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Wednesday, October 29, 2008

Pechino: congresso sui pioppi

PIOPPO SUPERSTAR

Un congresso in Cina celebra l'albero più utile. Ma i massimi esperti sono nel Monferrato

di Mauro Suttora

Libero, mercoledì 29 ottobre 2008

Termina domani a Pechino il 23° Congresso mondiale del pioppo. E fate attenzione prima di dire: «Chi se ne frega». Il pioppo, infatti, è l’albero più utile della Terra. Perché cresce più veloce di tutti (in dieci anni arriva a 25 metri), e fornisce legno per ogni uso: mobili, imballaggi, compensato, confezioni di camembert, fiammiferi, cassette della frutta, carta. Senza il pioppo, non potreste leggere questo articolo. Di pioppo era fatta la croce di Cristo, per lo meno secondo una canzone dei minatori del Michigan di cent’anni fa. E su legno di pioppo Leonardo dipinse la Monna Lisa. Insomma, il congresso dei pioppicoltori è in realtà uno degli avvenimenti più importanti del mondo.

Se il massimo organismo di governo per gli umani è il Consiglio di sicurezza dell'Onu, si può sostenere che la Commissione internazionale del pioppo lo è per gli alberi. Questa Commissione è nata 60 anni fa e, come le Olimpiadi, anche i suoi congressi si tengono ogni quattro anni. Il suo presidente, presso la Fao a Roma, è un italiano: il professor Stefano Risoffi. E l’ambasciatore Paolo Ducci coordina i rapporti con la Farnesina.

Quest’anno il congresso si tiene a Pechino perché la Cina, come in molte altre cose, anche nei pioppi sta superando tutti. La sua superficie coltivata è esplosa negli ultimi anni: oggi ha raggiunto i sei milioni di ettari. La Francia, maggior produttore europeo, ne ha trenta volte di meno: 200 mila ettari. L’Italia centomila. «La metà rispetto a vent’anni fa, perché i pioppi sono l’unica coltura non sovvenzionata dall’Unione europea», ci spiega il conte Federico Radice Fossati, uno dei massimi pioppicoltori italiani: «Riceviamo solo un incentivo al momento della piantumazione, poi nulla. Così gli agricoltori preferiscono tenere i terreni liberi e scegliere cosa seminare di anno in anno a seconda dei contributi di Bruxelles, piuttosto che immobilizzarli per dieci anni con i pioppi».

Esposto alla globalizzazione e al libero mercato, il pioppo italiano non se la passa granché bene. Continua a fornire la metà del legno prodotto in Italia, pur coprendo solo il 3,5% della superficie forestale. Però i nostri falegnami e industriali del mobile che devono comprare pannelli di compensato trovano più conveniente farli arrivare dalla Cina.

Ciononostante, l’Italia rimane il centro mondiale dei pioppi. E questo grazie a un laboratorio di Casale Monferrato (Alessandria), dove operano gli scienziati più bravi del settore. Fino a un anno fa si chiamava Istituto di sperimentazione per la pioppicoltura. Poi qualche burocrate ha cambiato il nome in «Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura, Unità per le Produzioni Legnose Fuori Foresta». Ma fa niente, l’eccellenza è rimasta.

Casale Monferrato è per i pioppi quel che la Silicon Valley rappresenta per i computer, o Hollywood per il cinema. Qui arrivano ricercatori cinesi, cileni e turchi per imparare a selezionare sementi e talee del pioppo, a studiare la genetica, a imparare cure e clonazioni. E i nostri scienziati vanno in giro per il mondo a insegnare il loro prezioso know-how, accumulato da quando nel 1939 le cartiere Burgo fondarono l’Istituto per sconfiggere una malattia che devastava i pioppi.

Per questo oggi gli italiani sono fieri dell’exploit cinese: perché è opera di consulenti italiani. Uno di loro, il professor Bisoffi, l’anno scorso è stato premiato dal governo di Pechino per avere selezionato le varietà di pioppo più adatte al clima locale. Ed è stato eletto presidente della Commissione internazionale della Fao. I 300 mila pioppi attorno alla capitale cinese, per esempio, producevano troppo polline e provocavano asma e allergie? Sono diventati transessuali: con iniezioni agli alberi maschili hanno letteralmente cambiato sesso.

