Wednesday, February 27, 2002
Convegno su Antonio Russo
testo dell’intervento di Mauro Suttora
ISLAM, ISRAELE, PALESTINA
Qual è il compito dei giornalisti? Raccontare. Far comprendere la vita quotidiana della gente, oltre le speculazioni politiche, religiose, ideologiche. Smontare i luoghi comuni.
Ho pensato ad Antonio Russo, il giornalista di Radio radicale cui è dedicato questo convegno, l’ultima volta che mi hanno mandato in Israele e Palestina, pochi mesi fa. Segnalo anche che Radio radicale sta registrando questo convegno, che poi trasmetterà per centinaia di migliaia di ascoltatori.
Ascoltavo spesso le corrispondenze di Antonio Russo dai Balcani e poi dalla Cecenia, prima che fosse ucciso. Russo era uno che non aveva fretta, che si fermava per mesi nei posti che lo interessavano, fossero o no alla ribalta della cronaca. Faceva, insomma, il contrario di quello che di solito fanno quasi tutti i giornalisti, prigionieri del metodo «mordi-e-fuggi» e della stretta attualità.
Ho pensato a Russo quando, arrivato alla frontiera di Gaza, ho chiesto al tassista palestinese di portarmi al Tahuna, il migliore albergo della città. Durante il tragitto lo chauffeur comincia a dire che anche altri hotel sono belli come il Tahuna... Sospettando che mi voglia portare nell’albergo di qualche suo parente, insisto per il Tahuna. «Ma è bruciato», mi annuncia. Arriviamo è vero, tutto distrutto. Ma chi è stato? «L’Intifada». Come, il proprietario era un collaborazionista degli israeliani? «No, no...»
Il tassista non va oltre con le spiegazioni. Domando ad altri notizie sul disastro del Tahuna, ma c’è imbarazzo e omertà. È stata la mafia? «Nooo, a Gaza non c’è mafia», spara un poliziotto. Alla fine, la triste verità i fondamentalisti hanno bruciato l’albergo perché osava vendere alcolici nel bar (anche se i clienti erano quasi tutti stranieri).
Insomma, una città come Gaza, con due milioni di abitanti, ficcata come un cuneo quasi nel cuore di Israele, è oggi in mano ai fondamentalisti islamici. Con tutte le conseguenze di ogni estremismo religioso culto della morte, appelli alla distruzione totale di Israele, ammirazione per i terroristi suicidi elevati a martiri da imitare, ecc. E’ ciò che leggiamo nelle cronache di ogni giorno. Ma perché ho pensato ad Antonio Russo? Perché lui, condividendo giorno per giorno la vita quotidiana dei palestinesi di Gaza, o quella opposta ma simmetricamente eguale dei coloni ebraici negli insediamenti a 50 metri da campi profughi, avrebbe potuto spiegare bene quello che sta succedendo. E smontare un sacco di luoghi comuni.
Quello dei «poveri profughi palestinesi», per esempio. Perché quando si passa il confine fra Israele e Palestina si ha l’impressione fisica, palpabile, che Berlusconi abbia ragione? E cioè che i paesi arabi sono rimasti indietro, se non di mille anni, almeno di cento? Perché di qua c’è la povertà, mentre di là la ricchezza. Di qua le baracche, i tuguri, di là le case, se non le ville. Ma perché, semplificando, i palestinesi sono poveri mentre gli israeliani sono ricchi?
Viene spontaneo pensare ai ricchissimi emiri arabi miracolati dal petrolio che scorrazzano ogni estate fra Cannes e Porto Cervo sui loro megayacht dal lusso sfrenato. E scandaloso, se paragonato alla miseria in cui sono costretti questi loro «fratelli arabi». Possibile che nessun filantropo saudita pensi a costruire case popolari dove sistemare decentemente gli abitanti di Gaza?
In fondo, è la stessa cosa che fanno i miliardari ebrei americani, assai generosi nei confronti di Israele. Ma il tremendo sospetto è che i satrapi arabi giochino al «tanto peggio, tanto meglio», facendo rimanere apposta i palestinesi nella disperazione per meglio aizzarli contro gli israeliani. Hamas, Jihad, l’inferno, nascono proprio nella miseria materiale e spirituale dei campi profughi.
Altro luogo comune il terrorismo islamico nasce dalla povertà. Falso. Osama è uno sceicco miliardario. I 19 kamikaze dell’11 settembre provenivano dalle classi medie dell’Arabia Saudita, uno dei Paesi più ricchi del mondo. Ma anche quasi tutti i giovani suicidi palestinesi sono discretamente istruiti, e non hanno fatto la fame.
