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Wednesday, November 09, 2022

Un terzo di secolo per passare dal comunismo al fasciocomunismo



di Mauro Suttora

A 33 anni dal crollo del muro di Berlino, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima

HuffPost, 9 novembre 2022 

Il 9 novembre fanno 33 anni dal crollo del muro di Berlino. Cifra tonda, un terzo di secolo. Per la prima volta senza Gorbaciov, artefice dell'eutanasia comunista (buona morte, mai nella storia un impero è scomparso con così poche vittime).

Che c'è di nuovo rispetto ai precedenti anniversari dei 30 anni, 25, 20? L'Ucraina. L'aggressione di Putin ha chiuso un'epoca: 1989-2022, la pace fra due guerre fredde. Nei libri di storia si ricorderanno questi 33 anni (con in mezzo l'attacco alle Torri gemelle e la reazione Usa) come un periodo di grandi speranze e delusioni. 

Negli anni '90 l'illusione, se non della fine della storia con l'avvento della pace universale, almeno del diritto internazionale che puniva i violatori di frontiere (Saddam, 1990), gli autori di stragi (Srebrenica, 1995) e quelli di tentato genocidio (Milosevic in Kosovo, 1999). A suggellare una nuova legalità, il diritto/dovere di intervento militare umanitario e la nascita del Tribunale penale internazionale dell'Aia con la firma del trattato di Roma nel 1998 (grazie Emma Bonino, Boutros Ghali e Soros).

Ora, invece, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima. È tornato il comunismo? Macché, quello è confinato a qualche nostalgico occidentale. Lo spiega bene una scena esilarante del film 'Triangle of Sadness', Palma d'oro a Cannes, appena uscito in Italia: il capitano americano di una nave che sta affondando si dichiara marxista, mentre un suo ricco passeggero russo si dichiara capitalista. E tuttavia nell'assai inquietante megasalone congressuale del partito unico cinese campeggiano ancora falce e martello. Xi Jinping si dichiara orgogliosamente comunista, come i suoi compagni tiranni di Cuba, Corea del Nord, Cuba, Vietnam, Laos.

Quanto a Putin, è lì a incarnare la continuità vivente del Kgb. Con tre letali aggiunte: il fanatismo religioso ortodosso, la mafia degli oligarchi e il nazionalismo (senza rimpianti per il fraterno internazionalismo sovietico di Budapest 1956, Praga 1968, Kabul 1979, Varsavia 1981).

Cosa c'è quindi oggi a Pechino e a Mosca? Come definire gli attuali avversari del mondo libero? La risposta più attendibile compie anch'essa un terzo di secolo: si chiama Slobodan Milosevic. Il presidente della Serbia che per primo al mondo traghettò un Paese dal comunismo al fasciocomunismo, infliggendo alla Jugoslavia un decennio di guerre civili, 100mila morti e la città martire di Sarajevo così simile a Mariupol.

La maggioranza dei politologi nel mondo concorda da tempo su questa definizione solo apparentemente contraddittoria per Russia e Cina, che assomma il peggio del '900: fasciocomunismo.

Esito triste ma forse inevitabile per due nazioni che, a pensarci bene, nella loro storia millenaria (Russia) e bimillenaria (Cina) hanno potuto assaporare solo dieci anni di libertà e democrazia: la presidenza etilica di Eltsin, e il primo confuso Kuomintang di Sun Yat-sen dopo la caduta dell'ultimo imperatore nel 1912.

In entrambi i casi sono succeduti loro i signori della guerra. Ben prima dell'Ucraina, infatti, i generali di Putin hanno invaso Cecenia, Georgia, Siria. E i suoi mercenari Wagner sono in Libia, Mali, Centrafrica, Sudan. Ma, anche qui, niente di nuovo: il militarismo è sempre stato uno dei tratti caratteristici del comunismo. E non è scomparso il 9 novembre 1989 assieme al muro di Berlino. 

Wednesday, September 24, 2003

Discorso di Bush all'Onu

BUSH INSISTE, INSISTE, INSISTE. CHIEDE AI 'WILLING', AI VOLONTEROSI, DI AGIRE. 
CHIRAC INSISTE ANCHE LUI 

di Mauro Suttora

Il Foglio

New York, 24 settembre 2003



Con un discorso di 25 minuti sapientemente calibrato, ieri mattina alle 11 George W. Bush non ha ceduto di un millimetro sulla giustezza della liberazione dell'Iraq, ma ha allo stesso tempo usato toni soffici e di riconciliazione verso gli oppositori della guerra: "Alcune delle nazioni qui presenti non sono state d'accordo con la nostra azione", ha detto il presidente degli Stati Uniti, "ma siamo tutti uniti nella difesa della sicurezza e dei diritti umani. E ora guardiamo avanti".

Naturalmente Bush ha sollecitato gli altri Paesi a impegnarsi nella ricostruzione, ma è stato attento a legare assieme Iraq e Afghanistan, e invece di chiedere truppe ha preferito puntare più in generale sull'"aiuto ai popoli di queste due nazioni nel loro cammino verso la libertà e la democrazia". 

