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Friday, May 14, 2021

Israele - Hamas: Onu, il gigante di superpagati che se la prende comoda















Lenta risposta alla crisi di Gaza: riunione domenica, con calma, dove si dirà di far la pace

di Mauro Suttora



HuffPost, 14 maggio 2021 

Con comodo. Per affrontare l’ennesima guerra Israele-palestinese, il consiglio di sicurezza dell’Onu si riunirà “d’urgenza”. Cioè domenica: quando la guerra magari sarà già finita, con centinaia o migliaia di morti.

A che servono le Nazioni Unite? A poco. Forse a nulla, anche se è bello che nel grattacielo di Le Corbusier e Niemeyer a New York si faccia finta che ci sia un ‘governo mondiale’. 

Nessuna delle crisi e guerre degli ultimi decenni è stata risolta dall’Onu: Birmania, Siria, Libia, Somalia. Per non parlare dei bubboni fissi: Iraq, Afghanistan, Kosovo, Bosnia, Palestina. 

Uno stato pirata e assassino, quello dell’Isis, ha potuto prosperare addirittura per quattro anni senza che le Nazioni Unite riuscissero a coordinare la reazione di Russia, Siria e dei poveri curdi, spazzati via dalla Turchia dopo averci liberati dal flagello islamista.

Ma cos’è l’Onu, in realtà? Un gigante gogoliano con 115mila dipendenti e un bilancio annuo astronomico di 17 miliardi, pieno di burocrati pigri, incompetenti e superpagati, posseduti dall’irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.

Intendiamoci, la sua inefficienza non è maggiore di quella di apparati pubblici a qualsiasi livello: statale, regionale, comunale. Solo che i nostri inutili consiglieri di zona ci costano appena qualche gettone di presenza, mentre i funzionari onusiani incassano stipendi anche da 200mila dollari nelle loro comode sedi di Manhattan, Ginevra o Vienna (diverso è il discorso degli inviati sul campo di agenzie come il Pam, Programma alimentare mondiale, fondamentale per alleviare le carestie).

A volte poi i dirigenti Onu non sono inutili, ma dannosi: come quello dell’Oms che ha censurato un rapporto sul covid perché poteva “rovinare i rapporti” col nostro governo.

Ecco, sono i governi nazionali la rovina delle Nazioni Unite (così come dell’Unione europea, peraltro). Quelli di dittature come la Cina che bloccano ogni risoluzione contro regimi loro alleati (Birmania, Corea del Nord). 

Ma anche quelli corrotti di Paesi in via di sviluppo, che mandano a New York ambasciatori inetti, spesso amici o parenti del dittatorello locale, per fare la bella vita con le loro mogli: quella poltrona in alcuni stati è più ambita perfino di quella di ministro degli Esteri o premier.

Sono stato quattro anni corrispondente a New York, giornalista accreditato al Palazzo di Vetro. Ne ho viste di tutti i colori, da Powell che giurava sull’atomica di Saddam ai diplomatici Onu che parcheggiano ovunque in divieto di sosta perché la loro immunità li esenta dalle multe

Ma è nel Terzo mondo che le Nazioni Unite combinano i guai peggiori. Tiziano Terzani si scagliò contro le tangenti della missione in Cambogia. E negli interventi di peacekeeping e nation building bisogna pregare che i caschi blu non rimangano coinvolti in traffici sessuali, o non si voltino dall’altra parte come nelle stragi di Srebrenica e Ruanda.

Perché in realtà la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, e l’Ufficio antidroga che vorrebbe comicamente estirpare i papaveri afghani), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l’Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program).

Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c’è l’Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l’Upu (Unione postale universale), a Londra l’Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l’Icao (International Civil Aviation Organization).


Tutte queste simpatiche organizzazioni, prima della pandemia, passavano il tempo soprattutto apparecchiando conferenze leggendarie per spreco di risorse: si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo.

E’ normale che i dirigenti pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All’Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungevano l′80% del bilancio, i dipendenti si misero in sciopero della fame contro il nuovo segretario che voleva tagliare gli sprechi.


Ma i più abili, visto che stiamo parlando di Palestina, sono i dirigenti dell’Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l’Agenzia che da ben 72 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono oltre cinque milioni. 

Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 300 mila profughi istriani e dalmati (fra i quali mio padre) dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese, al massimo pochissimi anni, e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza Onu. 

Quattro generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l’assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l’economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall’Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi (ha 30mila dipendenti).

Cosicché domenica, quando con calma si riunirà il Consiglio di sicurezza, come sempre l’Onu farà finta che i suoi 50 eterni campi profughi non siano caduti in mano da decenni a Hamas ed Hezbollah, che predicano la distruzione di Israele, e inviterà entrambe le parti a deporre le armi. Salomonicamente. Anzi no: Salomone era ebreo, quindi innominabile come Israele sulle cartine geografiche arabe.

Mauro Suttora 

Tuesday, June 03, 2008

Mangiano pure sulla fame

PAPPONI MONDIALI

Si apre a Roma il vertice mondiale sulla povertà. Un ente internazionale che brucia quattrini senza fare nulla. Presenti anche capi di Stato che affamano i popoli. Come Mugabe e Ahmadinejad

Libero, 3 giugno 2008

di Mauro Suttora

Il quinto dittatore più longevo del mondo è atterrato a Fiumicino tranquillo e felice domenica notte con la moglie Grace. Ha conquistato il potere nel 1980 e non lo ha più mollato. Soltanto Gheddafi e altri tre despoti (il sultano del Brunei, Omar Bongo in Gabon e Dos Santos in Angola) tiranneggiano i loro popoli da più tempo.

Robert Mugabe ha 84 anni ed è ospitato a Roma nell’ambasciata del suo Zimbabwe, quartiere Prati. Mentre era in volo i suoi poliziotti in Africa hanno arrestato l’oppositore più prestigioso, il giovane scienziato Arthur Mutambara, assieme a decine di altri avversari politici.

Lo Zimbabwe è l’ex Rhodesia del Sud. Era un Paese florido, uno dei granai d’Africa. Gli inglesi se ne sono andati 28 anni fa, e da allora le cose sono costantemente peggiorate. Oggi i tredici milioni di sudditi di Mugabe sono fra i più poveri del mondo, ridotti alla fame. L’inflazione è del 156.000 per cento. Non è un refuso: significa che ogni giorno i prezzi quadruplicano. Fino a una dozzina di anni fa almeno c’era la libertà. Ora neanche più quella. Da liberatore, Mugabe si è trasformato in tiranno.

Nel 2002 ha truccato le elezioni per farsi rieleggere. L’Unione europea ha reagito proibendogli di venire nel nostro continente. Ma lui si fa gioco di questo divieto. Con la scusa che a Roma c’è la Fao (Food and agriculture organization), la quale come tutte le agenzie dell’Onu gode di extraterritorialità, fa una capatina in Italia ogni volta che può. L’ultima volta, a un vertice Fao del 2005, paragonò Bush e Blair a Mussolini e Hitler. Chissà cosa dirà questa volta.

Con la sua presenza a Roma, Mugabe sta facendo ombra perfino a un altro gentiluomo come l’iraniano Ahmadinejjad. Il ministro degli Esteri australiano Smith ha definito «oscena» la sua presenza al vertice contro la fame nel mondo: «Mugabe è responsabile della fame di cui soffre il suo popolo, e ha usato gli aiuti alimentari a fini politici». Due mesi fa ha perso di nuovo le elezioni, ma grazie ai soliti brogli ha ottenuto un ballottaggio per il 27 giugno. E ora è venuto a farsi un po’ di propaganda in Italia.

Il pretesto glielo offre uno dei tanti inutili vertici contro la fame di una delle tante inutili agenzie dell’Onu. La Fao, appunto. Il palazzo bianco della Fao sta vicino alle terme di Caracalla, un precursore di Mugabe. Fino al 2002 nel piazzale davanti alla Fao c’era l’obelisco di Axum. Poi l’Etiopia ha chiesto di riaverlo. L’Italia, chissà perché, ha acconsentito. Così l’obelisco è stato tolto e rispedito in Etiopia a nostre spese. Da allora giace abbandonato sotto una tettoia. Questo è il risultato dei complessi di colpa degli ex colonialisti.

Un altro risultato è che continuiamo a finanziare baracconi come la Fao. Ha quattromila funzionari. Duemila stanno «sul campo», nei posti dove si soffre la fame, e probabilmente qualcosa combinano. Gli altri duemila stanno a Roma, e si godono i loro stipendi da ottomila euro al mese esentasse. La Fao costa quasi 400 milioni di dollari l’anno. Poco, tutto sommato, se paragonati ai 300 milioni di euro che abbiamo appena deciso di buttare via per dare qualche altro mese di vita all’Alitalia. Ma tanto, se si scopre che gran parte del bilancio serve per pagare i dipendenti.

Come per l’Onu e l’Unesco, i tre quarti dei soldi vengono versati da undici Paesi (fra i quali non compaiono Cina e Russia, nonostante abbiano diritto di veto). Gli Usa pagano da soli il 25% delle spese, il Giappone il 20. Ma quando si decide come spendere, vale la regola della maggioranza. I membri della Fao sono 191. E il voto di San Marino vale quanto quello degli Usa.

L’inefficienza della Fao è leggendaria. Già nel 1960, visti gli scarsi risultati, fu creato il Pam (Programma alimentare mondiale), agenzia operativa per le emergenze sempre con sede a Roma. Esiste tuttora e funziona abbastanza bene. Negli anni ’70 si continua con la moltiplicazione degli enti: nascono il Wfc (World food council) e l’Ifad (International fund for agricultural development).

Vent’anni fa la Heritage Foundation, think tank Usa di destra, dimostra dati alla mano che l’inefficienza continua. E nel ’91 ai critici della Fao si aggiunge la rivista The Ecologist, bibbia degli ambientalisti, che decreta addirittura: “La Fao promuove la fame nel mondo, invece di combatterla”.

Niente da fare. La burobaracca sopravvive organizzando vertici su vertici. Quello del 2002 viene considerato uno «spreco di tempo» perfino da molti dei partecipanti ufficiali. Nel maggio 2006 si dimette Louise Fresco, assistente direttore generale della Fao, che ammette: “La nostra organizzazione è incapace di adattarsi alla nuova era,i suoi capi non propongono soluzioni per superare la crisi”.

Dopo il vertice del 2006 Oxfam, la più grande Ong (Organizzazione non governativa) privata contro la fame nel mondo, chiese di finirla con le «feste di parole». Un mese fa il presidente del Senegal ha ribadito: “Meglio chiudere la Fao”. Invece ora ci risiamo. Per tre giorni i potenti della Terra, dittatori e affamatori compresi, banchettano a Roma alla faccia degli affamati. Quelli che fanno qualcosa di concreto (i missionari, i volontari delle Ong) sono rimasti in Africa, in Asia, in America Latina.

Mauro Suttora

Saturday, March 04, 2006

Molestie sessuali

Oggi, 1 marzo 2006

Un superiore fa capire a un’impiegata che per conservare il posto deve andare a letto con lui. Un venditore fa commenti osceni su alcune clienti con i propri colleghi. La segretaria di uno studio legale viene messa in imbarazzo da avvocati i quali raccontano abitualmente barzellette spinte in sua presenza. Il cassiere di negozio tocca il sedere e il seno di una collega contro la sua volontà. I colleghi di un’operaia la prendono in giro chiamandola con nomi offensivi e allusivi al sesso. I dipendenti di una filiale inseriscono barzellette pornografiche sul bollettino intranet dell’ufficio. Un impiegato invia ai colleghi e-mail contenenti linguaggio erotico.

