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Thursday, July 27, 2000

Russia contro radicali all'Onu

IL DAVIDE PARTITO RADICALE SFIDA LA RUSSIA GOLIA ALL'ONU

Il Foglio, 27 luglio 2000

di Mauro Suttora

Davide contro Golia. La vicenda della grande Russia che pretende l’espulsione dall’Onu del minuscolo Partito radicale transnazionale è solo apparentemente balzana. Due le accuse di Mosca: avere fatto parlare in aprile il dirigente ceceno Akhiad Idigov alla Commissione Onu per i diritti umani di Ginevra, e incassare soldi da trafficanti di droga e armi. Sarebbe incredibile, per un partito dichiaratamente antiproibizionista e nonviolento. E non era mai successo, in più di mezzo secolo di vita dell’Onu, che uno Stato attaccasse così a fondo una Ong (Organizzazione non governativa): neanche ai tempi della guerra fredda. Cosicché Le Monde venerdì scorso liquidava la questione con il titolo: «La Russia cerca di soffocare le voci di dissenso sulla Cecenia».

Non è detto, però, che non ci riesca. Perché il ruolo conquistato dai radicali durante gli ultimi cinque anni nel prestigioso consesso di New York è lo stesso giocato da 40 anni in Italia: quello dei rigorosi, strenui, provocatori ma preziosi rompiballe. Nel 1995 hanno ottenuto lo status di Ong di prima categoria: il più importante, concesso soltanto a una sessantina di organismi al livello di Croce Rossa, Caritas e Lega Islamica.
La seconda categoria è invece quella delle organizzazioni che hanno competenza in aree specifiche (come Amnesty International per i diritti umani, o Greenpeace nell’ecologia). In cambio, il Pr si è impegnato a non presentarsi più in elezioni italiane. Poco male: è stato sostituito dalle liste Pannella e Bonino. Ma è comunque la prima volta al mondo che un partito politico si tramuta in Ong.

Il debutto radicale all’Onu, il primo agosto 1995, nella «Sottocommissione per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze», avviene regalando la parola a Isak Chishi Swu, presidente dei Naga, un popolo perseguitato di tre milioni di persone al confine fra Cina, India e Birmania, ai quali nel 1947 Gandhi aveva incautamente promesso l’indipendenza.

Da allora i radicali hanno portato lo scompiglio nelle moquettate e ipocrite sale delle Nazioni Unite, dove tutti iniziano i loro educati discorsi con un politicamente correttissimo «Mister chairperson» (per non discriminare fra men e women). Hanno installato un loro ufficietto a Manhattan, proprio di fronte al Palazzo di Vetro. E hanno offerto la parola ai dissidenti di tutto il mondo, senza sottilizzare troppo sulle buone ragioni di ciascuno: una specie di «diritto di tribuna», un po’ come faceva Marco Pannella trent’anni fa quando firmava i giornali extraparlamentari, da Lotta Continua a Re Nudo, permettendone così la pubblicazione pur non condividendone i contenuti.

Per questa difesa «a priori» delle minoranze la vedova russa del Nobel Andrei Sacharov, Elena Bonner, oggi appoggia i radicali. Dall’Irak al Sudan, dall’Indonesia (per Timor Est) all’Ucraina (tatari di Crimea), decine di Stati del Terzo mondo - ma anche del secondo e del primo - in deficit di democrazia, si sono sentiti accusare pubblicamente, con toni raramente utilizzati in precedenza da autorevoli ma felpat e organizzazioni come Amnesty International.

Nel mirino dei pannelliani sono finite in particolare Cina e Russia, la prima per la repressione dei dissidenti e dei tibetani, la seconda a causa della guerra in Cecenia. La Campagna a favore del Tibet e del Dalai Lama è stata addirittura una delle quattro priorità del partito radicale transnazionale dal '95 a oggi, assieme a quelle contro la pena di morte («Nessuno tocchi Caino»), per la nascita del Tribunale penale Onu («Non c’è pace senza giustizia») e per il Kosovo.

Fino all’anno scorso l’uomo dei radicali all’Onu è stato il triestino Marino Busdachin (oggi c’è Marco Perduca), che i russi conoscono bene: prima di trasferirsi a New York, infatti, Busdachin è stato per anni il rappresentante radicale in Russia, fin dai tempi dell’Unione Sovietica. I rapporti fra il Pr e i governi di Mosca (comunisti o postcomunisti che fossero) hanno costantemente variato dal burrascoso al plumbeo.

Perfino ai tempi del Vietnam, infatti, gli antimilitaristi radicali finivano nelle galere italiane come obiettori di coscienza, ma di fronte ai vietcong comunisti tenevano a distinguersi dal resto del Movimento della pace, egemonizzato dal Pci e dai gruppuscoli marxisti: si limitavano ad appoggiare i bonzi che si bruciavano a Saigon, invocando inutilmente una «terza via» neutrale fra Usa e Hanoi. 

Nel '68, dopo l’invasione della Cecoslovacchia, Pannella corse a farsi arrestare a Sofia (Bulgaria), assieme agli aderenti della War Resisters International di Bertrand Russell. E anche dal '79 all'85, in piena bagarre pacifista contro i missili nucleari di Comiso (Ragusa), i radicali si tennero fuori dai cortei che chiudevano gli occhi sugli SS20 filosovietici.

Uno strenuo anticomunismo «da sinistra», insomma, che culminò nell’urlo pannelliano dell’84: «Mosca delenda est!» (mentre Washington era soltanto «mutanda ac servanda»). Così nel ‘90, appena la perestroika gorbacioviana lo permise, il Pr già «transnazionale» (e con il nuovo simbolo di Gandhi che aveva rimpiazzato la rosa nel pugno) aprì subito una sede a Mosca, che diventò la base degli obiettori di coscienza russi.