«E grazie a Ogm italiani sempre in Cina vengono risanati terreni salini dove non si possono coltivare cereali», racconta Radice Fossati. Insomma, anche se non fa notizia e lo vediamo di meno ai bordi delle nostre autostrade, la notizia è che il pioppo italiano continua a dominare il mondo.

Mauro Suttora

Tuesday, June 03, 2008

Mangiano pure sulla fame

PAPPONI MONDIALI

Si apre a Roma il vertice mondiale sulla povertà. Un ente internazionale che brucia quattrini senza fare nulla. Presenti anche capi di Stato che affamano i popoli. Come Mugabe e Ahmadinejad

Libero, 3 giugno 2008

di Mauro Suttora

Il quinto dittatore più longevo del mondo è atterrato a Fiumicino tranquillo e felice domenica notte con la moglie Grace. Ha conquistato il potere nel 1980 e non lo ha più mollato. Soltanto Gheddafi e altri tre despoti (il sultano del Brunei, Omar Bongo in Gabon e Dos Santos in Angola) tiranneggiano i loro popoli da più tempo.

Robert Mugabe ha 84 anni ed è ospitato a Roma nell’ambasciata del suo Zimbabwe, quartiere Prati. Mentre era in volo i suoi poliziotti in Africa hanno arrestato l’oppositore più prestigioso, il giovane scienziato Arthur Mutambara, assieme a decine di altri avversari politici.

Lo Zimbabwe è l’ex Rhodesia del Sud. Era un Paese florido, uno dei granai d’Africa. Gli inglesi se ne sono andati 28 anni fa, e da allora le cose sono costantemente peggiorate. Oggi i tredici milioni di sudditi di Mugabe sono fra i più poveri del mondo, ridotti alla fame. L’inflazione è del 156.000 per cento. Non è un refuso: significa che ogni giorno i prezzi quadruplicano. Fino a una dozzina di anni fa almeno c’era la libertà. Ora neanche più quella. Da liberatore, Mugabe si è trasformato in tiranno.

Nel 2002 ha truccato le elezioni per farsi rieleggere. L’Unione europea ha reagito proibendogli di venire nel nostro continente. Ma lui si fa gioco di questo divieto. Con la scusa che a Roma c’è la Fao (Food and agriculture organization), la quale come tutte le agenzie dell’Onu gode di extraterritorialità, fa una capatina in Italia ogni volta che può. L’ultima volta, a un vertice Fao del 2005, paragonò Bush e Blair a Mussolini e Hitler. Chissà cosa dirà questa volta.

Con la sua presenza a Roma, Mugabe sta facendo ombra perfino a un altro gentiluomo come l’iraniano Ahmadinejjad. Il ministro degli Esteri australiano Smith ha definito «oscena» la sua presenza al vertice contro la fame nel mondo: «Mugabe è responsabile della fame di cui soffre il suo popolo, e ha usato gli aiuti alimentari a fini politici». Due mesi fa ha perso di nuovo le elezioni, ma grazie ai soliti brogli ha ottenuto un ballottaggio per il 27 giugno. E ora è venuto a farsi un po’ di propaganda in Italia.

Il pretesto glielo offre uno dei tanti inutili vertici contro la fame di una delle tante inutili agenzie dell’Onu. La Fao, appunto. Il palazzo bianco della Fao sta vicino alle terme di Caracalla, un precursore di Mugabe. Fino al 2002 nel piazzale davanti alla Fao c’era l’obelisco di Axum. Poi l’Etiopia ha chiesto di riaverlo. L’Italia, chissà perché, ha acconsentito. Così l’obelisco è stato tolto e rispedito in Etiopia a nostre spese. Da allora giace abbandonato sotto una tettoia. Questo è il risultato dei complessi di colpa degli ex colonialisti.