Sono sette esempi di condanne recenti per «sexual harassment» in California. Ormai negli Stati Uniti le cause per molestie sessuali sul luogo di lavoro intentate ogni anno sono migliaia. E centinaia di aziende vengono condannate anch’esse, assieme al reo, per «omesso controllo». I risarcimenti per danni morali ammontano a milioni di dollari. Così, dall’inizio dell’anno una legge impone che anche in California, come negli stati di Massachusetts, Connecticut e Maine, ogni società con più di cinquanta dipendenti organizzi un corso «antimolestie» di due ore ogni due anni, con frequenza obbligatoria.

Le situazioni citate all’inizio potrebbero essere punite anche in Italia? Oppure negli Stati Uniti va prendendo piede un nuovo puritanesimo che condanna qualsiasi riferimento al sesso? Per capire dove si situa il confine fra comportamenti leciti e approcci vietati, abbiamo interpellato la maggiore esperta americana del campo: Deborah Rhode, docente di diritto all’università di Stanford.

«Salve ragazze!».

«In questo campo non si può mai generalizzare», spiega la professoressa Rhode, «perchè tutto dipende dal contesto. Perfino un saluto apparentemente innocuo come “Hello girls!”, lanciato da un collega al mattino, può essere sanzionabile se l’ambiente di lavoro è carico di tensione, e se viene intenzionalmente rivolto a una dipendente che ha già subito approcci pesanti, se ne è lamentata in privato e poi con una denuncia formale scritta, ma nonostante questo continua a essere presa in giro e trattata come una ragazzina. Immaginiamo per esempio una distinta dirigente di mezza età la quale venga volutamente e ripetutamente equiparata a una “ragazza” che svolge mansioni inferiori da parte di superiori o colleghi: se risulta chiaro l’intento umiliante, può scattare la denuncia».

Molestare in silenzio.

«La maggior parte dei comportamenti punibili si situa in una zona grigia e ambigua. Per esempio, un dirigente può mettere in serio imbarazzo una dipendente anche solo fermandosi con eccessiva insistenza sulla porta della stanza di lei, continuando a osservarla senza un particolare motivo apparente. Il silenzio a volte è peggio delle parole. I tribunali sanzionano questo tipo di invasione della privacy. In alcuni casi ci sono stati richiami a impiegati che alzavano troppo la testa per spiare colleghe avvenenti sedute ignare alla loro scrivania».

Corteggiamento impossibile?

«Il capitolo dei complimenti e degli atti di cavalleria è immenso. Qui la regola generale è: nessun problema se sono graditi, ma semaforo rosso appena viene segnalato fastidio. Il “Come sei bella con questo vestito” può essere allo stesso tempo una semplice cordialità se detto en passant e sorridendo, oppure una simpatica forma di corteggiamento, oppure ancora un’intollerabile cafonata se pronunciata in modo viscido da un collega cui si è rifiutato un appuntamento la sera prima, e che ti blocca in corridoio guardandoti fisso negli occhi con aria viscida... Stesso discorso per le porte che vengono aperte, i regali, gli inviti, le occhiate, i commenti ad alta voce con altri colleghi. Se sono “unwelcome”, non apprezzati, meglio lasciar perdere subito».

Le avances di San Valentino

«Negli Stati Uniti la festa di San Valentino, 14 febbraio, viene festeggiata molto più che in Europa. Questo è l’unico giorno dell’anno in cui la locuzione “ti amo” cambia significato: ne assume uno molto più ampio, fuori da ogni riferimento romantico. In America anche semplici amici si scambiano cartoline di auguri di Valentine, per dirsi semplicemente “ti voglio bene”. Ma se il collega infatuato appicicaticcio, o peggio il dirigente affamato di sesso, approfitta del San Valentino per lanciare avances impensabili negli altri giorni, il comportamento finisce direttamente nel dossier a suo carico. E’ successo in diverse cause». Forse questo è il destino che attende qualche nostro focoso Romeo italiano che si spinge un po’ troppo oltre il mazzetto di mimose con la scusa della festa della Donna l’8 marzo...

Molestie «ambientali».

Susan Bisom-Rapp, docente all’università di San Diego (California) è anch’essa una veterana del diritto anti-molestie: «I tribunali statunitensi distinguono due forme di sexual harassment», spiega: «C’è quello diretto, sessuale, con inviti sia espliciti che impliciti. Ma c’è anche la molestia ambientale sul luogo di lavoro, ovvero una condotta continuata nel tempo che crea una situazione intimidente, ostile e offensiva. Per vincere questo secondo tipo di cause, occorre provare che il comportamento - da parte di una o più persone - è stato grave e pervasivo».

Calendari erotici.

«Per esempio», continua la Bisom-Rapp, «se un collega appende un calendario sconcio sopra la sua scrivania, la sua vicina può chiederne la rimozione. E’ un caso isolato, la responsabilità ricade soltanto sul singolo o sui superiori se non intervengono. Ma se tutti gli uomini di quella stanza o zona dell’open space coltivano pubblicamente le proprie piccole perversioni voyeuristiche, mettendosi ad appendere donne nude dappertutto in evidenza, e l’azienda resta inerte nonostante le sollecitazioni, allora la condanna in giudizio è pressochè sicura. Attenti anche a certi salvaschermo troppo spinti dei computer».

Niente sesso? Non ti promuovo.

«Il campo più delicato è quello delle discriminazioni: come provare di non essere stati promosse o di non avere ottenuto un aumento solo perchè non siamo state abbastanza ‘disponibili’? Come accusare qualche collega di essere la favorita del capo, per poi magari scoprire che non di divano si è trattato, ma di semplice amicizia, o sintonia, oppure anche di patente nepotismo - una parente, o figlia di amici - , cosa censurabile ma che non rientra nelle molestie sessuali indirette? In teoria una collega - anche lei stagista non pagata - di Monica Lewinski avrebbe potuto far causa per danni a Bill Clinton... Ma la giurisprudenza in questo campo è scivolosa. Anche se le vittime indirette di avances sessuali rifiutate (ma accettate da altre) a volte hanno ottenuto somme notevoli».

Presidente licenziato.

Per evitare problemi alcune società americane hanno adottato regole draconiane. L’anno scorso, per esempio, il presidente della Boeing ha dovuto dimettersi perchè aveva osato mettersi con una dipendente, sinceramente innamorata di lui: vietato dalle regole aziendali.

Bimbo di sei anni sospeso.

Il 30 gennaio, a Brockton (Massachusetts), un bambino di prima elementare è stato sospeso da scuola per tre giorni: aveva toccato una compagna di classe fra le cosce. «Stava solo giocando, anche la bimba lo ha toccato», ha protestato la madre, Berthena Dorinvil. Niente da fare: forse ora il ragazzino finirà sul Guinness dei primati come il molestatore sessuale più giovane della storia.

Perfino all’Onu...

Anche le Nazioni Unite hanno avuto problemi negli ultimi mesi: Carina Perelli, la dirigente uruguaiana che ha controllato le elezioni in Iraq, è stata denunciata non per avances dirette, ma per le «molestie ambientali» descritte prima. Solo che a lamentarsene non sono state donne, bensì uomini: perchè la Perelli è gay. Lei ha ribattuto fieramente: «Mi attaccano per invidia e per ragioni politiche: sono solo dei frustrati un po’ incapaci».

Mauro Suttora

Wednesday, September 24, 2003

Discorso di Bush all'Onu

BUSH INSISTE, INSISTE, INSISTE. CHIEDE AI 'WILLING', AI VOLONTEROSI, DI AGIRE. 
CHIRAC INSISTE ANCHE LUI 

di Mauro Suttora

Il Foglio

New York, 24 settembre 2003



Con un discorso di 25 minuti sapientemente calibrato, ieri mattina alle 11 George W. Bush non ha ceduto di un millimetro sulla giustezza della liberazione dell'Iraq, ma ha allo stesso tempo usato toni soffici e di riconciliazione verso gli oppositori della guerra: "Alcune delle nazioni qui presenti non sono state d'accordo con la nostra azione", ha detto il presidente degli Stati Uniti, "ma siamo tutti uniti nella difesa della sicurezza e dei diritti umani. E ora guardiamo avanti".

Naturalmente Bush ha sollecitato gli altri Paesi a impegnarsi nella ricostruzione, ma è stato attento a legare assieme Iraq e Afghanistan, e invece di chiedere truppe ha preferito puntare più in generale sull'"aiuto ai popoli di queste due nazioni nel loro cammino verso la libertà e la democrazia". 

Bush ha avvertito che, dopo aver trasformato due anni fa "New York in un campo di battaglia e in un cimitero", i terroristi di Al Qaeda hanno attaccato a Bali, Mombasa, Casablanca, Riad, Giakarta e Gerusalemme, e che quindi "si sono messi contro tutta l'umanità. Essi non trovano posto in alcuna fede religiosa, e non dovrebbero avere alcun amico in questa sala".

Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole  in questa sala". Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole la pace e l'ordine, dall'altra i banditi e assassini che seminano il caos".

Particolarmente forte è stato l'omaggio a Sergio Vieira de Mello, il capo della missione Onu a Bagdad ucciso in agosto assieme ad altri 22 funzionari. E subito dopo Bush ha definito la guerra contro Saddam come "conseguenza delle risoluzioni Onu" che gli chiedevano di disarmare: "Queste conseguenze ci sono state, oggi l'Iraq è libero e qui con noi ci sono ora i suoi rappresentanti. Non più camere di tortura, celle per gli stupri, killing fields e cimiteri collettivi: oggi in Medio Oriente la gente è più sicura perché un alleato del terrorismo è caduto".

Bush ha astutamente mescolato l'azione delle Nazioni Unite a quella degli Stati Uniti nel descrivere l'attuale situazione in Iraq: "L'Unicef sta vaccinando il 90 per cento dei bambini, il Programma per l'alimentazione mondiale sta distribuendo mezzo milione di tonnellate di cibo al mese. In un Paese dove il dittatore si costruiva lussuosi palazzi mentre lasciava crollare le scuole, stiamo ricostruendo mille edifici scolastici e stiamo ripristinando gli ospedali.
Saddam comprava armi mentre le infrastrutture decadevano, noi abbiamo intrapreso il maggior programma di aiuto dopo il piano Marshall e onoreremo le nostre promesse all'Iraq".

Insomma, per uscire dall'incipiente 'quagmire' (palude, pantano) dell'Iraq, Bush si rivolge a quello che la maggioranza degli americani considera il tempio del 'quagmire': l'Onu, dove un anno fa il presidente degli Stati Uniti aveva annunciato la sua nuova dottrina della guerra preventiva, prefigurando quindi la liberazione di Baghdad.

Un sondaggio Cnn/Usa Today lo avverte che 48 statunitensi su cento ritengono ora che non valesse la pena andare in Iraq, e il suo gradimento è calato dal 70 per cento di aprile all'attuale 50. Ma lui, intervistato l'altra sera dalla Fox Tv di Rupert Murdoch, assicura di non preoccuparsene: "I've got a job to do, ho un lavoro da fare, e mi giudicheranno gli elettori fra un anno".

C'è chi dice che non basta

Niente concessioni quindi a Jacques Chirac (che ha parlato subito dopo, chiedendo "il rapido trasferimento agli iracheni della sovranità sul proprio Paese"): "Nessuna fretta e nessun ritardo da parte nostra, in Iran il ruolo dell'Onu si può allargare per assistere nella scrittura della Costituzione e nell'organizzazione delle elezioni", ma nulla di più.

