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Friday, January 26, 2024

Il magnifico gioco d’equilibro della Corte dell’Aja

GENOCIDIO A GAZA?

Non possono esultare né filopalestinesi né fan israeliani. Il procedimento va avanti, ma intanto si chiede a Israele di prendere misure che evitino rischi genocidiari. Sentenza in parte votata anche dal giudice nominato da Netanyahu

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 26 gennaio 2024

È rimasta solo la giudice ugandese Julia Sebutinde a difendere strenuamente Israele al tribunale Onu dell’Aja. La sentenza provvisoria di oggi, che invita lo stato ebraico ad applicare misure per evitare un genocidio a Gaza, è stata infatti approvata perfino dal giudice israeliano Aharon Barak, nelle parti in cui condanna le frasi d’odio pronunciate da alcuni ministri israeliani e auspica maggiore assistenza alla popolazione civile.

La giudice africana Sebutinde è una dei 15 membri permanenti della Corte. A loro si aggiungono come giudici ad hoc solo per questo procedimento i due rappresentanti delle parti in causa: Israele e Sud Africa, il Paese che ha trascinato lo stato ebraico davanti alla giustizia internazionale con la gravissima accusa di genocidio.

“Ignobile, ripugnante”, l’ha bollata il governo di Benjamin Netanyahu. Il quale però oggi ha dovuto incassare la prima decisione del Tribunale: la tesi sudafricana non è priva di fondamento, quindi il processo si farà. Attenzione, però: non per genocidio, ma per “atti” che potrebbero provocarlo.

E in attesa della sentenza, prevista in tempi non brevi, ecco alcune “misure provvisorie” per proteggere i civili di Gaza. Non il cessate il fuoco, come speravano i palestinesi, ma l’impegno da parte israeliana a evitare azioni che colpiscano ulteriormente i civili.

Sentenza pilatesca? L’unica possibile. Il “non luogo a procedere” o il “difetto di competenza” erano infatti irrealistiche speranze israeliane. Certo, finire sotto processo per genocidio è un duro colpo per il popolo che un genocidio lo ha subìto (come armeni, ruandesi, cambogiani), e per lo stato che dal genocidio è nato. Anche la coincidenza dei tempi è uno sfregio: proprio domani si celebra il Giorno della Memoria per ricordare la Shoa.

Tuttavia essere accusati non vuol dire essere condannati, e oggi Israele incassa a proprio favore l’unica decisione precisa del tribunale Onu: l’intimazione ai terroristi di Hamas di liberare gli ostaggi israeliani, senza condizioni.

Più imbarazzante, semmai, è che durante la lunga lettura della pre-sentenza la presidente statunitense della Corte, Joan Donoghue, abbia citato parola per parola alcune frasi particolarmente dure pronunciate non da estremisti di destra come il ministro israeliano Bezalel Smotrich, ma dal presidente d’Israele Isaac Herzog, dal ministro della Difesa Yoav Gallant e da quello degli Esteri Israel Katz. 

Sull’onda dell’emozione per le stragi del 7 ottobre non furono pochi, infatti, i politici israeliani che si lasciarono andare a comprensibili auspici di “eliminazione totale” di Hamas. Che però gli avversari d’Israele, con in prima linea inopinatamente il Sud Africa, hanno avuto buon gioco a equivocare come punizione collettiva verso tutti i civili di Gaza.

Intelligente invece il voto “diviso” dell’87enne giudice israeliano Barak: no alle parti della sentenza che sanzionano direttamente Israele, sì alle altre meno impegnative. Barak, sopravvissuto all’Olocausto nella sua Lituania e rifugiatosi con la famiglia a Roma per due anni prima di emigrare in Israele nel 1947, è un ex presidente della Corte costituzionale israeliana, grande avversario di Netanyahu. Ciononostante il premier lo ha nominato all’Aja.

