stringer loro la mano. Quando Di Maio divenne inopinatamente ministro degli Esteri, faticò a spiegare la cosa al presidente Emmanuel Macron. E ora che il povero Di Maio è stato nominato – sempre inopinatamente – inviato Ue nel Golfo, si trova sorpassato dall’ex amico in popolarità presso le masse arabe.

Dibbah ci diverte ogni volta che appare sul piccolo schermo. Lo spettacolo è assicurato, e infatti pare che incassi 2.500 euro a puntata per l’erezione delle audiences. Una volta si proclama “testimone oculare” di un inciucio non perché fosse lì presente, ma perché “ho letto le carte coi miei occhi”. Un’altra scivola sul congiuntivo: “Mi auguro che la Meloni non cedi su Casellati”. Nella foga scambia “soddisfamento” per “soddisfazione”, missili ipersonici per supersonici.

Sul Medio Oriente invece ha studiato. Non gli capiterà mai di confondere il Libano con la Libia, come successe a un sottosegretario agli Esteri 5 stelle. Però l’altra sera, dopo aver dato dell’ex fascista a Italo Bocchino e avere incassato “il fascista ce l’hai in casa, tuo padre”, l’ha sparata grossa: ha equiparato Israele ai nazisti, dicendo che la “rappresaglia su Gaza è come quella delle Fosse Ardeatine: si vuole arrivare a 33 bimbi palestinesi uccisi per ogni bimbo israeliano?”.

A parte il delirante paragone, nessuno lì per lì si è accorto dello svarione contabile: Hitler applicò la vendetta nella misura di uno a dieci: 33 soldati uccisi, 330 (molti ebrei) fucilati. Ma nella confusa matematica dibbiana Bibi Netanyahu risulta peggiore del comandante SS Herbert Kappler.

È probabile che ora Dibbah, sull’onda di questi exploit, venga ripescato anche dai 5 stelle e candidato all’Europarlamento da un Giuseppe Conte in debito d’ossigeno. Così il circo verrà trasmesso in Eurovisione. Titolo in inglese, questa volta: "Freak show".

Friday, July 28, 2023

Perché la schermitrice ucraina Olga ha sbagliato

Competere nello sport significa legittimare automaticamente l'avversario. Accettarlo, riconoscergli quella dignità che la guerra esclude. Perché lo sport è conflitto, ma nonviolento. Se opponi una spada alla mano tesa dell'atleta sconfitta, non è più sport. È un'altra cosa: politica, guerra

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 28 luglio 2023 

Nello sport competono avversari. Nella guerra invece si scontrano nemici. La schermitrice ucraina Olga Kharlan e la russa Anna Smirnova conoscono bene questa regola elementare: perciò hanno accettato di battersi fra loro ai mondiali di scherma di Milano. 

Poi però la vincitrice Olga è stata squalificata per aver rifiutato di stringere la mano ad Anna. A Olga va tutta la nostra simpatia, perché nelle stesse ore in cui in Italia si gareggia, in Ucraina i suoi amici e coetanei muoiono. Vengono uccisi da un anno e mezzo anche i giovani compagni della russa Anna, certo. Con la differenza che i primi difendono la libertà e l'indipendenza del loro Paese, mentre i secondi sono aggressori e occupanti di posti in cui non dovrebbero trovarsi. Scusate la banalità, ma dal 24 febbraio 2022 bene e male sono facili da individuare. 

Più difficile dirimere fra buoni e cattivi sulle pedane sportive. Sono stati scritti libri interi sulla funzione catartica e mimetica dello sport. Che sublima in riproduzioni non cruente le tensioni fra gruppi, scaricandole in situazioni di finta guerra trasferite dal campo di battaglia a quello agonistico. 

Consideriamo Olga nostra sorella e figlia. Lei giocava quadruplamente in casa, non solo perché tutti tifiamo Ucraina (come nel 1936 avremmo parteggiato per il nero Usa Jesse Owens a Berlino davanti ad Adolf Hitler); ma anche perché Olga si è rifugiata da noi con la famiglia per sfuggire ai bombardamenti di Vladimir Putin, perché vive a Bologna con il fidanzato schermidore italiano, e perché ha gareggiato a Milano. 

