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Saturday, May 10, 2003

Botte da radicali

Il segretario Olivier Dupuis se ne va

"Botte da radicali, un partito eccessivo nel bene e pure nelle liti"

Il Foglio, 10 maggio 2003

di Mauro Suttora

Anche in questi giorni, come sempre, i radicali stanno facendo un sacco di cose affascinanti. Emma Bonino entusiasma le donne yemenite che è andata a difendere, e scrive bei reportages per il Corsera. Marco Pannella incontra il governatore dell'Illinois che ha graziato 167 condannati a morte e incassa il sÏ del governo Berlusconi alla moratoria sulla pena capitale all'Onu. A Torino i due consiglieri regionali, Carmelo Palma e Bruno Mellano, presentano con il segretario del partito Olivier Dupuis un piano per la pace in Cecenia firmato da André Glucksmann, Daniel Cohn-Bendit e Elena Bonner Sacharov.

La presidente del partito Rita Bernardini passa la notte con agli extracomunitari davanti alla questura di Roma per capire le ragioni delle interminabili attese che vengono loro inflitte. L'eurodeputato Benedetto Della Vedova denuncia in un convegno che "la cultura degli enti privati diventa prefettizia". A Firenze Massimo Lensi presenta il suo libro sui diritti umani in Laos. A Bruxelles Marco Cappato si batte per la privacy nel mondo dei computer, e Maurizio Turco manda a Valéry Giscard d'Estaing le firme di 233 eurodeputati che chiedono laicità nella Costituzione Ue.

Da New York Marco Perduca denuncia che in Afghanistan la superficie coltivata a papavero per oppio è triplicata. Luca Coscioni convince Margherita Hack ad aderire alla sua associazione per la libertà scientifica, e 1.115 scienziati firmano l'appello per la clonazione terapeutica. Nei ritagli di tempo, poi, i radicali organizzano "maratone oratorie" per i dissidenti cubani, raccolgono firme per i montagnards vietnamiti, appoggiano i Falun gong cinesi e auspicano un'amministrazione Onu in Iraq.

Questa settimana, però, i militanti gandhiani hanno anche litigato fra loro. E non se la sono mandata a dire: come sempre, da perfetti libertari, hanno lavato i propri panni sporchi in pubblico. Sul loro sito internet, www.radicali.it, tutti possono seguire un gustoso psicodramma che surclassa Broadway.

Non capita tutti i giorni che il numero uno di un partito (il segretario "transnazionale" Dupuis) si dimetta sbattendo la porta, che il numero due (Daniele Capezzone, il segretario italiano) lo accusi di dire solo menzogne, e che il capo supremo lo tratti da oligofrenico. Dupuis scrive a Pannella una lettera di nove pagine per respingere "i tuoi tentativi di accreditare una lettura personale e psicologica (quando non psichiatrica) del mio disagio. E' escluso che la carica di segretario possa essere ricoperta da uno che tu consideri una via di mezzo fra un mascalzone e un mentitore recidivo".

I motivi della rottura? "Non ho la disponibilità delle risorse interne", lamenta Dupuis, "nessuna capacità effettiva di spesa, di gestire gli indirizzari, alcun effettivo potere. Ormai la mia carica serve solo per consentire a te di esercitare un controllo assoluto e irresponsabile. Non accetto di dovere rispondere io di quanto fai tu. Conosco la ferocia di cui puoi essere capace. Sei "dominus" di una organizzazione carismatica. La tua gestione della 'campagna Iraq' è stata segnata dall'esclusione di ogni momento di reale dibattito politico, e da un ricorso costante e parossistico all'imputazione di responsabilit‡ tecnico-organizzative. Si è parlato più di mailing che di scelte politiche, più di "volumi" che del significato di questa iniziativa".
E sulla Cecenia: "Falla tu una proposta che non serva solo a passare sul Tg1 e a esibire Umar Khambiev (ministro del governo ceceno in esilio iscritto al Pr, ndr) come una madonna pellegrina nella prossima campagna elettorale".