Bush ha avvertito che, dopo aver trasformato due anni fa "New York in un campo di battaglia e in un cimitero", i terroristi di Al Qaeda hanno attaccato a Bali, Mombasa, Casablanca, Riad, Giakarta e Gerusalemme, e che quindi "si sono messi contro tutta l'umanità. Essi non trovano posto in alcuna fede religiosa, e non dovrebbero avere alcun amico in questa sala".

Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole  in questa sala". Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole la pace e l'ordine, dall'altra i banditi e assassini che seminano il caos".

Particolarmente forte è stato l'omaggio a Sergio Vieira de Mello, il capo della missione Onu a Bagdad ucciso in agosto assieme ad altri 22 funzionari. E subito dopo Bush ha definito la guerra contro Saddam come "conseguenza delle risoluzioni Onu" che gli chiedevano di disarmare: "Queste conseguenze ci sono state, oggi l'Iraq è libero e qui con noi ci sono ora i suoi rappresentanti. Non più camere di tortura, celle per gli stupri, killing fields e cimiteri collettivi: oggi in Medio Oriente la gente è più sicura perché un alleato del terrorismo è caduto".

Bush ha astutamente mescolato l'azione delle Nazioni Unite a quella degli Stati Uniti nel descrivere l'attuale situazione in Iraq: "L'Unicef sta vaccinando il 90 per cento dei bambini, il Programma per l'alimentazione mondiale sta distribuendo mezzo milione di tonnellate di cibo al mese. In un Paese dove il dittatore si costruiva lussuosi palazzi mentre lasciava crollare le scuole, stiamo ricostruendo mille edifici scolastici e stiamo ripristinando gli ospedali.
Saddam comprava armi mentre le infrastrutture decadevano, noi abbiamo intrapreso il maggior programma di aiuto dopo il piano Marshall e onoreremo le nostre promesse all'Iraq".

Insomma, per uscire dall'incipiente 'quagmire' (palude, pantano) dell'Iraq, Bush si rivolge a quello che la maggioranza degli americani considera il tempio del 'quagmire': l'Onu, dove un anno fa il presidente degli Stati Uniti aveva annunciato la sua nuova dottrina della guerra preventiva, prefigurando quindi la liberazione di Baghdad.

Un sondaggio Cnn/Usa Today lo avverte che 48 statunitensi su cento ritengono ora che non valesse la pena andare in Iraq, e il suo gradimento è calato dal 70 per cento di aprile all'attuale 50. Ma lui, intervistato l'altra sera dalla Fox Tv di Rupert Murdoch, assicura di non preoccuparsene: "I've got a job to do, ho un lavoro da fare, e mi giudicheranno gli elettori fra un anno".

C'è chi dice che non basta

Niente concessioni quindi a Jacques Chirac (che ha parlato subito dopo, chiedendo "il rapido trasferimento agli iracheni della sovranità sul proprio Paese"): "Nessuna fretta e nessun ritardo da parte nostra, in Iran il ruolo dell'Onu si può allargare per assistere nella scrittura della Costituzione e nell'organizzazione delle elezioni", ma nulla di più.

Lo scorso inverno, per gli ultimatum a Saddam, la Francia parlava di mesi mentre gli Stati Uniti ragionavano in termini di settimane. Oggi è l'esatto contrario: Parigi vorrebbe un governo iracheno nel giro di poche settimane, Washington parla di mesi. E Colin Powell, intervistato da Charlie Rose, ha buon gioco nello spiegare che "è nell'interesse degli stessi dirigenti iracheni non bruciarsi in questo momento", e nel prevedere "sei mesi per la Costituzione, un anno per il voto".

In ogni caso, nessuno parla più di trasferimento dei poteri all'Onu. L'appello di Bush è sempre individuale, ai Paesi "willing", volenterosi: "Tutte le nazioni di buona volontà dovrebbero farsi avanti per aiutare il popolo dell'Iraq". Basterà?

Fareed Zakaria, direttore di Newsweek, è scettico: "C'è un vuoto di leadership nel mondo in questo periodo, come ha dimostrato anche il fallimento di Cancun. L'unilateralismo di Bush ha prodotto un multilateralismo caotico, di cui gli Stati Uniti stanno perdendo il controllo".

Il prestigioso Council on Foreign Relations avverte: "L'Amministrazione agisca con urgenza per ridurre il crescente antiamericanismo che si sta sviluppando in Europa e nel mondo arabo.
Mauro Suttora 

Wednesday, April 16, 2003

Iraq and the U.N.

