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Monday, July 12, 2021

Gli inglesi usciti dall'Europa sono più europei che mai


I fischi all'inno, le simulazioni in campo, la medaglia "dismessa"... C'era una volta l'eccezione british  

di Mauro Suttora

HuffPost, 12 luglio 2021


Sorpresa: proprio ora che sono usciti dall’Europa, gli inglesi sembrano essere profondamente europei, tendenza Europa del sud, diciamo. E recidivi: criticati dal mondo intero per aver fischiato gli inni nazionali delle squadre avversarie a inizio partita, hanno ripetuto la performance ieri sera con l’Italia (specialità nostra, ricordate i fischi del ’90 all’inno argentino? Solo che noi ora gli altri inni non li fischiamo più). Fischi e buu che sono tornati ogni volta che gli azzurri impostavano un’azione. Lontani i tempi in cui i tifosi inglesi erano rinomati perché si limitavano a cori di sostegno alla propria squadra, rispettando le altre.

E i cascatori? Pensavamo che le sceneggiate fossero una nostra specialità, ma Sterling e compagni hanno dimostrato di avere ottimamente imparato la lezione, tipo Ciro Immobile, che però ci ha provato una volta sola. “Sono iniziati i tuffi”, si è lamentato l’allenatore inglese col quarto uomo alla prima caduta di un nostro giocatore. Ma poi i suoi hanno inventato spinte e prodotto smorfie di esagerazione che l’arbitro avrebbe potuto punire, visto che esistono i falli di simulazione.

Il catenaccio, poi. A metà ripresa e per tutti i supplementari è avvenuto un miracolo: gli italiani padroni del campo, sembravamo noi gli spagnoli del tikitaka. Uno snervante possesso palla perché quelli si sono rinchiusi nel loro fortino, rinunciando a giocare. Terrorizzati dal nostro contropiede, anche dopo l’uscita dello stellare Chiesa hanno mirato solo a fare passare il tempo, sperando nella roulette dei rigori.

Ben altre sono le regole del fair play, parola che dovremo abbandonare per una traduzione italiana, perché pure gli inglesi talvolta si scordano che significhi. Talvolta, perché per fortuna c’è quel gran signore di Gary Lineker che prima ha implorato i tifosi di non fischiare il nostro inno, e poi si è complimentato per la nostra vittoria: “meritata”, ha scritto su Twitter.

Ma l’apoteosi è arrivata alla fine, quando i loro giocatori si sono tolti la medaglia d’argento ricevuta alla premiazione, uno dopo l’altro. Uno spettacolo incredibile in mondovisione. Accettare le sconfitte con dignità è una delle principali regole dello sport. Anche questa parola inglese, da loro dimenticata. Pure il brasiliano Neymar si è tolto la medaglia l’altra sera, battuto dall’Argentina. Ma sono abitudini sudamericane, appunto.

Non infieriamo sulla resurrezione dei teppisti, che hanno assaltato i nostri tifosi prima e dopo la partita. Ci avevano detto che gli hooligans ubriachi erano quasi spariti dopo la strage dell’Heysel nel 1985. Invece ieri in centinaia hanno cercato di entrare a Wembley senza biglietto, e 45 sono stati arrestati nella guerriglia dopo la partita. E probabilmente erano sobri quando puntavano il laser al volto del portiere danese Kasper Schmeichel per disturbarlo durante i rigori.

Mattarella, infine. Più imperturbabile di un inglese, si è leggermente mosso dopo il gol italiano. Non conosciamo le regole del protocollo internazionale, ma nel 1982 il re spagnolo accolse caloroso Pertini accanto a lui in tribuna. Il povero Mattarella invece era desolantemente solo, ignorato dal principe William.