E poi perché i profughi sono ancora nei campi, a più di mezzo secolo dalla guerra del 1948? Perché forse sperano di tornare? Non scherziamo, nessuno pensa più a tornare in villaggi che non esistono più, quelli dei nonni. E allora, cosa stanno lì a fare, se non a funzionare da eterna carne da ricatto contro gli israeliani? Anche l’Italia ha avuto centinaia di migliaia di profughi dall’Istria dopo l’ultima guerra, ma dopo pochissimi anni i campi erano vuoti, tutti si sono rifatti una vita.
Vi sembrano considerazioni semplicistiche, banali, volgari? Politicamente bizzarre di sicuro, non in linea con l’informazione media che ci giunge in Italia. Peccato che poi, però, sempre a proposito di Islam, il libro di Oriana Fallaci venda un milione di copie in due mesi, fatto mai accaduto in Italia. Peccato che un fenomeno impressionante come Sharon che vince a man bassa le elezioni non sia stato minimamente previsto né spiegato dai tanti raffinati giornalisti che pretendono di informarci standosene a sorseggiare cocktail al bordo della piscina dell’hotel American Colony a Gerusalemme, distillando preziose analisi politologiche campate in aria. C’è una bella canzone di De Gregori che dice «E tutte queste informazioni di Vincent/girano in tondo e non mi spiegano perché/ e non mi spiegano cos’è che muore».
In Palestina muore la gente. Ma scompare anche la borghesia palestinese mite, intelligente, colta. Laica. Una classe media di mercanti e intellettuali che emergeva in tutto il mondo arabo. E che adesso è silenziata dagli estremismi militari e religiosi. Penso a un nome, Sari Nusseibeh di Gerusalemme. Lo intervistai nell’88 per l’Europeo, c’era la prima Intifada, però era ottimista. Oggi invece quelli come lui hanno perfino paura di parlare.
Ecco, non c’è simmetria fra Israele e Palestina. Non esiste l’equivalente palestinese del movimento pacifista israeliano che è risorto, delle Shulamit Aloni, degli Yossi Sarid, degli Yossi Beilin. Perché oltre che a esserci la divisione fra ricchezza e povertà, fra Primo mondo e Terzo mondo, fra modernità e antichità, fra Israele e Palestina c’è anche la divisione fra libertà e oppressione, fra democrazia e autoritarismo. Purtroppo Israele è oggi, in tutto il Medio Oriente, l’unica oasi di democrazia in mezzo a un deserto di dittature.
I giornalisti dovrebbero, come dice il titolo di questo convegno, rappresentare la realtà, e non crearla. Antonio Russo è un giornalista che questo faceva. Ho adottato, in scala ridotta, il suo stesso metodo, andando a ficcarmi per dieci giorni nei punti più assurdi di tutta la regione, e forse della Terra i kibbutz di Gush Katif e di Netzarim, insediamenti proprio in mezzo alla striscia di Gaza, i primi che dovranno essere evacuati in caso di accordo di pace. A dormire e mangiare con i coloni più fanatici, così come nei giorni precedenti avevo dormito e mangiato con i palestinesi del campo profughi e avevo ascoltato prediche di muezzin altrettanto fanatici.
Ma quante volte avete visto in tv o letto reportage dal fronte, che lì è rappresentato proprio dalle colonie e dai campi profughi? A Gush Katif mi hanno detto che ero il primo giornalista italiano che arrivava lì. Eppure ci si può andare quando si vuole, non c’è censura. Basta andarci. Magari, invece che sulla macchina in affitto con aria condizionata e autista su cui si muovono preferibilmente i giornalisti italiani, su un autobus, come certamente avrebbe fatto Antonio Russo. Su uno di quegli autobus pieni di giovani israeliani dove ogni tanto sale qualche loro coetaneo palestinese per saltare in aria tutti assieme.
Andando in giro, così, senza pregiudizi, con curiosità, senza schemi mentali e ideologici precostituiti, il giornalista non deve dimostrare tesi, non deve individuare cattivi e buoni, non è suo compito neanche trovare soluzioni. Dovrebbe semplicemente raccontare. Proprio come faceva Antonio Russo. Il quale, intendiamoci, non era affatto un giornalista neutrale era partigiano, perfino testardo a volte. Stava dalla parte degli albanesi kosovari contro gli occupanti serbi, dalla parte dei ceceni contro gli occupanti russi. Ma questo non gli impediva di descrivere con gli occhi, con la mente e anche con il cuore la vita di tutti coloro in mezzo ai quali si era fatto paracadutare da Radio radicale.