L’impegno radicale in Russia culminò nel '95 con un congresso internazionale antimilitarista a Mosca, organizzato assieme all’Associazione delle madri dei soldati (diciottenni di leva scaraventati a morire in Cecenia) e finanziato dalla Fondazione Soros. Scopo: legalizzare il servizio civile. Davanti a centinaia di partecipanti, il radicale russo Nikolai Kramov (obiettore con anni di carcere sulle spalle) disse, buon profeta: «La guerra in Cecenia, in corso dal '91, andrà avanti e si moltiplicherà fino a quando i veri padroni del nostro Paese rimarranno i militari».

I radicali hanno pagato anche un prezzo di sangue per le loro attività in Russia. Sei anni fa il dirigente italiano Andrea Tamburi è stato colpito a morte da sconosciuti a meno di cento metri dal commissariato centrale di Mosca, ed è deceduto tre giorni dopo in un ospedale, registrato sotto altro nome. L’anno dopo è stato aggredito e ferito alla testa Kramov, poi Sergej Vorontsov, iscritto radicale russo. Infine, trauma cranico e fratture multiple per l'anziano scrittore Valentin Oskotskij, membro della Commissione per la Grazia presso la presidenza della Federazione Russa, dell'associazione "Nessuno tocchi Caino", nonché direttore della rivista Literaturnye Vesti e docente alla facoltà di giornalismo dell'università di Mosca. Nessuno degli aggressori (appartenenti probabilmente ai servizi segreti, dei quali l’attuale presidente russo Vladimir Putin era dirigente) è mai stato arrestato.

L’altra bestia nera dei radicali all’Onu, oltre alla Serbia di Slobodan Milosevic, è la Cina. Ospite del Pr, il massimo dissidente cinese Wei Jingsheng ha preso la parola più volte per accusare il suo governo: l’ultima volta lo scorso 17 aprile a Ginevra, alla Commissione dei Diritti umani. Il 4 giugno 1999 i radicali sono stati gli unici in Italia a ricordarsi del decimo anniversario della strage di Tien an men, con una protesta di fronte all’ambasciata cinese a Roma. E notevole imbarazzo hanno sempre causato gli incontri ufficiali «strappati» dai radicali a palazzo Chigi e al Quirinale per il Dalai Lama.

Sfortunatamente per il Pr, la Cina è attualmente uno dei 54 membri (a rotazione triennale) dell’Ecosoc, il Consiglio economico e sociale dell’Onu nel cui ambito lavorano le Ong. E quindi si schiererà sicuramente contro i radicali, assieme a Bielorussia, Cuba, India, Indonesia, Vietnam e Sudan, oltre ovviamente alla Russia. Ma all’Onu votare non «fa fino», viene considerato un trauma, si preferiscono sempre le decisioni prese «per consenso». I radicali invece insistono: «Meglio dividerci, confrontarci. E anche scontrarci».

Il Pr è forte per il prestigio personale di Emma Bonino, che bazzica l’Onu dal '79. Da quando, cioè, iniziò la crociata di Pannella contro la fame nel mondo. La Bonino ormai, dopo vent’anni nell’Europarlamento e un quadriennio trionfale da commissario Ue per i diritti umani, dà del tu a Henry Kissinger e al gotha della diplomazia internazionale. Grazie a lei è nato il Tribunale Onu per i crimini in Jugoslavia, e sta nascendo quello permanente. Da tempo la Bonino è in corsa per una poltrona di peso in àmbito Onu.

Ma c’è un altro italiano con il grado di direttore generale, oggi all’Onu: il sociologo Pino Arlacchi, già senatore ulivista (lasciò il suo posto ad Antonio Di Pietro), che guida dal '97 l’Ufficio per il controllo della droga a Vienna. Cioè proprio l’organismo contestato più di ogni altro dal Pr, che non condivide il proibizionismo adottato dall’Onu in materia. Ogni volta che a Vienna c’è un dibattito sulla droga, i radicali prendono la parola per contestare Arlacchi: «Dal ’97 la produzione di droga nel mondo è aumentata», constatano, «e nell’Afghanistan dei talebani da lui lautamente finanziati è addirittura raddoppiata: oggi Kabul fornisce il 75 per cento dell’oppio mondiale». 

In effetti, la strategia Onu di offrire ai coltivatori di oppio e coca incentivi finanziari per cambiare produzione ha funzionato soltanto in Perù e Bolivia («Ma narcotizzando il mercato, che crollerebbe appena l’Onu non pagasse più», obiettano i radicali), e non in Birmania e Colombia. E questo ci porta alla seconda, inverosimile accusa lanciata contro i radicali: quella di essere finanziati dai grandi spacciatori di droga. 

Finora Mosca non ha sostanziato le sue contestazioni. Ma è facile immaginare che si riferisca anche all’appoggio dato dal segretario del Pr, il belga Olivier Dupuis (eletto europarlamentare un anno fa nella Lista Bonino), ad alcuni membri del «Consiglio andino dei produttori di coca». Maruja Machaca, Evo Morales e Roger Rumrill erano infatti finiti in prigione in Bolivia nel '95, dopo un tour europeo in cui avevano proposto la depenalizzazione della coltivazione della coca come alternativa allo sradicamento coatto effettuato dai raid militari. Dupuis scrisse al presidente boliviano Gonzalo Sanchez de Lozada, chiedendone la scarcerazione. 

Ma quella era un’iniziativa alla luce del sole. Ed è da trent’anni che i radicali contestano in ogni sede il proibizionismo sulle droghe. Lo sapeva anche la Russia, quando nel '95 votò sì all’ammissione del Pr all’Onu.
Mauro Suttora