Pannella ha risposto on line dopo appena mezz'ora: "La mia è una critica ferma del segretario nell'esercizio delle sue funzioni, mentre da parte di Olivier v'è una vera e propria eruzione di giudizi che riguardano - in modo toccante - la confessione di avermi conosciuto per quale effettivamente sarei solamente dopo 22 anni di sua presenza nel Pr, otto di sua massima responsabilità politica, e sette da europarlamentare".

Un altro motivo di dissidio fra i radicali - ma questo tutto ideologico - riguarda la recente infatuazione di Capezzone nei confronti dei neo-con statunitensi. Da vent'anni Pannella e Bonino predicano il diritto di ingerenza umanitario e "democratico" contro le dittature, ma molti dirigenti storcono il naso nei confronti di quello che giudicano un eccessivo appiattimento sulle posizioni dell'amministrazione Bush, di pensatoi come l'American Enterprise Institute e di personaggi come Paul Wolfowitz.

Mauro Suttora

Wednesday, April 10, 2002

Radicali a congresso a Ginevra

CONGRESSO DEL PARTITO RADICALE TRANSNAZIONALE A GINEVRA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 10 aprile 2002

Ginevra. La location non poteva essere più azzeccata: i radicali si sono riuniti a congresso in una sala a poche centinaia di metri dai palazzi della Società delle Nazioni, oggi Onu. E proprio contro lo «spirito di Monaco», quel famigerato appeasement del 1938 nei confronti di Adolf Hitler, Marco Pannella si è scagliato nel suo discorso di investitura, criticando «i pacifisti di allora e di oggi i quali manifestano in favore dei dittatori, ma che invocando la pace producono sempre la guerra».

Ci tengono, i radicali antimilitaristi e nonviolenti, a distinguersi in questi giorni dai «pacifisti» comunisti, rifondaroli o noglobal, che corrono ad abbracciare Yasser Arafat. «Per loro i palestinesi acquistano dignità umana solo se e quando vengono colpiti da una pallottola israeliana», accusa Pannella.  

Più in là c’è la sede della Croce Rossa, a destra quella dell’Agenzia Onu per i rifugiati, a sinistra quella della Commissione Onu per i diritti umani riunita proprio in queste settimane. Perciò i radicali sono qui, al seguito della loro crocerossina capa Emma Bonino che tanto ha brillato da commissaria Ue per gli aiuti umanitari. 

Ma, a differenza dei «burocrati dell’umanisteria» (come li ha bollati Milan Kundera), i radicali praticano l’azione diretta nonviolenta. Così da oggi in 400 digiunano per i ceceni sterminati dai russi, e fra i 500 congressisti c’erano i cinque reduci dal mezzo mese di carcere laotiano dello scorso novembre. «Libertà e democrazia», avevano scritto sul loro striscione. 

Lo stesso slogan riassume gli obiettivi del Partito radicale transnazionale (da non confondere con i Radicali italiani, che ne sono solo una parte). Ma poiché i satrapi nel mondo abbondano, le priorità individuate sono sette: Israele, Cecenia, Tibet, Uighuristan (o Xinjiang, o Turkestan orientale), Tunisia, Balcani e Caucaso nella Ue (come Israele). Continua inoltre la campagna per l’antiproibizionismo sulle droghe.

Programma ambizioso, per un partito del due per cento senza parlamentari italiani e quindi privo di sovvenzioni pubbliche. Dal 1996, però, i radicali riescono ad autofinanziarsi grazie a un Call center che sollecita in continuazione decine di migliaia di simpatizzanti. E’ questo, oltre a Radio radicale con le rassegne stampa mattutine del suo direttore Massimo Bordin (ritenute da molti le migliori d’Italia), il vero cuore dell’iniziativa pannelliana. 

Lo ha inventato il tesoriere Danilo Quinto, che però a Ginevra è stato al centro delle contestazioni: da una parte lui, l’eurodeputato Maurizio Turco e il segretario italiano Daniele Capezzone. Dall’altra gli europarlamentari Benedetto Della Vedova, Gianfranco Dell’Alba, Olivier Dupuis, e i due consiglieri regionali piemontesi accusati di aver «cammellato» iscritti grazie alla vicinanza con Torino. Eventualità improbabile, visto che la tessera annuale costa 200 euro.