Mauro Suttora
Wednesday, February 07, 2001
I coloni israeliani a Gaza
Wednesday, January 17, 2001
"In questo deserto non c'erano arabi, non glielo daremo mai!"
I nostri inviati sono andati nel Medio Oriente insanguinato per scoprire come vivono i coloni israeliani assediati dall’Intifada palestinese
di Mauro Suttora
foto di Gianni Gelmi
Neve Dekalim è una striscia di dieci chilometri in mezzo a un territorio nemico. “Non abbiamo portato via la terra a nessuno, qui c’era solo sabbia, noi abbiamo creato un ‘paradiso’ e non ce ne andremo”, dicono gli abitanti. “Siamo in mezzo alla guerra, ma ci siamo abituati”
Oggi, 17 gennaio 2001
Israele è un striscia di 300 chilometri circondata da arabi. Gaza è una striscia di 40 chilometri in mezzo agli israeliani. E a sua volta Neve Dekalim, come in un gioco di matrioske, è una striscia di dieci chilometri ficcata fra i palestinesi di Gaza.
Siamo quindi venuti qui, proprio nell’epicentro della guerra infinita fra Israele e Palestina che si trascina da più di mezzo secolo, per capire le ragioni degli uni e degli altri. Neve Dekalim infatti, secondo gli accordi di pace discussi in questi giorni, dovrebbe sparire. Ma i 7mila coloni ebrei che ci lavorano da trent’anni ovviamente non sono d’accordo. E preferiscono vivere nel terrore quotidiano di essere attaccati dal milione di palestinesi di Gaza che li assediano, piuttosto che andarsene.
Arriviamo ad Ashkelon, ultima città israeliana prima di Gaza, e cerchiamo di salire sull’autobus numero 36, l’unico che porta a Neve Dekalim. Ha doppi vetri blindati antiproiettile e una grata di ferro sul parabrezza per proteggersi dalle pietre dell’Intifada. Ma la corriera è piena di soldati e soldatesse di leva diciottenni che tornano dalle licenze: non c’è più posto, neanche in piedi.
In Israele il servizio militare dura tre anni per i maschi, due per le femmine, e non può essere rinviato per motivi di studio. È impressionante vedere tutti questi ragazzi in tuta mimetica verde girare col mitra in spalla, ma anche preoccupante constatare come chiunque possa lasciare qualcosa nel bagagliaio del bus, senza controlli.
Il bus successivo della linea 36 parte solo dopo due ore, e allora cerchiamo un taxi. Ma i tassisti ci avvertono subito: “Fino a Neve Dekalim non andiamo, ci fermiamo alla frontiera di Kissufim. Per gli ultimi dieci chilometri dovete arrangiarvi, perché lì i palestinesi tirano pietre. E anche peggio: una settimana fa ci hanno lasciato la pelle due soldati israeliani di pattuglia”.
Accettiamo lo stesso, e arriviamo alla frontiera fra campi color verde smeraldo che ci sorprendono, perché qui siamo molto a sud, al confine con l’Egitto, quasi nel deserto del Sinai. Il tassista è un ebreo i cui genitori lasciarono la Libia nel 1948, dopo la prima guerra fra Israele e i Paesi arabi. Al confine con la striscia di Gaza telefoniamo all’insediamento di Neve Dekalim. Dror Vanunu, un 25enne che è una specie di assessore, promette di venire a prenderci con la sua auto.
Al posto di blocco ci sono cavalli di frisia, filo spinato, trincee, pezzi di muro di cemento armato prefabbricato e chiodi sull’asfalto. Due giovani coloni ebrei fanno autostop verso Israele sotto il sole. C’è un grande parcheggio di auto: molte appartengono a coloni che fanno ‘car sharing’ (pendolari che usano la stessa macchina, o che non vogliono rischiare di farsi distruggere la propria dai sassi palestinesi).
Qui fino al 1967 (guerra dei Sei giorni di Moshe Dayan) passava la frontiera fra Israele ed Egitto. Poi c’è stata l’occupazione israeliana. Dal 1993, con gli accordi di Oslo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Gaza è diventata palestinese.