Male fanno i tifosi palestinesi a esultare per la sentenza odierna, così come sbagliano i fan(atici) proisraeliani a rifiutare ogni giudizio dell’Onu. Nella Corte infatti siedono giudici provenienti da Paesi filoisraeliani come Germania, Giappone, Belgio, Francia, Australia, Usa. E il comportamento della giudice ugandese Sebutinde dimostra che molti di loro, se non tutti, sono dotati di indipendenza intellettuale. Semplicemente, a Israele non conviene autocollocarsi al di sopra delle leggi che regolano la comunità internazionale. Perché evocare il genocidio è oltraggioso, ma contenersi limitando la vendetta può rivelarsi saggio. 

Thursday, October 26, 2023

Il grillino cannone. Siore e siori, è tornato Di Battista

di Mauro Suttora

Rentrée di Dibba nei talk, stavolta a dire che Israele è pari ai nazisti alle Ardeatine. Ma noi gli vogliamo bene e lo avvertiamo: anche al circo Barnum, dopo i mangiaspade e il nano, l’ultima carta per attrarre il pubblico era la donna cannone

Huffingtonpost.it, 26 ottobre 2023 

Dovrebbe preoccuparsi, il simpatico Alessandro Di Battista. Perché quando al circo Barnum esaurivano il campionario di fenomeni da baraccone, e dopo i mangiafuoco e i mangiaspade non facevano più ridere neanche i gemelli siamesi o il nano imitatore di Napoleone, l’ultima risorsa per attrarre pubblico era la donna cannone.

Allo stesso modo i talk show hanno dovuto resuscitare l’ex deputato grillino, che è riapparso in tv un anno dopo aver deliziato le platee sull’Ucraina. Il copione è lo stesso, e di sicuro effetto. Si intitola "Sì, però". Allora era “Sì, Putin ha invaso l’Ucraina, però non dobbiamo mandarle armi”, o “però l’occidente ha provocato”. Oggi dice “Sì, Hamas ha compiuto la strage del 7 ottobre, però anche Israele ammazza i bambini”, o “però l’occidente dimentica la Palestina occupata”.

Risultato: il piacione di Roma Nord è diventato istantaneamente l’idolo degli estremisti islamici, si è trasformato in Dibbah d’Arabia. Le sue urla di martedì sera, sottotitolate in arabo e titolate “Finalmente un politico italiano dice la verità”, impazzano sulla rete dal Marocco all’Iraq.

Anche a noi, come a Crozza, piace Dibba. È una miniera inesauribile di bufale e gaffes. Il New York Times lo issò in testa alla classifica mondiale delle panzane dopo che riuscì a dire “Metà Nigeria è in mano ai terroristi di Boko Haram, l’altra metà al virus Ebola” (erano venti villaggi e venti casi in tutto). Il folklore continuò con “in Grecia cittadini disperati s’iniettano il virus dell’Aids per prendere il sussidio”.

Poi certi teppisti francesi che indossavano gilet gialli incendiarono i negozi degli Champs-Élysées, e lui trascinò il collega grillino Luigi Di Maio a Parigi a stringer loro la mano. Quando Di Maio divenne inopinatamente ministro degli Esteri, faticò a spiegare la cosa al presidente Emmanuel Macron. E ora che il povero Di Maio è stato nominato – sempre inopinatamente – inviato Ue nel Golfo, si trova sorpassato dall’ex amico in popolarità presso le masse arabe.

Dibbah ci diverte ogni volta che appare sul piccolo schermo. Lo spettacolo è assicurato, e infatti pare che incassi 2.500 euro a puntata per l’erezione delle audiences. Una volta si proclama “testimone oculare” di un inciucio non perché fosse lì presente, ma perché “ho letto le carte coi miei occhi”. Un’altra scivola sul congiuntivo: “Mi auguro che la Meloni non cedi su Casellati”. Nella foga scambia “soddisfamento” per “soddisfazione”, missili ipersonici per supersonici.

