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Wednesday, November 09, 2022

Un terzo di secolo per passare dal comunismo al fasciocomunismo



di Mauro Suttora

A 33 anni dal crollo del muro di Berlino, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima

HuffPost, 9 novembre 2022 

Il 9 novembre fanno 33 anni dal crollo del muro di Berlino. Cifra tonda, un terzo di secolo. Per la prima volta senza Gorbaciov, artefice dell'eutanasia comunista (buona morte, mai nella storia un impero è scomparso con così poche vittime).

Che c'è di nuovo rispetto ai precedenti anniversari dei 30 anni, 25, 20? L'Ucraina. L'aggressione di Putin ha chiuso un'epoca: 1989-2022, la pace fra due guerre fredde. Nei libri di storia si ricorderanno questi 33 anni (con in mezzo l'attacco alle Torri gemelle e la reazione Usa) come un periodo di grandi speranze e delusioni. 

Negli anni '90 l'illusione, se non della fine della storia con l'avvento della pace universale, almeno del diritto internazionale che puniva i violatori di frontiere (Saddam, 1990), gli autori di stragi (Srebrenica, 1995) e quelli di tentato genocidio (Milosevic in Kosovo, 1999). A suggellare una nuova legalità, il diritto/dovere di intervento militare umanitario e la nascita del Tribunale penale internazionale dell'Aia con la firma del trattato di Roma nel 1998 (grazie Emma Bonino, Boutros Ghali e Soros).

Ora, invece, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima. È tornato il comunismo? Macché, quello è confinato a qualche nostalgico occidentale. Lo spiega bene una scena esilarante del film 'Triangle of Sadness', Palma d'oro a Cannes, appena uscito in Italia: il capitano americano di una nave che sta affondando si dichiara marxista, mentre un suo ricco passeggero russo si dichiara capitalista. E tuttavia nell'assai inquietante megasalone congressuale del partito unico cinese campeggiano ancora falce e martello. Xi Jinping si dichiara orgogliosamente comunista, come i suoi compagni tiranni di Cuba, Corea del Nord, Cuba, Vietnam, Laos.

Quanto a Putin, è lì a incarnare la continuità vivente del Kgb. Con tre letali aggiunte: il fanatismo religioso ortodosso, la mafia degli oligarchi e il nazionalismo (senza rimpianti per il fraterno internazionalismo sovietico di Budapest 1956, Praga 1968, Kabul 1979, Varsavia 1981).

Cosa c'è quindi oggi a Pechino e a Mosca? Come definire gli attuali avversari del mondo libero? La risposta più attendibile compie anch'essa un terzo di secolo: si chiama Slobodan Milosevic. Il presidente della Serbia che per primo al mondo traghettò un Paese dal comunismo al fasciocomunismo, infliggendo alla Jugoslavia un decennio di guerre civili, 100mila morti e la città martire di Sarajevo così simile a Mariupol.

La maggioranza dei politologi nel mondo concorda da tempo su questa definizione solo apparentemente contraddittoria per Russia e Cina, che assomma il peggio del '900: fasciocomunismo.

Esito triste ma forse inevitabile per due nazioni che, a pensarci bene, nella loro storia millenaria (Russia) e bimillenaria (Cina) hanno potuto assaporare solo dieci anni di libertà e democrazia: la presidenza etilica di Eltsin, e il primo confuso Kuomintang di Sun Yat-sen dopo la caduta dell'ultimo imperatore nel 1912.

In entrambi i casi sono succeduti loro i signori della guerra. Ben prima dell'Ucraina, infatti, i generali di Putin hanno invaso Cecenia, Georgia, Siria. E i suoi mercenari Wagner sono in Libia, Mali, Centrafrica, Sudan. Ma, anche qui, niente di nuovo: il militarismo è sempre stato uno dei tratti caratteristici del comunismo. E non è scomparso il 9 novembre 1989 assieme al muro di Berlino. 

Monday, March 02, 2009

Obama taglia i charity gala

LA BENEFICENZA PRIVATA USA

di Mauro Suttora

Libero, sabato 28 febbraio 2009

Avete presente quei cenoni che si vedono spesso nei film americani, con i tavoli rotondi da dieci posti nei saloni degli alberghi, gli uomini in smoking, le signore in abito lungo e qualcuno che parla dal podio?
Sono i «charity gala», feste di beneficenza privata che negli Stati Uniti compensano il basso livello di welfare pubblico (e di tasse).