Lo scorso inverno, per gli ultimatum a Saddam, la Francia parlava di mesi mentre gli Stati Uniti ragionavano in termini di settimane. Oggi è l'esatto contrario: Parigi vorrebbe un governo iracheno nel giro di poche settimane, Washington parla di mesi. E Colin Powell, intervistato da Charlie Rose, ha buon gioco nello spiegare che "è nell'interesse degli stessi dirigenti iracheni non bruciarsi in questo momento", e nel prevedere "sei mesi per la Costituzione, un anno per il voto".

In ogni caso, nessuno parla più di trasferimento dei poteri all'Onu. L'appello di Bush è sempre individuale, ai Paesi "willing", volenterosi: "Tutte le nazioni di buona volontà dovrebbero farsi avanti per aiutare il popolo dell'Iraq". Basterà?

Fareed Zakaria, direttore di Newsweek, è scettico: "C'è un vuoto di leadership nel mondo in questo periodo, come ha dimostrato anche il fallimento di Cancun. L'unilateralismo di Bush ha prodotto un multilateralismo caotico, di cui gli Stati Uniti stanno perdendo il controllo".

Il prestigioso Council on Foreign Relations avverte: "L'Amministrazione agisca con urgenza per ridurre il crescente antiamericanismo che si sta sviluppando in Europa e nel mondo arabo.
Mauro Suttora 

Friday, May 30, 2003

Onu/5: lo scandalo Oil for Food

DAL PALAZZO DI VETRO ESCE ALLO SCOPERTO LO SCANDALO MAZZETTARO "PETROLIO IN CAMBIO DI CIBO": ECCO PERCHE' FRANCIA E RUSSIA HANNO CHINATO LA TESTA A USA E GB.

Mauro Suttora per Il Foglio

da New York, 30 maggio 2003

Come mai francesi e russi hanno chinato così docilmente la testa? Dopo la fine della guerra contro Saddam Hussein, Parigi e Mosca avevano negato per un mese e mezzo a Stati Uniti e Gran Bretagna ogni legittimazione Onu sull'Iraq occupato. La risoluzione approvata il 22 maggio, invece, non solo ha cancellato le sanzioni contro Baghdad, ma ha anche affidato il controllo del petrolio iracheno alle potenze vincitrici, ponendo fine al programma "Oil for Food" gestito dalle Nazioni Unite.

L'Oip (Office of the Iraq Program), nato nel 1997 e guidato a New York dal cipriota Benon Sevan, chiuderà entro sei mesi. Il miliardo di dollari che gli rimane in cassa andrà al nuovo Idf (Iraq Development Fund), e i contratti ancora aperti saranno rivisti. Il loro valore ammonta a dieci miliardi di dollari, di cui quasi la metà con società russe e francesi (3,7 miliardi le prime, un miliardo le seconde).

Seguono società giordane, egiziane e turche, coinvolte solo per ragioni di prossimità geografica. Durante i sei anni del programma le società russe hanno incassato in totale 7,3 miliardi di business. Secondo l'Egitto con 4,3 miliardi, poi la Francia con 3,7, quindi Giordania, Emirati Arabi e Cina con tre miliardi ciascuna. La Gran Bretagna ha avuto contratti per soli 200 milioni di dollari, quasi tutti nel settore sanitario.

L'ammissione: "Tutti lo sapevano"

L'imbarazzo che ha indebolito l'opposizione franco-russa alla risoluzione Onu, fino a liquefarla, deriva dalle rivelazioni delle ultime settimane: le Nazioni Unite avevano tollerato tangenti per miliardi di dollari a Saddam e ai suoi gerarchi. Così, mentre per dieci anni no global e "pacifisti" di tutto il mondo strillavano di bimbi iracheni che sarebbero stati affamati e uccisi dalle sanzioni, i soldi che dovevano sfamarli e curarli venivano intascati dal dittatore e dalla sua famiglia: "Tutti lo sapevano - ammette oggi perfino Sevan - e quelli che erano nella posizione di poter fare qualcosa non hanno fatto nulla. Io stesso non avevo i poteri necessari".

Secondo il programma Oil for Food tutti gli introiti della vendita del petrolio iracheno sarebbero dovuti confluire sul conto bancario Onu gestito dalla Banque Nazionale de Paris, per poi essere utilizzati in acquisti di derrate alimentari e attrezzature umanitarie. Invece le società estere prima pagavano Saddam e i suoi figli per ottenere i contratti, poi versavano loro tangenti fisse sul valore del grezzo estratto. La quota era di 15-25 cent al barile, che in alcuni casi salivano fino a 75 cent. Mezzo miliardo di dollari all'anno, per un totale di tre miliardi.

"Scoprimmo presto che dovevamo 'ungere' parecchia gente", denuncia l'uomo d'affari britannico Swara Khadir, "conservo ancora i documenti iracheni con le istruzioni su come depositare le tangenti in conti bancari giordani e svizzeri. I dirigenti iracheni non dovevano neppure fare la fatica di nascondere la propria corruzione, perché tanto i funzionari dell'Onu facevano finta di non vedere".

Un intermediario petrolifero russo si lamentò con l'Onu per aver dovuto pagare 60 mila dollari a Uday Hussein, figlio di Saddam, senza aver poi ottenuto il contratto: la somma fu versata in una banca di Amman, su un conto privato di Uday, i documenti furono inviati all'Onu, ma il Consiglio di sicurezza non ne tenne mai conto. Anche perché, incredibilmente, proprio le Nazioni Unite avevano affidato all'Iraq, e non ai propri amministratori, il compito di selezionare le società partecipanti al programma Oil for Food.

"Ovviamente molte di queste erano sospette - spiega John Fawcett, consulente della Brookings Institution per i diritti umani - si andava dalla mafia al terrorismo al riciclaggio di denaro sporco, fino a chiunque volesse fare un po' di soldi in fretta. Due società avevano soltanto un ufficio di facciata nel Liechtenstein". Come ha potuto l'Onu non accorgersi di questo verminaio? "Non siamo l'Fbi, il nostro non è un ufficio investigativo", si giustifica Sevan.

Quando le inchieste si fanno, sono dolori

Quando le inchieste si fanno, per le Nazioni Unite sono dolori. La settimana scorsa un rapporto del General Accounting Office (Gao) al Congresso americano ha rivelato che milioni di donne e bambini, cioè l'80 per cento dei venti milioni di profughi censiti nel mondo, finiscono in campi dove gli abusi sessuali sono diffusissimi: "L'Onu non fa abbastanza per controllare la situazione e addestrare il proprio personale", accusa il Gao, braccio investigativo del Congresso Usa. Vengono citati in particolare i campi profughi di Birmania, Congo e Liberia.

Attenzione: a puntare il dito non è l'amministrazione Bush, ma un convinto multilateralista e sostenitore dell'Onu come il senatore Joe Biden, massima autorità del partito democratico in fatto di politica estera (è capogruppo della commissione Esteri): "Donne e bambine, dopo aver sofferto le ingiurie della guerra e dei disastri naturali ed essere state costrette a fuggire dalle proprie case, finiscono in campi dove invece di essere protette vengono brutalizzate e qualche volta violentate". Per questo Biden ha proposto che gli Stati Uniti stanzino 90 milioni di dollari nei prossimi due anni per rendere sicuri i campi dei rifugiati e addestrare il personale.

Le stesse Nazioni Unite, in una loro inchiesta del 2001, avevano ammesso che lo sfruttamento sessuale dei profughi da parte di alcuni dei propri dipendenti era "un problema serio". Ciononostante, i dirigenti dell'Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees), guidata dall'ex premier olandese Ruud Lubbers, hanno dichiarato agli investigatori del Gao di non considerare necessari cambiamenti radicali: l'agenzia non nega l'esistenza del problema, ma assicura di avere già compiuto un significativo sforzo che "mira specificatamente a migliorare la capacità da parte del nostro staff di prevenire e rispondere alla violenza sessuale". La replica del Gao è drastica: "Mezze misure e cambiamenti parziali non risolveranno nulla".

Come quasi sempre capita quando un'agenzia Onu è accusata di inefficienza, si sollecitano nuovi finanziamenti piangendo miseria. L'anno scorso l'Unhcr ha dovuto tagliare il proprio bilancio (di 730 milioni di dollari annui) del 10 per cento, perché alcuni paesi non hanno versato le cifre promesse. Non è questo il caso dei tanto deprecati Stati Uniti, che hanno contribuito per 265 milioni di dollari, circa un terzo del bilancio.

La verità è che il problema, più che nei fondi, sta nella loro distribuzione: l'Onu non manda i propri funzionari dove ce n'è più bisogno. Per esempio, soltanto il quattro per cento dei profughi sono in Europa, ma il 22 per cento del personale è stanziato qui, in uffici relativamente comodi. Viceversa, l'Africa "produce" l'80 per cento dei rifugiati, ma soltanto il 55 per cento del personale dell'agenzia Onu lavora sul campo in quel continente disagiato.

"Tutti gli esperti di assistenza internazionale - accusa il Gao - spiegano invece che una presenza visibile di dirigenti in loco è il deterrente più efficace contro gli abusi". Anche l'Organizzazione non governativa Save the Children ha pubblicato questo mese un rapporto in cui chiede più sicurezza per donne e bambini nei campi profughi.

Per la verità, la sicurezza nell'Onu manca perfino attorno al Consiglio di sicurezza. Un fatto increscioso è infatti accaduto pochi giorni fa nel Palazzo di Vetro. Un episodio piccolo, ma incredibile proprio per essere avvenuto nella sede dell'Onu, e per di più negli stessi giorni in cui il mondo assisteva ai saccheggi nelle strade di Baghdad. "Non credevo ai miei occhi: una folla di persone si è impadronita di qualsiasi cosa capitasse sottomano, fino a lasciare la sala completamente vuota", ha raccontato un testimone, non dall'Iraq ma dalla sede delle Nazioni Unite.

E' successo questo: la società Restaurant Associates ha perso la gara d'appalto per i cinque ristoranti, mense e bar interni dell'Onu che gestiva da 17 anni. Nell'ultimo giorno di servizio prima del subentro della nuova società il sindacato ha proclamato uno sciopero "selvaggio", per la mancata corresponsione dell'indennità di licenziamento ad alcuni dipendenti. Così a mezzogiorno, improvvisamente, tutto il personale dei ristoranti ha smesso di lavorare. Il segretario generale Kofi Annan aveva già convocato per l'una in una sala privata un pranzo di lavoro con i 15 membri del Consiglio di sicurezza, che ha quindi dovuto svolgersi a self service, senza camerieri (solo alcuni si sono offerti, per pura cortesia, di servire il caffè).

Sparite anche le suppellettili e l'argenteria

Frattanto la grande "cafeteria", che serve 5 mila pasti al giorno al personale Onu, era rimasta incustodita. E si è verificata una razzia colossale: tutti si sono serviti gratis delle porzioni del giorno (polli, insalate, tacchini, soufflé), ma sono sparite anche tutte le suppellettili, fra cui vassoi e posate d'argento. Stesse scene allo snack-bar "Viennese cafè", nel centro conferenze e nell'elegante sala da pranzo dei delegati, proprio accanto a quella dove Kofi stava mangiando.

