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Saturday, May 10, 2003

Paolo Mieli sull'Onu

Corriere della Sera, 10 maggio 2003

Boutros-Ghali e la democratizzazione dell' Onu

LETTERE AL CORRIERE
risponde Paolo Mieli

È trascorso un mese dalla vittoria degli americani a Bagdad e sono reduce dalla lettura sul Corriere degli ottimi servizi di Francesco Battistini e Guido Olimpio dedicati alla ricorrenza. Olimpio scrive che al momento gli Usa hanno rimesso in piedi il ministero del Petrolio, cercano di riattivare quello degli Esteri e puntano a ristabilire l' ordine con la polizia locale; stanno tornando a galla - come si temeva - i famigerati dirigenti del partito Baath e il generale Jay Garner, che pure ha indicato i cinque gruppi iracheni con i requisiti per formare il governo provvisorio, si è trovato di fatto commissariato dalla nomina di Paul Bremer a capo della amministrazione civile. Ma dove è finita l'Onu?

Emilio Galli Milano

Caro signor Galli,
ho scritto più volte che, secondo me, per un' infinità di motivi le Nazioni Unite dovrebbero avere un ruolo più che importante nella ricostruzione democratica dell' Iraq. Anche per questo ho fatto un salto sulla sedia quando ho letto che Richard Perle, autorevole membro del Defense Policy Board dell' Amministrazione Bush, ha scritto sul Guardian: «Ringraziamo Dio per la morte delle Nazioni Unite». Una battuta di cattivo gusto.
Però in tutta franchezza devo aggiungere che mi aspetto che l' Onu faccia dei passi che segnalino una discontinuità dal passato e un suo essere all' altezza dei compiti che le persone come lei e me vorrebbero vederle attribuite. Che tipo di discontinuità?

In una serie di articoli requisitoria contro l' Onu pubblicati sul Foglio, Mauro Suttora è tornato sulla «criminale omissione di intervento nel 1995 dei soldati Onu che provocò - fra le altre - la strage di Srebrenica, settemila morti» per sottolineare il fatto che «un governo è caduto in Olanda per le responsabilità di un comandante olandese nella città della ex Jugoslavia, ma nessun dirigente Onu ha avuto problemi con la propria carriera». È un fatto, purtroppo.

Così come è un fatto che «funzionari per l' Alto commissariato Onu per i diritti umani a Sarajevo - prosegue Suttora - furono coinvolti nel traffico di donne (anche minorenni) fatte prostituire contro la loro volontà e l' imbarazzante episodio venne salomonicamente risolto rispedendo a casa sia gli accusati, sia gli accusatori». A Nairobi c' è stata un po' più di giustizia: quattro funzionari della Commissione Onu per i rifugiati sono stati arrestati per aver organizzato una sorta di programma «Sex for food»; nei campi africani dove erano raccolti i fuggiaschi dalle stragi in Ruanda - avvenute sotto l' occhio distratto delle Nazioni Unite - donne e bambine erano costrette a offrire prestazioni sessuali in cambio della loro razione di cibo. Sì, l' Onu purtroppo è stata anche questo.

C'è poi un problema di rappresentatività. Sergio Romano ha denunciato di recente su queste colonne come sia assurdo che il voto dell' India valga come quello di Malta, che il Brasile pesi come una qualsiasi isola dei Caraibi e l' arma del veto resti quasi per diritto divino «nelle mani di cinque Paesi che vinsero la guerra, sessant' anni fa, con un' alleanza di cui constatammo rapidamente la fragilità». E ha proposto di introdurre il criterio delle maggioranze ponderate che tengano conto - per ogni Paese - del peso demografico, del prodotto interno lordo, dell' impegno assistenziale per i Paesi poveri, del livello culturale e scientifico, della quota di partecipazione al commercio mondiale. Sono del tutto d' accordo.

Mi limiterei ad aggiungere tra ciò che dovrebbe rientrare nella valutazione il «tasso di democrazia», cioè di libertà di espressione, culto, organizzazione politica, voto così da invogliare le leadership dei Paesi del Terzo mondo ad «acquisire punti» offrendo garanzie e tutele ai loro popoli.

L' ottantenne Boutros Boutros-Ghali, egiziano, segretario generale dell' Onu nei primi anni Novanta, ha testé ripreso in mano una battaglia che iniziò nel ' 92 per un vincolo più stretto tra Nazioni Unite e il concetto di democrazia. Ecco, mi piacerebbe che il suo successore Kofi Annan gli desse ascolto.