Le consigliamo tuttavia di leggere il libro 'Sport e aggressività' (ed.Il Mulino, 2001). Imparerà dagli autori, i sociologi Norbert Elias (scappato dalla Germania nel 1933 perché ebreo, imprigionato in Inghilterra sette anni dopo perché tedesco) ed Eric Dunning che competere nello sport ('sportivamente', appunto) significa legittimare automaticamente l'avversario. Accettarlo, riconoscergli quella dignità che la guerra esclude. Perché lo sport è conflitto, ma nonviolento. Un gioco, non un sopruso come quelli di Putin. 

Se invece Olga considerava Anna una nemica da distruggere, e non una leale avversaria con cui misurarsi, per coerenza non le restavano che due scelte: rifiutarsi di incontrarla ('in-contro', non scontro), oppure cercare di farle del male con la spada che impugnava. "Olga lotta per la sua gente e per la sua patria", la giustifica il fidanzato campione Luigi Samele. E fa bene. Ma se oppone una spada alla mano tesa dell'atleta sconfitta, non è più sport. È un'altra cosa: politica, guerra. 

Nell'antica Grecia ogni conflitto armato veniva sospeso durante le Olimpiadi. Nell'incivile mondo moderno accade l'esatto contrario: le Olimpiadi vengono sospese durante le guerre. Oppure boicottate: Mosca 1980 per l'invasione sovietica dell'Afghanistan (vizio abituale); Los Angeles 1984 per ripicca dei Paesi comunisti. 

Putin è riuscito anche in questo campo a fare di peggio: ha sfregiato i Giochi di Pechino 2008 violando i giorni di tregua olimpica con l'attacco alla Georgia. Insomma, ci sono mille motivi per escludere il regime putinista dallo sport. Già prima dell'aggressione a Kiev, la Russia non poteva partecipare alle Olimpiadi perché barava (anche) sul doping.

Ma proprio questa condizione di paria internazionale avrebbe potuto consigliare meglio Olga. Senza contare che nella vittoria lo sportivo è magnanimo: battuta Anna, una velocissima stretta di mano (magari volgendo gli occhi da un'altra parte) avrebbe impedito alla russa di spacciarsi perfino per vittima.

Saturday, July 01, 2023

Rischio Gorizia per i giovani ucraini: quanti morti per ogni km liberato?

Un paragone con il prezzo pagato dall'Italia in vite umane dal maggio 1915 all'ottobre 1917. Che la loro superannunciata controffensiva si risolva in un'unica vittoriosa battaglia del Piave invece che in dodici dell'Isonzo

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 luglio 2023

Tre chilometri. Di tanto i soldati italiani riuscirono ad avanzare in due anni e mezzo della Grande guerra, dalle "radiose giornate" del maggio 1915 alla disfatta di Caporetto nell'ottobre 1917. Al prezzo atroce di 400mila morti e 300mila mutilati: una vittima ogni sette millimetri conquistati.

È questo l'incubo dei generali ucraini. Perché in cento anni le armi hanno fatto grandi progressi (chiamiamoli così): oggi ci sono tank, elettronica, droni. Ma alla fine, in tutte le guerre bisogna mettere gli stivali o i cingoli dei blindati nel fango. E i campi minati dai russi al di qua del fiume Dnipro sono più o meno gli stessi che gli austriaci minarono al di qua dell'Isonzo, e che falcidiarono una generazione di giovani italiani.

Soprattutto, attaccare costa molto più che difendersi. Allora come oggi. Agli ucraini è bastato giocare al tiro a bersaglio con i missili Javelin per distruggere le colonne di carri armati russi diretti a Kiev. Ma adesso per loro le strade verso Mariupol e Melitopol sono egualmente insidiose. Le parti si sono invertite, è arrivato il turno degli ucraini rischiare di fare la fine del piccione.

"Ogni metro, ogni giorno ci costa sangue", ammette con il Washington Post il generale Valery Zaluzhny, comandante in capo dell'esercito ucraino. Sa bene che ci vollero per esempio, nella Seconda guerra mondiale, due anni agli Alleati per liberare l'Italia nel 1943-45, ai sovietici per arrivare a Berlino; un anno dalla Normandia alla Germania.

Gorizia è un nome slavo, come quelli russi e ucraini. Significa "piccolo monte", collina. Per farla diventare italiana nell'agosto 1916 ci vollero sei offensive in un anno: sono le famose "battaglie dell'Isonzo" che ci hanno insegnato a scuola. In realtà carneficine che costarono ciascuna decine di migliaia di vittime all'Italia. I soldati austriaci erano la metà dei nostri ed ebbero metà dei morti. Non perché fossero più bravi, prudenti, coraggiosi o vigliacchi, ma perché appunto difendersi è più facile.