Poi ai saccheggiatori è venuta sete. Perché non servirsi gratis al bar? Lì è stato beccato un diplomatico statunitense che, alla domanda su quanto avesse bevuto, ha risposto: "Non so, ho smesso di contare le bottiglie". Un rappresentante della nuova ditta appaltatrice, Aramark, ha valutato in 9 mila dollari il valore dei furti nella sola cafeteria, argenti esclusi. Molti frigobar privati negli uffici del palazzo, invece, rigurgitano. I guardiani Onu che avrebbero dovuto sorvegliare le sale si sono comportati come i Caschi blu in questi giorni nel Congo, o nel '95 a Srebrenica: inerti.

Mauro Suttora

Saturday, May 10, 2003

Paolo Mieli sull'Onu

Corriere della Sera, 10 maggio 2003

Boutros-Ghali e la democratizzazione dell' Onu

LETTERE AL CORRIERE
risponde Paolo Mieli

È trascorso un mese dalla vittoria degli americani a Bagdad e sono reduce dalla lettura sul Corriere degli ottimi servizi di Francesco Battistini e Guido Olimpio dedicati alla ricorrenza. Olimpio scrive che al momento gli Usa hanno rimesso in piedi il ministero del Petrolio, cercano di riattivare quello degli Esteri e puntano a ristabilire l' ordine con la polizia locale; stanno tornando a galla - come si temeva - i famigerati dirigenti del partito Baath e il generale Jay Garner, che pure ha indicato i cinque gruppi iracheni con i requisiti per formare il governo provvisorio, si è trovato di fatto commissariato dalla nomina di Paul Bremer a capo della amministrazione civile. Ma dove è finita l'Onu?

Emilio Galli Milano

Caro signor Galli,
ho scritto più volte che, secondo me, per un' infinità di motivi le Nazioni Unite dovrebbero avere un ruolo più che importante nella ricostruzione democratica dell' Iraq. Anche per questo ho fatto un salto sulla sedia quando ho letto che Richard Perle, autorevole membro del Defense Policy Board dell' Amministrazione Bush, ha scritto sul Guardian: «Ringraziamo Dio per la morte delle Nazioni Unite». Una battuta di cattivo gusto.
Però in tutta franchezza devo aggiungere che mi aspetto che l' Onu faccia dei passi che segnalino una discontinuità dal passato e un suo essere all' altezza dei compiti che le persone come lei e me vorrebbero vederle attribuite. Che tipo di discontinuità?

In una serie di articoli requisitoria contro l' Onu pubblicati sul Foglio, Mauro Suttora è tornato sulla «criminale omissione di intervento nel 1995 dei soldati Onu che provocò - fra le altre - la strage di Srebrenica, settemila morti» per sottolineare il fatto che «un governo è caduto in Olanda per le responsabilità di un comandante olandese nella città della ex Jugoslavia, ma nessun dirigente Onu ha avuto problemi con la propria carriera». È un fatto, purtroppo.

Così come è un fatto che «funzionari per l' Alto commissariato Onu per i diritti umani a Sarajevo - prosegue Suttora - furono coinvolti nel traffico di donne (anche minorenni) fatte prostituire contro la loro volontà e l' imbarazzante episodio venne salomonicamente risolto rispedendo a casa sia gli accusati, sia gli accusatori». A Nairobi c' è stata un po' più di giustizia: quattro funzionari della Commissione Onu per i rifugiati sono stati arrestati per aver organizzato una sorta di programma «Sex for food»; nei campi africani dove erano raccolti i fuggiaschi dalle stragi in Ruanda - avvenute sotto l' occhio distratto delle Nazioni Unite - donne e bambine erano costrette a offrire prestazioni sessuali in cambio della loro razione di cibo. Sì, l' Onu purtroppo è stata anche questo.

C'è poi un problema di rappresentatività. Sergio Romano ha denunciato di recente su queste colonne come sia assurdo che il voto dell' India valga come quello di Malta, che il Brasile pesi come una qualsiasi isola dei Caraibi e l' arma del veto resti quasi per diritto divino «nelle mani di cinque Paesi che vinsero la guerra, sessant' anni fa, con un' alleanza di cui constatammo rapidamente la fragilità». E ha proposto di introdurre il criterio delle maggioranze ponderate che tengano conto - per ogni Paese - del peso demografico, del prodotto interno lordo, dell' impegno assistenziale per i Paesi poveri, del livello culturale e scientifico, della quota di partecipazione al commercio mondiale. Sono del tutto d' accordo.

Mi limiterei ad aggiungere tra ciò che dovrebbe rientrare nella valutazione il «tasso di democrazia», cioè di libertà di espressione, culto, organizzazione politica, voto così da invogliare le leadership dei Paesi del Terzo mondo ad «acquisire punti» offrendo garanzie e tutele ai loro popoli.

L' ottantenne Boutros Boutros-Ghali, egiziano, segretario generale dell' Onu nei primi anni Novanta, ha testé ripreso in mano una battaglia che iniziò nel ' 92 per un vincolo più stretto tra Nazioni Unite e il concetto di democrazia. Ecco, mi piacerebbe che il suo successore Kofi Annan gli desse ascolto.

Paolo Mieli

Wednesday, May 07, 2003

Onu/4: gli onusiani

Antropologia degli abitanti e autori di un labirinto

RITRATTO DEGLI INSTANCABILI FUNZIONARI DELLE NAZIONI UNITE, CHE DA 58 ANNI COSTRUISCONO GROVIGLI BUROCRATICI

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 maggio 2003

New York. Benvenuti fra gli onusiani. Non sono gli abitanti di un altro pianeta, bensì i rappresentanti di tutti gli Stati del nostro (pianeta), impegnati da 58 anni a realizzare un labirinto burocratico finora immaginato soltanto in letteratura, da Nikolaj Gogol’ a Franz Kafka, da George Orwell ad Aldous Huxley.

Già nel 1973 il IX Congresso internazionale delle Scienze antropologiche ed etnologiche a Oshkosh (Wisconsin) stabilì ufficialmente che una delle principali cause del mancato sviluppo del Terzo mondo è la burocrazia delle agenzie Onu. Verdetto imbarazzante, visto che nelle Nazioni Unite il 90 per cento delle risorse umane (oggi arrivate a 65 mila dipendenti fissi, più decine di migliaia di consulenti) e finanziarie (circa dieci miliardi di euro all’anno) sono destinate proprio al Terzo mondo.

Da allora le cose non sono migliorate. La crescita dell’Onu è stata impetuosa e inarrestabile: nel 1946 le sue agenzie erano tre (Fao, Unesco e Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro), oggi sono 27. Per raccapezzarsi, nel 2001 è nato un comitato di coordinamento, l’United Nations System Chief Executives Board (Ceb), assistito a sua volta da due altri comitati l’High Level Committee on Programmes (Hlcp) e l’High Level Committee on Management (Hlcm).

Tuttavia, chi vuole esaminare scientificamente la struttura delle Nazioni Unite si trova di fronte a grosse difficoltà “Nonostante la proliferazione di organismi e conferenze”, spiegano David Pitt e Thomas Weiss, curatori del libro “The nature of UN bureaucracies” (ed. Croom Helm, Londra), gli archivi interni Onu sono chiusi agli studiosi, i dipendenti e anche gli ex hanno l’obbligo di riservatezza, i consulenti non parlano perché sono ricattabili”.

Johann Galtung, già rettore dell’università dell’Onu a Tokyo, spiega qual è l’ethos, la cultura che sta alla base dell’organizzazione: “Vengono prodotte a volte ricerche eccellenti per esempio, gli studi epidemiologici dell’Oms o quelli sulla storia mondiale dell’Unesco. Ma l’approccio dell’Onu è necessariamente ‘statocratico’, mentre gran parte della vita del mondo sta fuori dagli Stati. Le Nazioni Unite si comportano come un sindacato di governi è sacrilego che un dirigente Onu critichi uno Stato con nome e cognome, soprattutto il proprio, ed è impossibile che lo faccia se si tratta di uno Stato privo di libertà politiche. Così, data la ricchezza di sapere ed esperienza accumulata da molti funzionari, prevale una frustrazione diffusa che si supera soltanto quando un organismo è guidato da un personaggio capace di muoversi al di là dei governi”.

Questo capita durante rari periodi di grazia ma anche di conflitto, come quelli della irlandese Mary Robinson commissaria per i Diritti umani o del volitivo francese Bernard Kouchner in Kosovo. Eccezioni decisioniste presto riassorbite dal grigiore del funzionariato basta scorrere la lista degli attuali capi delle 27 agenzie e programmi Onu per notare la mancanza di personalità politiche di rilievo, con l’eccezione del placido ex premier olandese Ruud Lubbers commissario per i Profughi, e della diafana norvegese Gro Harlem Brundtland all’Oms.

“I dirigenti Onu – accusa Galtung – si guardano bene dall’esercitare una qualsiasi leadership. Preferiscono adagiarsi in una routine di mediatori che cercano di galleggiare alleviando tensioni, e vengono ottimamente ricompensati per questo io, ad esempio, guadagnavo il triplo del premier del mio paese, la Norvegia. In più, i capi Onu godono di prerogative prenapoleoniche, quasi feudali comando assoluto sullo staff che lavora e pubblica documenti a loro nome, organizzazione verticale, contesto autoritario… Ai dipendenti Onu non è neppure permesso ricorrere ai tribunali per le cause di lavoro. In caso di doglianze esiste un foro interno che sembra funzionare più per gentile grazia che tramite regole di diritto”.

La sociologia interna delle Nazioni Unite tratteggiata da Galtung è spietata: “Il funzionario medio è il cosiddetto Mamu Middle Aged Man University educated. A 60 anni scatta inesorabile la pensione. Cosicché quando qualche agenzia Onu proclama l’Anno o il Decennio dell’Anziano, del Giovane o della Donna, si tratta veramente di un’esperienza esotica per l’apparato, composto per lo più da cinquantenni con le idee di trent’anni fa. I capi desiderano solo sopravvivere per essere confermati alla scadenza del mandato. Nelle lotte interne per la carriera hanno cinque scelte: giocare i governi contro il segretario generale, oppure un governo forte contro i piccoli, oppure molti piccoli contro un grande minacciando di togliere voti, oppure appoggiarsi alle Ong, le Organizzazioni non governative, oppure allearsi col segretario generale.
Le tre ultime manovre vanno effettuate congiuntamente, pena l’inutilità. Per soddisfare ogni appetito si frammentano le competenze e si moltiplicano gli organismi nelle Nazioni Unite non soltanto una mano non sa cosa fa l’altra, ma neppure un dito cosa fa l’altro dito. Ecco quindi innumerevoli riunioni di ‘coordinamento’, il passatempo preferito dei burocrati. Ma raramente uno di loro legge qualche studio che ha commissionato i documenti servono soltanto come incentivi per ulteriori documenti, sono sempre ‘esploratori’, per non esaurire la possibilità di confezionarne altri”.

Per evitare la leggendaria accidia dei dipendenti a tempo indeterminato (ma anche per vantare riduzioni di staff nelle proprie statistiche ufficiali), l’Onu ricorre sempre di più ad assunzioni temporanee. Il risultato è che tutti, per farsi rinnovare il contratto, si conformano al presunto volere del capo. Rimangono memorabili certi rapporti spediti dal Kosovo a New York, che quasi non menzionavano i guerriglieri albanesi del Kla diventati i reali padroni del territorio.