Ma i soldati israeliani mantengono il controllo delle strade che portano a 140 insediamenti ebraici, sia qui che in Cisgiordania: sono quasi 200mila i coloni israeliani che vivono in territorio palestinese, e sono aumentati di oltre 50mila dal ’93 in poi.
Arriva Vanunu, un simpatico ragazzo laureato in storia del Medio oriente, che sulla nuca porta il tipico ‘centrino’ degli ebrei ortodossi. Con lui attraversiamo i dieci chilometri della ‘linea di fuoco’. La cosiddetta ‘seconda Intifada’ da tre mesi ormai sconvolge queste strade e ha causato quasi 400 morti, in grande maggioranza palestinesi.
“I nostri soldati hanno dovuto tagliare tutti gli alberi lungo la strada per evitare agguati ad auto e bus. Possiamo passare solo con due auto per volta”. E un muro di cemento separa per tre km le due corsie della principale autostrada di Gaza, che la attraversa da nord a sud: apartheid automobilistico, di qua gli israeliani, di là i palestinesi. Vicino alla strada sorgono i silos di una grande fabbrica di farina: “I palestinesi costruiscono apposta edifici alti vicino ai nostri insediamenti per potersi sparare”, si lamenta Vanunu.
Entriamo nel territorio dell’insediamento, che si estende per più di venti kmq fino al mar Mediterraneo: “Qui nel 1970 non vivevano arabi, c’era solo sabbia”, assicura Vanunu, “quindi non abbiamo portato via niente a nessuno”. Oggi tutto il terreno è ricoperto da serre, campi coltivati e addirittura prati all’inglese. Sembra di stare in California, oppure in un golf club.
Arriviamo nella cooperativa agricola di Gush Katif, e Vanunu ci mostra orgoglioso un allevamento modello di 300 mucche: “Ciascuna fa 8mila litri all’anno, più di quelle olandesi”. Il direttore dell’allevamento Beni Ginsberg sta seguendo la mungitura su una rotonda dove le vacche girano automaticamente, per poi tornare nelle stalle all’aperto: “Produciamo quasi quattro milioni di litri all’anno, che mandiamo ogni giorno a Gerusalemme in autobotte”.
Poi c’è la seconda meraviglia: uno sterminato vivaio con milioni di fiori e piante in serra: “Il 60 per cento delle piante d’Israele viene da qui ed esportiamo fiori in tutto il mondo, ma soprattutto in Olanda”, dice Amazia Yehiely, 37 anni, uno dei capi delle settanta famiglie che lavorano nelle serre. “Selezioniamo geneticamente le piante. Prendiamo le cinquemila migliori e le incrociamo, per ottenere la foglia perfetta”.
Pare che, in effetti, l’insalata di Gush Katif sia apprezzata dappertutto in Israele, in quanto assolutamente priva di vermi.
Fino a ottobre lavoravano qui anche molti palestinesi, ma dopo l’attentato a un bus di bambini in cui è morto un insegnante i rapporti si sono interrotti: Israele ha bloccato tutte le frontiere ai palestinesi. Niente più lavoro per decine di migliaia di frontalieri, quindi. Alla mancanza di manodopera i coloni cercano di sopperire con operai thailandesi, e con giovani volontari ebrei che vengono a lavorare in turni settimanali.
Proprio negli spartani bungalow dove sono ospitati questi ragazzi ci porta Vanunu: mangeremo e dormiremo con loro, in quello che fino alla scorsa estate si chiamava ‘Palm Beach’ ed era un affollato villaggio turistico in riva al mare. Ora è protetto dai soldati che lo hanno circondato di filo spinato e sorvegliano la spiaggia con postazioni ogni cento metri. C’è infatti il timore di incursioni notturne da parte di commando palestinesi. Di fronte ai nostri bungalow sta un accampamento di beduini, con le loro tende e cammelli: “Loro sono tranquilli, si trovano bene con noi”, spiega Vanunu,”anche perché sanno che sotto i palestinesi starebbero peggio”.
Due chilometri più avanti c’è il villaggio vero e proprio di Neve Dekalim (traduzione: posto delle palme) che è formato da casette bianche tipo Lego con tetti di tegole arancioni. All’entrata a sinistra c’è una scuola elementare per 700 alunni con uno zoo (“Ogni bimbo ha il suo animale”), a destra il benzinaio. Ci sono poi un centro commerciale con negozi e supermercato, due sinagoghe nuovissime (una di rito sefardita, l’altra askenazita), un centro culturale, un centro religioso ortodosso, una scuola media, due licei (maschile e femminile) e ben sette asili nido e materne.