Subito dopo la conquista di Gorizia il comandante in capo Luigi Cadorna, dal suo tranquillo quartier generale nell'attuale liceo classico Stellini di Udine, lanciò altri centomila giovani militari alla conquista di Trieste. 
Non sapeva che il suo avversario generale Svetozar Borojević, serbo ma nato in Croazia e quindi cittadino austroungarico (Vienna era un impero modernamente multietnico, i nazionalisti allora eravamo noi), aveva costretto migliaia di suoi prigionieri di guerra russi a costruire fortificazioni invalicabili sul Carso. 

Gli austriaci, come i russi oggi, ricorsero anche all'allagamento: fecero esondare le acque dell'Isonzo captate dal canale Dottori a Sagrado (Gorizia), trasformando centinaia di ettari in acquitrini impraticabili per i fanti italiani. I quali uscivano dalle trincee solo per farsi falcidiare dalle mitragliatrici asburgiche. E se rifiutavano di andare verso la morte certa finivano giustiziati dai tribunali militari italiani. Così la nostra settima offensiva sull'Isonzo non riuscì a raggiungere neppure Duino. Al solito prezzo di 20mila morti.


Non ci credete? Guardate il film 'Uomini Contro' di Francesco Rosi con Gian Maria Volonté, tratto dal libro 'Un anno sull'altipiano' di Emilio Lussu, padre della Repubblica. Oppure visitate il Parco tematico della Grande Guerra a Monfalcone (Gorizia) e il cimitero di Redipuglia, per comprendere la grande assurdità della guerra.
Perché dopo quelle sette battaglie dell'Isonzo ce ne furono altre cinque, tutte egualmente sanguinose e inutili. Due anni dopo invece ne bastò una, partita di slancio dal Piave nell'ottobre 1918, per vincere il conflitto.


Dopo l'effimera liberazione del 1916 Gorizia cambiò padrone ben sette volte nei successivi trent'anni (record mondiale): austriaci dopo Caporetto, italiani dopo il Piave, jugoslavi nel 1943, poi tedeschi, di nuovo jugoslavi, nel '45 angloamericani, infine divisa a metà nel '47 fra Italia e Jugoslavia (dal 1991 Slovenia).

Auguriamo agli ucraini che la loro superannunciata controffensiva si risolva in un'unica vittoriosa battaglia del Piave invece che in dodici dell'Isonzo. Auguriamo ogni male a Vladimir Putin, che con la sua aggressione ha riportato l'Europa indietro di cent'anni. Ma il rischio Gorizia per i giovani ucraini rimane. 

Tuesday, April 11, 2023

Xi e Macron, postura e impostura



Alcuni satrapi sono candidamente sinceri, non si vergognano di annunciare i propri futuri genocidi. L'appeasement francese, dopo il bacio della pantofola a Pechino, assomiglia a quello di Neville Chamberlain 85 anni fa, quando si convinse di aver scongiurato la guerra cedendo i Sudeti a Hitler

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 11 aprile 2023

"Indipendenza di Taiwan e pace sono incompatibili". Il grave di questa chiarissima minaccia di guerra non è che l'abbia pronunciata il dittatore cinese, ma che al resto del mondo sia scivolata via come niente fosse. Eppure siamo ammaestrati. Alcuni satrapi sono candidamente sinceri, non si vergognano di annunciare i propri futuri genocidi. Adolf Hitler ce li anticipò perfino per iscritto nel Mein Kampf: ebrei e spazio vitale. Slobodan Milosevic vaneggiava di grande Serbia compresi Bosnia, Sarajevo e Kosovo molti anni prima della strage di Srebrenica. 

Vladimir Putin ha dovuto invadere l'Ucraina perché gli credessimo: finché ammassava truppe e inscenava manovre al confine ci illudevamo fosse solo "posturing", come dicono gli esperti di geopolitica quando vogliono impressionarci con parole difficili. In realtà significa abbaiare, ma non ditelo al Papa: lui ha suggerito che sia stata la pecorella aggredita a trasformarsi in cane provocatore, con la Nato.