Insomma, dicevano a noi Pigs: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, indebitati, indisciplinati, inaffidabili. Ora invece assistiamo sgomenti alla scomparsa dell’english style, quello che fa dir loro “I beg your pardon”, imploro il vostro perdono, invece di un semplice “scusi”. L’aplomb è emigrato da Londra ed è volato a Madrid posandosi su Luis Enrique, il gentiluomo spagnolo di questi europei, e fratello gemello di Pep Guardiola che, dopo la sconfitta in finale di Champion’s, la sua medaglia se l’à baciata e tenuta lo stesso.

Aveva proprio ragione Salgari: il suo campione della flemma era Yanez de Gomera, portoghese.

“You are a good sport”, sei un amico, diceva sempre il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Ma ora allo sport delle latitudini londinesi sembra più attagliarsi questa sarcastica, feroce definizione: “Lo sport non ha niente a che fare col fair play. È legato ad astio, gelosia, vanagloria, noncuranza di qualsiasi regola, e al sadico piacere di assistere a manifestazioni di violenza. Insomma, è come la guerra. Ma senza l’esecuzione”.

Parola di George Orwell. Inglese.

Mauro Suttora

 

Wednesday, May 07, 2003

Onu/4: gli onusiani

Antropologia degli abitanti e autori di un labirinto

RITRATTO DEGLI INSTANCABILI FUNZIONARI DELLE NAZIONI UNITE, CHE DA 58 ANNI COSTRUISCONO GROVIGLI BUROCRATICI

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 maggio 2003

New York. Benvenuti fra gli onusiani. Non sono gli abitanti di un altro pianeta, bensì i rappresentanti di tutti gli Stati del nostro (pianeta), impegnati da 58 anni a realizzare un labirinto burocratico finora immaginato soltanto in letteratura, da Nikolaj Gogol’ a Franz Kafka, da George Orwell ad Aldous Huxley.

Già nel 1973 il IX Congresso internazionale delle Scienze antropologiche ed etnologiche a Oshkosh (Wisconsin) stabilì ufficialmente che una delle principali cause del mancato sviluppo del Terzo mondo è la burocrazia delle agenzie Onu. Verdetto imbarazzante, visto che nelle Nazioni Unite il 90 per cento delle risorse umane (oggi arrivate a 65 mila dipendenti fissi, più decine di migliaia di consulenti) e finanziarie (circa dieci miliardi di euro all’anno) sono destinate proprio al Terzo mondo.

Da allora le cose non sono migliorate. La crescita dell’Onu è stata impetuosa e inarrestabile: nel 1946 le sue agenzie erano tre (Fao, Unesco e Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro), oggi sono 27. Per raccapezzarsi, nel 2001 è nato un comitato di coordinamento, l’United Nations System Chief Executives Board (Ceb), assistito a sua volta da due altri comitati l’High Level Committee on Programmes (Hlcp) e l’High Level Committee on Management (Hlcm).

Tuttavia, chi vuole esaminare scientificamente la struttura delle Nazioni Unite si trova di fronte a grosse difficoltà “Nonostante la proliferazione di organismi e conferenze”, spiegano David Pitt e Thomas Weiss, curatori del libro “The nature of UN bureaucracies” (ed. Croom Helm, Londra), gli archivi interni Onu sono chiusi agli studiosi, i dipendenti e anche gli ex hanno l’obbligo di riservatezza, i consulenti non parlano perché sono ricattabili”.

Johann Galtung, già rettore dell’università dell’Onu a Tokyo, spiega qual è l’ethos, la cultura che sta alla base dell’organizzazione: “Vengono prodotte a volte ricerche eccellenti per esempio, gli studi epidemiologici dell’Oms o quelli sulla storia mondiale dell’Unesco. Ma l’approccio dell’Onu è necessariamente ‘statocratico’, mentre gran parte della vita del mondo sta fuori dagli Stati. Le Nazioni Unite si comportano come un sindacato di governi è sacrilego che un dirigente Onu critichi uno Stato con nome e cognome, soprattutto il proprio, ed è impossibile che lo faccia se si tratta di uno Stato privo di libertà politiche. Così, data la ricchezza di sapere ed esperienza accumulata da molti funzionari, prevale una frustrazione diffusa che si supera soltanto quando un organismo è guidato da un personaggio capace di muoversi al di là dei governi”.