Un altro risultato è che continuiamo a finanziare baracconi come la Fao. Ha quattromila funzionari. Duemila stanno «sul campo», nei posti dove si soffre la fame, e probabilmente qualcosa combinano. Gli altri duemila stanno a Roma, e si godono i loro stipendi da ottomila euro al mese esentasse. La Fao costa quasi 400 milioni di dollari l’anno. Poco, tutto sommato, se paragonati ai 300 milioni di euro che abbiamo appena deciso di buttare via per dare qualche altro mese di vita all’Alitalia. Ma tanto, se si scopre che gran parte del bilancio serve per pagare i dipendenti.

Come per l’Onu e l’Unesco, i tre quarti dei soldi vengono versati da undici Paesi (fra i quali non compaiono Cina e Russia, nonostante abbiano diritto di veto). Gli Usa pagano da soli il 25% delle spese, il Giappone il 20. Ma quando si decide come spendere, vale la regola della maggioranza. I membri della Fao sono 191. E il voto di San Marino vale quanto quello degli Usa.

L’inefficienza della Fao è leggendaria. Già nel 1960, visti gli scarsi risultati, fu creato il Pam (Programma alimentare mondiale), agenzia operativa per le emergenze sempre con sede a Roma. Esiste tuttora e funziona abbastanza bene. Negli anni ’70 si continua con la moltiplicazione degli enti: nascono il Wfc (World food council) e l’Ifad (International fund for agricultural development).

Vent’anni fa la Heritage Foundation, think tank Usa di destra, dimostra dati alla mano che l’inefficienza continua. E nel ’91 ai critici della Fao si aggiunge la rivista The Ecologist, bibbia degli ambientalisti, che decreta addirittura: “La Fao promuove la fame nel mondo, invece di combatterla”.

Niente da fare. La burobaracca sopravvive organizzando vertici su vertici. Quello del 2002 viene considerato uno «spreco di tempo» perfino da molti dei partecipanti ufficiali. Nel maggio 2006 si dimette Louise Fresco, assistente direttore generale della Fao, che ammette: “La nostra organizzazione è incapace di adattarsi alla nuova era,i suoi capi non propongono soluzioni per superare la crisi”.

Dopo il vertice del 2006 Oxfam, la più grande Ong (Organizzazione non governativa) privata contro la fame nel mondo, chiese di finirla con le «feste di parole». Un mese fa il presidente del Senegal ha ribadito: “Meglio chiudere la Fao”. Invece ora ci risiamo. Per tre giorni i potenti della Terra, dittatori e affamatori compresi, banchettano a Roma alla faccia degli affamati. Quelli che fanno qualcosa di concreto (i missionari, i volontari delle Ong) sono rimasti in Africa, in Asia, in America Latina.

Mauro Suttora

Mr. Mugabe non gradito

Il dittatore dello Zimbabwe arriva a Roma grazie all'extraterritorialità. Il sistema dell'Onu è impotente

Il Foglio, 3 giugno 2008

Roma. Non dite a Robert Mugabe che il palazzo della Fao (Food and agricolture organization) fu progettato da Benito Mussolini per ospitare il ministero delle Colonie fascista, prima di essere regalato alle Nazioni Unite nel 1951. L’84enne dittatore dello Zimbabwe c’è affezionato, non mancò neanche al precedente vertice del 2005 per il sessantennale dell’agenzia Onu. Allora scandalizzò il mondo con un paragone ardito: “Bush e Blair, come Hitler e Mussolini, si sono alleati per attaccare un Paese innocente”. Il presidente venezuelano Hugo Chavez si alzò per abbracciarlo.

Come userà Mugabe questa volta il podio planetario graziosamente messogli a disposizione dalla Fao? Allora come oggi era «persona non grata» in Europa, dopo il voto truccato in Zimbabwe del 2002. Crea casi diplomatici ovunque vada, come a Lisbona lo scorso dicembre quando la sua presenza al vertice euroafricano provocò la defezione del premier britannico Gordon Brown.