I latrati di Xi Jinping contro Taiwan vanno avanti da dieci anni, ma il volume è aumentato da quando i taiwanesi hanno osato eleggere presidente una signora che non vuole farsi finlandizzare. Soprattutto oggi che la Finlandia si è definlandizzata, emancipandosi dallo stato di soggezione e libertà provvisoria cui l'aveva costretta l'Urss (esempi concreti: Helsinki dovette togliere dalle biblioteche 1700 libri ritenuti antisovietici, e l'Arcipelago Gulag del Nobel Aleksandr Solgenitsin fu stampato nel 1974 in finlandese, ma in Svezia). 

Quindi ora che la Finlandia si è taiwanizzata entrando nella Nato, la Cina vorrebbe che invece Taiwan stesse a cuccia. E potrebbe essere anche ragionevole non aizzare l'arrogante vicino, se non ci fosse lo spiacevole esempio di Hong Kong: lì la drammatica fine dei diritti civili più elementari dimostra che Pechino è incapace di tollerare qualsiasi isola di libertà ai propri confini. Come ogni dittatura, teme il contagio del virus democratico.

Per capire il tremendo dilemma dei taiwanesi (ma la campana suona per tutti noi) consiglio di vedere su Netflix il film "Monaco, sull'orlo di una guerra" (2022). In cui Jeremy Irons impersona il premier britannico Neville Chamberlain, applaudito dal mondo intero perché nel settembre 1938 era convinto di avere evitato la guerra mondiale con/cedendo i Sudeti a Hitler. Il quale solo cinque mesi dopo ripagò la sua sprovveduta fiducia invadendo tutta la Cecoslovacchia, e poi la Polonia.

Confesso che anch'io, come chiunque senza il senno di poi, ascoltando le ingenue ma sincere parole di Chamberlain/Irons gli avrei dato ragione: aborrire la replica di un'altra carneficina dopo quella della Grande Guerra era ragionevole, non occorreva essere pacifisti. Per la pace si possono pagare prezzi anche alti. 

Ma oggi l'appeasement di Emmanuel Macron, dopo il suo bacio della pantofola di Xi a Pechino, assomiglia un po' troppo a quello di Chamberlain 85 anni fa. Il presidente francese si dice felice per il gran riguardo che gli avrebbe riservato il tiranno cinese: aspettare la sua partenza prima di iniziare le grandi manovre militari che hanno accerchiato Taiwan simulandone l'invasione. 

Quanto al resto, la Cina non è più vicina, quindi chi se ne importa della sua aggressiva e reiterata rivendicazione su Taiwan. L'atteggiamento di Pechino è solo irredentismo passé, di posa? La realtà ci dice il contrario: dal 2012 la Cina ha raddoppiato le sue spese militari, che oggi superano quelle di tutti i suoi tredici vicini asiatici messi assieme. E allora, se quella di Xi non è una postura, quella di Macron è una benintenzionata impostura.


Sunday, January 15, 2023

Contro gli opposti estremisti: confinofobi e confinofili



Le frontiere sono neutrali. Dipende da come le si usa, in ogni ambito. Senza confini la realtà stessa non esisterebbe. L'unico spazio in-finito (senza con-fini) è l'universo 

di Mauro Suttora

Huffingtonpost, 15 gennaio 2023 

Va di moda dire "i confini non esistono", o al contrario condannare chi li varca clandestinamente. Anzi, è proprio questo uno dei principali nuovi confini, in politica: più che fra destra e sinistra, ricchi e poveri, borghesi e proletari, oggi ci dividiamo fra buonisti, internazionalisti, cosmopoliti globalisti da una parte, e sovranisti, nazionalisti, localisti noglobal dall'altra. Gli uni accusano gli altri di essere élites consumiste senza radici né valori, oppure fascistoidi retrogradi, chiusi e razzisti. 

La verità è che le frontiere sono neutrali. Dipende da come le si usa, in ogni ambito. Senza confini la realtà stessa non esisterebbe. L'unico spazio in-finito (senza con-fini) è l'universo. Ogni volta che aumenta la portata dei nostri radiotelescopi, scopriamo nuove galassie a milioni di anni luce.

Ma passando dal macro al micro, il confine è essenziale. Tutte le cellule degli organismi viventi hanno come propria frontiera la membrana. Se la cellula impazzisce e si moltiplica sconfinatamente, ecco i tumori. 