I coloni, infatti, figliano in quantità: ci sono famiglie con sei e anche dieci rampolli. Il nostro cicerone Vanunu ha già due figli dalla moglie 23enne Keren, professoressa di liceo fuori dall’insediamento, nel paese di Netivot, in Israele. Molti dei coloni sono professionisti (medici, avvocati, scienziati) che lavorano in Israele: quindi il flusso sulla ‘strada del terrore’ è continuo.
La professoressa Ronit Balaban insegna informatica nella scuola media del villaggio, ma poche settimane fa durante la lezione una pallottola palestinese ha spaccato la finestra dell’aula e si è conficcata sotto la sua cattedra. Così le hanno messo dei sacchetti di sabbia davanti ai vetri, e adesso le sembra di stare veramente in trincea. “Durante gli scontri si sentono gli spari”, dice, e aggiunge ironica: “Trovo una certa difficoltà a ottenere l’attenzione dei ragazzi con i proiettili che fischiano…”
La signora Balaban insegna part-time, perché aiuta il marito nella floricoltura: due mesi fa erano alla Fiera di Milano per l’esposizione Gardenia, ora parteciperanno alla Fiera di Essen in Germania. Viaggiano parecchio: quando diedero ad Arafat il Nobel per la pace, loro si spinsero fino a Oslo per fischiarlo personalmente. “La Bibbia parla della Terra promessa come ‘terra di latte e miele’, e noi stiamo lavorando per realizzare il sogno”, dice Vanunu.
Ma, domandiamo, vi rendete conto che siete circondati da palestinesi in un territorio che da sette anni è stato assegnato a loro, e che quindi prima o poi dovrete andarvene?
“In realtà abbiamo una lista d’attesa di 78mila persone che vogliono venire a vivere negli insediamenti”, risponde lui, “da noi sono appena arrivate 15 famiglie dalla Francia. Quanto alla sensazione di stare in un ghetto, beh, sa… essendo ebrei, ci siamo abbastanza abituati. E poi, se ci pensa, è tutta Israele a essere circondata e perennemente insicura, non solo noi. I palestinesi hanno sempre sparato sui bambini e sui bus scolastici”.
A Neve Dekalim invece il bersaglio sono le volontarie sedicenni costrette ad andare al lavoro in un blindato dell’esercito. Questi insediamenti sono sicuramente una provocazione permanente nei confronti dei palestinesi, e anche un ostacolo per il ‘processo di pace’.
Ma mangiando e parlando a cena con questi ragazzi, ci accorgiamo che lo spirito eroico e pionieristico dei kibbutz di sinistra oggi sopravvive soprattutto qui, fra i coloni che votano a destra (per il generale Ariel Sharon, favorito alle elezioni del 6 febbraio contro l’attuale premier socialista Ehud Barak). Loro, i nazionalisti ebrei, stanno felici in prima linea e costringono l’esercito israeliano a sforzi e spese immense per difenderli.
La loro testardaggine garantisce tensioni e guerre anche per il prossimo mezzo secolo. Non sarebbe più facile e ragionevole spostare tutto (mucche da latte, serre modello, prati perfetti e villette linde) solo dieci chilometri più a est, in Israele?
“Possiamo anche farlo”, concede Vanunu, “ma poi chi ci garantisce che i palestinesi non ci chiederanno qualcos’altro? Perché sui loro libri di scuola, pagati anche dall’Italia, il nome ‘Israele’ è ancora cancellato dalle carte geografiche? Come possiamo fidarci, di fronte a episodi simili? Avete visto la felicità dei giovani palestinesi con le mani lorde del sangue del giovane israeliano linciato a Ramallah?”
Dall’altra parte dei muri di cemento che fanno da fragile frontiera per questi coloni ebrei ci sono i campi profughi di Gaza, Khan Yuinis, Rafah. Vere e proprie bidonvilles dove i fondamentalisti islamici arruolano facilmente giovani esaltati pronti a farsi martirizzare. A pochi metri di distanza, così, si toccano fisicamente la disperazione del Terzo mondo e la supertecnologia degli israeliani. L’assurdo labirinto delle enclaves ebraiche è una spina insopportabile nel fianco dei palestinesi. La prossima settimana andremo a sentire anche le loro ragioni.
Mauro Suttora
1 - continua