Oggi anche la sua legittimità formale è dubbia: ha infatti perso le elezioni del 29 marzo, solo altri brogli gli hanno permesso il ballottaggio col rivale Morgan Tsvangirai fra 24 giorni. E proprio in queste ore, come sempre, i suoi sgherri sono scatenati nel bastonare gli esponenti del partito d’opposizione Mdc (Movement for a democratic change). Settanta di loro sono finiti in prigione negli ultimi giorni. Cinquanta sono stati uccisi nelle scorse settimane. Lo scienziato Arthur Mutambara, 42 anni, il secondo grande oppositore di Mugabe, è in carcere da sabato notte solo per avere scritto in un articolo quello che tutto il mondo sa e dice: il despota ha ridotto alla fame il proprio Paese, che prima di lui (fino al 1980) era il granaio d’Africa.

La presenza di Mugabe a Roma rischia quindi d’essere perfino più imbarazzante di quella dell’iraniano Mahmud Ahmadinejad. Il dittatore africano venne a Roma anche per i funerali del Papa tre anni fa: è infatti cattolico, scuole dai gesuiti. Allora si invocò l’extraterritorialità del Vaticano, oggi quella della Fao. Roma uguale a New York, insomma: dittatori di tutto il mondo, da Fidel Castro in giù, hanno potuto recarsi a Manhattan perché accolti dall’Onu al Palazzo di vetro. Anche la Fao oggi si affanna a precisare che gli inviti a tutti i capi dei 191 Paesi membri erano «dovuti».

Ed è proprio questo è il problema: che il sistema Onu non ha, ma soprattutto non vuole vuole avere, i mezzi giuridici e politici per emarginare le proprie pecore nere. O almeno per non fornire loro preziosi megafoni. L’unico che ha avuto il coraggio di dire la verità, al di là dei diplomatismi, è il ministro degli Esteri australiano Stephen Smith, che rappresenta il proprio Paese al vertice romano: “Mugabe è il responsabile della fame di cui soffre il suo popolo. Ha usato gli aiuti alimentari a fini politici. Il fatto che partecipi a una conferenza sulla sicurezza alimentare è francamente osceno”.

C’è chi è ancora più sincero di Smith. Il 5 maggio il presidente Abdulaye Wade del Senegal ha dichiarato: “La Fao dovrebbe essere smantellata. Non serve a niente, anzi è proprio lei una delle responsabili per l’aumento dei prezzi dei cereali. E’ uno spreco di soldi, un doppione di altre agenzie Onu più efficienti come l’Ifad, l’International Fund for Agricultural Development. In passato pensavo che bastasse spostare la sede centrale da Roma all’Africa, vicino ai problemi reali della fame. Ma ora dico: aboliamola”.

Parole pesanti, anche perché provengono da un compatriota dell’attuale direttore generale della Fao, Jacques Diouf. “Attuale” si fa per dire, perché i capi Fao hanno la spiacevole tendenza a rimanere incollati per periodi lunghissimi alla propria poltrona. Diouf è in carica dal 1994, e due anni fa è stato confermato per il terzo mandato di sei anni. Resterà quindi in carica fino al 2012. Batterà il record del suo predecessore, il libanese Edouard Saouma, che resistette dal ’76 al ’93.

Questi mandati interminabili dicono tutto sull’efficienza del pachiderma burocratico Fao. Otto mesi fa un Rapporto di valutazione, preparato da un gruppo di economisti internazionali guidati dal danese Leif Christoffersen, ha denunciato gli eterni difetti dell’Onu e delle sue agenzie: sprechi, sovrapposizione di interventi, mancanza di comunicazione e coordinamento tra le sedi, processi decisionali lenti e costosi. La ricetta: “Snellire la burocrazia, tagliare i dipendenti, decentrare”. A Roma i figli dei funzionari frequentano, a spese Fao, un liceo da 12 mila euro l’anno. E il 90% delle uscite paga gli stipendi dei funzionari.

Mauro Suttora