Dopo trattative fino alle cinque del mattino, Pannella è stato costretto a scendere in campo e ad accettare la carica di primo presidente, per farne ingoiare al congresso altri quattro (Dupuis, Quinto, Marco Perduca e Marco Cappato) ed evitare clamorose spaccature fra i propri ambiziosi seguaci. 

Questa moltiplicazione delle poltrone è stata contestata dal 40 per cento dei congressisti, e c’è voluta tutta la mezzosecolare abilità dialettica del leader per placare le acque. «Marco, da mulo abruzzese ti sei trasformato in cavallo di Troia incinto di quattro presidenti», lo ha preso in giro il dirigente Michele Boselli. 

Fra i critici, anche tutti gli «eroi» del Laos: Silvja Manzi, Bruno Mellano, Massimo Lensi, Dupuis e il russo Nicolai Kramov. Promosso «dissidente» invece Adriano Sofri, con la sua gigantografia appesa accanto a quelle di prigionieri politici di tutto il mondo, come la Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi. Una scelta provocatoria, che ha fatto discutere gli stessi radicali.
Mauro Suttora

Monday, October 29, 2001

Dopo le Twin Towers: radicali filo-Usa

DOPO L'11 SETTEMBRE: W GLI STATI UNITI, SEMPRE

di Mauro Suttora
Il Foglio, 29 ottobre 2001

«Se veniamo, portiamo le gigantografie di Roosevelt e di Milton Friedman». Marco Pannella promette (minaccia?) una presenza «non banale» dei radicali alla manifestazione pro-Usa del 10 novembre a Roma. «Oppure srotoliamo dal Pincio o da un aereo uno striscione immenso, lungo 40 metri, con le bandiere di Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele e la nostra, quella con il viso di Gandhi».

Franklin Delano Roosevelt e il capo degli economisti di Chicago non hanno nulla in comune, tranne la nazionalità americana e l’antiproibizionismo: il presidente del New Deal legalizzò gli alcolici, il Nobel liberista vuole liberalizzare anche lo spinello.

Ma la lingua di Pannella batte dove il dente duole. Perché i radicali sono i precursori dell’Usa Pride: da 15 anni propugnano istituzioni americane (presidenzialismo a turno unico), giustizia americana (pubblica accusa distinta dai giudici), economia americana (mercato libero e privatizzazioni).

Dalla guerra del Golfo dicono sì, loro nonviolenti e antimilitaristi, a tutti i bombardamenti Nato su Irak, Bosnia e Kosovo. Dopo l’11 settembre sono stati i primi a manifestare per gli Stati Uniti, raccogliendo per strada firme su 25 proposte di legge all’ombra di bandiere a stelle e strisce, Union Jack e stelle di Davide. Il giorno della Perugia-Assisi sono andati polemicamente a omaggiare i soldati britannici in un cimitero di guerra umbro.

Ma sabato scorso, dopo i messaggi di Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi al convegno a San Patrignano, Pannella è stato anche il primo ad accusare di «neofascismo» la politica del Polo sulle droghe. E domenica Emma Bonino ha rincarato su Repubblica, giornale che normalmente la ignora (silenzio sulla sua guerra personale ai talebani, iniziata cinque anni fa), ma che la intervista appena dice «qualcosa di sinistra», cioè di libertario. Fatale, quindi, che a questo punto la bruciante attualità politica faccia premio sulla collaudata sintonia fra filoamericani.

Peccato, perché le prime reazioni radicali all’annuncio della marcia per le vittime di Manhattan era stata entusiasta: «Finalmente potremo riannodare il dialogo con i simpatizzanti del Polo, che tanto hanno contribuito all’otto per cento della lista Bonino nel ‘99», esultavano i dirigenti Antonello Marzano e Vasco Carraro.