Precari o stabili, i ranghi si allargano comunque a un certo punto nei villaggi Ujama della Tanzania si contavano più ricercatori delle Nazioni Unite che abitanti. E si allungano i titoli dei seminari. Il record, segnalato da Geoffrey Steves sul giornale canadese Globe and Mail, appartiene all’“United Nations Seminar on the Existing Unjust International Economic Order of the Economics of the Developing Countries and the Obstacle that this represents for the Implementation of Human Rights and Fundamental Freedoms”, tenuto negli anni Ottanta dopo una trattativa serrata su ogni singola parola.

Il problema è che fino al crollo del comunismo il gioco era semplice e ovvio dentro l’Onu Stati Uniti e Unione Sovietica si fronteggiavano, e i non allineati propendevano più per l’orbita sovietica che per il mondo libero. Ma oggi, se è inevitabile che tutti i membri dell’Onu siano Stati, non è detto che tutti gli Stati ne debbano essere membri. L’Oas (Organizzazione degli Stati americani) dal 1962 ha sospeso Cuba, in quanto dittatura. L’Avana partecipa alle riunioni, ma senza diritto di voto. “Le Nazioni Unite, invece, sono la nuova Bisanzio”, denuncia il professor Pitt, già dirigente e consulente Onu, Oms, Fao, Unesco e Oil. “La disillusione nei confronti del multilateralismo è ampia anche nel Terzo mondo, non soltanto a Washington. E infatti molti paesi preferiscono gli aiuti bilaterali. Quanto agli Stati Uniti, provano ora la stessa sensazione ben descritta da Lord Robert Cecil, ministro britannico, Nobel della Pace nel 1937, che pure era un grande sostenitore della Società delle Nazioni Ginevra è uno strano posto dove funziona una nuova macchina che permette ad alcuni stranieri di influenzare e perfino controllare la nostra azione internazionale’”.

Se poi questi stranieri si rivelano fallimentari quando si occupano dei loro due compiti principali, pace e sviluppo, la nuova superburocrazia perde le qualità descritte da Max Weber e assume invece le sembianze di una patologia sociale alla Robert Merton. Nel Palazzo di Vetro a New York e in quello della Pace a Ginevra ogni documento dev’essere approvato da dieci o più persone. Qualche centesimo in più di tariffa postale dev’essere autorizzato a livello di direttore generale. In compenso, le Nazioni Unite si autoinvestono di poteri quasi biblici (“sradicare la fame, le malattie, l’analfabetismo”) e orizzonti d’oro (“entro cinque anni, dieci, venti”).

Di solito, dopo aver stabilito scintillanti traguardi, tutto si riduce a un costosissimo e affollatissimo congresso in qualche località pittoresca tipo Alma Ata, Rio o Durban, dove vengono annunciati ulteriori euforici obiettivi. Peccato che i dati Onu siano a volte selvaggiamente sbagliati: in un rapporto dell’Unep (United Nations Environmental Program) la stima sul legno usato come combustibile nell’Himalaya varia di un fattore 67. “Il grave di queste mitologie”, ironizza Pitt, “non è che siano false o sospette, ma che vengano così ampiamente accettate”.
Un esempio? La cantilena no global sui miliardi di persone che sarebbero “costrette a sopravvivere con un solo dollaro al giorno”. Senza specificare che in parecchie zone rurali del Terzo mondo un dollaro al giorno permette di vivere decentemente.

Vivono ottimamente, in ogni caso, i funzionari Onu. “Un mediocre tecnico indiano, che potrebbe essere utile per le sue competenze qui da noi”, spiega Hari Mohan Mathur, antropologo di Jaipur, “viene assunto dall’Onu e spedito in Sierra Leone a guadagnare uno stipendio dieci volte superiore a quello che prenderebbe a casa sua, per un lavoro che esegue male. Contemporaneamente, un ‘esperto’ Onu della Sierra Leone viene mandato in India. Risultato: si sviluppano soltanto i salari di questi due signori. Inoltre, i loro alti livelli di vita li alienano completamente dalle società in cui lavorano e, se provengono dal Terzo mondo, anche da casa propria non ci vorranno mai più tornare. Diventano come fiori senza radici che appassiscono. La soluzione? Abolire le quote nazionali nelle assunzioni Onu, e organizzare corsi e concorsi locali, basati sul merito. Con lo stipendio pagato a un esperto Onu, ne possiamo assumere trenta indiani”.
Mauro Suttora
(4. continua)

Tuesday, April 29, 2003

Onu/3: disastro Kosovo

Il fallimento delle Nazioni Unite in Kosovo, e i motivi per cui non se ne vogliono andare

Il Foglio, 29 aprile 2003

New York. Molti vorrebbero che l’Onu amministrasse l’Iraq. Ma qual è il bilancio della missione di peacekeeping (“mantenimento della pace”) delle Nazioni Unite in Kosovo?

“Poveri iracheni, se l’Onu arriverà anche da loro”, commenta Beqe Cufaj, 33 anni, giornalista e scrittore kosovaro. Dopo quattro anni di protettorato Onu, infatti, il Kosovo ha ancora l’economia a pezzi. Anzi, con la diminuzione degli aiuti internazionali la situazione sta peggiorando. Ogni giorno l’elettricità manca per ore, anche se le centrali elettriche kosovare non erano state bombardate dalla Nato quattro anni fa. “Prima esportavamo la nostra energia elettrica in Macedonia e Grecia, ora siamo al buio”, ha denunciato il 23 aprile Nexhat Daci, presidente del Parlamento.

Finora l’amministrazione delle Nazioni Unite ha speso nove miliardi di euro per ricostruire il Kosovo. Ma molti soldi sono finiti nel nulla sta per iniziare il processo contro Joseph Trutschler, un tedesco 36enne nominato presidente della società elettrica kosovara, accusato per tangenti da quattro milioni e mezzo di euro.

A capo della missione Unmik (United Nations Mission Kosovo) c’è da un anno il 53enne tedesco Michael Steiner, un diplomatico succeduto all’altrettanto opaco danese Hans Haekkerup, che resistette solo pochi mesi. Prima di loro si era misurato con il Kosovo il francese Bernard Kouchner.

Questo turbinio di capi si aggiunge a quello delle sigle. L’Onu ha infatti delegato alla Ue la ricostruzione e lo sviluppo economico, mentre il compito di riorganizzare la vita politica è stato subappaltato all’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), ente dalla dubbia utilità con sede a Vienna è un’ossificazione della Conferenza di Helsinki del 1975, sopravvissuto alla fine del loro la guerra fredda.

L’Osce ha in qualche modo portato a termine il suo compito, con i suoi 1.500 dipendenti ha organizzato le elezioni locali e poi le politiche nel 2001, che hanno eletto presidente Ibrahim Rugova. Presidente di che cosa, però, non si sa bene, perché lo status del Kosovo è ancora tutto da decifrare in teoria fa ancora parte della federazione Serbia-Montenegro, ma nella realtà è ormai indipendente. Resta la questione della minoranza serba nella zona settentrionale di Mitrovica, bubbone che l’Onu si guarda bene dall’affrontare.

Nella vita quotidiana, le Nazioni Unite gestiscono direttamente polizia, giustizia e amministrazione civile. Ma nessuno osa fare più previsioni sulla durata del mandato Onu. Il partito di Rugova continua a litigare con quello del rivale Hashim Thaci, e non si sa che cosa succederebbe se partissero i 30 mila soldati Nato (fra i quali settemila statunitensi e quattromila italiani) e i 4.389 poliziotti Onu ancora stanziati in Kosovo.

La composizione della polizia è esoticissima: fra gli altri, ci sono 84 agenti del Bangladesh, 500 indiani, 426 giordani, 16 senegalesi, 124 polacchi, 62 filippini, quattro kirghisi, cinque vengono addirittura dall’isola di Mauritius e ben 34 dalle isole Figi. Gli italiani sono 58. Un unico belga. Insomma, un vero e proprio Palazzo di Vetro trasferito sul campo.

Gli indiani sembrano andare d’accordo con i 182 pakistani. L’arruolamento, visti gli stipendi, è particolarmente attraente per i poliziotti del terzo mondo. I 522 statunitensi e gli altri europei occidentali, invece, provengono soprattutto dalla pensione. In che lingua riescano a comunicare fra di loro, non è dato sapere. Quanto alla loro efficacia, le rudi bande del leggendario crimine organizzato balcanico e i contrabbandieri albanesi sembrano abbastanza soddisfatti dell’attuale situazione.

Nel suo ultimo rapporto del 14 aprile, fatto proprio da Kofi Annan, il povero Steiner ammette che nei primi tre mesi del 2003 la criminalità è aumentata difficile parlare di Stato di diritto, gli assalti con granate contro la polizia sono all’ordine del giorno anche a Pec, nel settore in teoria sotto il controllo italiano. Nei 57 nuovi tribunali si è già accumulato un arretrato di 13 mila cause civili e 11 mila penali. Anche perché ogni documento dev’essere tradotto in quattro lingue inglese, albanese, serbo e turco. “Riusciamo a punire il 21 per cento dei reati contro la proprietà, una quota maggiore rispetto a molti paesi europei”, si consola l’Onu.

L’arresto di alcuni membri del Kla (Esercito di liberazione del Kosovo) da parte del Tribunale dell’Aia ha provocato nelle settimane scorse dimostrazioni di protesta in tutto il paese. Il partito di Thaci è un’emanazione del Kla, e tuttora il vero potere locale resta nelle mani dei suoi uomini, armati. Il partito di Rugova si oppone al disegno di Thaci di far arruolare in blocco gli ex partigiani del Kla nell’esercito regolare kosovaro e nella polizia. Così non c’è verso di far decollare un esercito accettato da tutti.

Gli ex guerriglieri continuano a controllare 59 caserme e postazioni, contro un piano quinquennale che si proponeva di ridurle a 27. Quanto al sogno di un “esercito multietnico” coltivato dalle ingenue Nazioni Unite, non se ne vedrà mai l’ombra a nessun serbo passa per la testa di arruolarsi nelle forze armate dei nemici.

Naturalmente anche il Kosovo, come ogni area di crisi umanitaria, ha subìto un’invasione da parte delle Ong (Organizzazioni non governative) se ne sono registrate ben 2.292, di cui 381 straniere. Tutte alla costante ricerca di fondi – per lo più pubblici – con i quali far funzionare il proprio apparato. Intanto l’Onu, invece di esercitare una salubre autocritica sui suoi fallimenti, se la prende con i giornalisti locali sono stati comminati 51 mila euro di multa ai giornali che hanno pubblicato articoli sgraditi (“Titoli infiammatori e sensazionalisti”, accusa la censura del Minculpop onusiano, e speriamo che la sua giurisdizione non si estenda anche al Foglio…).

L’economia kosovara non si risolleva. L’amministrazione Onu-Ue, invece di favorire una rapida privatizzazione che valorizzi l’innato spirito d’iniziativa individuale della gente locale, mette i bastoni fra le ruote finora ha privatizzato solo sei aziende sulle 480 lasciate in eredità dal comunismo jugoslavo. “I burocrati internazionali sono rimasti gli ultimi nostalgici dell’economia pianificata”, accusa il giornale di Pristina Koha Ditore.

La principale preoccupazione dell’Onu sembra quella di garantire la non discriminazione della minoranza serba, invece di affrontare alla radice un problema insolubile e proporre uno scambio territoriale alla Serbia è evidente, infatti, che la provincia di Mitrovica non ne vuole sapere di rimanere in un Kosovo dominato dagli albanesi. I serbi rifiutano perfino le nuove targhe automobilistiche kosovare preferiscono tenere quelle vecchie con la stella rossa, che permettono loro di viaggiare liberamente in Serbia (oltre che di risparmiare sull’assicurazione).