THE LAST THING IRAQIS NEED

Newsweek, April 21, 2003

Keeping luxury hotels occupied is perhaps the main contribution of U.N. officials to the local economies they are unsuccessfully advising

by Mauro Suttora

http://www.newsweek.com/last-thing-iraqis-need-134083

Unfortunately, I am a lousy tennis player. Otherwise I would have had a great time in Sao Tome, a wonderful equatorial island off the Atlantic coast of Africa. My friend, a United Nations employee, played every day, early in the morning and at twilight, when the temperature was bearable. The tennis courts belonged to the only five-star hotel in the capital. The rest of the hot day, he retreated into the air-conditioned hotel, where he sometimes held meetings. I was the only 'normal' guest. All the others belonged to one U.N. agency or another, and I found this to be true for many of the luxury hotels in Africa. Keeping them occupied is perhaps the main contribution of U.N. officials to the local economies they are unsuccessfully advising.

I am amazed that as Saddam Hussein statues were toppled all over Iraq last week, all my fellow Europeans could talk about was the importance of U.N. rule in the country, and the danger of a long-term American occupation. They've got it backward. Wherever the United Nations goes, it tends to stay forever, and to perpetuate problems. It's been in Bosnia for eight years now, in Kosovo and East Timor for four, in the Palestinian territories since '48. In Gaza the U.N. agency running the refugee camps is the main purveyor of jobs. I am a refugee's son myself: my father fled the territories that Italy lost to Yugoslavia in 1945. After a few months all 350,000 refugees had found jobs, houses, new lives. There was no U.N. presence, which was perhaps their good fortune.

Today there is no sign that the United Nations will leave Bosnia or Kosovo. No solution for Cyprus after almost 30 years. Nevertheless, 'U.N.' has become a magic phrase, the last redoubt for pacifists. Even my paper - the largest Italian weekly, normally quiet and middle-of-the-road - has turned pacifist: for Christmas it published an article by a Catholic bishop against the war, and as counterbalance an article by a former communist against the war.

I was once a pacifist demonstrator myself, fighting the placement of U.S. nuclear cruise missiles in Sicily. But now I don't mind anybody getting rid of Saddam, by any means necessary. We Italians should know: Rome invented the word 'dictator', the first modern dictator was Italian (Adolf Hitler was a pupil of Benito Mussolini) and even Silvio Berlusconi, our current premier, has been called by his adversaries the model of the postmodern media dictator. Nevertheless, Europeans don't care anymore about dictators (or freedom). They rave about peace. They crave the United Nations.

Now, pardon my bluntness, but why should we condemn the poor Iraqis to be governed by lazy and incompetent bureaucrats? It's no secret that the United Nations has more tolerance than most for petty despots: Libya currently holds the presidency of the U.N. Human Rights Commission. The U.N. bureaucracy is a Gogolian monster with 65,000 employees and a budget of $2.6 billion a year. For each problem the United Nations has set up a special agency, and this week in Vienna the UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime - the longer the name, the more wasteful the body) is discussing how the war on drugs is going. It's a disaster, actually: halfway through a 10-year effort to eradicate drug cultivation, production has soared. Is the agency closing down because of this failure? No, it's asking for new funds.

The system is corrupt. When I give money for the hungry, I send it directly to the missionaries instead of UNICEF or the World Food Program or anyone else whose first-class air-travel budget could feed tens of thousands. UNESCO is a successful Paris job-creation program for sociologists and intellectuals, famous for overhead expenses that eat up as much as 80 percent of some programs. Officials of the Human Rights Commission have been sent home for allegedly trafficking women and young girls for prostitution in Bosnia. At the U.N. High Commissioner for Refugees (yearly budget: $740 million), four officials have been arrested for smuggling refugees. The U.N. apparatus has grown so much that in 1994 a new Office for Internal Oversight Services was established to keep track of everyone. It promptly hired 180 more people, at an extra cost of $18 million a year.

Has the United Nations really proved its competence in dealing with Iraq? Past experience says no: not only did the Oil-for-Food Program allow Saddam and his cronies to pocket large sums, but an audit found the program had overpaid $1 million for services. U.N. officers are well paid: six-digit tax-free salaries in dollars, plus innumerable allowances. Most of them are decent people, frustrated by their own red tape. But why on earth should they go to Baghdad? Let them play tennis elsewhere.

Suttora is U.S. bureau chief for Oggi (Rizzoli Corriere della Sera) in New York.

© 2003 Newsweek, Inc.



Newsweek

May 26, 2003, Atlantic Edition

SECTION: LETTERS; Pg. 16

Mail Call

Mauro Suttora's April 21 piece on the U.N.'s ineptitude ignited a heated debate among readers. "A great article!" cheered one. "The U.N. has proven weak and useless," chimed another. But the U.N.'s defenders accused us of "tabloid journalism." One reader simply urged that the U.N. be rehabilitated.