Adesso invece prevale la cautela: «Non sappiamo nulla, neanche se ci invitano, se ci coinvolgono», prende le distanze Pannella, «quindi sarà il nostro Comitato, riunito dal primo al 4 novembre, a decidere sulla partecipazione ufficiale dei radicali. I quali comunque sono liberissimi di andarci. Leggo però che la cosa si sta trasformando in una manifestazione musicale, mentre noi sollecitiamo un massimo di connotazione politica per assicurarne il successo. Perché la nostra non è solidarietà generica: noi manifestiamo a favore delle istituzioni americane, proprio come forma organizzata della democrazia. Altro che “solidarietà al popolo americano”, come dice Bertinotti: lui è amico dei popoli ma nemico di tutti i loro governanti, basta che siano democraticamente eletti. A co minciare dai G8. Viceversa, è amico di tutti coloro che li opprimono, i popoli. L’unico bersaglio degli antiglobal è la democrazia - capitalista, naturalmente, anche perché altro tipo di democrazie non si conosce».

La tentazione del «pochi ma buoni» per Pannella è forte: «Il 10 novembre potremmo pure andarcene a Nettuno, dove c’è uno dei più grandi cimiteri militari americani d’Europa». Ma i radicali non erano antimilitaristi? «Auspichiamo anche oggi una conversione graduale delle spese belliche in strutture di aggressione nonviolenta contro le dittature del mondo».

E i bombardamenti in Afghanistan? «Ora siamo in ballo e dobbiamo ballare: questi governanti e generali americani non sanno fare granché, ma le armi che hanno a disposizione sono queste. E noi nonviolenti non sappiamo offrire armi alternative. Avvertiamo, però: all’interno della nuova sacra alleanza fra America, Russia e Cina possono esserci i mostri di domani. Il leader cinese resta un assassino, e Bush che va da lui a Shanghai rischia di ripetere Monaco e Yalta».

I radicali hanno passato tutti gli anni ‘80 ad ammonire su Saddam Hussein, il decennio successivo a puntare il dito contro Slobodan Milosevic, e il giorno dopo che i talebani presero Kabul nel ‘96 già facevano le Cassandre.

Profeti inascoltati?
«È un nostro vizio antico e gigantesco», ironizza Pannella, «quello di occuparci di gente che non ci può votare. E c’è anche la garanzia che in Italia nessuno parli di coloro dei quali ci occupiamo».

Cioè?
«Quattro giorni fa cinque nostri esponenti sono andati nel Laos comunista e hanno fatto la stessa cosa che nello stesso luogo, nello stesso posto e nella stessa data avevano osato fare cinque studenti laotiani il 26 ottobre 1999: hanno esposto uno striscione con la scritta “Democrazia per il Laos”. Di quegli sventurati non si sa più nulla: se sono vivi, morti, in carcere, dove. Desaparecidos. Ma anche dei radicali gli italiani non hanno saputo quasi nulla. Eppure fra loro ci sono Olivier Dupuis, segretario del partito ed eurodeputato eletto in Italia, Bruno Mellano, consigliere regionale in Piemonte, il capo dei radicali russi Nikolai Kramov, oltre a Massimo Lensi e a Silvja Manzi. Se si fossero fatti rapire nello Yemen, tutti ne avrebbero parlato. Invece, silenzio totale da parte dei nostri boss tv: Vespa, Santoro, Biagi, Costanzo, anche Lerner».
Mauro Suttora

Wednesday, April 04, 2001

Satyagraha radicale

LA CENSURA DEL 'CASO ITALIA' FINISCE A GINEVRA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 4 aprile 2001

«Come in piazza Rossa sotto Stalin e in piazza Tien an men, anche davanti al Quirinale è proibito manifestare». Marco Pannella attacca ancora il presidente Carlo Azeglio Ciampi dopo che il capolista radicale Luca Coscioni (malato di sclerosi laterale in carrozzella) è stato sfrattato dalla piazza romana. Motivazione della questura: mancava il permesso di occupazione del suolo pubblico.