Idem nella fisica: in ogni elemento gli atomi possiedono un confine ben preciso fra il nucleo di protoni e gli elettroni che girano attorno. Provate a scindere il nucleo, a violare le sue frontiere interne, e scatenerete una reazione nucleare. Non per nulla i greci già 2500 anni fa l'avevano battezzato a-tomo: inscindibile. 

Insomma, come dicono i filosofi: sono proprio i confini a definire l'essere, l'essenza. Il nostro corpo è protetto dalla frontiera della pelle. Provate a romperla: morirete dissanguati. Da quando l'uomo è uscito dalle caverne costruendosi la prima capanna, il perimetro dei muri ha stabilito i confini della tranquillità garantita alla sua famiglia.

Cosicché, mi permetto di confutare il titolo dell'ultimo lavoro teatrale degli ottimi Stefano Mancuso e Matteo Caccia, che sta girando l'Italia: 'I confini non esistono'. 

Loro lo spiegano così: "Uno spettacolo che incrocia le narrazioni di due esperti nei loro campi: la botanica e le relazioni umane. Mancuso e Caccia intrecciano storie di piante e di uomini che hanno come comune denominatore quello dei confini. Confini fisici o confini mentali, luoghi nei quali sembrerebbe impossibile accedere, e dove invece uomini e piante riescono a spingersi anche contro la volontà di pochi. In un momento storico in cui varcare i confini è considerato un errore, spesso un delitto, Mancuso e Caccia attraverso le storie di alberi o arbusti, uomini o donne, restituiscono un’antica verità che sembra ormai impronunciabile: i confini sono una convenzione, un’invenzione dell’uomo. Ma in natura i confini non esistono".

Mi sembra invece che la natura, ma anche la cultura, li smentiscano. 

Ho approfondito la questione nel libro 'Confini, storia e segreti delle nostre frontiere' (ed. Neri Pozza, 2021), scritto mentre il mondo intero era confinato nelle proprie case, città, regioni e stati dal lockdown per il covid. 

Altri due virus, prima e dopo, hanno agitato la nostra vita pubblica, facendoci riscoprire confini che ci illudevamo aver sorpassato, almeno in Europa: le frontiere bloccate contro i migranti, e quelle ucraine attaccate da Putin. 

Epidemia, violenza, guerra. Manca solo la fame, ed ecco tornati i quattro cavalieri dell'apocalisse. Quindi forse è meglio non praticare una rimozione quasi psicanalitica nei confronti dei confini. Perché, come ha scritto Regis Debray nel suo 'Elogio delle Frontiere', "di frontiere non ne sono mai state create tante come negli ultimi anni: 27mila chilometri a partire dal 1991". 

È un bene, un male? Il Museo delle frontiere a Bard (Aosta) scioglie saggiamente il dilemma: "Un confine può dividere e opporre, ma anche distinguere senza separare. I limiti territoriali, sociali, culturali, religiosi ed etnici sono un dato di fatto, in sè né positivo né negativo: inevitabile, e forse anche utile e necessario. Dipende solo da noi farne buon uso". 

Perché anche il castello con le mura più alte e inespugnabili è dotato di un ponte levatoio, attraverso cui passano ospitalità, curiosità, apertura e accoglienza. "C'è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce", canta Leonard Cohen.

Friday, December 09, 2022

Odo falchi far festa. Grazie a Putin aumento record delle spese militari Usa



Hanno vinto loro, un voto quasi plebiscitario alla Camera su un incremento che supera perfino le richieste del presidente Biden. Soltanto la Cina tiene i livelli di Washington, che a questi ritmi presto arriveranno a mille miliardi

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 9 dicembre 2022  

Hanno vinto i falchi. La Camera Usa ha aumentato le spese militari dai 780 miliardi di dollari di quest'anno a 858 per l'anno prossimo. Un incremento impressionante: supera di ben 45 miliardi perfino la richiesta del presidente Joe Biden, il quale si sarebbe accontentato di 813 miliardi. Il dibattito ora passa al Senato, ma l'ampiezza bipartisan del voto alla Camera (350 sì contro 80 colombe) esclude sorprese. 

L'aumento-monstre ha due cause: la guerra in Ucraina e l'inflazione. 

Il bilancio militare 2023 prevede altri 800 milioni di armamenti per l'Ucraina. Che però sono una goccia rispetto ai 60 miliardi erogati extra-bilancio quest'anno in aiuti per Kiev, sia civili che bellici. Quanto all'inflazione, attualmente all'8% negli Usa, verrà compensata da un +4,6% per gli stipendi dei quasi tre milioni di militari statunitensi. 