The U.N. Under Attack

I was disappointed to see NEWSWEEK descend to tabloid journalism with Mauro Suttora's "The Last Thing Iraqis Need" (April 21)--a farrago of gossip, unsubstantiated assertions and outright falsehoods masquerading as reportage. Allow me to rebut the most egregious of his misstatements. He says, "Today there is no sign that the United Nations will leave Bosnia," but we have already left. The U.N. troops have been gone since 1996, and we closed down our civilian mission last year. The U.N.'s role in East Timor changed with that country's independence in 2002; we are now there only at the government's request, to assist the authorities, not supplant them. The U.N. has 9,600 employees, not 65,000; even counting every international organization in the U.N. system--including the World Health Organization and the International Labor Organization--Suttora's calculation is excessive. U.N. staff do not fly first class; only the secretary-general does. Suttora twists facts to substantiate his prejudices: he even criticizes the establishment of a tough audit mechanism, the Office of Internal Oversight Services, whose effectiveness is acknowledged by the U.N.'s major contributors. The U.N. may not be perfect, but its record needs to be examined with more accuracy and integrity than in this article that is unworthy of your magazine.

Shashi Tharoor
Under Secretary-General for Communications and Public Information
United Nations
New York, N.Y.


It was a pleasure reading Mauro Suttora's article on the United Nations. The fact that the U.N. is inefficient, inadequate and ineffective is, of course, not a closely guarded secret, but it is important for those who fund it, or perceive it to be a sort of savior, to be aware of this and of some of the reasons behind the U.N.'s blatant ineffectiveness.

Morris Kaner
Givatyim, Israel


What a great article! It's time someone spoke out against the United Nations with a few home truths. Anyone who follows international affairs knows that the U.N. has proved weak and useless in most cases. You can't blame America and England for not paying their U.N. dues when they are the ones invariably forced to do the work the U.N. is incapable of completing, thanks to its incompetence. The last vestige of respect was gone when the U.N. backed down, under pressure from Israel, from sending a committee to investigate the atrocities and damage caused by the Israeli invasion of refugee camps in the Palestinian territories. There may be many dedicated, well-meaning workers in the U.N., but the organization has lost its credibility as an effective operation. If Iraq is to get on its feet again, don't let it fall into the hands of the U.N.

Kaye Krieg
Inzlingen, Germany


As a Vietnamese refugee, I personally experienced the incompetence of the United Nations High Commissioner for Refugees. Coming to Britain, I've seen the corrupt nepotism and cronyism of charity/voluntary organizations. There are too many bosses, no one can assert authority and there's no competition for them whatsoever. The U.N. needs to be rehabilitated.

Thong V. Lam
Newcastle-Upon-Tyne, England


As a U.N. official with a 25-year career in many refugee-crisis situations in the world, I'm shocked by Suttora's vicious article. He singles out some shortcomings of the U.N. and blows them out of proportion. This is a body that can be only as good as the individual entities that constitute it. Not only have I never flown first class, but my colleagues and I often work under unbearable conditions--lacking both basic amenities and physical safety. U.N. salaries are comfortable but not competitive with those in the private sector or some foreign services. "Staff assessment," equivalent to our nations' income tax, is deducted from our gross salary. We take pride in our humanitarian work and serve without political bias in accordance with the U.N. Charter. We help innocent civilians who have suffered persecution or violence to rebuild their lives. Those of us who work in the field often have to live without electricity, running water or heating. Many U.N. workers have been taken hostage, sustained injuries, even lost their lives while performing their duty. As for the UNHCR, the yearly budget cited by Suttora would hardly cover the support we offer to 21 million refugees and other similarly displaced people. The UNHCR has twice won the Nobel Peace Prize; we're proud to have repatriated millions of people, enabling them to live normal lives. Yes, there are shortcomings in the U.N. system. But the last thing the world needs is the denigration of the one international humanitarian body that gives states a forum where differences can be reconciled. What the United Nations needs is for all--individuals, states and the media--to help us best fulfill our humanitarian task. If we fail, there is no substitute.

Marion Hoffmann
Representative of the United Nations High Commissioner for Refugees in Albania
Tirana, Albania


The United Nations' presence in Iraq is an issue that cannot be dealt with in an ironic, one-sided op-ed piece like Mauro Suttora's. It is true that the U.N. system is not run efficiently and that its peacekeeping operations have rarely managed to facilitate peace. What Europeans want is not U.N. "rule" in Iraq, as Suttora says, but its "role" in international legality. This opens up important issues that transcend the functioning of the United Nations and go to the very core of the debate on American imperialism. It's reductive to rule them out with the sarcastic comments of an Italian tabloid journalist.

Fabrizio Tassinari
Copenhagen, Denmark

© 2003 Newsweek

Wednesday, December 04, 2002

Iraq: gli ispettori Onu

Non troveranno niente, ma Bush scatenera' lo stesso la guerra

Chi sono, come lavorano e quali prospettive hanno i 250 ispettori dell' Onu giunti a Baghdad per verificare l' esistenza di armi "proibite"