«Ormai l’Italia è come il Tibet, Cuba, la Cecenia, la Cina. Può sembrare incredibile, ma nel nostro Paese, che il mondo conosce come una democrazia matura e sviluppata, si vanno deteriorando i principi stessi della libertà e della democrazia». Con queste parole lunedì l’eurodeputato Olivier Dupuis, segretario del partito radicale, ha sollevato il “caso Italia” davanti alla Commissione diritti umani dell’Onu a Ginevra. 

Esagerazioni? «Roma nell’ultimo anno è stata condannata 367 volte dalla Corte europea dei diritti umani», spiega Dupuis, «cioè una condanna al giorno. L'Italia è uno Stato in cui la Corte Costituzionale ha una giurisprudenza così arbitraria da attentare ai diritti che dovrebbe tutelare. Non lo diciamo noi, ma vari ex presidenti della Corte stessa. L'Autorità giudiziaria copre la violazione delle regole fondamentali del processo elettorale, 'autorizzando' la presentazione di liste e candidature con firme false e irregolari. Luca Coscioni ha lanciato un appello internazionale contro i veti clericali alla ricerca medica, raccolto da 33 premi Nobel e centinaia d'illustri scienziati. Ma questo evento non è stato nemmeno 'registrato' dall’informazione scritta e televisiva pubblica e privata».

Nei rari casi in cui Emma Bonino appare in tv («Telecamere», domenica sera), un ritardo la fa slittare a notte fonda: il programma è finito alle due meno venti. Così i radicali, esulcerati, adottano i metodi estremi della nonviolenza. Il 5 aprile 1930 Mohandas Gandhi fu arrestato vicino a Bombay perché, con la Marcia del sale, violò il monopolio inglese sull’estrazione. Riuscirà oggi Pannella a infrangere il duopolio Rai-Mediaset sull’informazione? 

La Bonino annuncia un «satyagraha» (sciopero della fame, con minaccia di passare a quello della sete): «Non chiediamo spazi per il nostro movimento, ma dibattito sui temi politici d’attualità: libertà della scienza, libertà economiche, libertà sessuali». 

Anche Radio radicale ha sospeso le trasmissioni per tre giorni. Ora i pannelliani dalla fantasia inesauribile immaginano una marcia a piedi, «dagli studi Rai di Saxa Rubra a Roma fino a quelli Mediaset a Milano: un po’ Gandhi e un po’ Marcos», propone Dario Russo sul forum del sito www.radicali.it.

Intanto, sui muri d’Italia sono affissi gli unici due poster della lista Bonino. Uno liberista: «Decidi tu o il sindacato? Libera il lavoro, l’impresa, la vita». L’altro anticlericale: «Decidi tu o il Vaticano? Libera il sesso, la scienza, la vita». 

Scienziati da tutto il mondo inondano Coscioni (33 anni, docente universitario umbro) di solidarietà. «Appoggio completamente la sua causa», gli scrive sir Godfrey Hounsfield, Nobel per la medicina del ‘79, «perché gli argomenti contro l’uso degli embrioni si basano sulla superstizione. Naturalmente lei ha un antico sostenitore: Galileo».

E Kenneth Arrow, Nobel ‘72 dell’Economia: «Anche negli Usa l’uso delle cellule staminali per la ricerca contro la sclerosi laterale amiotrofica viene attaccato dalla nuova amministrazione Bush. Sono totalmente con lei». Così altri 16 Nobel per la Chimica, otto della Medicina, sette della Fisica. 

Noam Chomsky del Mit di Boston: «Le barriere contro la ricerca sugli embrioni umani devono essere distrutte». In Italia le liste radicali sono zeppe di candidati scienziati e ricercatori. Prestigiosa l’adesione del professor Edoardo Boncinelli (il più noto genetista italiano dopo Renato Dulbecco, collaboratore del Corriere della Sera), che pure lavora nel cattolico centro San Raffaele di Milano. 

Avverte Giulio Cossu, presidente dell’Associazione italiana biologia cellulare: «Sta tornando l’inquisizione. È raccapricciante pensare agli embrioni distrutti senza motivo, ma negati alla scienza». Da Roma, aderiscono l’ex rettore Giorgio Tecce e il matematico Alessandro Figà Talamanca.

