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Wednesday, April 10, 2002

Radicali a congresso a Ginevra

CONGRESSO DEL PARTITO RADICALE TRANSNAZIONALE A GINEVRA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 10 aprile 2002

Ginevra. La location non poteva essere più azzeccata: i radicali si sono riuniti a congresso in una sala a poche centinaia di metri dai palazzi della Società delle Nazioni, oggi Onu. E proprio contro lo «spirito di Monaco», quel famigerato appeasement del 1938 nei confronti di Adolf Hitler, Marco Pannella si è scagliato nel suo discorso di investitura, criticando «i pacifisti di allora e di oggi i quali manifestano in favore dei dittatori, ma che invocando la pace producono sempre la guerra».

Ci tengono, i radicali antimilitaristi e nonviolenti, a distinguersi in questi giorni dai «pacifisti» comunisti, rifondaroli o noglobal, che corrono ad abbracciare Yasser Arafat. «Per loro i palestinesi acquistano dignità umana solo se e quando vengono colpiti da una pallottola israeliana», accusa Pannella.  

Più in là c’è la sede della Croce Rossa, a destra quella dell’Agenzia Onu per i rifugiati, a sinistra quella della Commissione Onu per i diritti umani riunita proprio in queste settimane. Perciò i radicali sono qui, al seguito della loro crocerossina capa Emma Bonino che tanto ha brillato da commissaria Ue per gli aiuti umanitari. 

Ma, a differenza dei «burocrati dell’umanisteria» (come li ha bollati Milan Kundera), i radicali praticano l’azione diretta nonviolenta. Così da oggi in 400 digiunano per i ceceni sterminati dai russi, e fra i 500 congressisti c’erano i cinque reduci dal mezzo mese di carcere laotiano dello scorso novembre. «Libertà e democrazia», avevano scritto sul loro striscione. 

Lo stesso slogan riassume gli obiettivi del Partito radicale transnazionale (da non confondere con i Radicali italiani, che ne sono solo una parte). Ma poiché i satrapi nel mondo abbondano, le priorità individuate sono sette: Israele, Cecenia, Tibet, Uighuristan (o Xinjiang, o Turkestan orientale), Tunisia, Balcani e Caucaso nella Ue (come Israele). Continua inoltre la campagna per l’antiproibizionismo sulle droghe.

Programma ambizioso, per un partito del due per cento senza parlamentari italiani e quindi privo di sovvenzioni pubbliche. Dal 1996, però, i radicali riescono ad autofinanziarsi grazie a un Call center che sollecita in continuazione decine di migliaia di simpatizzanti. E’ questo, oltre a Radio radicale con le rassegne stampa mattutine del suo direttore Massimo Bordin (ritenute da molti le migliori d’Italia), il vero cuore dell’iniziativa pannelliana. 

Lo ha inventato il tesoriere Danilo Quinto, che però a Ginevra è stato al centro delle contestazioni: da una parte lui, l’eurodeputato Maurizio Turco e il segretario italiano Daniele Capezzone. Dall’altra gli europarlamentari Benedetto Della Vedova, Gianfranco Dell’Alba, Olivier Dupuis, e i due consiglieri regionali piemontesi accusati di aver «cammellato» iscritti grazie alla vicinanza con Torino. Eventualità improbabile, visto che la tessera annuale costa 200 euro.

Dopo trattative fino alle cinque del mattino, Pannella è stato costretto a scendere in campo e ad accettare la carica di primo presidente, per farne ingoiare al congresso altri quattro (Dupuis, Quinto, Marco Perduca e Marco Cappato) ed evitare clamorose spaccature fra i propri ambiziosi seguaci. 

Questa moltiplicazione delle poltrone è stata contestata dal 40 per cento dei congressisti, e c’è voluta tutta la mezzosecolare abilità dialettica del leader per placare le acque. «Marco, da mulo abruzzese ti sei trasformato in cavallo di Troia incinto di quattro presidenti», lo ha preso in giro il dirigente Michele Boselli. 

Fra i critici, anche tutti gli «eroi» del Laos: Silvja Manzi, Bruno Mellano, Massimo Lensi, Dupuis e il russo Nicolai Kramov. Promosso «dissidente» invece Adriano Sofri, con la sua gigantografia appesa accanto a quelle di prigionieri politici di tutto il mondo, come la Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi. Una scelta provocatoria, che ha fatto discutere gli stessi radicali.
Mauro Suttora

Monday, October 29, 2001

Dopo le Twin Towers: radicali filo-Usa

DOPO L'11 SETTEMBRE: W GLI STATI UNITI, SEMPRE

di Mauro Suttora
Il Foglio, 29 ottobre 2001

«Se veniamo, portiamo le gigantografie di Roosevelt e di Milton Friedman». Marco Pannella promette (minaccia?) una presenza «non banale» dei radicali alla manifestazione pro-Usa del 10 novembre a Roma. «Oppure srotoliamo dal Pincio o da un aereo uno striscione immenso, lungo 40 metri, con le bandiere di Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele e la nostra, quella con il viso di Gandhi».

Franklin Delano Roosevelt e il capo degli economisti di Chicago non hanno nulla in comune, tranne la nazionalità americana e l’antiproibizionismo: il presidente del New Deal legalizzò gli alcolici, il Nobel liberista vuole liberalizzare anche lo spinello.