Sul Medio Oriente invece ha studiato. Non gli capiterà mai di confondere il Libano con la Libia, come successe a un sottosegretario agli Esteri 5 stelle. Però l’altra sera, dopo aver dato dell’ex fascista a Italo Bocchino e avere incassato “il fascista ce l’hai in casa, tuo padre”, l’ha sparata grossa: ha equiparato Israele ai nazisti, dicendo che la “rappresaglia su Gaza è come quella delle Fosse Ardeatine: si vuole arrivare a 33 bimbi palestinesi uccisi per ogni bimbo israeliano?”.

A parte il delirante paragone, nessuno lì per lì si è accorto dello svarione contabile: Hitler applicò la vendetta nella misura di uno a dieci: 33 soldati uccisi, 330 (molti ebrei) fucilati. Ma nella confusa matematica dibbiana Bibi Netanyahu risulta peggiore del comandante SS Herbert Kappler.

È probabile che ora Dibbah, sull’onda di questi exploit, venga ripescato anche dai 5 stelle e candidato all’Europarlamento da un Giuseppe Conte in debito d’ossigeno. Così il circo verrà trasmesso in Eurovisione. Titolo in inglese, questa volta: "Freak show".

Thursday, August 13, 2020

Israele-Emirati, pace storica


DA 26 ANNI SI ASPETTAVA UNA GIORNATA COSÌ. CON L'ACCORDO VINCONO TRUMP, NETANYAHU E GLI ARABI SUNNITI. 
A PERDERE SONO GLI AYATOLLAH IRANIANI E I LORO PROTETTI DI HAMAS.
TEMPI DURI PER GLI SCIITI

di Mauro Suttora

Huffington Post, 13 agosto 2020

Oggi è una bellissima giornata per la pace in Medio Oriente. La aspettavamo da 26 anni, da quel 1994 quando re Hussein di Giordania fu il secondo capo arabo a riconoscere l'esistenza di Israele. Il primo era stato il presidente egiziano Anwar Sadat nel 1979, dopo gli accordi di Camp David con il premier israeliano Menachem Begin: guadagnò il premio Nobel per la pace, ma due anni dopo fu ammazzato dagli estremisti islamici.

Per capire quanto rischino i leader arabi che fanno la pace con Israele, basta un particolare: ai funerali di Sadat non partecipò nessuno di loro, tranne il sudanese Nimeiri.

Ora sono gli emiri Zayed di Abu Dhabi e Maktoum di Dubai a tendere una mano a Israele. Stabiliscono relazioni diplomatiche e annunciano accordi in campo scientifico, turistico ed economico, in cambio del congelamento "per ora" dell'annunciata annessione israeliana di larghe parti della Cisgiordania.

Il progetto 'Vision for peace', illustrato otto mesi fa dal presidente Usa Donald Trump e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu senza il coinvolgimento dei palestinesi, prevedeva infatti una Palestina privata della valle del Giordano, con tutti gli insediamenti dei coloni ebraici confermati e la capitale palestinese situata non a Gerusalemme Est, ma in una periferia della città.

Piano rifiutato non solo da Hamas, ma anche dal presidente palestinese Mahmud Abbas e dall'intero mondo musulmano. Ora gli Emirati Arabi Uniti possono sventolare il ritiro provvisorio del piano come una vittoria.

I principali sventolatori però sono Trump e il suo genero ebreo Jared Kushner, marito di Ivanka, che hanno annunciato al mondo lo storico accordo Israele-Emirati di cui sono mallevadori.

Non che il ruolo di garante porti una gran fortuna ai presidenti statunitensi: Jimmy Carter non fu rieletto nel 1980 nonostante Camp David, e Bill Clinton non è certo passato alla storia per gli abortiti accordi di Oslo 1993 fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin.

Viene invece confermata una costante della storia israeliana: sono i premier "duri" quelli che ottengono accordi con gli ex nemici. Così Begin del Likud con l'Egitto, il falco laburista Rabin più della colomba Shimon Peres con Palestina e Giordania, Ariel Sharon che nel 2005 seppe rinunciare alle costose colonie di Gaza, e oggi Netanyahu con gli Emirati.