Ma, alla fine, tutta questa mobilitazione farà superare alla lista Bonino la soglia del 4 per cento? Gli ultimi sondaggi sorridono ai radicali: La Stampa li dà al tre, Datamedia al quattro. Loro, comunque, sono riusciti a presentare liste in tutte le regioni: compreso il Veneto, dove avevano subìto una grossa emorragia di iscritti, critici per certi metodi centralisti dei gandhiani romani.
Mauro Suttora

Thursday, July 27, 2000

Russia contro radicali all'Onu

IL DAVIDE PARTITO RADICALE SFIDA LA RUSSIA GOLIA ALL'ONU

Il Foglio, 27 luglio 2000

di Mauro Suttora

Davide contro Golia. La vicenda della grande Russia che pretende l’espulsione dall’Onu del minuscolo Partito radicale transnazionale è solo apparentemente balzana. Due le accuse di Mosca: avere fatto parlare in aprile il dirigente ceceno Akhiad Idigov alla Commissione Onu per i diritti umani di Ginevra, e incassare soldi da trafficanti di droga e armi. Sarebbe incredibile, per un partito dichiaratamente antiproibizionista e nonviolento. E non era mai successo, in più di mezzo secolo di vita dell’Onu, che uno Stato attaccasse così a fondo una Ong (Organizzazione non governativa): neanche ai tempi della guerra fredda. Cosicché Le Monde venerdì scorso liquidava la questione con il titolo: «La Russia cerca di soffocare le voci di dissenso sulla Cecenia».

Non è detto, però, che non ci riesca. Perché il ruolo conquistato dai radicali durante gli ultimi cinque anni nel prestigioso consesso di New York è lo stesso giocato da 40 anni in Italia: quello dei rigorosi, strenui, provocatori ma preziosi rompiballe. Nel 1995 hanno ottenuto lo status di Ong di prima categoria: il più importante, concesso soltanto a una sessantina di organismi al livello di Croce Rossa, Caritas e Lega Islamica.
La seconda categoria è invece quella delle organizzazioni che hanno competenza in aree specifiche (come Amnesty International per i diritti umani, o Greenpeace nell’ecologia). In cambio, il Pr si è impegnato a non presentarsi più in elezioni italiane. Poco male: è stato sostituito dalle liste Pannella e Bonino. Ma è comunque la prima volta al mondo che un partito politico si tramuta in Ong.

Il debutto radicale all’Onu, il primo agosto 1995, nella «Sottocommissione per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze», avviene regalando la parola a Isak Chishi Swu, presidente dei Naga, un popolo perseguitato di tre milioni di persone al confine fra Cina, India e Birmania, ai quali nel 1947 Gandhi aveva incautamente promesso l’indipendenza.

Da allora i radicali hanno portato lo scompiglio nelle moquettate e ipocrite sale delle Nazioni Unite, dove tutti iniziano i loro educati discorsi con un politicamente correttissimo «Mister chairperson» (per non discriminare fra men e women). Hanno installato un loro ufficietto a Manhattan, proprio di fronte al Palazzo di Vetro. E hanno offerto la parola ai dissidenti di tutto il mondo, senza sottilizzare troppo sulle buone ragioni di ciascuno: una specie di «diritto di tribuna», un po’ come faceva Marco Pannella trent’anni fa quando firmava i giornali extraparlamentari, da Lotta Continua a Re Nudo, permettendone così la pubblicazione pur non condividendone i contenuti.

Per questa difesa «a priori» delle minoranze la vedova russa del Nobel Andrei Sacharov, Elena Bonner, oggi appoggia i radicali. Dall’Irak al Sudan, dall’Indonesia (per Timor Est) all’Ucraina (tatari di Crimea), decine di Stati del Terzo mondo - ma anche del secondo e del primo - in deficit di democrazia, si sono sentiti accusare pubblicamente, con toni raramente utilizzati in precedenza da autorevoli ma felpat e organizzazioni come Amnesty International.

