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Thursday, March 27, 2003

Paolo Mieli sull'Iraq

Corriere della Sera, 27 marzo 2003

Amministrazione Onu per l' Iraq: le ragioni di Blair

LETTERE AL CORRIERE
risponde Paolo Mieli

Davvero non comprendo, caro Mieli, perché lei creda che l' Onu possa e debba amministrare il dopo in Iraq, non avendo saputo e voluto far nulla prima. Mentre nelle tombe di Al-Najaf le truppe anglo-americane trovano gli agenti chimici invano cercati dagli ispettori delle Nazioni Unite...

Luigi Castaldi
Napoli

Caro Castaldi,
ho già detto che non è prematuro discutere adesso del dopo Saddam. E, dal momento che ho ricevuto svariate lettere su questo tema (alcune di consenso a quel che avevo scritto, anche se ho preferito dar conto di due scelte tra quelle sfavorevoli), forse è bene spendere ancora due parole sull' argomento. Due parole per spiegare perché ritengo sensata la proposta di un' amministrazione Onu sull' Iraq avanzata molte settimane fa da intellettuali europei oltreché dai radicali italiani e che ora è diventata motivo di tensione tra il primo ministro inglese Tony Blair, il quale l' ha fatta sua, e il presidente degli Stati Uniti George W. Bush.

Io non tengo le Nazioni Unite in maggior considerazione di quanto le teniate voi. Ma penso che, stavolta, all' origine di ciò che ha messo in crisi il Palazzo di Vetro non siano state un' incertezza o un passo falso di Kofi Annan. E che perciò (cioè per il fatto di non avere colpe particolari nella degenerazione in guerra della situazione preesistente) l' Onu, pur con tutti i suoi difetti, possa tornare utile per una gestione del dopo Saddam condivisa dal consesso internazionale. Tra l' altro il fatto che su questo vi sia diversità di vedute tra il laburista europeo Blair e il conservatore americano Bush potrebbe offrire un' opportunità di rientrare utilmente nel gioco a molti Paesi del nostro continente. E a parti della sinistra che hanno fin qui avversato l' uso delle armi come strumento per dirimere il contenzioso con il dittatore di Bagdad.

Ma c' è dell' altro. Da tempo seguo con grande attenzione quel che dicono in proposito gli arabi riformisti e gli islamici non fondamentalisti. Tutti o quasi concordano con questa proposta. Amir Taheri, un iraniano che ora scrive per i più importanti quotidiani degli Stati Uniti, sostiene che l' America deve guardarsi dall' imporre all' Iraq di domani «questo o quel leader in virtù dei suoi legami con qualche esponente di Washington», che gli Stati Uniti dovranno mantenersi «neutrali e amici di tutti» e che l' epurazione dovrà essere più che cauta: «gli attuali parlamentari iracheni, tranne una settantina, sono riciclabili; si tratta di opportunisti, certo, ma un' amnistia generale dovrebbe esentare soltanto qualche dozzina di criminali, gli esecutori diretti degli ordini di Saddam Hussein» ha dichiarato a Mauro Suttora del Foglio.

L' imam iracheno di New York, Sheikh Fadehl Al-Sahlani, ha ribadito allo stesso Suttora che «un' amministrazione delle Nazioni Unite invece che statunitense sarebbe auspicabile perché gli iracheni la digerirebbero più facilmente: l' Iraq è un paese musulmano e l' Onu viene accettata perché comprende tutti i Paesi musulmani».

Un altro esule iracheno, Kanan Makiya, oggi docente ad Harvard, si è spinto più in là e ha suggerito che il nuovo Iraq, libero, sia «federale, non arabo e demilitarizzato». E ha precisato: «L' Iraq non è l' Afghanistan; è piuttosto ricco e sviluppato, possiede le risorse umane per diventare una grande forza per la democrazia e la ricostruzione nel mondo arabo e musulmano proprio come è stata una grande forza per l' autocrazia e la distruzione».

Potrei continuare, ma vi prego di credermi sulla parola: gli intellettuali che vengono da quell' area geografica sono pressoché unanimi nel ritenere che la prospettiva indicata da Blair sia più saggia di quella di Bush. E io, pur rinnovando le mie riserve su scelta dei tempi e modalità di questa guerra, nell' augurarmi adesso che si concluda al più presto con la deposizione del despota, ritengo che abbiano ragione.

Saturday, March 15, 1986

Filippine, cade Marcos: parla Gene Sharp

LOTTA NORMALE SENZA FARSI MALE
Un grande esperto di disobbedienza civile nonviolenta spiega la rivoluzione filippina

di Mauro Suttora

Europeo, 15 marzo 1986

(Il 25 febbraio 1986 il presidente delle Filippine Ferdinand Marcos  scappa all'estero dopo un'imponente rivolta popolare pacifica. Gli succede Corazon Aquino)

La nonviolenza ha vinto nelle incredibili giornate di Manila. Com'è potuto accadere? Ecco il parere di Gene Sharp, 58 anni, professore all'università di Harvard (Usa), massimo teorico vivente delle pratiche gandhiane:
"Azione nonviolenta è un termine generico che comprende moltissime tecniche di protesta, non collaborazione e intervento. Ma non si tratta di un metodo passivo: non è assenza di azione, è un'azione che è nonviolenta. Il suo presupposto è molto semplice: i sudditi hanno la possibilità di disobbedire alle leggi e ai governi che non accettano, perché il potere è in realtà nelle loro mani".

Anche nel caso di una dittatura?
"La servitù è sempre volontaria, in misura maggiore o minore. Lo constatava già nel XVI° secolo il filosofo francese Etienne de la Boétie, e prima di lui perfino Niccolò Machiavelli, quando scriveva che il Principe 'quanta più crudeltà usa, tanto più debole diventa il suo principato'.
Quando il consenso viene tolto, anche il peggior tiranno diventa un uomo qualsiasi. Il potenziale militare del governante può rimanere intatto, i suoi soldati incolumi, gli edifici del governo intatti, ma tutto è cambiato. È una legge scientifica.
È capitato in India con Gandhi, in Iran contro lo Scià nel 1978, e adesso nelle Filippine. Ma il primo episodio di disobbedienza civile collettiva registrato dalla storia accadde proprio da voi, a Roma, nel 494 avanti Cristo. Quando ai plebei, invece di uccidere i consoli, bastò ritirarsi sul Monte Sacro per ottenere maggiori diritti. E nessuno lo ricorda mai, ma anche la prima rivoluzione russa del febbraio 1917, quella menscevica, fu prevalentemente nonviolenta".

Invece in Cecoslovacchia nel 1968 e in Polonia nel 1980-81 i nonviolenti hanno perso.
"Sì, ma in Cecoslovacchia i sovietici riuscirono a normalizzare la situazione soltanto nell'aprile 1969, dopo otto mesi di resistenza. E in Polonia Solidarnosc è ancora attivissima, seppur nella clandestinità.
L'azione nonviolenta è un metodo: si può vincere, si può perdere. Ma, in ogni caso, quante vite si risparmiano usando le armi della nonviolenta? L'esempio delle Filippine, inoltre, sfata un luogo comune: che la nonviolenza possa avere successo solo in tempi molto lunghi. Sono bastati 18 giorni a Corazon Aquino per vincere".
Mauro Suttora