Festeggiano i deputati democratici e repubblicani di decine di Stati: tutti quelli che hanno fabbriche d'armi nei propri collegi. La Lockheed sfornerà altri aerei F-35, la General Dynamics parteciperà all'espansione della marina da guerra: da 296 a 321 navi entro il 2030. Anche la nostra Fincantieri ne varerà qualcuna, con la sua sussidiaria americana.

Nel 1999 le spese militari statunitensi erano a 298 miliardi. Poi una progressione a razzo: le guerre in Iraq e Afghanistan le fecero lievitare fino ai 533 miliardi del 2005. Con Barack Obama l'aumento fu più contenuto: 633 miliardi del 2015. Sotto Donald Trump un altro salto di cento milioni annui. E ora le nuove minacce: soldati Usa in Europa aumentati da 80 a 100mila; dieci miliardi in più per Taiwan; il budget per le armi nucleari che passa da 43 a 51 miliardi annui.

Soltanto la Cina sta incrementando le spese militari quanto Washington: raddoppiate in pochi anni, fino agli attuali 300 miliardi (come l'intera Europa). La Russia dichiarava una settantina di miliardi prima della guerra, ora Putin ne stanzia 140 per il 2023.  Ma gli Usa sono irraggiungibili: a questi ritmi, fra pochi anni arriveranno a mille miliardi. Quanto tutti gli altri stati della Terra messi assieme. 

Monday, November 28, 2022

Ucraina, Kosovo, Libia. Seguire l'esempio italiano



La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto fra kosovari e serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 28 Novembre 2022 

L'Italia può insegnare molto a Ucraina, Kosovo e Libia. La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto kosovari/serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente.
Il Territorio Libero di Trieste, per esempio. Quando ci sono dispute di frontiera apparentemente insolubili, come l'attuale fra Kiev e Mosca, la via d'uscita più semplice non sempre è spartire i territori contesi fra i due avversari, ma creare ex novo una terza entità.
Nel maggio 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, la Jugoslavia di Tito s'impossessò di Trieste. Di fronte al fatto compiuto, non era scontato per l'Italia riuscire a recuperare il capoluogo giuliano con mezzi pacifici. Anche perché, dei quattro Alleati vincitori, l'Urss appoggiava il dittatore comunista, la Gran Bretagna lo aveva armato contro di noi, e la Francia di De Gaulle voleva vendicare la 'pugnalata' fascista del 1940.
Fu così che, con un guizzo creativo, la città e la costa nord dell'Istria furono inglobate nel Tlt (Territorio libero di Trieste). Il quale durò fino al 1954. Nel frattempo gli animi si erano calmati, anche perché Tito aveva rotto con Stalin. Cosicché non ebbe problemi ad abbandonare ogni rivendicazione sulla città e il Carso triestino, in cambio di Capodistria, Portorose e Pirano: era minacciato più da est che da ovest.

Il tempo lenisce gli ardori, i furori e i dolori. Oggi appare inaccettabile sia per gli ucraini che per Putin rinunciare a Crimea e Donbass. Ma un'amministrazione provvisoria, magari con mandato Onu, potrebbe svelenire gli animi. Intendiamoci, le 'città libere' non sono state sempre un successo. Quella di Danzica finì come finì, nel 1939. E anche l'altro lascito della Prima guerra mondiale, Fiume, provocò subito la spedizione di D'Annunzio contro la città autonoma fra Italia e Jugoslavia. Ma gli opposti nazionalismi non vanno fatti incancrenire.
È questo l'errore commesso da Onu e Ue in Kosovo. Mai avrei pensato, quando nel 1999 seguii a Pec le nostre truppe con bandiera Nato, che quasi un quarto di secolo dopo le avrei trovate ancora lì. Le missioni di peacekeeping non possono durare in eterno. E infatti ora la situazione è di nuovo esplosiva: serbi e albanesi si confrontano sul fiume Ibar, che taglia in due la città di Mitrovica. A nord sono maggioranza i primi, che però risultano una minoranza di centomila abitanti rispetto al milione di kosovari albanesi a sud.