Nel mirino dei pannelliani sono finite in particolare Cina e Russia, la prima per la repressione dei dissidenti e dei tibetani, la seconda a causa della guerra in Cecenia. La Campagna a favore del Tibet e del Dalai Lama è stata addirittura una delle quattro priorità del partito radicale transnazionale dal '95 a oggi, assieme a quelle contro la pena di morte («Nessuno tocchi Caino»), per la nascita del Tribunale penale Onu («Non c’è pace senza giustizia») e per il Kosovo.

Fino all’anno scorso l’uomo dei radicali all’Onu è stato il triestino Marino Busdachin (oggi c’è Marco Perduca), che i russi conoscono bene: prima di trasferirsi a New York, infatti, Busdachin è stato per anni il rappresentante radicale in Russia, fin dai tempi dell’Unione Sovietica. I rapporti fra il Pr e i governi di Mosca (comunisti o postcomunisti che fossero) hanno costantemente variato dal burrascoso al plumbeo.

Perfino ai tempi del Vietnam, infatti, gli antimilitaristi radicali finivano nelle galere italiane come obiettori di coscienza, ma di fronte ai vietcong comunisti tenevano a distinguersi dal resto del Movimento della pace, egemonizzato dal Pci e dai gruppuscoli marxisti: si limitavano ad appoggiare i bonzi che si bruciavano a Saigon, invocando inutilmente una «terza via» neutrale fra Usa e Hanoi. 

Nel '68, dopo l’invasione della Cecoslovacchia, Pannella corse a farsi arrestare a Sofia (Bulgaria), assieme agli aderenti della War Resisters International di Bertrand Russell. E anche dal '79 all'85, in piena bagarre pacifista contro i missili nucleari di Comiso (Ragusa), i radicali si tennero fuori dai cortei che chiudevano gli occhi sugli SS20 filosovietici.

Uno strenuo anticomunismo «da sinistra», insomma, che culminò nell’urlo pannelliano dell’84: «Mosca delenda est!» (mentre Washington era soltanto «mutanda ac servanda»). Così nel ‘90, appena la perestroika gorbacioviana lo permise, il Pr già «transnazionale» (e con il nuovo simbolo di Gandhi che aveva rimpiazzato la rosa nel pugno) aprì subito una sede a Mosca, che diventò la base degli obiettori di coscienza russi.

L’impegno radicale in Russia culminò nel '95 con un congresso internazionale antimilitarista a Mosca, organizzato assieme all’Associazione delle madri dei soldati (diciottenni di leva scaraventati a morire in Cecenia) e finanziato dalla Fondazione Soros. Scopo: legalizzare il servizio civile. Davanti a centinaia di partecipanti, il radicale russo Nikolai Kramov (obiettore con anni di carcere sulle spalle) disse, buon profeta: «La guerra in Cecenia, in corso dal '91, andrà avanti e si moltiplicherà fino a quando i veri padroni del nostro Paese rimarranno i militari».

I radicali hanno pagato anche un prezzo di sangue per le loro attività in Russia. Sei anni fa il dirigente italiano Andrea Tamburi è stato colpito a morte da sconosciuti a meno di cento metri dal commissariato centrale di Mosca, ed è deceduto tre giorni dopo in un ospedale, registrato sotto altro nome. L’anno dopo è stato aggredito e ferito alla testa Kramov, poi Sergej Vorontsov, iscritto radicale russo. Infine, trauma cranico e fratture multiple per l'anziano scrittore Valentin Oskotskij, membro della Commissione per la Grazia presso la presidenza della Federazione Russa, dell'associazione "Nessuno tocchi Caino", nonché direttore della rivista Literaturnye Vesti e docente alla facoltà di giornalismo dell'università di Mosca. Nessuno degli aggressori (appartenenti probabilmente ai servizi segreti, dei quali l’attuale presidente russo Vladimir Putin era dirigente) è mai stato arrestato.