Per tutti gli anni Novanta i kosovari perseguitati da Slobodan Milosevic avevano sviluppato una rete di resistenza clandestina formata da istituzioni parallele scuole e università in lingua albanese, ambulatori, servizi di assistenza. Ora i serbi kosovari si vendicano, e praticano a loro volta il boicottaggio delle istituzioni ufficiali. L’Onu deve così tollerare uffici serbi in teoria vietati dalla risoluzione 1244 del 1999 che pose fine al conflitto, con dodici impiegati delle Poste nel paese di Kamenica i quali prendono ancora lo stipendio dalla Serbia, e altri dipendenti pubblici di uffici di collocamento e dell’anagrafe che continuano imperterriti a obbedire a Belgrado invece che a Pristina.

Quanto ai politici kosovari, rifiutano tuttora ogni contatto diretto con il governo serbo. Il presidente del Parlamento kosovaro Daci è durissimo: “L’Onu vorrebbe restare qui ancora per un secolo. Perché dovrebbero andarsene? Prendono stipendi molto più alti che nei loro paesi, le nostre donne sono belle e abbiamo i migliori ristoranti della regione. All’Occidente avevamo chiesto professionisti, e invece loro ci hanno mandato politici e burocrati del diciannovesimo secolo. Non vogliamo che l’Onu se ne vada domani, ma che acceleri il trasferimento delle competenze e riduca drasticamente il suo staff. Dicono che i nostri politici litigano fra di loro? E ci mancherebbe altro non è proprio questa, la democrazia?"

Continua Daci: "Non abbiamo bisogno né di zar né di dei calati dall’esterno. E che i diecimila dipendenti Onu in Kosovo la smettano di spedire a New York rapporti falsi, per farsi belli. Abbiamo bisogno soltanto di poche centinaia di esperti tecnici, non di decine di migliaia di funzionari il cui unico contributo alla nostra economia è quello di drogarla ormai il trenta per cento delle nostre entrate dipende dagli aiuti internazionali. Il mio stipendio è inferiore a quello di una qualsiasi donna delle pulizie pagata dall’Onu per lavorare nei suoi uffici di Pristina. E i giovani assunti come traduttori dalle Nazioni Unite guadagnano 750 dollari al mese, mentre un professore universitario ne prende cento”.
(3. continua)
Mauro Suttora

Wednesday, April 16, 2003

Onu/1: a che cosa serve?

ONU DE' NOANTRI - SPRECHI, INEFFICIENZE, BILANCI IMBARAZZANTI: ECCO PERCHE' L'ULTIMA COSA DI CUI HANNO BISOGNO GLI IRACHENI E' UN PALAZZO DI VETRO.

16 aprile 2003

Dopo Oriana Fallaci sul Wall Street Journal e Beppe Severgnini sull'Economist, un altro giornalista italiano scrive le proprie opinioni direttamente in inglese sui giornali anglosassoni: Mauro Suttora, corrispondente da New York del settimanale Oggi. Su Newsweek di questa settimana - e oggi su Il Foglio - appare un suo commento sull'Onu in Iraq, dal titolo esplicito: "The last thing Iraqis need" ("L'ultima cosa di cui gli iracheni hanno bisogno").

Suttora si scaglia contro le Nazioni Unite, accusandole di essere un "mostro gogoliano" con 65mila dipendenti e un bilancio di 2,6 miliardi di dollari, "pieno di burocrati pigri e incompetenti che perpetuano i problemi invece di risolverli". Esamina alcuni casi di amministrazione Onu (Palestina, Bosnia, Kosovo) e si stupisce che l'Onu, nonostante abbia gia' dato prova di inefficienza anche in Iraq, sia diventata "l'ultimo ridotto" dei pacifisti che la invocano "come se fosse una parola magica".

Mauro Suttora per Il Foglio

New York. L'ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, vuole l'Onu in Iraq: lo detto domenica sera davanti a tredici milioni di telespettatori americani durante il programma "60 Minutes" della Cbs. Anche il furbo Joe Biden, capo dei Democratici alla commissione Esteri del Senato, favorevole all'Onu: "Perché dobbiamo rischiare le vite dei nostri ragazzi agli incroci di Baghdad? E perché i contribuenti statunitensi dovrebbero continuare a pagare tutto intero il conto del mantenimento dell'ordine in Iraq? Che ci vadano anche i peace-keepers dell'Onu, o almeno quelli della Nato".

Argomenti concreti, che fanno breccia nell'americano medio ormai saziato dalla vittoria su Saddam Hussein. Quindi Onu sarà, lo ha deciso anche l'Amministrazione Bush. Ma la supervisione delle operazioni resterà saldamente in mano agli angloamericani.

Questa volta gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di farsi scippare controllo della situazione. Anche perché bilancio delle altre operazioni Onu in giro per il mondo oscilla fra l'inutile e il disastroso. Altro che "nation rebuilding": ovunque vadano, i funzionari delle Nazioni Unite sembrano posseduti dall'irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.

L'atto d'accusa di Terzani sulla Cambogia

"Dopo il fallimento degli interventi in Somalia e nell'ex Jugoslavia, la missione Onu in Cambogia viene citata come straordinario successo', indicata come modello da seguire e usata per riscattare reputazione di un organismo le cui strutture andrebbero rimesse in discussione.

In realtà, l'operazione si è rivelata carissima (due miliardi e mezzo di dollari, ventiduemila uomini) ed è stata segnata sprechi, inefficienze ed episodi di corruzione senza precedenti: quattrocento milioni di dollari sarebbero finiti nelle tasche di alcuni funzionari - alcuni di altissimo livello - i quali avrebbero messo in piedi un efficiente sistema di ordinazione materiali che non venivano mai consegnati o venivano pagati a loro complici a prezzi fuori mercato (...).

Ancora poche settimane fa gli alberghi di Phnom Penh erano pieni, le ville affittate alla gente dell'Onu per cifre tipo quelle di Tokyo o New York e quasi non c'era famiglia in cui un membro non lavorasse direttamente o indirettamente per l'Onu.

Ora tutto questo è drammaticamente cambiato. Gli alberghi sono vuoti, le ville sfitte, la gente disoccupata, i ristoranti deserti e al calar del sole strade si svuotano perché diventano dominio di ombre senza scrupoli - spesso soldati o poliziotti in borghese - che, pistole alla mano, portano via automobili, motociclette, soldi e a volte la vita a chi osa uscire. Dopo il grande amore per tutto ciò che è Onu, visto come Dio venuto da fuori a salvare la Cambogia, la delusione per quel che l'Onu ha fatto e per il suo stesso partire - visto come un tradimento - si esprime ora in una crescente ostilità verso tutto ciò che è occidentale".

Questo è il bilancio imbarazzante che Tiziano Terzani tracciava qualche anno fa dell'intervento in Cambogia, uno dei primi esperimenti di amministrazione Onu. Ciononostante, oggi "Nazioni Unite" sembra essere diventata una parola magica, l'ultima trincea per i pacifisti sconfitti anch'essi, assieme a Saddam, dalle tre settimane di guerra di Donald Rumsfeld.

Ma che cosa sono in realtà, oggi, le Nazioni Unite? Un mostro burocratico con 65 mila dipendenti fissi con decine di migliaia di collaboratori e consulenti superpagati, che costano 2,6 miliardi di dollari l'anno. Vanno calcolati a parte i costosissimi programmi di "peacekeeping" (mantenimento della pace), pagati direttamente dai paesi che inviano i contingenti, e i sei miliardi annui di dollari in aiuti al Terzo mondo.

Sbaglia chi identifica l'Onu esclusivamente con la sua sede centrale di New York, il grattacielo costruito nel 1952 da Le Corbusier su un terreno regalato dai Rockefeller. Lì hanno sede il segretariato, guidato attualmente da Kofi Annan, l'Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza e l'Ecosoc, il pletorico organismo di consulenza economica e sociale.

Ma la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, Ufficio antidroga), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l'Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program), Gaza (Agenzia profughi palestinesi).

Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c'è l'Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l'Upu (Unione postale universale), a Londra l'Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l'Icao (International Civil Aviation Organization).

Chi si occupa dei Diritti umani?

Gli Stati membri sono 191. Gli ultimi due arrivati sono Timor Est e la Svizzera, che hanno aderito nel settembre del 2002. Dopo il crollo del comunismo la maggioranza degli Stati non appartiene più alle dittature, le quali tuttavia riescono tuttora a impedire il funzionamento di organismi delicati, come la commissione per i Diritti umani. Proprio in questi giorni si sta svolgendo a Ginevra, in avenue de la Paix, l'annuale sessione dell'inutile Commissione, alla cui presidenza quest'anno è stata eletta la Libia.

Fino al 2002, Alto commissario per i Diritti umani era la combattiva ex presidente irlandese Mary Robinson, che per cinque anni ha denunciato l'opera ostruzionistica portata avanti da Cina, Siria, Sudan, Cuba e Vietnam. Quando se n'è andata, consumata dalla frustrazione, Kofi Annan l'ha sostituita con l'assai più malleabile Sergio Vieira de Mello, placido burocrate 55enne, brasiliano con carriera tutta interna all'Onu, reduce da Timor Est. Geoffrey Robertson, avvocato londinese, uno dei massimi esperti mondiali di Diritti umani, è drastico: "Per decenza, l'Onu farebbe meglio ad abolire l'Alto commissariato".

Il fallimento del piano Arlacchi

Un altro organismo dalla dubbia utilità è l'Unodccp (acronimo di stile sovietico che sta per United Nations Office for Drug Control and Crime Prevention), anch'esso attualmente riunito a Vienna in una di quelle conferenze Onu ormai leggendarie per spreco di risorse (si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo).

Questo Ufficio antidroga, presieduto da un anno da quella brava persona che è Antonio Maria Costa (fratello dell'eurodeputato Raffaele di Forza Italia), è reduce dal disastroso mandato di Pino Arlacchi, il quale cinque anni fa aveva avventatamente promesso di sradicare le coltivazioni di droga nel mondo entro il 2008. Siamo a metà del programma, ma la produzione di sostanze stupefacenti invece di diminuire è aumentata. E invece di chiudere per missione fallita, l'Agenzia Onu chiede nuovi fondi.

E' normale che i funzionari pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All'Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungono anche l'80 per cento del bilancio totale, tre anni fa i dipendenti si sono messi in sciopero della fame quando il nuovo segretario voleva tagliare certi sprechi.

Ma i più abili sono i dirigenti dell'Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l'Agenzia che da ben 55 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono quasi quattro milioni. Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 350 mila profughi istriani e dalmati dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza da parte dell'Onu.

Tre generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l'assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l'economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall'Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi.

Ma anche in Bosnia, dopo otto anni, e in Kosovo, dopo quattro, le Nazioni Unite non danno alcun segno di volersene o potersene andare. La criminale omissione di intervento nel 1995 da parte dei soldati Onu provocò - fra le altre - la strage di Srebrenica: settemila morti. I pacifisti vogliono che in Iraq si ripetano altri vergognosi episodi come questo? Un governo è caduto, in Olanda, per le responsabilità di un comandante olandese a Srebrenica. Ma nessun dirigente Onu ha avuto problemi con la propria carriera. Anzi, quello di mettere tutto a tacere sembra un bel vizietto, nel sistema delle Nazioni Unite.