Gli unici perdenti di questa storica giornata del 13 agosto 2020 sono gli ayatollah iraniani e i loro protetti di Hamas, che infatti gridano al "tradimento". Sono stati nove giorni tremendi per gli sciiti: prima l'esplosione di Beirut del 4 agosto, che ha provocato la bruciatura in effigie in piazza di Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, da parte dei giovani libanesi; oggi l'accordo di Israele con gli Emirati, seconda potenza economica sunnita dopo l'Arabia Saudita.
Trump riesce così a emarginare l'Iran sciita, appoggiandosi agli arabi sunniti storici alleati degli americani.

Quanto alla Turchia, che nel 1949 fu il primo stato musulmano a riconoscere Israele, è dal 2011 che il neosultano Recep Erdogan ha innestato la marcia indietro con Tel Aviv. Prima ha rotto i rapporti diplomatici quando Israele ammazzò dieci cittadini turchi della cosiddetta Flotta della pace; e due anni fa, dopo un parziale riavvicinamento, ha di nuovo richiamato il proprio ambasciatore per protesta contro lo spostamento di quello Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, capitale israeliana accettata da pochi.
Mauro Suttora

Wednesday, January 28, 2009

parla Ari Folman

VALZER CON HAMAS

«Le guerre non servono a niente, neanche questa di Gaza», dice il regista israeliano di Valzer con Bashir, film antimilitarista candidato all'Oscar

Oggi, 28 gennaio 2008

di Mauro Suttora

«Le guerre non servono mai a niente: non c'è alcuna gloria nelle armi, non si diventa eroi. Niente di buono può avvenire in una guerra. Anche questa di Gaza è stata inutile. A quando la prossima? Quanto durerà la tregua?»

Ari Folman, 45 anni, israeliano, è il regista del film d'animazione Valzer con Bashir. Probabilmente fra un mese vincerà il premio Oscar per il migliore film straniero, che molti in Italia speravano andasse al nostro Gomorra tratto dal libro di Roberto Saviano. Ma in fondo sono entrambi film «nonviolenti»: denunciano l'assurdità della violenza, mostrandola.

Valzer con Bashir ha già vinto il Golden Globe, il premio più prestigioso dopo l'Oscar. E ha trionfato all'ultimo festival di Cannes. Racconta la prima guerra del Libano, quella del 1982, in cui combattè anche il diciottenne Folman. Gli israeliani invasero Beirut, ne cacciarono i guerriglieri palestinesi dell'Olp, e non mossero un dito quando i cristiani maroniti libanesi sterminarono tremila palestinesi (fra cui molte donne e bambini) nei campi profughi di Sabra e Chatila.

«Sono passati quasi trent'anni, ma oggi a Gaza siamo daccapo», ci dice Folman, al telefono dagli Stati Uniti.

«L'unica differenza è che allora noi israeliani peccammo per "omissione", perché non fermammo le bande cristiane. Mentre ora abbiamo combattuto direttamente. Ma è sempre guerra. Con tutti i suoi falsi miti: il coraggio, il fascino dei "duri", l'illusione del "quando ci vuole ci vuole". Lo slogan ufficiale di questa nostra guerra è "enough is enough"...»

Che in Italiano si può tradurre «ne abbiamo abbastanza», mister Folman. I suoi compatrioti erano stufi di fare da bersaglio per i missili dei terroristi di Hamas, lanciati da Gaza. Non condivide la loro esasperazione?

«Certo. Ma la gente si divide fra quelli che cercano di affermare le proprie ragioni con la violenza, e quelli che usano altri mezzi. Purtroppo oggi nella mia regione - Israele, Palestina, Medio Oriente - la maggioranza delle persone ha fiducia nella violenza. E i violenti trovano sempre una giustificazione per le loro azioni: la politica, la religione, la razza, i confini, la sicurezza...»