I controlli del piccolo esercito delle Nazioni Unite, che comprende tre italiani, dureranno due mesi e dovranno identificare eventuali arsenali nucleari e batteriologici. Ma anche se in Iraq le verifiche non porteranno a nulla, le continue minacce di Al Qaeda di nuovi attentati potrebbero offrire al presidente americano la miccia per un attacco finale a Saddam

dal nostro corrispondente Mauro Suttora

New York, 4 dicembre 2002

Entrare nel palazzo dell'Onu a New York fa impressione. Il grattacielo costruito cinquant'anni fa dall'architetto Le Corbusier su un terreno regalato dal miliardario John Rockefeller è imponente, e mette soggezione. Siamo qua perché vogliamo sapere chi sono e a che cosa servono i 250 uomini che in queste settimane tengono in mano i destini del mondo: gli ispettori dell'Unmovic, sigla complicata che significa Commissione delle Nazioni Unite per il Monitoraggio, la Verifica e l'Ispezione. Ancora più complicato è stato il cammino che ha portato alla nascita di questa Commissione: più di due mesi di negoziati durante i quali gli Stati Uniti, che a settembre avevano annunciato il proprio imminente attacco all'Irak, hanno dovuto invece piegarsi alle regole estenuanti della diplomazia internazionale.

Già il fatto che nel nome ufficiale della Commissione non appaia il nome Irak la dice lunga sulle difficoltà che ha incontrato il presidente statunitense George Bush junior per far approvare la ripresa dei controlli sul regime di Saddam Hussein. «Nessuna Commissione ad hoc, con citazione esplicita del nome del Paese sotto inchiesta», hanno chiesto e ottenuto i Paesi critici dell'approccio «muscolare» dell'amministrazione di Washington.

Russia e Francia hanno anche imposto un calendario lunghissimo per le ispezioni: si esaurirà soltanto il 27 gennaio, con la presentazione di un rapporto finale al Consiglio di sicurezza. Il dittatore dia (chiamate ABC dagli esperti: atomiche, batteriologiche e c Baghdad non ha rinunciato alle proprie armi di distruzione di massa (chiamate ABC dagli esperti: atomiche, batteriologiche e chimiche)? E' quello che sostengono gli Stati Uniti. Ma riusciranno gli ispettori a dare una risposta sicura? Sono in parecchi a dubitarne.

Fra i 250 esperti Onu ci sono tre italiani. «Non possiamo divulgare né i loro nomi né le loro fotografie», ci risponpondono all'ufficio stampa dell'Onu. Proibita anche ogni intervista individuale. L'unico autorizzato a parlare, in queste delicate settimane, è il capo degli ispettori Hans Blix.

Ma che cosa sperano di trovare i suoi uomini? Davvero pensano che Saddam tenga in bella vista depositi di gas nervino, o laboratori biologici che ormai possono nascondersi anche dentro un semplice camper? E se li trovano che cosa fanno, li distruggono sul posto con le loro alabarde spaziali?

Su questo all’Onu non c’è chiarezza. Secondo gli Stati Uniti, infatti, la risoluzione approvata all’unanimita’ (15 voti a zero) il 7 novembre dal Consiglio di sicurezza permette un intervento militare immediato se Saddam si azzarda a dire anche una sola bugia. Francia e Russia, invece, pretendono un’altra risoluzione che preveda esplicitamente la guerra.

Me se in Irak non si troverà niente, come è probabile, questo non vorrà dire che Saddam non ha le armi Abc. Quelle chimiche le ha già usate prima contro l’Iran, poi nel 1988 contro la città curda ddi Halabja. E allora, a che servono gli ispettori se la guerra si farà comunque? Sembra quasi di essere tornati al 1914, quando l’Austria cercava il pretesto per attaccare la Serbia, o al 1939, quando Adolf Hitler scatenò la guerra per incorporare Danzica.

Scott Ritter, 41 anni, l'ex ufficiale dei marines statunitensi che ha guidato le ispezioni in Irak della precedente commissione, l'Unscom (United Nations Special Commission), dal 1991 al 1998, oggi è critico. Ritter era un repubblicano, un uomo di destra, e per quasi dieci anni fece vedere i sorci verdi a Saddam. Con i suoi cento ispettori, sostiene, «costringemmo gli irakeni a rinunciare al 90-95 per cento dei loro armamenti più pericolosi».

Oggi invece gli ispettori si sono moltiplicati, arrivando a 250 per accomodare ben 45 nazionalità diverse. Risultato: «Avranno difficoltà perfino a comunicare fra loro», prevede l’ex ispettore Jonathan Tucker, «e la necessità di traduzioni rallenterà il lavoro». Tutti hanno dovuto frequentare un corso di ben cinque settimane sulla cultura e la politica in Irak. «Ma se si tratta di esperti, non hanno bisogno di alcun corso», rileva un altro ex ispettore, Tim Trevan. «Viceversa, se esperti non sono, non possono certo diventarlo dopo sole cinque settimane».