Questo capita durante rari periodi di grazia ma anche di conflitto, come quelli della irlandese Mary Robinson commissaria per i Diritti umani o del volitivo francese Bernard Kouchner in Kosovo. Eccezioni decisioniste presto riassorbite dal grigiore del funzionariato basta scorrere la lista degli attuali capi delle 27 agenzie e programmi Onu per notare la mancanza di personalità politiche di rilievo, con l’eccezione del placido ex premier olandese Ruud Lubbers commissario per i Profughi, e della diafana norvegese Gro Harlem Brundtland all’Oms.

“I dirigenti Onu – accusa Galtung – si guardano bene dall’esercitare una qualsiasi leadership. Preferiscono adagiarsi in una routine di mediatori che cercano di galleggiare alleviando tensioni, e vengono ottimamente ricompensati per questo io, ad esempio, guadagnavo il triplo del premier del mio paese, la Norvegia. In più, i capi Onu godono di prerogative prenapoleoniche, quasi feudali comando assoluto sullo staff che lavora e pubblica documenti a loro nome, organizzazione verticale, contesto autoritario… Ai dipendenti Onu non è neppure permesso ricorrere ai tribunali per le cause di lavoro. In caso di doglianze esiste un foro interno che sembra funzionare più per gentile grazia che tramite regole di diritto”.

La sociologia interna delle Nazioni Unite tratteggiata da Galtung è spietata: “Il funzionario medio è il cosiddetto Mamu Middle Aged Man University educated. A 60 anni scatta inesorabile la pensione. Cosicché quando qualche agenzia Onu proclama l’Anno o il Decennio dell’Anziano, del Giovane o della Donna, si tratta veramente di un’esperienza esotica per l’apparato, composto per lo più da cinquantenni con le idee di trent’anni fa. I capi desiderano solo sopravvivere per essere confermati alla scadenza del mandato. Nelle lotte interne per la carriera hanno cinque scelte: giocare i governi contro il segretario generale, oppure un governo forte contro i piccoli, oppure molti piccoli contro un grande minacciando di togliere voti, oppure appoggiarsi alle Ong, le Organizzazioni non governative, oppure allearsi col segretario generale.
Le tre ultime manovre vanno effettuate congiuntamente, pena l’inutilità. Per soddisfare ogni appetito si frammentano le competenze e si moltiplicano gli organismi nelle Nazioni Unite non soltanto una mano non sa cosa fa l’altra, ma neppure un dito cosa fa l’altro dito. Ecco quindi innumerevoli riunioni di ‘coordinamento’, il passatempo preferito dei burocrati. Ma raramente uno di loro legge qualche studio che ha commissionato i documenti servono soltanto come incentivi per ulteriori documenti, sono sempre ‘esploratori’, per non esaurire la possibilità di confezionarne altri”.

Per evitare la leggendaria accidia dei dipendenti a tempo indeterminato (ma anche per vantare riduzioni di staff nelle proprie statistiche ufficiali), l’Onu ricorre sempre di più ad assunzioni temporanee. Il risultato è che tutti, per farsi rinnovare il contratto, si conformano al presunto volere del capo. Rimangono memorabili certi rapporti spediti dal Kosovo a New York, che quasi non menzionavano i guerriglieri albanesi del Kla diventati i reali padroni del territorio.

Precari o stabili, i ranghi si allargano comunque a un certo punto nei villaggi Ujama della Tanzania si contavano più ricercatori delle Nazioni Unite che abitanti. E si allungano i titoli dei seminari. Il record, segnalato da Geoffrey Steves sul giornale canadese Globe and Mail, appartiene all’“United Nations Seminar on the Existing Unjust International Economic Order of the Economics of the Developing Countries and the Obstacle that this represents for the Implementation of Human Rights and Fundamental Freedoms”, tenuto negli anni Ottanta dopo una trattativa serrata su ogni singola parola.