Sempre in Bosnia, quattro anni fa accuse inequivocabili avevano scoperchiato uno scandalo di notevoli proporzioni: funzionari dell'Alto Commissariato Onu per i Diritti umani a Sarajevo erano stati coinvolti nel traffico di donne (anche minorenni) fatte prostituire contro la loro volontà. L'imbarazzante episodio venne salomonicamente risolto rispedendo a casa sia gli accusati, sia gli accusatori.

Un personale sovrabbondante

Alla Commissione Onu dei Rifugiati, che spende ogni anno 740 milioni di dollari, escluse le emergenze, si era andati più in là: quattro suoi funzionari arrestati a Nairobi avevano inventato una specie di programma "Sex for food". Nei campi africani dove sono raccolti gli sventurati scampati alle stragi del Ruanda (anche lì: Onu, dov'eri?) donne e bambine venivano violentate, sfruttate e ricattate in permanenza. Vuoi mangiare? Vieni a letto.

Casi estremi, certo. Ma in tutte le Agenzie Onu l'inefficienza e la pigrizia regnano sovrane. Nel Palazzo di Vetro a New York l'attività principale della maggior parte del sovrabbondante personale diplomatico (in città vivono alla grande ben 35 mila diplomatici) è quella di partecipare a banchetti e gala. Si distinguono in questa attività frenetica i funzionari dei regimi del Terzo mondo, quasi sempre parenti, figli, amici o clienti del dittatorello locale. Non è un mistero: in molti paesi sottosviluppati il posto di ambasciatore all'Onu, che permette di vivere permanentemente negli Stati Uniti con gli agi dell'indennità diplomatica, vale più della carica di ministro degli Esteri.

(1. continua)

Dagospia.com 16 Aprile 2003

Thursday, March 27, 2003

Paolo Mieli sull'Iraq

Corriere della Sera, 27 marzo 2003

Amministrazione Onu per l' Iraq: le ragioni di Blair

LETTERE AL CORRIERE
risponde Paolo Mieli

Davvero non comprendo, caro Mieli, perché lei creda che l' Onu possa e debba amministrare il dopo in Iraq, non avendo saputo e voluto far nulla prima. Mentre nelle tombe di Al-Najaf le truppe anglo-americane trovano gli agenti chimici invano cercati dagli ispettori delle Nazioni Unite...

Luigi Castaldi
Napoli

Caro Castaldi,
ho già detto che non è prematuro discutere adesso del dopo Saddam. E, dal momento che ho ricevuto svariate lettere su questo tema (alcune di consenso a quel che avevo scritto, anche se ho preferito dar conto di due scelte tra quelle sfavorevoli), forse è bene spendere ancora due parole sull' argomento. Due parole per spiegare perché ritengo sensata la proposta di un' amministrazione Onu sull' Iraq avanzata molte settimane fa da intellettuali europei oltreché dai radicali italiani e che ora è diventata motivo di tensione tra il primo ministro inglese Tony Blair, il quale l' ha fatta sua, e il presidente degli Stati Uniti George W. Bush.

Io non tengo le Nazioni Unite in maggior considerazione di quanto le teniate voi. Ma penso che, stavolta, all' origine di ciò che ha messo in crisi il Palazzo di Vetro non siano state un' incertezza o un passo falso di Kofi Annan. E che perciò (cioè per il fatto di non avere colpe particolari nella degenerazione in guerra della situazione preesistente) l' Onu, pur con tutti i suoi difetti, possa tornare utile per una gestione del dopo Saddam condivisa dal consesso internazionale. Tra l' altro il fatto che su questo vi sia diversità di vedute tra il laburista europeo Blair e il conservatore americano Bush potrebbe offrire un' opportunità di rientrare utilmente nel gioco a molti Paesi del nostro continente. E a parti della sinistra che hanno fin qui avversato l' uso delle armi come strumento per dirimere il contenzioso con il dittatore di Bagdad.

Ma c' è dell' altro. Da tempo seguo con grande attenzione quel che dicono in proposito gli arabi riformisti e gli islamici non fondamentalisti. Tutti o quasi concordano con questa proposta. Amir Taheri, un iraniano che ora scrive per i più importanti quotidiani degli Stati Uniti, sostiene che l' America deve guardarsi dall' imporre all' Iraq di domani «questo o quel leader in virtù dei suoi legami con qualche esponente di Washington», che gli Stati Uniti dovranno mantenersi «neutrali e amici di tutti» e che l' epurazione dovrà essere più che cauta: «gli attuali parlamentari iracheni, tranne una settantina, sono riciclabili; si tratta di opportunisti, certo, ma un' amnistia generale dovrebbe esentare soltanto qualche dozzina di criminali, gli esecutori diretti degli ordini di Saddam Hussein» ha dichiarato a Mauro Suttora del Foglio.

L' imam iracheno di New York, Sheikh Fadehl Al-Sahlani, ha ribadito allo stesso Suttora che «un' amministrazione delle Nazioni Unite invece che statunitense sarebbe auspicabile perché gli iracheni la digerirebbero più facilmente: l' Iraq è un paese musulmano e l' Onu viene accettata perché comprende tutti i Paesi musulmani».

Un altro esule iracheno, Kanan Makiya, oggi docente ad Harvard, si è spinto più in là e ha suggerito che il nuovo Iraq, libero, sia «federale, non arabo e demilitarizzato». E ha precisato: «L' Iraq non è l' Afghanistan; è piuttosto ricco e sviluppato, possiede le risorse umane per diventare una grande forza per la democrazia e la ricostruzione nel mondo arabo e musulmano proprio come è stata una grande forza per l' autocrazia e la distruzione».

Potrei continuare, ma vi prego di credermi sulla parola: gli intellettuali che vengono da quell' area geografica sono pressoché unanimi nel ritenere che la prospettiva indicata da Blair sia più saggia di quella di Bush. E io, pur rinnovando le mie riserve su scelta dei tempi e modalità di questa guerra, nell' augurarmi adesso che si concluda al più presto con la deposizione del despota, ritengo che abbiano ragione.

Wednesday, December 04, 2002

Iraq: gli ispettori Onu

Non troveranno niente, ma Bush scatenera' lo stesso la guerra

Chi sono, come lavorano e quali prospettive hanno i 250 ispettori dell' Onu giunti a Baghdad per verificare l' esistenza di armi "proibite"

I controlli del piccolo esercito delle Nazioni Unite, che comprende tre italiani, dureranno due mesi e dovranno identificare eventuali arsenali nucleari e batteriologici. Ma anche se in Iraq le verifiche non porteranno a nulla, le continue minacce di Al Qaeda di nuovi attentati potrebbero offrire al presidente americano la miccia per un attacco finale a Saddam

dal nostro corrispondente Mauro Suttora

New York, 4 dicembre 2002

Entrare nel palazzo dell'Onu a New York fa impressione. Il grattacielo costruito cinquant'anni fa dall'architetto Le Corbusier su un terreno regalato dal miliardario John Rockefeller è imponente, e mette soggezione. Siamo qua perché vogliamo sapere chi sono e a che cosa servono i 250 uomini che in queste settimane tengono in mano i destini del mondo: gli ispettori dell'Unmovic, sigla complicata che significa Commissione delle Nazioni Unite per il Monitoraggio, la Verifica e l'Ispezione. Ancora più complicato è stato il cammino che ha portato alla nascita di questa Commissione: più di due mesi di negoziati durante i quali gli Stati Uniti, che a settembre avevano annunciato il proprio imminente attacco all'Irak, hanno dovuto invece piegarsi alle regole estenuanti della diplomazia internazionale.

Già il fatto che nel nome ufficiale della Commissione non appaia il nome Irak la dice lunga sulle difficoltà che ha incontrato il presidente statunitense George Bush junior per far approvare la ripresa dei controlli sul regime di Saddam Hussein. «Nessuna Commissione ad hoc, con citazione esplicita del nome del Paese sotto inchiesta», hanno chiesto e ottenuto i Paesi critici dell'approccio «muscolare» dell'amministrazione di Washington.

Russia e Francia hanno anche imposto un calendario lunghissimo per le ispezioni: si esaurirà soltanto il 27 gennaio, con la presentazione di un rapporto finale al Consiglio di sicurezza. Il dittatore dia (chiamate ABC dagli esperti: atomiche, batteriologiche e c Baghdad non ha rinunciato alle proprie armi di distruzione di massa (chiamate ABC dagli esperti: atomiche, batteriologiche e chimiche)? E' quello che sostengono gli Stati Uniti. Ma riusciranno gli ispettori a dare una risposta sicura? Sono in parecchi a dubitarne.

Fra i 250 esperti Onu ci sono tre italiani. «Non possiamo divulgare né i loro nomi né le loro fotografie», ci risponpondono all'ufficio stampa dell'Onu. Proibita anche ogni intervista individuale. L'unico autorizzato a parlare, in queste delicate settimane, è il capo degli ispettori Hans Blix.

Ma che cosa sperano di trovare i suoi uomini? Davvero pensano che Saddam tenga in bella vista depositi di gas nervino, o laboratori biologici che ormai possono nascondersi anche dentro un semplice camper? E se li trovano che cosa fanno, li distruggono sul posto con le loro alabarde spaziali?

Su questo all’Onu non c’è chiarezza. Secondo gli Stati Uniti, infatti, la risoluzione approvata all’unanimita’ (15 voti a zero) il 7 novembre dal Consiglio di sicurezza permette un intervento militare immediato se Saddam si azzarda a dire anche una sola bugia. Francia e Russia, invece, pretendono un’altra risoluzione che preveda esplicitamente la guerra.

Me se in Irak non si troverà niente, come è probabile, questo non vorrà dire che Saddam non ha le armi Abc. Quelle chimiche le ha già usate prima contro l’Iran, poi nel 1988 contro la città curda ddi Halabja. E allora, a che servono gli ispettori se la guerra si farà comunque? Sembra quasi di essere tornati al 1914, quando l’Austria cercava il pretesto per attaccare la Serbia, o al 1939, quando Adolf Hitler scatenò la guerra per incorporare Danzica.

Scott Ritter, 41 anni, l'ex ufficiale dei marines statunitensi che ha guidato le ispezioni in Irak della precedente commissione, l'Unscom (United Nations Special Commission), dal 1991 al 1998, oggi è critico. Ritter era un repubblicano, un uomo di destra, e per quasi dieci anni fece vedere i sorci verdi a Saddam. Con i suoi cento ispettori, sostiene, «costringemmo gli irakeni a rinunciare al 90-95 per cento dei loro armamenti più pericolosi».

Oggi invece gli ispettori si sono moltiplicati, arrivando a 250 per accomodare ben 45 nazionalità diverse. Risultato: «Avranno difficoltà perfino a comunicare fra loro», prevede l’ex ispettore Jonathan Tucker, «e la necessità di traduzioni rallenterà il lavoro». Tutti hanno dovuto frequentare un corso di ben cinque settimane sulla cultura e la politica in Irak. «Ma se si tratta di esperti, non hanno bisogno di alcun corso», rileva un altro ex ispettore, Tim Trevan. «Viceversa, se esperti non sono, non possono certo diventarlo dopo sole cinque settimane».