L’altra bestia nera dei radicali all’Onu, oltre alla Serbia di Slobodan Milosevic, è la Cina. Ospite del Pr, il massimo dissidente cinese Wei Jingsheng ha preso la parola più volte per accusare il suo governo: l’ultima volta lo scorso 17 aprile a Ginevra, alla Commissione dei Diritti umani. Il 4 giugno 1999 i radicali sono stati gli unici in Italia a ricordarsi del decimo anniversario della strage di Tien an men, con una protesta di fronte all’ambasciata cinese a Roma. E notevole imbarazzo hanno sempre causato gli incontri ufficiali «strappati» dai radicali a palazzo Chigi e al Quirinale per il Dalai Lama.

Sfortunatamente per il Pr, la Cina è attualmente uno dei 54 membri (a rotazione triennale) dell’Ecosoc, il Consiglio economico e sociale dell’Onu nel cui ambito lavorano le Ong. E quindi si schiererà sicuramente contro i radicali, assieme a Bielorussia, Cuba, India, Indonesia, Vietnam e Sudan, oltre ovviamente alla Russia. Ma all’Onu votare non «fa fino», viene considerato un trauma, si preferiscono sempre le decisioni prese «per consenso». I radicali invece insistono: «Meglio dividerci, confrontarci. E anche scontrarci».

Il Pr è forte per il prestigio personale di Emma Bonino, che bazzica l’Onu dal '79. Da quando, cioè, iniziò la crociata di Pannella contro la fame nel mondo. La Bonino ormai, dopo vent’anni nell’Europarlamento e un quadriennio trionfale da commissario Ue per i diritti umani, dà del tu a Henry Kissinger e al gotha della diplomazia internazionale. Grazie a lei è nato il Tribunale Onu per i crimini in Jugoslavia, e sta nascendo quello permanente. Da tempo la Bonino è in corsa per una poltrona di peso in àmbito Onu.

Ma c’è un altro italiano con il grado di direttore generale, oggi all’Onu: il sociologo Pino Arlacchi, già senatore ulivista (lasciò il suo posto ad Antonio Di Pietro), che guida dal '97 l’Ufficio per il controllo della droga a Vienna. Cioè proprio l’organismo contestato più di ogni altro dal Pr, che non condivide il proibizionismo adottato dall’Onu in materia. Ogni volta che a Vienna c’è un dibattito sulla droga, i radicali prendono la parola per contestare Arlacchi: «Dal ’97 la produzione di droga nel mondo è aumentata», constatano, «e nell’Afghanistan dei talebani da lui lautamente finanziati è addirittura raddoppiata: oggi Kabul fornisce il 75 per cento dell’oppio mondiale». 

In effetti, la strategia Onu di offrire ai coltivatori di oppio e coca incentivi finanziari per cambiare produzione ha funzionato soltanto in Perù e Bolivia («Ma narcotizzando il mercato, che crollerebbe appena l’Onu non pagasse più», obiettano i radicali), e non in Birmania e Colombia. E questo ci porta alla seconda, inverosimile accusa lanciata contro i radicali: quella di essere finanziati dai grandi spacciatori di droga. 

Finora Mosca non ha sostanziato le sue contestazioni. Ma è facile immaginare che si riferisca anche all’appoggio dato dal segretario del Pr, il belga Olivier Dupuis (eletto europarlamentare un anno fa nella Lista Bonino), ad alcuni membri del «Consiglio andino dei produttori di coca». Maruja Machaca, Evo Morales e Roger Rumrill erano infatti finiti in prigione in Bolivia nel '95, dopo un tour europeo in cui avevano proposto la depenalizzazione della coltivazione della coca come alternativa allo sradicamento coatto effettuato dai raid militari. Dupuis scrisse al presidente boliviano Gonzalo Sanchez de Lozada, chiedendone la scarcerazione. 

Ma quella era un’iniziativa alla luce del sole. Ed è da trent’anni che i radicali contestano in ogni sede il proibizionismo sulle droghe. Lo sapeva anche la Russia, quando nel '95 votò sì all’ammissione del Pr all’Onu.
Mauro Suttora