Ma la lingua di Pannella batte dove il dente duole. Perché i radicali sono i precursori dell’Usa Pride: da 15 anni propugnano istituzioni americane (presidenzialismo a turno unico), giustizia americana (pubblica accusa distinta dai giudici), economia americana (mercato libero e privatizzazioni).

Dalla guerra del Golfo dicono sì, loro nonviolenti e antimilitaristi, a tutti i bombardamenti Nato su Irak, Bosnia e Kosovo. Dopo l’11 settembre sono stati i primi a manifestare per gli Stati Uniti, raccogliendo per strada firme su 25 proposte di legge all’ombra di bandiere a stelle e strisce, Union Jack e stelle di Davide. Il giorno della Perugia-Assisi sono andati polemicamente a omaggiare i soldati britannici in un cimitero di guerra umbro.

Ma sabato scorso, dopo i messaggi di Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi al convegno a San Patrignano, Pannella è stato anche il primo ad accusare di «neofascismo» la politica del Polo sulle droghe. E domenica Emma Bonino ha rincarato su Repubblica, giornale che normalmente la ignora (silenzio sulla sua guerra personale ai talebani, iniziata cinque anni fa), ma che la intervista appena dice «qualcosa di sinistra», cioè di libertario. Fatale, quindi, che a questo punto la bruciante attualità politica faccia premio sulla collaudata sintonia fra filoamericani.

Peccato, perché le prime reazioni radicali all’annuncio della marcia per le vittime di Manhattan era stata entusiasta: «Finalmente potremo riannodare il dialogo con i simpatizzanti del Polo, che tanto hanno contribuito all’otto per cento della lista Bonino nel ‘99», esultavano i dirigenti Antonello Marzano e Vasco Carraro.

Adesso invece prevale la cautela: «Non sappiamo nulla, neanche se ci invitano, se ci coinvolgono», prende le distanze Pannella, «quindi sarà il nostro Comitato, riunito dal primo al 4 novembre, a decidere sulla partecipazione ufficiale dei radicali. I quali comunque sono liberissimi di andarci. Leggo però che la cosa si sta trasformando in una manifestazione musicale, mentre noi sollecitiamo un massimo di connotazione politica per assicurarne il successo. Perché la nostra non è solidarietà generica: noi manifestiamo a favore delle istituzioni americane, proprio come forma organizzata della democrazia. Altro che “solidarietà al popolo americano”, come dice Bertinotti: lui è amico dei popoli ma nemico di tutti i loro governanti, basta che siano democraticamente eletti. A co minciare dai G8. Viceversa, è amico di tutti coloro che li opprimono, i popoli. L’unico bersaglio degli antiglobal è la democrazia - capitalista, naturalmente, anche perché altro tipo di democrazie non si conosce».

La tentazione del «pochi ma buoni» per Pannella è forte: «Il 10 novembre potremmo pure andarcene a Nettuno, dove c’è uno dei più grandi cimiteri militari americani d’Europa». Ma i radicali non erano antimilitaristi? «Auspichiamo anche oggi una conversione graduale delle spese belliche in strutture di aggressione nonviolenta contro le dittature del mondo».

E i bombardamenti in Afghanistan? «Ora siamo in ballo e dobbiamo ballare: questi governanti e generali americani non sanno fare granché, ma le armi che hanno a disposizione sono queste. E noi nonviolenti non sappiamo offrire armi alternative. Avvertiamo, però: all’interno della nuova sacra alleanza fra America, Russia e Cina possono esserci i mostri di domani. Il leader cinese resta un assassino, e Bush che va da lui a Shanghai rischia di ripetere Monaco e Yalta».

I radicali hanno passato tutti gli anni ‘80 ad ammonire su Saddam Hussein, il decennio successivo a puntare il dito contro Slobodan Milosevic, e il giorno dopo che i talebani presero Kabul nel ‘96 già facevano le Cassandre.

Profeti inascoltati?
«È un nostro vizio antico e gigantesco», ironizza Pannella, «quello di occuparci di gente che non ci può votare. E c’è anche la garanzia che in Italia nessuno parli di coloro dei quali ci occupiamo».

Cioè?
«Quattro giorni fa cinque nostri esponenti sono andati nel Laos comunista e hanno fatto la stessa cosa che nello stesso luogo, nello stesso posto e nella stessa data avevano osato fare cinque studenti laotiani il 26 ottobre 1999: hanno esposto uno striscione con la scritta “Democrazia per il Laos”. Di quegli sventurati non si sa più nulla: se sono vivi, morti, in carcere, dove. Desaparecidos. Ma anche dei radicali gli italiani non hanno saputo quasi nulla. Eppure fra loro ci sono Olivier Dupuis, segretario del partito ed eurodeputato eletto in Italia, Bruno Mellano, consigliere regionale in Piemonte, il capo dei radicali russi Nikolai Kramov, oltre a Massimo Lensi e a Silvja Manzi. Se si fossero fatti rapire nello Yemen, tutti ne avrebbero parlato. Invece, silenzio totale da parte dei nostri boss tv: Vespa, Santoro, Biagi, Costanzo, anche Lerner».
Mauro Suttora