Paolo Mieli

Wednesday, February 07, 2001

I coloni israeliani a Gaza

I COLONI ISRAELIANI A GAZA

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 febbraio 2001

Gaza. Se non stesse lì, ma appena cinque chilometri più a Est, o quindici a Nord, sarebbe un posto bellissimo: una location ideale per un qualsiasi club Mediterranée o Valtur. Invece, è l’inferno dentro all’inferno. Nezarim, infatti, è uno dei 140 insediamenti ebraici in territorio palestinese, e sopravvive soltanto perché è sorvegliato giorno e notte da blindati e carri armati dell’esercito d’Israele.

Morire per Nezarim? È quello che si chiedono gli israeliani dopo il voto. Nezarim è una «goccia» di tre chilometri quadri in riva al Mediterraneo, ficcata proprio in mezzo alla striscia di Gaza. Fino al 1984 era una base militare. Poi, dopo la restituzione del Sinai all’Egitto, ci arrivarono i coloni religiosi sfrattati dai kibbutz che avevano impiantato nella penisola desertica. Oggi sono in 170: lavorano come insegnanti, fanno gli agricoltori, hanno una cava di ghiaia. Coltivano mango, vite, patate dolci e pomodori. Ma vivono assediati dal nemico. 

Ai professori e agli altri pendolari che lavorano in Israele tocca infatti passare ogni giorno per sei chilometri di strada in territorio palestinese, che da quattro mesi sono diventati un incubo. Devono attraversare l’unica superstrada che collega la striscia di Gaza da Nord a Sud, e lì stazionano le autoblindo israeliane. Ma ad ogni metro potrebbe partire l’attacco improvviso, con le pietre e i proiettili.

Per rendere sicure le strade che conducono gli insediamenti, a Gaza come in Cisgiordania, i soldati non hanno esitato a far tabula rasa: hanno abbattuto tutti gli alberi e le case circostanti, dalle quali potrebbero partire gli agguati. Risultato: gli israeliani, un tempo famosi per piantare alberi (la forestazione era diventata quasi una religione civile), ora li sradicano. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, sono ben 400 gli ettari di campi coltivati con alberi da frutta rasati a zero accanto alle strade, da quando è scoppiata la seconda intifada.

L’ultimo piano di pace Clinton, abortito in gennaio, prevedeva il ritiro da tutti gli insediamenti ebraici a Gaza. In Cisgiordania, invece, gli israeliani speravano di poterne salvare parecchi. Ma adesso, con la vittoria di Ariel Sharon, i 200 mila coloni si sentono al sicuro. La destra, infatti, è disposta a tutto per difendere gli insediamenti. Anche quelli situati nelle posizioni meno difendibili, come Nezarim. 

Ma, paradossalmente, ora è proprio l’esercito ad avanzare le perplessità più solide contro l’abbarbicarsi a oltranza nelle enclaves in territorio palestinese. La domanda, assai concreta, è: «Quanto ci costa, in termini di soldi e di vite umane, assecondare l’orgoglio messianico e spesso fanatico dei coloni?»

In realtà, la situazione degli insediamenti in Palestina è assai diversificata fra loro. A Gaza, per esempio, ce ne sono di tre tipi. All’estremo nord i tre villaggi di Dugit, Alei Sinai e Nissanit sono in continuità territoriale con Israele. I coloni, quasi mille, hanno a disposizione una dozzina di chilometri quadri con tanto di stabilimento balneare (la spiaggia di Shikma, tranquilla e affollata di ombrelloni fino all’estate scorsa), un porticciolo per le barche da pesca, un allevamento di ostriche. 

Si raggiunge facilmente la città israeliana di Ashkelon, i pendolari vanno e vengono liberamente. Non sarà difficile praticare uno scambio territoriale: questi dodici chilometri quadri a Israele in cambio di una superficie analoga ai palestinesi, magari per farci scorrere quella famosa strada-corridoio fra Gaza e la Cisgiordania che gli uomini di Yasser Arafat reclamano dal ‘93.

Ci sono poi i quasi trenta chilometri quadri di Gush Katif, all’estremo Sud della striscia di Gaza, proprio al confine con l’Egitto. Qui vivono seimila coloni suddivisi in una dozzina di paesi, due stazioni balneari, un villaggio turistico, una pista d’aeroporto, decine di ettari di serre che esportano primizie in Israele, a Cipro e (clandestinamente) perfino nelle capitali arabe. 