Saddam detestava Ritter, lo accusava di essere una spia al servizio di Stati Uniti e Israele. Che molti degli «esperti» infilati da vari governi nelle commissioni Onu di verifica (come quelle sul rispetto dei trattati Salt o per il disarmo chimico) passino informazioni ai propri servizi segreti, d'altronde, non è un mistero. Anzi, è una pratica che si dà ormai per scontata. Ma ovviamente gli iracheni continuano a protestare per questo, e lo hanno fatto anche negli ultimi giorni, con una dettagliata lettera inviata sta inviata

Friday, September 30, 1988

Parlano i curdi gasati da Saddam

Viaggio nei campi profughi curdi

UN POPOLO SENZA

Non hanno una terra, oggi divisa tra Turchia, Iran, Irak e Siria. Non hanno un leader né un progetto unitario. Per questa antica gente c'è una sola speranza: la guerra altrui

dal nostro inviato speciale Mauro Suttora

Europeo, 30 settembre 1988

Dyarbakir (Turchia). "Il 25 agosto, alle sei del mattino, stavo dormendo. Mio fratello mi ha svegliato all'improvviso gridando 'Scappa Guhdar, scappa, gli aerei dell'Irak stanno arrivando'. Ho avuto solo il tempo di mettermi queste scarpe e di fuggire con lui nel bosco dietro il villaggio. Stavamo a Spendarok, nella valle del fiume Habur, prima della città di Zaku".

Guhdar Muhmad Salih è un bel ragazzino curdo di 12 anni, capelli nerissimi e occhi grandi. Racconta la sua storia nel campo profughi di Dyarbakir, in Turchia, dove da pochi giorni hanno trovato rifugio 12mila donne, uomini, vecchi e bimbi curdi. Si riposano sotto le tende bianche montate dal governo di Ankara in un terreno sulla riva del fiume Tigri. Solo per pochi metri non siamo in Mesopotamia: sull'altra sponda inizia infatti la regione più carica di storia di tutto il mondo, la terra "in mezzo ai fiumi" dove si sono succedute ventisette civiltà. E dove ora succedono le massime inciviltà.

Tigri ed Eufrate nascono qui in Turchia prima di ansimare in mezzo ai deserti siriano e iracheno e gettarsi infine, uniti, nel Golfo Persico. Chissà, forse un antenato di Guhdar, il ragazzino che adesso i soldati iracheni hanno cacciato dalla sua valle, era un fiero sumero e 4.000 anni fa già combatteva per il possesso di questa terra magica, improvvisamente fertile dopo gli aridi altipiani dell'Anatolia e prima delle sabbie arabe.

Ma quattromila anni di storia sembrano aver insegnato poco agli uomini. Proprio nella culla del mondo, poco a sud del monte Ararat dove si incagliò Noè con i suoi tre figli pronti a ricominciare (a vivere e ad ammazzarsi), sta ricominciando un dramma: quello dei profughi. Curdi, questa volta. Un amaro debutto, con una novità: il gas chimico che gli iracheni sono accusati di aver utilizzato per spingerli via dalla loro terra.

Quello di Dyarbakir è il più grande dei sei campi che ospitano i rifugiati curdi in Turchia. Quanti siano nessuno lo sa: dai 50 ai 120mila, a seconda delle cifre ondeggianti fornite di giorno in giorno dai funzionari turchi. È curioso come la gente da queste parti, dopo averli inventati, abbia perso ogni confidenza nei numeri. Così, il tragico destino dei curdi sembra essere quello del silenzio, dell'incredulità, dell'indifferenza internazionale.

L'opinione pubblica è annoiata e disattenta: i profughi non sono per definizione palestinesi o afghani, o al massimo vietnamiti? E poi, Irak e Iran non hanno appena fatto la pace? Cosa vogliono ancora questi curdi dai nasi adunchi che rapiscono i tecnici italiani in Irak e forse hanno perfino ammazzato Olof Palme? Che se ne stiano calmi nelle loro montagne, e ci facciano continuare tranquilli i nostri affari con Baghdad.

"Israele è più democratico dell'Irak", si lamenta Akram Maji, 32 anni, barbuto partigiano da sette, "perché lascia vedere a tutto il mondo cosa succede ai palestinesi. In Irak invece durante una sola giornata possono essere ammazzati anche mille curdi, ma nessuno lo sa, nessuno lo vede in tv, nessuno ci crede. E anche quando lo sanno, i vostri governi tacciono. Nessuno di loro domanda all'Irak: perché uccidete così la vostra gente?"

Sotto la tenda 222, in mezzo al campo profughi di Dyarbakir, mentre Akram parla nel suo incerto inglese, arrivano altri "peshmerga" (partigiani) giovani e anziani. Si tolgono le scarpe da ginnastica che portano incongruamente assieme alle divise verdi e kaki senza gradi, e si siedono silenziosi per terra, sui tappetini, le stuoie, i sacchi a pelo. Fuori il sole batte forte, 35 gradi all'ombra, e i numerosissimi bambini scorrazzano da una tenda all'altra.

Oltre ad Akram, laureato all'università di Bassora (è ingegnere agricolo), parla inglese anche un ex maestro elementare: nel '79 non aveva voluto diventare membro del partito unico iracheno Baas perdendo così il posto di lavoro, e nell'85 è diventato partigiano perché, dopo essersi rifiutato di denunciare un suo fratello guerrigliero, gli iracheni lo avevano cacciato dalla sua casa.