Saddam detestava Ritter, lo accusava di essere una spia al servizio di Stati Uniti e Israele. Che molti degli «esperti» infilati da vari governi nelle commissioni Onu di verifica (come quelle sul rispetto dei trattati Salt o per il disarmo chimico) passino informazioni ai propri servizi segreti, d'altronde, non è un mistero. Anzi, è una pratica che si dà ormai per scontata. Ma ovviamente gli iracheni continuano a protestare per questo, e lo hanno fatto anche negli ultimi giorni, con una dettagliata lettera inviata sta inviata

Thursday, July 27, 2000

Russia contro radicali all'Onu

IL DAVIDE PARTITO RADICALE SFIDA LA RUSSIA GOLIA ALL'ONU

Il Foglio, 27 luglio 2000

di Mauro Suttora

Davide contro Golia. La vicenda della grande Russia che pretende l’espulsione dall’Onu del minuscolo Partito radicale transnazionale è solo apparentemente balzana. Due le accuse di Mosca: avere fatto parlare in aprile il dirigente ceceno Akhiad Idigov alla Commissione Onu per i diritti umani di Ginevra, e incassare soldi da trafficanti di droga e armi. Sarebbe incredibile, per un partito dichiaratamente antiproibizionista e nonviolento. E non era mai successo, in più di mezzo secolo di vita dell’Onu, che uno Stato attaccasse così a fondo una Ong (Organizzazione non governativa): neanche ai tempi della guerra fredda. Cosicché Le Monde venerdì scorso liquidava la questione con il titolo: «La Russia cerca di soffocare le voci di dissenso sulla Cecenia».

Non è detto, però, che non ci riesca. Perché il ruolo conquistato dai radicali durante gli ultimi cinque anni nel prestigioso consesso di New York è lo stesso giocato da 40 anni in Italia: quello dei rigorosi, strenui, provocatori ma preziosi rompiballe. Nel 1995 hanno ottenuto lo status di Ong di prima categoria: il più importante, concesso soltanto a una sessantina di organismi al livello di Croce Rossa, Caritas e Lega Islamica.
La seconda categoria è invece quella delle organizzazioni che hanno competenza in aree specifiche (come Amnesty International per i diritti umani, o Greenpeace nell’ecologia). In cambio, il Pr si è impegnato a non presentarsi più in elezioni italiane. Poco male: è stato sostituito dalle liste Pannella e Bonino. Ma è comunque la prima volta al mondo che un partito politico si tramuta in Ong.

Il debutto radicale all’Onu, il primo agosto 1995, nella «Sottocommissione per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze», avviene regalando la parola a Isak Chishi Swu, presidente dei Naga, un popolo perseguitato di tre milioni di persone al confine fra Cina, India e Birmania, ai quali nel 1947 Gandhi aveva incautamente promesso l’indipendenza.

Da allora i radicali hanno portato lo scompiglio nelle moquettate e ipocrite sale delle Nazioni Unite, dove tutti iniziano i loro educati discorsi con un politicamente correttissimo «Mister chairperson» (per non discriminare fra men e women). Hanno installato un loro ufficietto a Manhattan, proprio di fronte al Palazzo di Vetro. E hanno offerto la parola ai dissidenti di tutto il mondo, senza sottilizzare troppo sulle buone ragioni di ciascuno: una specie di «diritto di tribuna», un po’ come faceva Marco Pannella trent’anni fa quando firmava i giornali extraparlamentari, da Lotta Continua a Re Nudo, permettendone così la pubblicazione pur non condividendone i contenuti.

Per questa difesa «a priori» delle minoranze la vedova russa del Nobel Andrei Sacharov, Elena Bonner, oggi appoggia i radicali. Dall’Irak al Sudan, dall’Indonesia (per Timor Est) all’Ucraina (tatari di Crimea), decine di Stati del Terzo mondo - ma anche del secondo e del primo - in deficit di democrazia, si sono sentiti accusare pubblicamente, con toni raramente utilizzati in precedenza da autorevoli ma felpat e organizzazioni come Amnesty International.

Nel mirino dei pannelliani sono finite in particolare Cina e Russia, la prima per la repressione dei dissidenti e dei tibetani, la seconda a causa della guerra in Cecenia. La Campagna a favore del Tibet e del Dalai Lama è stata addirittura una delle quattro priorità del partito radicale transnazionale dal '95 a oggi, assieme a quelle contro la pena di morte («Nessuno tocchi Caino»), per la nascita del Tribunale penale Onu («Non c’è pace senza giustizia») e per il Kosovo.

Fino all’anno scorso l’uomo dei radicali all’Onu è stato il triestino Marino Busdachin (oggi c’è Marco Perduca), che i russi conoscono bene: prima di trasferirsi a New York, infatti, Busdachin è stato per anni il rappresentante radicale in Russia, fin dai tempi dell’Unione Sovietica. I rapporti fra il Pr e i governi di Mosca (comunisti o postcomunisti che fossero) hanno costantemente variato dal burrascoso al plumbeo.

Perfino ai tempi del Vietnam, infatti, gli antimilitaristi radicali finivano nelle galere italiane come obiettori di coscienza, ma di fronte ai vietcong comunisti tenevano a distinguersi dal resto del Movimento della pace, egemonizzato dal Pci e dai gruppuscoli marxisti: si limitavano ad appoggiare i bonzi che si bruciavano a Saigon, invocando inutilmente una «terza via» neutrale fra Usa e Hanoi. 

Nel '68, dopo l’invasione della Cecoslovacchia, Pannella corse a farsi arrestare a Sofia (Bulgaria), assieme agli aderenti della War Resisters International di Bertrand Russell. E anche dal '79 all'85, in piena bagarre pacifista contro i missili nucleari di Comiso (Ragusa), i radicali si tennero fuori dai cortei che chiudevano gli occhi sugli SS20 filosovietici.

Uno strenuo anticomunismo «da sinistra», insomma, che culminò nell’urlo pannelliano dell’84: «Mosca delenda est!» (mentre Washington era soltanto «mutanda ac servanda»). Così nel ‘90, appena la perestroika gorbacioviana lo permise, il Pr già «transnazionale» (e con il nuovo simbolo di Gandhi che aveva rimpiazzato la rosa nel pugno) aprì subito una sede a Mosca, che diventò la base degli obiettori di coscienza russi.

L’impegno radicale in Russia culminò nel '95 con un congresso internazionale antimilitarista a Mosca, organizzato assieme all’Associazione delle madri dei soldati (diciottenni di leva scaraventati a morire in Cecenia) e finanziato dalla Fondazione Soros. Scopo: legalizzare il servizio civile. Davanti a centinaia di partecipanti, il radicale russo Nikolai Kramov (obiettore con anni di carcere sulle spalle) disse, buon profeta: «La guerra in Cecenia, in corso dal '91, andrà avanti e si moltiplicherà fino a quando i veri padroni del nostro Paese rimarranno i militari».

I radicali hanno pagato anche un prezzo di sangue per le loro attività in Russia. Sei anni fa il dirigente italiano Andrea Tamburi è stato colpito a morte da sconosciuti a meno di cento metri dal commissariato centrale di Mosca, ed è deceduto tre giorni dopo in un ospedale, registrato sotto altro nome. L’anno dopo è stato aggredito e ferito alla testa Kramov, poi Sergej Vorontsov, iscritto radicale russo. Infine, trauma cranico e fratture multiple per l'anziano scrittore Valentin Oskotskij, membro della Commissione per la Grazia presso la presidenza della Federazione Russa, dell'associazione "Nessuno tocchi Caino", nonché direttore della rivista Literaturnye Vesti e docente alla facoltà di giornalismo dell'università di Mosca. Nessuno degli aggressori (appartenenti probabilmente ai servizi segreti, dei quali l’attuale presidente russo Vladimir Putin era dirigente) è mai stato arrestato.

L’altra bestia nera dei radicali all’Onu, oltre alla Serbia di Slobodan Milosevic, è la Cina. Ospite del Pr, il massimo dissidente cinese Wei Jingsheng ha preso la parola più volte per accusare il suo governo: l’ultima volta lo scorso 17 aprile a Ginevra, alla Commissione dei Diritti umani. Il 4 giugno 1999 i radicali sono stati gli unici in Italia a ricordarsi del decimo anniversario della strage di Tien an men, con una protesta di fronte all’ambasciata cinese a Roma. E notevole imbarazzo hanno sempre causato gli incontri ufficiali «strappati» dai radicali a palazzo Chigi e al Quirinale per il Dalai Lama.

Sfortunatamente per il Pr, la Cina è attualmente uno dei 54 membri (a rotazione triennale) dell’Ecosoc, il Consiglio economico e sociale dell’Onu nel cui ambito lavorano le Ong. E quindi si schiererà sicuramente contro i radicali, assieme a Bielorussia, Cuba, India, Indonesia, Vietnam e Sudan, oltre ovviamente alla Russia. Ma all’Onu votare non «fa fino», viene considerato un trauma, si preferiscono sempre le decisioni prese «per consenso». I radicali invece insistono: «Meglio dividerci, confrontarci. E anche scontrarci».

Il Pr è forte per il prestigio personale di Emma Bonino, che bazzica l’Onu dal '79. Da quando, cioè, iniziò la crociata di Pannella contro la fame nel mondo. La Bonino ormai, dopo vent’anni nell’Europarlamento e un quadriennio trionfale da commissario Ue per i diritti umani, dà del tu a Henry Kissinger e al gotha della diplomazia internazionale. Grazie a lei è nato il Tribunale Onu per i crimini in Jugoslavia, e sta nascendo quello permanente. Da tempo la Bonino è in corsa per una poltrona di peso in àmbito Onu.

Ma c’è un altro italiano con il grado di direttore generale, oggi all’Onu: il sociologo Pino Arlacchi, già senatore ulivista (lasciò il suo posto ad Antonio Di Pietro), che guida dal '97 l’Ufficio per il controllo della droga a Vienna. Cioè proprio l’organismo contestato più di ogni altro dal Pr, che non condivide il proibizionismo adottato dall’Onu in materia. Ogni volta che a Vienna c’è un dibattito sulla droga, i radicali prendono la parola per contestare Arlacchi: «Dal ’97 la produzione di droga nel mondo è aumentata», constatano, «e nell’Afghanistan dei talebani da lui lautamente finanziati è addirittura raddoppiata: oggi Kabul fornisce il 75 per cento dell’oppio mondiale». 

In effetti, la strategia Onu di offrire ai coltivatori di oppio e coca incentivi finanziari per cambiare produzione ha funzionato soltanto in Perù e Bolivia («Ma narcotizzando il mercato, che crollerebbe appena l’Onu non pagasse più», obiettano i radicali), e non in Birmania e Colombia. E questo ci porta alla seconda, inverosimile accusa lanciata contro i radicali: quella di essere finanziati dai grandi spacciatori di droga. 

Finora Mosca non ha sostanziato le sue contestazioni. Ma è facile immaginare che si riferisca anche all’appoggio dato dal segretario del Pr, il belga Olivier Dupuis (eletto europarlamentare un anno fa nella Lista Bonino), ad alcuni membri del «Consiglio andino dei produttori di coca». Maruja Machaca, Evo Morales e Roger Rumrill erano infatti finiti in prigione in Bolivia nel '95, dopo un tour europeo in cui avevano proposto la depenalizzazione della coltivazione della coca come alternativa allo sradicamento coatto effettuato dai raid militari. Dupuis scrisse al presidente boliviano Gonzalo Sanchez de Lozada, chiedendone la scarcerazione. 

Ma quella era un’iniziativa alla luce del sole. Ed è da trent’anni che i radicali contestano in ogni sede il proibizionismo sulle droghe. Lo sapeva anche la Russia, quando nel '95 votò sì all’ammissione del Pr all’Onu.
Mauro Suttora