Insomma, lei è un antimilitarista integrale. Ma la guerra contro Hitler? E quelle degli israeliani che si difendevano dagli attacchi di tutti i Paesi arabi?

«Non ho visto nessuna guerra, dopo il 1945, che non potesse essere evitata. E dopo quella dei Sei giorni nel 1967, anche dalle mie parti non è stato fatto abbastanza per prevenire i conflitti».

Ma i governi israeliano e palestinese sono in perenne trattativa.

«Guardi, due anni fa stavo finendo di montare il mio film. Era l'estate 2006 e scoppiò la seconda guerra in Libano, fra Israele ed Hezbollah. Pensai: "Peccato che il film non sia pronto, uscirebbe proprio al momento giusto". Poi mi consolai pensando che sarebbe rimasto sempre attuale. Avrei voluto sbagliarmi, invece ho avuto ragione».

Nel suo film appare Ariel Sharon: nell'82 era il generale che comandava gli israeliani. Fu condannato per avere permesso la strage di Sabra e Chatila. Però vent'anni dopo, da premier, ha costretto i coloni israeliani a ritirarsi da Gaza. I politici cambiano e si cambiano, lei non vede speranza?

«I politici giocano alla guerra contando i morti con freddezza, come in una partita a scacchi. Da una parte e dall'altra, per loro lanciare missili o bombardare è facile. Non hanno pietà per la sofferenza, non rispettano la vita umana, sono privi di morale. La mia canzone preferita è Signori della guerra di Bob Dylan. Volevo metterla nel film, ma era superfluo. Dice: «Voi, politici, fabbricanti e commercianti d'armi, preparate i grilletti che altri premeranno. Vi nascondete dietro a pareti e scrivanie, non siete voi a sparare. Ma vi vedo attraverso le vostre maschere...»

Perché lei non si rifiutò di combattere, nell'82?

«Per tutti i diciottenni israeliani è normale diventare soldati. Tre anni di servizio militare. E poi richiami ogni anno anche in tempo di pace. In Israele la gente si divide in due: quelli che hanno combattuto, e quelli che non lo hanno fatto. Se sei un buon cittadino lo fai, è automatico. Per questo il mio film è stato accolto così bene dall'establishment: perché in fondo sono uno di loro».

Beh, se al governo ci fosse stata la destra di Benjamin Netaniahu invece del centrosinistra di Tzipi Livni e dei laburisti, forse qualche problema lo avrebbe avuto.

«Quando si tratta dell’esercito non c’è molta differenza fra destra e sinistra, in Israele. Eppure le istituzioni non solo non mi hanno ostacolato, ma hanno pagato per mandare il film in giro per il mondo, candidandomi all'Oscar. In fondo, però, il mio non è un film politico: mostro soltanto la prospettiva e lo straniamento del singolo soldato israeliano. E metto in chiaro che la responsabilità diretta del massacro di Sabra e Chatila non è nostra, ma dei cristiani maroniti che volevano vendicare l'assassinio del loro candidato presidente Bashir Gemayel. Di qui il titolo».

Israele e Palestina riusciranno a convivere in pace, un giorno?

«Certo. Tutti lo sanno che prima o poi accadrà. Lo vuole la grande maggioranza della gente, da entrambe le parti. Perché tutti alla fine vogliono vivere tranquilli, guadagnare bene, pagare meno tasse e farsi una vacanza all’estero. Non vogliono vivere militarizzati».

Ma è da sessant’anni che dura, questo conflitto.

«Cioè niente, per i tempi della storia. Io ho realizzato il mio film con produttori tedeschi. Eppure tutta la mia famiglia è stata sterminata nell’Olocausto. Unici sopravvissuti: i miei genitori. Sono stato al festival del cinema di Sarajevo. Solo tredici anni fa si massacravano. Ora vivono in pace. Si può fare».

Mauro Suttora