Allora, queste armi chimiche? Come mai i medici turchi non hanno trovato nessun segno del loro uso su di voi? "La mattina del 25 agosto io ero nel principale campo militare dei peshmerga vicino a Zaku", racconta Akram, "e gli aerei dell' Irak hanno bombardato con armi chimiche. Ce ne siamo accorti subito , perché sono silenziose, non fanno rumore. Il campo era nascosto fra gli alberi, non ci hanno preso. Ma in un villaggio vicino, Tuka, sono morti tutti gli abitanti, e anche gli animali e le galline. La voce delle bombe chimiche è bassa, non c'è sangue. Noi non abbiamo nessuna difesa, nessuna maschera antigas, ho mandato un gruppo dei miei uomini a seppellire le vittime, ma non ce l'hanno fatta: sono ritornati con gli occhi rossi, non riuscivano a respirare".

È la prima volta che venite attaccati chimicamente?
"Sì, per lo meno nella nostra area: sapevamo che gas chimici erano già stati usati dagli iracheni contro gli iraniani e anche contro i curdi nella zona di Suleiman e poi, qualche mese fa, per distruggere completamente Halabja. Quindi ce l'aspettavamo. Quello che invece non prevedevamo era un bombardamento preventivo a tappeto contro tutti i villaggi, contro le donne, i vecchi, i bambini. Pensavamo che avrebbero usato le armi chimiche solo contro di noi, nei punti di resistenza, per farci sloggiare dagli accampamenti militari".

E la tua famiglia, Akram?
"Non sono sposato. La famiglia dei miei genitori è scappata in Iran qualche anno fa. Ma ho dei cugini in Irak, e non so nulla di loro. Ho paura che i militari li ricattino per causa mia".
"Io ho visto la nuvola gialla che i gas tossici formano quando arrivano a terra", dice l'ex maestro elementare. "Le bombe chimiche non esplodono, non fanno schegge, non provocano ferite. Fischiano silenziose e si sentono soltanto con il respiro e l'odore. Ad alcuni dei feriti uscivano acqua e sangue dal naso e dalla bocca, ma sono morti molto in fretta, dopo appena mezz'ora".

E tu, piccolo Guhdar, le bombe chimiche le hai viste?
"La mattina che sono scappato ho visto sei o sette aerei che stavano bombardando il villaggio di Zawik… E nulla più".

Tutti i curdi che incontriamo nel campo di Dyarbakir, sia civili sia peshmerga, sono unanimi: "Gli iracheni ci hanno bombardato con i gas".
Prove, segni concreti, nessuno: solo Behcet Naif, 20 anni, nel villaggio di Barhol (sempre nella valle dell'Habur, fiume che nasce in Turchia e poi finisce nel Tigri in Irak), appena saputo che sono "gazeteji", giornalista, si apre i primi due bottoni della camicia militare e mi chiede di fotografargli il collo: "Con il gas la gola si era tutta gonfiata, mi era diventata rossa anche la pelle fuori".
Adesso, però, non c'è molto da constatare.

Insomma, l'uso dei gas è destinato a rimanere un mistero: che abbiano ragione i Paesi della Lega araba, i quali hanno espresso compatta solidarietà all'Irak? Che abbia ragione l'Irak, che accusa i giornali occidentali di montare una campagna diffamatoria?
Eppure gli Stati Uniti hanno dichiarato di possedere prove certe dell'uso di armi chimiche contro i curdi, e dieci Paesi dell'Onu hanno chiesto di mandare una commissione investigativa in Irak. Rifiutandola, il governo di Baghdad diventa automaticamente poco credibile.

Il primo ministro turco Turgut Ozal è arrivato venerdì 16 settembre in pompa magna a Dyarbakir, per visitare il campo profughi assieme alla moglie Semra. Ne ha approfittato per fare anche un po' di campagna elettorale in vista del referendum del 25 settembre (su un piccolo cambiamento costituzionale) che perderà sicuramente.
Ozal si è spostato in giro per Dyarbakir su un pullman carico di altoparlanti che trasmettevano musica, e con sul tetto una quantità incredibile di agenti in divisa e in borghese col mitra spianato.

Durante la conferenza stampa internazionale di Ozal a Dyarbakir è successo un fatto molto strano, che però spiega varie cose. Anzi, quasi tutto. Il premier turco è stato molto attento a non pronunciare mai due parole: curdi e armi chimiche. Perché?

La parola "curdo" è da sempre tabù in Turchia. Anche qui come in Irak, infatti, c'è una fortissima minoranza curda: dieci milioni di abitanti su 50, concentrati tutti a sud est, nella parte turca del Kurdistan (altra parola proibita in Turchia: un funzionario della Mezzaluna rossa la Croce rossa islamica si è arrabbiato quando gli ho detto che andavo a visitare i profughi in Kurdistan. "Il Kurdistan in Turchia non esiste", mi ha risposto seccato).