L’insalata di Gush Katif è famosa in tutta Israele perché è garantita l’assenza di vermi, grazie a sapienti incroci genetici. I fiori vengono spediti in tutta Europa, soprattutto in Olanda. Un allevamento modello in mezzo alle dune del deserto ricava tonnellate di latte da un centinaio di mucche, anche queste trasportate ogni mattina a Tel Aviv in autobotte (e di nascosto anche al Cairo). Nel capoluogo, Neve Dekalim, ci sono asili, scuole elementari e medie, licei, due sinagoghe (una sefardita, l’altra aschenazita), officine industriali.
 
I coloni di Gush Katif, che dal 1970 a oggi hanno trasformato il deserto in una specie di Beverly Hills con palme, prati all’inglese e villette in stile Lego, hanno subìto duri colpi dall’intifada-bis, con tanto di attentati agli autobus, bombe, agguati e vendette. Da ottobre i pendolari palestinesi sono stati licenziati, e per sostituire la manodopera arrivano in turni da una settimana studenti da altri insediamenti in zone più tranquille. 

È il caso delle sedicenni Netta Dahari, che viene da Hadera (vicino a Netanya), Avital Moscovich e Leah Meller, provenienti da Ramat Golan: «Ci ospitano nei cottage del villaggio turistico che d’inverno è chiuso, ma per andare a lavorare nelle serre dobbiamo usare gli autoblindo dell’esercito».

A poche decine di metri, dall’altra parte di un muro di cemento, ci sono infatti i campi profughi palestinesi di Khan Yunis e Rafah. Da lì arrivano periodicamente sassi e pallottole, e sarebbe perfino strano che ciò non accadesse. È troppo stridente, infatti, la differenza fra il tenore di vita californiano di questi insediamenti e la povertà da terzo mondo dei palestinesi che li circondano. Ma almeno l’insediamento di Gush Katif possiede una stazza territoriale tale che per i soldati è relativamente semplice difenderlo.

Diverso e disperato è invece il futuro per il terzo tipo di colonie ebraiche che punteggiano il martoriato territorio palestinese di Gaza: le «gocce» come Nezarim, appunto, e altri isolatissimi microinsediamenti come Kefar Darom (200 membri) e Morag (100). Questi sembrano veramente «un insulto al buon senso e alla giustizia», come ha scritto il corrispondente del Corriere della Sera da Gerusalemme, Guido Olimpio, due settimane fa. 

Per arrivare a Kefar Darom, per esempio, i soldati israeliani hanno dovuto subire l’umiliazione di dividere in due con un muro di cemento vari chilometri dell’unica autostrada di Gaza: una carreggiata agli israeliani, l’altra ai palestinesi. È un apartheid insensato e onerosissimo: perfino Arafat, ogni volta che deve prendere l’aereo, è costretto a passare attraverso queste forche caudine per raggiungere il suo aeroporto. Per di più, gli israeliani bloccano la circolazione civile durante giorni interi come rappresaglia dopo ogni attacco palestinese. 

Quindi la striscia di Gaza, lunga neanche 50 chilometri, risulta divisa ulteriormente in tre compartimenti stagni che non possono comunicare tra loro: lavoratori impediti dal tornare a casa la sera e costretti a dormire da amici, ambulanze bloccate, perfino i convogli dell’Agenzia per i rifugiati dell’Onu non possono circolare. Sarebbe come se venisse bloccato tutto il traffico fra Milano e Monza, o fra Roma e Fiumicino.

I coloni, tuttavia, sono riusciti in questi ultimi mesi a togliersi di dosso la nomea di provocatori, perlomeno agli occhi di fette consistenti dell’opinione pubblica israeliana. Il punto di svolta è stata l’imponente manifestazione dell’8 gennaio a Gerusalemme, organizzata dall’ex dissidente russo Nathan Sharanski (anni di gulag comunista sulle spalle). 

Con i loro canti e balli e la loro solidarietà tranquilla e gioiosa, i coloni accorsi in massa hanno incantato perfino alcune fasce della sinistra, che vedono in loro gli eredi dello spirito socialista e pionieristico dei kibbutz. Così oggi, nella nuova Israele di Sharon, i coloni hanno smesso di essere un problema da risolvere, e qualcuno li considera una bandiera da sventolare.

Gli insediamenti nel deserto di Samaria e Giudea hanno almeno una giustificazione storica, perché coprono a pois il territorio di quello che tremila anni fa era il regno di Davide. Ma le mini-enclaves ebraiche dentro a Gaza saranno difficili da difendere perfino per Sharon, che quando era ministro della Difesa e poi dei Lavori pubblici ne favorì la costruzione. In ogni caso, dalle poche centinaia di metri di Nezarim, oltre che da quelle del monte del Tempio a Gerusalemme, dipende la pace in Medio Oriente.
Mauro Suttora