Qui l'unica soluzione è una pulizia etnica nonviolenta e volontaria. Non spaventatevi per la parola: nella vita pubblica come in quella privata, se non si riesce a convivere è meglio separarsi. Repubblica ceca e Slovacchia hanno divorziato subito dopo il crollo del Muro di Berlino, nel 1990. La Jugoslavia invece ha patito un decennio di sanguinosa guerra civile.
È triste dirlo, ma in Bosnia e Kosovo la convivenza fra musulmani e cristiani ortodossi risulta ancor oggi impossibile. Il labirinto bosniaco, con le sue enclaves etniche e l'aggravante del terzo incomodo, i croati cattolici, appare difficile da districare. In Kosovo invece sarebbe facile tracciare una linea di demarcazione: la zona a maggioranza serba vada sotto Belgrado, in cambio di compensazioni territoriali (alcuni paesi albanesi in Serbia) e finanziarie.
Sono figlio di profughi istriani, so quanto costi abbandonare la propria terra. Ma non si può vivere eternamente nella tensione, nell'oppressione, nel terrore. E quindi l'esodo nel 1947 della mia famiglia con i 300mila istrodalmati fu tutto sommato la decisione più saggia. Anche perché ci ha risparmiato mezzo secolo di miseria economica e morale sotto una dittatura comunista.
Naturalmente i danni e le perdite subite dai kosovari che accetteranno di trasferirsi spontaneamente da una parte all'altra della nuova frontiera dovranno essere risarciti fino all'ultimo centesimo. Anzi, all'ultimo euro. Perché in cambio di questa complicata e dolorosa pacificazione è auspicabile che tutta la regione entri finalmente nell'Unione europea: Kosovo, Serbia, Albania. I confini diventano più accettabili quando svaniscono: qualcuno oggi si accorge se da Trieste a Gorizia entra in Slovenia? (E fra un mese anche la Croazia adotterà l'euro).

L'auspicabile opzione etnica in Kosovo (praticabile anche in Ucraina) ha un precedente in Alto Adige. Nel 1939 Mussolini e Hitler si accordarono per trasferire in Germania o Austria i sudtirolesi che lo avessero desiderato. Optarono per la heimat tedesca in 86 su cento: quasi 200mila (qualche germanofono anche in Trentino, nell'Ampezzano veneto e a Tarvisio in Friuli). Poi però, con la guerra, i trasferimenti procedettero a rilento: se ne andarono solo in 70mila. E tutto si bloccò dopo l'8 settembre, quando il Trentino-Alto Adige passò direttamente al Reich.
Come racconta Carlo von Guggenberg nel suo libro appena pubblicato 'L'Altro Adige. Optanti e Dableiber per la nascita della Stella Alpina' (Praxis Edizioni), a quel punto nacque un dramma. I sudtirolesi di lingua tedesca che avevano optato si ritrovarono in mezzo al guado: molti non volevano più partire, e dei già partiti 20mila tornarono. Ci fu tensione con accuse reciproche di tradimento. Nei paesini di montagna qualcuno aveva già adocchiato le fattorie e i campi lasciati dagli optanti. C'è chi finì nella vasca di qualche fontana durante i tafferugli.
Fu impresa non facile riappacificare i sudtirolesi fra loro, prima che con gli italiani. Ci riuscirono i fondatori della Svp (Südtitoler VolksPartei), fra i quali giganteggiarono Erich Amonn, Otto von Guggenberg (nonno dell'autore del libro) e poi Silvius Magnago. Anche grazie a loro, e nonostante i terroristi degli anni 60, quella della minoranza tedesca in Alto Adige è una storia di successo, studiata nel mondo intero. E speriamo presto anche in Ucraina.

La Libia, infine. Anche qui, come in Istria e Kosovo: meglio amputare che deteriorarsi in cancrena. Dopo la Primavera araba del 2011 che cacciò il dittatore Gheddafi, il Paese è irrimediabilmente diviso in due: Tripolitania e Cirenaica. Si susseguono patetici inviati Onu che continuano ad auspicare un'unità inesistente. Tripoli e Bengasi, peraltro, sono separate da sempre: non solo sotto l'impero ottomano, ma anche nei primi vent'anni da colonia italiana, dopo il 1911. 
Quindi, come in Irlanda del Nord e in Sud Sudan, meglio dividere chi non vuole vivere assieme. Senza tenere unite artificialmente realtà diverse: ci ammonisce la guerra civile in Yemen, se non ricordiamo il Biafra o il Bangladesh.
Petrolio e gas ci sono da una parte e dall'altra, nessun libico si impoverirebbe. L'Eni continua a pompare, nonostante i volumi ridotti. In più, a Tripoli riecco i soldati turchi tornati dopo un secolo, e a Bengasi i simpatici mercenari russi della Wagner. Pare che ora per farci dispetto ci mandino barconi di migranti pure da lì, anche se dalla Cirenaica la distanza è doppia. Urge intervenire con proposte realistiche e intelligenti, senza inseguire miraggi di ripristino unitario.