Il problema è che fino al crollo del comunismo il gioco era semplice e ovvio dentro l’Onu Stati Uniti e Unione Sovietica si fronteggiavano, e i non allineati propendevano più per l’orbita sovietica che per il mondo libero. Ma oggi, se è inevitabile che tutti i membri dell’Onu siano Stati, non è detto che tutti gli Stati ne debbano essere membri. L’Oas (Organizzazione degli Stati americani) dal 1962 ha sospeso Cuba, in quanto dittatura. L’Avana partecipa alle riunioni, ma senza diritto di voto. “Le Nazioni Unite, invece, sono la nuova Bisanzio”, denuncia il professor Pitt, già dirigente e consulente Onu, Oms, Fao, Unesco e Oil. “La disillusione nei confronti del multilateralismo è ampia anche nel Terzo mondo, non soltanto a Washington. E infatti molti paesi preferiscono gli aiuti bilaterali. Quanto agli Stati Uniti, provano ora la stessa sensazione ben descritta da Lord Robert Cecil, ministro britannico, Nobel della Pace nel 1937, che pure era un grande sostenitore della Società delle Nazioni Ginevra è uno strano posto dove funziona una nuova macchina che permette ad alcuni stranieri di influenzare e perfino controllare la nostra azione internazionale’”.

Se poi questi stranieri si rivelano fallimentari quando si occupano dei loro due compiti principali, pace e sviluppo, la nuova superburocrazia perde le qualità descritte da Max Weber e assume invece le sembianze di una patologia sociale alla Robert Merton. Nel Palazzo di Vetro a New York e in quello della Pace a Ginevra ogni documento dev’essere approvato da dieci o più persone. Qualche centesimo in più di tariffa postale dev’essere autorizzato a livello di direttore generale. In compenso, le Nazioni Unite si autoinvestono di poteri quasi biblici (“sradicare la fame, le malattie, l’analfabetismo”) e orizzonti d’oro (“entro cinque anni, dieci, venti”).

Di solito, dopo aver stabilito scintillanti traguardi, tutto si riduce a un costosissimo e affollatissimo congresso in qualche località pittoresca tipo Alma Ata, Rio o Durban, dove vengono annunciati ulteriori euforici obiettivi. Peccato che i dati Onu siano a volte selvaggiamente sbagliati: in un rapporto dell’Unep (United Nations Environmental Program) la stima sul legno usato come combustibile nell’Himalaya varia di un fattore 67. “Il grave di queste mitologie”, ironizza Pitt, “non è che siano false o sospette, ma che vengano così ampiamente accettate”.
Un esempio? La cantilena no global sui miliardi di persone che sarebbero “costrette a sopravvivere con un solo dollaro al giorno”. Senza specificare che in parecchie zone rurali del Terzo mondo un dollaro al giorno permette di vivere decentemente.

Vivono ottimamente, in ogni caso, i funzionari Onu. “Un mediocre tecnico indiano, che potrebbe essere utile per le sue competenze qui da noi”, spiega Hari Mohan Mathur, antropologo di Jaipur, “viene assunto dall’Onu e spedito in Sierra Leone a guadagnare uno stipendio dieci volte superiore a quello che prenderebbe a casa sua, per un lavoro che esegue male. Contemporaneamente, un ‘esperto’ Onu della Sierra Leone viene mandato in India. Risultato: si sviluppano soltanto i salari di questi due signori. Inoltre, i loro alti livelli di vita li alienano completamente dalle società in cui lavorano e, se provengono dal Terzo mondo, anche da casa propria non ci vorranno mai più tornare. Diventano come fiori senza radici che appassiscono. La soluzione? Abolire le quote nazionali nelle assunzioni Onu, e organizzare corsi e concorsi locali, basati sul merito. Con lo stipendio pagato a un esperto Onu, ne possiamo assumere trenta indiani”.
Mauro Suttora
(4. continua)