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Tuesday, June 03, 2008

Mr. Mugabe non gradito

Il dittatore dello Zimbabwe arriva a Roma grazie all'extraterritorialità. Il sistema dell'Onu è impotente

Il Foglio, 3 giugno 2008

Roma. Non dite a Robert Mugabe che il palazzo della Fao (Food and agricolture organization) fu progettato da Benito Mussolini per ospitare il ministero delle Colonie fascista, prima di essere regalato alle Nazioni Unite nel 1951. L’84enne dittatore dello Zimbabwe c’è affezionato, non mancò neanche al precedente vertice del 2005 per il sessantennale dell’agenzia Onu. Allora scandalizzò il mondo con un paragone ardito: “Bush e Blair, come Hitler e Mussolini, si sono alleati per attaccare un Paese innocente”. Il presidente venezuelano Hugo Chavez si alzò per abbracciarlo.

Come userà Mugabe questa volta il podio planetario graziosamente messogli a disposizione dalla Fao? Allora come oggi era «persona non grata» in Europa, dopo il voto truccato in Zimbabwe del 2002. Crea casi diplomatici ovunque vada, come a Lisbona lo scorso dicembre quando la sua presenza al vertice euroafricano provocò la defezione del premier britannico Gordon Brown.

Oggi anche la sua legittimità formale è dubbia: ha infatti perso le elezioni del 29 marzo, solo altri brogli gli hanno permesso il ballottaggio col rivale Morgan Tsvangirai fra 24 giorni. E proprio in queste ore, come sempre, i suoi sgherri sono scatenati nel bastonare gli esponenti del partito d’opposizione Mdc (Movement for a democratic change). Settanta di loro sono finiti in prigione negli ultimi giorni. Cinquanta sono stati uccisi nelle scorse settimane. Lo scienziato Arthur Mutambara, 42 anni, il secondo grande oppositore di Mugabe, è in carcere da sabato notte solo per avere scritto in un articolo quello che tutto il mondo sa e dice: il despota ha ridotto alla fame il proprio Paese, che prima di lui (fino al 1980) era il granaio d’Africa.

La presenza di Mugabe a Roma rischia quindi d’essere perfino più imbarazzante di quella dell’iraniano Mahmud Ahmadinejad. Il dittatore africano venne a Roma anche per i funerali del Papa tre anni fa: è infatti cattolico, scuole dai gesuiti. Allora si invocò l’extraterritorialità del Vaticano, oggi quella della Fao. Roma uguale a New York, insomma: dittatori di tutto il mondo, da Fidel Castro in giù, hanno potuto recarsi a Manhattan perché accolti dall’Onu al Palazzo di vetro. Anche la Fao oggi si affanna a precisare che gli inviti a tutti i capi dei 191 Paesi membri erano «dovuti».

Ed è proprio questo è il problema: che il sistema Onu non ha, ma soprattutto non vuole vuole avere, i mezzi giuridici e politici per emarginare le proprie pecore nere. O almeno per non fornire loro preziosi megafoni. L’unico che ha avuto il coraggio di dire la verità, al di là dei diplomatismi, è il ministro degli Esteri australiano Stephen Smith, che rappresenta il proprio Paese al vertice romano: “Mugabe è il responsabile della fame di cui soffre il suo popolo. Ha usato gli aiuti alimentari a fini politici. Il fatto che partecipi a una conferenza sulla sicurezza alimentare è francamente osceno”.

C’è chi è ancora più sincero di Smith. Il 5 maggio il presidente Abdulaye Wade del Senegal ha dichiarato: “La Fao dovrebbe essere smantellata. Non serve a niente, anzi è proprio lei una delle responsabili per l’aumento dei prezzi dei cereali. E’ uno spreco di soldi, un doppione di altre agenzie Onu più efficienti come l’Ifad, l’International Fund for Agricultural Development. In passato pensavo che bastasse spostare la sede centrale da Roma all’Africa, vicino ai problemi reali della fame. Ma ora dico: aboliamola”.

Parole pesanti, anche perché provengono da un compatriota dell’attuale direttore generale della Fao, Jacques Diouf. “Attuale” si fa per dire, perché i capi Fao hanno la spiacevole tendenza a rimanere incollati per periodi lunghissimi alla propria poltrona. Diouf è in carica dal 1994, e due anni fa è stato confermato per il terzo mandato di sei anni. Resterà quindi in carica fino al 2012. Batterà il record del suo predecessore, il libanese Edouard Saouma, che resistette dal ’76 al ’93.

Questi mandati interminabili dicono tutto sull’efficienza del pachiderma burocratico Fao. Otto mesi fa un Rapporto di valutazione, preparato da un gruppo di economisti internazionali guidati dal danese Leif Christoffersen, ha denunciato gli eterni difetti dell’Onu e delle sue agenzie: sprechi, sovrapposizione di interventi, mancanza di comunicazione e coordinamento tra le sedi, processi decisionali lenti e costosi. La ricetta: “Snellire la burocrazia, tagliare i dipendenti, decentrare”. A Roma i figli dei funzionari frequentano, a spese Fao, un liceo da 12 mila euro l’anno. E il 90% delle uscite paga gli stipendi dei funzionari.

Mauro Suttora

Monday, September 24, 2007

intervista a Ken Follett

Lo scrittore presenta il suo 17esimo romanzo: 'Mondo senza fine'

Roma, hotel Hassler, 19 settembre 2007

di Mauro Suttora

Posso protestare? Mi permette?
«Prego».