Wednesday, November 09, 2022

Un terzo di secolo per passare dal comunismo al fasciocomunismo



di Mauro Suttora

A 33 anni dal crollo del muro di Berlino, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima

HuffPost, 9 novembre 2022 

Il 9 novembre fanno 33 anni dal crollo del muro di Berlino. Cifra tonda, un terzo di secolo. Per la prima volta senza Gorbaciov, artefice dell'eutanasia comunista (buona morte, mai nella storia un impero è scomparso con così poche vittime).

Che c'è di nuovo rispetto ai precedenti anniversari dei 30 anni, 25, 20? L'Ucraina. L'aggressione di Putin ha chiuso un'epoca: 1989-2022, la pace fra due guerre fredde. Nei libri di storia si ricorderanno questi 33 anni (con in mezzo l'attacco alle Torri gemelle e la reazione Usa) come un periodo di grandi speranze e delusioni. 

Negli anni '90 l'illusione, se non della fine della storia con l'avvento della pace universale, almeno del diritto internazionale che puniva i violatori di frontiere (Saddam, 1990), gli autori di stragi (Srebrenica, 1995) e quelli di tentato genocidio (Milosevic in Kosovo, 1999). A suggellare una nuova legalità, il diritto/dovere di intervento militare umanitario e la nascita del Tribunale penale internazionale dell'Aia con la firma del trattato di Roma nel 1998 (grazie Emma Bonino, Boutros Ghali e Soros).

Ora, invece, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima. È tornato il comunismo? Macché, quello è confinato a qualche nostalgico occidentale. Lo spiega bene una scena esilarante del film 'Triangle of Sadness', Palma d'oro a Cannes, appena uscito in Italia: il capitano americano di una nave che sta affondando si dichiara marxista, mentre un suo ricco passeggero russo si dichiara capitalista. E tuttavia nell'assai inquietante megasalone congressuale del partito unico cinese campeggiano ancora falce e martello. Xi Jinping si dichiara orgogliosamente comunista, come i suoi compagni tiranni di Cuba, Corea del Nord, Cuba, Vietnam, Laos.

Quanto a Putin, è lì a incarnare la continuità vivente del Kgb. Con tre letali aggiunte: il fanatismo religioso ortodosso, la mafia degli oligarchi e il nazionalismo (senza rimpianti per il fraterno internazionalismo sovietico di Budapest 1956, Praga 1968, Kabul 1979, Varsavia 1981).

Cosa c'è quindi oggi a Pechino e a Mosca? Come definire gli attuali avversari del mondo libero? La risposta più attendibile compie anch'essa un terzo di secolo: si chiama Slobodan Milosevic. Il presidente della Serbia che per primo al mondo traghettò un Paese dal comunismo al fasciocomunismo, infliggendo alla Jugoslavia un decennio di guerre civili, 100mila morti e la città martire di Sarajevo così simile a Mariupol.

La maggioranza dei politologi nel mondo concorda da tempo su questa definizione solo apparentemente contraddittoria per Russia e Cina, che assomma il peggio del '900: fasciocomunismo.

Esito triste ma forse inevitabile per due nazioni che, a pensarci bene, nella loro storia millenaria (Russia) e bimillenaria (Cina) hanno potuto assaporare solo dieci anni di libertà e democrazia: la presidenza etilica di Eltsin, e il primo confuso Kuomintang di Sun Yat-sen dopo la caduta dell'ultimo imperatore nel 1912.

In entrambi i casi sono succeduti loro i signori della guerra. Ben prima dell'Ucraina, infatti, i generali di Putin hanno invaso Cecenia, Georgia, Siria. E i suoi mercenari Wagner sono in Libia, Mali, Centrafrica, Sudan. Ma, anche qui, niente di nuovo: il militarismo è sempre stato uno dei tratti caratteristici del comunismo. E non è scomparso il 9 novembre 1989 assieme al muro di Berlino.