Si va lì per gli scopi più vari (raccolta fondi per malattie, bimbi poveri, politici, università, ospedali, chiese, musei) e si contribuisce sia pagando il posto a tavola (dai cento dollari in su), sia partecipando a un’asta.

Ora Obama dà una bella stangata a tutto questo mondo di filantropia: la charity sarà deducibile dalle tasse, ma con un limite massimo del 28%. Il che, per i ricchi (oltre i 370mila dollari annui) la cui aliquota di imposta sul reddito torna dal 35 al 39% per cento pre-Bush, e anche per i benestanti dai 200mila in su (che salgono dall’attuale 33 al 36), rappresenta un discreto disincentivo.

Nel disperato bisogno di fronteggiare la crisi, Obama rischia così di mandare all’aria il modello americano di redistribuzione sociale. Finora infatti gli statunitensi hanno pagato circa la metà delle tasse degli europei. Ma sanità, assistenza, istruzione, religione, arte e cultura vengono finanziate grazie ai contributi spontanei (e detraibili) dei privati. Niente intermediazione parassitaria di burocrati e politici.

Non c’è famiglia ricca che non abbia una sua fondazione. E attorno alle serate di raccolta fondi si organizza anche la vita sociale degli americani. Ogni sera in un solo quartiere come Manhattan vengono organizzate decine di «charity gala». Sono coinvolti centinaia di camerieri, migliaia di invitati, decine di migliaia di fornitori. Si arriva presto, verso le sei, per l’aperitivo. Poi c’è l’asta. Quindi, verso le otto, tutti a tavola.

Durante la cena c’è qualche discorso: parla il benefattore, il beneficiato, e spesso un vip dello spettacolo o della politica invitato per dar lustro all’evento. Infine, dopo le dieci, negli eventi più festaioli si aprono le danze. Ma già alle undici si comincia ad andare a nanna. Non prima di avere raccolto la «goody bag», un sacchetto con i regalini degli sponsor. Durante i miei anni a New York ho ricevuto di tutto: profumi Dior, mutande, cravatte Yves Saint Laurent, pacchi di pasta De Cecco (a un gala della Camera di commercio italoamericana)…

Quella delle charities è una vera e propria industria. I benefit sono infatti organizzati da schiere di professionisti: maghi del fund-raising, funzionari di fondazioni, consulenti di relazioni pubbliche, addetti stampa… Una ragazza italiana che faceva questo mestiere mi ha svelato che i grandi alberghi come il Waldorf-Astoria, il Pierre o il Plaza impongono che ai banchetti si consumi il loro vino, ovviamente a un prezzo triplo. E se per risparmiare si portano le proprie bottiglie, bisogna versare al potente sindacati dei camerieri una considerevole «cork fee» (tariffa di tappo…)

Per le signore dell’alta borghesia la filantropia è spesso l’attività principale della propria esistenza. A seconda dell’entità del contributo versato dai loro mariti miliardari, possono agguantare un posto nel consiglio d’amministrazione di un museo, di una fondazione, di un club, e sedere accanto a un Rockefeller, un Soros, un Kennedy. Spesso sono le aziende che, per obblighi d’immagine, devono comprare interi tavoli per questi gala. A New York, per esempio, la Rai e le multinazionali italiane finanziano il benefit annuale della Fondazione anticancro, quello del Columbus Day del 12 ottobre (festa degli italoamericani), e i gala della scuola italiana o della fondazione per salvare Venezia.

Nella loro allegra generosità, gli americani finanziano le cause più disparate. A nessuno negli Stati Uniti viene in mente di organizzare una festa senza un qualche scopo benefico. In mancanza dell’otto per mille, anche le chiese devono autofinanziarsi. In un tripudio di marketing, ho visto offrire posti di «serafino» a chi versa almeno diecimila dollari, cinquemila per un «cherubino», più abbordabili gli arcangeli e gli angeli semplici. Risultato: la Chiesa cattolica statunitense è la più ricca del pianeta, nonché la principale contribuente del Vaticano.

Insomma, in nome della sussidiarietà, le buone azioni in America sono tutte «tax deductible». Gli attori presenziano ai gala con tariffe fisse. Noi giornalisti accreditati all’Onu riuscimmo ad attrarre gratis Angelina Jolie alla cena del nostro club nel 2005 solo grazie al suo impegno cosmopolita. A Obama non conviene proprio rovinare questo meccanismo, che funziona.

Mauro Suttora