Ankara considera i propri curdi una grave minaccia per lo stato fondato da Kemal Ataturk nel 1920. Dappertutto a Dyarbakir, capoluogo di questa nazione fantasma, sono dipinti in caratteri giganti i proclami del defunto padre della patria: "Dalla Tracia a Dyarbakir, da Istanbul a Van, siamo tutti turchi".
Così, per non pronunciare la parola maledetta, Ozal definisce oggi i profughi curdi come cittadini iracheni.

Quanto all'altra parola chiave, i gas chimici, Ozal ha graziosamente evitato di menzionarli per non rovinare i rapporti con l'Irak. Rapporti ottimi: nei primi cinque mesi del 1988 l'export della Turchia verso l'Irak è aumentato del 154 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, raggiungendo la cifra record di 773 milioni di dollari (più di mille miliardi di lire), e che anche le importazioni sono raddoppiate.

Durante gli otto anni della guerra Iran-Irak la Turchia è riuscita a mantenersi equidistante fra i due contendenti, e anche i rapporti con Teheran sono buoni. Ma, sempre per andare sul concreto, l'export turco verso l'Iran nei primi cinque mesi di quest'anno è stato di appena 164 milioni di dollari.

Insomma, la Turchia ha molti più interessi in Irak che in Iran. Nessuna meraviglia, quindi, per l'estrema cautela di Ozal. Cautela peraltro ricambiata dai profughi curdi, ai quali dei curdi che vivono in Turchia, Siria e Iran non importa niente. Perlomeno, questo è quanto risponde diplomaticamente Akram Qun quando gli chiedo cosa pensa del Pkk, il Partito dei lavoratori curdi che si batte per l'indipendenza dei curdi di Turchia (soprattutto assassinando centinaia di connazionali accusati di collaborazionismo con il governo di Ankara): "Non so cosa dire, questi non sono problemi che ci riguardano, sulla Turchia non so nulla. Noi vogliamo solo l'autonomia del Kurdistan iracheno nell'Irak".

Sì, autonomia e basta: questi terribili peshmerga, coraggiosi guerrieri che furono gli unici a sconfiggere i mongoli, si battono in realtà per un obiettivo moderato: "Non chiediamo l'indipendenza, non vogliamo uno stato del Kurdistan libero. Vogliamo solo una vera autonomia da Baghdad, pur restando nell'Irak".

Questa è la posizione ufficiale del Pdk, il Partito democratico curdo al quale appartengono quasi tutti i profughi del campo di Dyarbakir. Il capo del Pdk è Masud Barzani e sta in Iran. L'altro partito dei curdi iracheni è il Puk , Unione patriottica curda, guidato da Jalal Talabani, che si appoggia alla Siria.

Contrariamente ai palestinesi, che sovente si ammazzano fra loro, i rapporti fra le due organizzazioni curde sembrano essere abbastanza buoni. Ma sarà molto difficile per entrambe far accettare il concetto di "autonomia" a Baghdad. L'unica autonomia che i curdi iracheni erano riusciti a conquistarsi negli ultimi anni era quella concessa dal vuoto della guerra Iran-Irak: "Tutto l'esercito era mobilitato contro Khomeini", spiega Akram, "e così noi al nord, a Mosul, Kirkuk e Zaku, eravamo riusciti a liberare gran parte del territorio. I soldati di Saddam riuscivano a controllare soltanto le strade principali e le città".

Ma quella che i partigiani curdi chiamano con orgoglio la loro freedom area si è sciolta come neve al sole nel giro di un mese quando Saddam Hussein, dopo la tregua con l'Iran, ha potuto traslocare il proprio esercito da est a nord. Con due risultati: riprendere il controllo del Kurdistan e dar qualcosa da fare ai 600mila militari per i quali è difficile trovare un lavoro civile dopo otto anni di guerra.

"Ma Hussein è forte solo perché i vostri paesi gli spediscono armi", accusa Akram. E qui c'è una sorpresa. Gli chiediamo se per caso il suo gruppo abbia preso qualche ostaggio occidentale in Irak. "Ma certo", sorride tranquillo Akram, "una volta, verso l'83-'84, abbiamo avuto come 'ospite' anche un italiano".
È il signor Antonio Chiaverini, il quale se adesso vuole rivedere i suoi carcerieri può andarli a trovare nel campo di Dyarbakir. Dove adesso le parti si sono capovolte, perché Akram e i suoi sono praticamente prigionieri del governo turco: nessuno può uscire dal campo, nessuno, tranne i giornalisti, può entrarci, e ai curdi non è permesso neanche comunicare fra loro da un campo all'altro.

Insomma , per ora più campi di concentramento che campi profughi. E i 500 mila abitanti di Dyarbakir, tutti curdi anche loro, tranne i poliziotti, i militari e i funzionari del governo, possono osservare i loro connazionali solo da lontano, col binocolo, dagli antichi spalti in basalto della città.
Mauro Suttora