Questo suo ultimo libro è troppo lungo.
«The longer the better: più sono lunghi, meglio è. I miei lettori adorano i libri infiniti».

Anche se hanno 1.366 pagine?
«Tanti lettori di I pilastri della terra mi hanno scritto: “Lo volevamo ancora più lungo”...».

Ken Follett ha venduto cento milioni di copie dei suoi sedici romanzi. Il bestseller personale rimane 'I pilastri della terra' del 1989: undici milioni di copie (uno e mezzo solo in Italia). L’unico ambientato nel Medioevo. Da allora i suoi lettori (che lui coltiva, leggendo le loro lettere ed e-mail e firmando amabile e instancabile migliaia di copie in giro per il mondo) lo implorano: «Dacci una seconda puntata». Fatto. È appena uscito 'Mondo senza fine' (Mondadori), che si svolge nello stesso villaggio inglese immaginario (Kingsbridge), ma nel XIV secolo, 200 anni dopo il romanzo precedente.
Storie di abati corrotti, suore lussuriose, vescovi che pretendono lo ius primae noctis, medici che rischiano il rogo per stregoneria solo perché vogliono curare la peste...

Follett, confessi. Lei ce l’ha con i cattolici?
«Assolutamente no. Il conflitto che descrivo nel libro è tutto interno alla Chiesa, fra una parte di religiosi che si fida e affida alla scienza, e un’altra che ne diffida. Ma ci sono anche figure assai positive: la protagonista Caris, per esempio, è una suora».

Beh, almeno Umberto Eco nel 'Nome della rosa' aveva diviso equamente i monaci fra buoni e cattivi. Qui invece la grande maggioranza delle figure ecclesiali è negativa.
«Dice? Mi faccia pensare... Forse il problema è che in quell’epoca la Chiesa rappresentava tutto il potere, anche quello terreno. Ed è fatale che fra le figure di potere ce ne siano molte negative».

Comunque, lei fra scienza e religione sceglie la prima.
«Certo. La Chiesa ha sempre avuto torto quando ha perseguitato gli scienziati. Il Papa ha dovuto chiedere scusa a Galileo 400 anni dopo. Per un motivo molto semplice: la Chiesa non sa nulla di scienza, quindi non può che sbagliare».

Ma i suoi genitori non erano religiosissimi?
«E molto severi: fino a 16 anni mi vietavano il cinema. E in casa non c’era la tv».

Così nasce uno scrittore?
«Mi sfogavo leggendo libri. Lì non mi proibivano nulla, e così a dodici anni ero pazzo di James Bond: sognavo la sua vita peccaminosa piena di cocktail, sigarette, auto e donne sexy. Risultato: a 15 anni mi sono ribellato alla religione».

Ed è passato ai Beatles.
«Sì, la loro canzone che preferisco è Good Day Sunshine».

Perché?
«Perché le canzoni che ci piacciono a 17 anni ci accompagnano per il resto della vita. Perché sta in Revolver, uno dei loro dischi più belli. E anche perché avevo soprannominato Sunshine il mio primo figlio, nato quando avevo solo 19 anni ed ero all’università».

La musica è importante per lei?
«Molto. Suono il basso in un complesso di rock-blues. Spesso ci esibiamo in pubblico nella zona dove abito, in campagna, vicino a Londra».

Ho letto che un’altra canzone che predilige è My Cherie Amour di Steve Wonder.
«Sì, chiamavo così mia figlia quand’era piccola. Lei camminò su quel disco e lo ruppe».

È anche molto impegnato politicamente.
«Da tre mesi la mia seconda moglie Barbara Broer, che conobbi negli anni Ottanta quando facevo l’attivista nella sezione laburista di cui lei era segretaria, è diventata ministro».

Ah! E di che?
«Pari opportunità, nel nuovo governo laburista di Gordon Brown. Vuole unificare tutte le leggi che proteggono donne, gay, handicappati e minoranze razziali, per diminuire la burocrazia e semplificare la vita ai datori di lavoro».

Lei detestava Tony Blair, e invece adora Brown. Perché non è inglese, come lei?
«Ahahah! Io sono gallese e Brown scozzese, è vero, ma non l’ammiro per ragioni etniche. Credo veramente che sia più onesto e sincero di Blair».

Che pensa della conversione di Blair al cattolicesimo?
«È un uomo alla ricerca di una fede. C’è un po’ di vuoto nel suo cuore e nella sua anima, e lui avverte il bisogno di riempirlo. Con qualsiasi cosa: avrebbe potuto farlo anche con il buddhismo».

È molto duro con Blair. Ma pure lei all’inizio era favorevole alla guerra in Iraq.
«Ora abbiamo tutti capito che è stato un errore tremendo. Sì, quattro anni fa mia moglie, allora deputata, votò a favore della guerra dopo che assieme ci pensammo per giorni e giorni. Credevo fosse una buona idea eliminare un dittatore che aveva fatto fuori centomila dei suoi sudditi. Ma abbiamo sottovalutato la complessità della situazione irachena».

Torniamo alla scrittura. Quante pagine riesce a scrivere ogni giorno?
«In media quattro. Comincio presto, alle sette del mattino: appena sveglio mi vengono un sacco di idee, sono creativo. E vado avanti fino a metà pomeriggio. Poi mi riposo».

Mauro Suttora